ANGOLO AUTRICE
Ben ritrovati viandanti lettori!
Ora, provo un leggero imbarazzo per quello che
state
per leggere, quindi, ehm… beh, ecco… non
c’è niente di peggio che balbettare
pure per iscritto, come se non lo facessi già abbastanza dal
vivo!
Allora, niente, io a scrivere di certi momenti
delicati sono un disastro, soprattutto qui dove non doveva essere
nemmeno un
momento troppo delicato…
Argh, insomma, significa che potrei aver fatto
scempio, ma doveva succedere e quindi sto pazientemente cercando di
mettermi l’anima
in pace e di non seppellirmi in giardino dopo essermi tirata una pala
in testa
da sola!
Se avete consigli per migliorare quel particolare
momento, fatelo, vi prego, perché sono veramente
un’inetta. Sarà che nero su
bianco tutto sembra sempre terribilmente più volgare, non
è incredibile?
Ah, scusate le volgarità, mi ero
ripromessa di
scusarmi anche in passato per il lessico non troppo candido usato dai
personaggi. Normalmente sono contraria alle parolacce nei libri, ma
dipende
sempre dal racconto e, con i personaggi presenti in questa storia,
dialoghi dai
toni colti sarebbero suonati troppo fuori luogo.
Grazie dell’attenzione!
À Demian
Capitolo quarto (seconda parte)
Per caso
L’ospedale non era lontano dal suo liceo
e, più per
abitudine e istinto che per scelta, Demian si era ritrovato nel grande
parcheggio adiacente al pronto soccorso e lì aveva lasciato
il proprio
motorino.
Gli Ospedali Riuniti avevano due grandi parcheggi,
uno
dei quali sul retro del padiglione principale, e vantavano una
struttura
estremamente singolare, una serie di edifici scollegati l’uno
dall’altro
raccolti intorno ad un grande cortile centrale e raggiungibili
attraverso dei
sentieri di sampietrini consumati.
Demian non aveva più avuto bisogno di
passare dalla
reception per sapere che sua madre era collocata nel padiglione
centrale, a
volte si fermava lo stesso solo per dare a Marisa un saluto, quel
giorno però
non ne aveva avuto voglia.
Aveva preso una cioccolata prima di entrare nella
camera di maman, e quando lei lo aveva visto aveva smaniato come una
bambina.
«Hai già bevuto?»
Le aveva sorriso con condiscendenza «No
maman, non
ancora»
Allora lei, proprio come se una bambina lo fosse
davvero, aveva teso le braccia strizzando le dita «Dammi
subito quel
bicchiere!»
Rassegnato le aveva consegnato la bevanda e
Jenevieve
l’aveva assaggiata appena, facendo schioccare le labbra
secche con
soddisfazione «Ok, puoi berla».
Gli aveva restituito il bicchierino di plastica e
Demian aveva sbuffato «Lo sai che non è necessario
tutte le volte, vero? Va
bene che le infermiere non mi sopportano, ma nessuno proverà
ad uccidermi
nell’immediato futuro… spero»
A Jenevieve non importava niente, era un rituale
suo
che Demian non comprendeva ma assecondava, perché lei
sembrava incredibilmente
felice e appagata dopo, e sorrideva con tutti i denti tra sé
e sé, una sua
piccola e poco chiara soddisfazione personale.
Aveva preso una sedia e si era accomodato accanto
a
lei, ma maman era stanca e poco dopo si era addormentata, lasciandolo
nel suo
contemplativo e abituale silenzio davanti alla parete bianca e spoglia.
Il
letto accanto a sua madre non era ancora stato occupato da nessuno ed
il
silenzio assoluto riusciva solo ad amplificare il senso di risucchiante
vuoto
che tutto quel bianco gli causava.
Era una parola strana
“bianco”, sbiadita, che si
ripeteva all’infinito come un’eco nella sua testa
fino a perdere senso, o forse
se la ripeteva proprio per non pensare ad altro.
Quando Jen dormiva le stringeva piano la mano e
con la
punta delle dita leggere ripercorreva il corso delle vene di lei su
fino
all’incavo del gomito e poi ancora al polso. Sembrava tanto
fragile e dolce che
non poteva fare a meno di diventare estremamente delicato con lei,
sapeva d’indifeso,
un corpo friabile di ricordi lontani.
Inizialmente aveva deciso di raggiungerla quella
sera,
ma al pensiero di non poter vedere la sua Sarah, per ricevere quel
perdono che
sapeva di benedizione, era stato preso da un tale attacco di nostalgia
e
solitudine da non potersi impedire di correre da sua madre, come un
bambino
alla disperata ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi.
Maman
era sempre stata il suo rifugio dal mondo e quando la
rivedeva, evanescente sotto le coperte di cotone, provava solo un
profondo
senso di mancanza e capiva con quanta disperata angoscia la rivoleva a
casa con
sé. A volte era davvero difficile prendersi cura di lei e il
peso di quella
responsabilità lo opprimeva, ma la verità era che
era troppo debole per avere
solo se stesso, non riusciva a sopportarlo. Ogni volta che la
ricoveravano Demian
finiva con il girare a vuoto cercando di restare ovunque meno che in
casa sua,
dove un silenzio fatto di vuoto e abbandono lo uccideva lentamente, lo
demoliva
lasciandolo spossato, fragile e insicuro come quando era piccolo.
Era
tragicamente facile allora, in quei momenti di debolezza,
lasciarsi trasportare dalla corrente per ricadere nel solito baratro di
errori
e ricordi che voleva seppellire, che fingeva di archiviare senza mai
riuscirci
davvero, perché lui era un nostalgico e sapeva solo vivere
delle proprie ferite
e delle cose che aveva saputo perdere, di quelle che avrebbe perso, che
non aveva la forza
di affrancarsi a
nulla e aveva la sensazione che ogni cosa fosse destinata a cadere
oltre il
baratro della sua esistenza per lasciarlo solo nel nulla.
Era
tragicamente facile allora ricordare la voce di suo padre,
ricordare di come fosse tornato a casa un giorno e, semplicemente,
papà non ci
fosse più su quel divano, con la sua chitarra e una birra e
quel volto
annebbiato che Demian non riusciva più a tratteggiare nella
propria memoria.
Era
facile risentire le parole che non avrebbe mai dovuto
ascoltare e che gli avevano sfregiato l’anima. Non era colpa
di suo padre, Dem
se lo era ripetuto spesso, era normale che quell’uomo
sconosciuto lo avesse
vissuto come un difetto di fabbrica, che parlasse di lui con quel tono
accorato
per la sua condizione fisica che lo disturbava. Non era il figlio che
dei
genitori avrebbero voluto e non si era mai fatto illusioni, non
più, non dopo
aver sentito papà manifestare la propria speranza di una
secondogenita sana
perché non avrebbe sopportato che anche lei fosse
così.
Era
stato quel giorno che Demian lo aveva capito con chiarezza, in
lui qualcosa era sbagliato, non era normale e non avrebbe mai potuto
esserlo.
Era
facile poi risentire la mano fra i capelli, in una carezza
leggera e labile, quando gli avevano detto con fin troppa
tranquillità, come se
davvero lui non fosse in grado di comprendere la portata di quelle
parole, che
Sarah era fragile, era unica e debole e andava protetta.
Che
se non fosse stato attento l’avrebbe persa, e
l’avevano detto
così, pacificamente, senza rendersi conto di quanto in
realtà gli stessero
facendo male in un modo nuovo da cui non poteva ancora difendersi.
Era
tragicamente facile ricordare Il Giorno Più Brutto e pensare
ogni volta che suo padre era solo questo, una raccolta di frammenti
sfocati
dalla nebbia dell’età e marciti per il
risentimento di dieci anni di amarezza.
Si
soffermò sulla pelle morbida e sottile come carta velina del
polso di maman e ascoltò il pulsare lento del sangue a ritmo
con il suo cuore.
Era ancora bella come durante l’estate appena passata, sul
suo viso c’erano
ancora tracce di delicato sole e a Demian sembrava quasi di vederla nel
giardino di casa, sul dondolo usurato con una bandana vivace in testa mentre
guardava
Jean che litigava con il vecchio tagliaerba e rideva.
Ci si aggrappava al suo sorriso, alla tenerezza con cui le dita
affusolate di
maman sfogliavano libri di poesie, ma se lei non c’era quel
ricordo non
bastava, e i bocconi amari tornavano e restavano incastrati in gola ed
il senso
d’inadeguatezza lo attanagliava.
Come
poteva non vedere Sarah per giorni?
Si
sentiva ridicolo e meschino ad avere sempre un bisogno tanto
disperato di lei che era troppo piccola.
Bussarono
piano alla porta, più per attirare l’attenzione di
lui
che per chiedere il permesso visto che Jenevieve dormiva.
Demian
alzò lo sguardo da sua madre per incontrare le iridi
d’oro
liquido di zia Claire.
Ed
eccola, la nostalgia, Claire era una fotografia vivente di
maman ringiovanita di qualche anno, quando ancora la malattia non
l’aveva
sfibrata. Erano cresciute come gemelle e come gemelli i loro volti si
ricalcavano.
Gli stessi incredibili occhi dal taglio obliquo e indagatore, ornati da
pesanti
ciglia che quando si abbassavano lasciavano appena intravvedere stralci
d’ambra, gli stessi tratti magri, levigati nella mandibola,
la stessa linea
della bocca, ma le labbra di Claire erano piccole, rosa pastello,
mentre maman
era come lui, aveva labbra carnose e piene.
Entrambe erano bionde, una colata di miele denso, il medesimo che
screziava
anche la chioma un poco più scura di Sarah, solo che la zia
aveva i capelli
mossi e ribelli, con qualche buffa ciocca che si arricciava in molle e
che lei
tratteneva con forcine e fermagli, mentre quelli della sorella maggiore
erano
lisci e disciplinati.
Si
alzò senza far rumore e si avvicinò piano alla
zia, per
salutarla con un bacio sulla guancia. Dovette chinarsi per poter
arrivare a
lei, che era tutta contenuta in una botte piccola che sfiorava il metro
e
sessanta.
La
mano di Claire corse subito al viso, tastandogli lo zigomo, e
Demian sussultò per la sorpresa e il leggero bruciore
«Che cosa ti sei fatto?»
Era sbiancata e non si contenne nel manifestargli tutta la sua
apprensione.
Continuò ad esaminargli il livido, premendo verso
l’esterno, come se così le
fosse stato possibile capire quanto fosse estesa la lesione e se si
fosse rotto
qualcosa. Un brivido di dolore lo obbligò a chiudere gli
occhi, le afferrò i
polsi e la costrinse con delicata fermezza ad abbassare le mani,
scuotendo il
capo «Ne parliamo dopo» sillabò con le
labbra, e le sorrise con affettata
serenità prima di uscire e di chiudersi la porta alle spalle.
Si
appoggiò alla superficie di legno con tutto il corpo,
liberando
un pesante respiro. Doveva andarsene prima che Claire avesse finito,
quella era
una spiegazione scomoda che non avrebbe mai dato a sua zia. Certe cose
non
poteva condividerle con Sarah come con un qualunque altro membro della
famiglia, visto che nessuno s’immaginava davvero che genere
di vita facesse o
che tipologia di persone avesse preso l’abitudine di
frequentare negli ultimi
due anni.
Si
avvicinò alla finestra bianca in fondo al corridoio e la
spalancò, accogliendo a pieni polmoni l’aria
fredda d’inizio autunno. Era una
brezza leggera ma il contrasto con il calore dell’ambiente
interno gli
intorpidì comunque il viso, Demian si sporse oltre il
davanzale per poter
respirare a fondo quel clima umido.
Avrebbe
voluto che Julian fosse già di ritorno perché era
l’unico
a cui avrebbe potuto parlare con onestà dei propri
turbamenti o almeno l’unico
con cui avrebbe potuto condividerli in silenzio. Quando lo avesse
rivisto non
glielo avrebbe detto però, che aveva sentito la sua
mancanza. Doveva solo
stringere i denti, sopportare e sopportare ancora un poco, con
più pazienza,
poi sua madre sarebbe stata dimessa, Jules avrebbe ricominciato a
girargli
intorno e il suo mondo si sarebbe riassestato. Solo un altro poco
ancora, prima
della prossima tregua.
Prese
una sigaretta dal pacchetto custodito nella tasca dei jeans
e la posò mollemente fra le labbra, tornando a guardare
fuori il cortile
interno di magnolie moribonde. L’autunno non gli dispiaceva,
bastava che non ci
fosse troppo sole per farlo, se non felice, almeno vagamente contento,
aveva un
rapporto conflittuale con la luce che fin dall’infanzia lo
aveva perseguitato.
Notò
allora, distrattamente, una macchia arancione comparire come
un fiore in campo verde, e senza accorgersene iniziò a
seguire quel colore
inaspettato con la coda dell’occhio, quasi sorpreso,
ché lì in ospedale c’era
solo bianco e tutto era pesante, eppure in quei movimenti
c’era una strana
leggerezza che aveva già conosciuto e mai compreso.
Quell’unica
nota di vita tra gli alberi nudi e scheletrici si
traduceva nella fragile e sottile figura di una ragazza, troppo sfocata
dalla
distanza. Soffiò fumo e si sporse istintivamente un poco
più fuori, per
soddisfare la curiosità che quella buffa creatura, vestita
da zucca matura che
si muoveva candidamente su un letto di foglie morte, aveva appena
risvegliato.
Riconosceva del celeste nella gonna che le si agitava leggera attorno
alle
gambe, parzialmente nascosta da una grande felpa arancio violento,
metteva a
stento a fuoco una matassa di capelli probabilmente ricci che si
agitava come
la coda a batuffolo di un coniglietto esagitato. Tutto di lei dava
quell’impressione naturale di buffo e tenero, come di bambina.
Come
Sarah, gli veniva da pensare, ed era un pensiero strano e
nostalgico, perché in quella sconosciuta riconosceva come
un’intuizione, un
inspiegabile impulso ancestrale, quella delicatezza ingenua che amava
tanto nei
gesti e nell’esistenza stessa di sua sorella.
Stonava,
nella tristezza apatica che gli aveva sempre trasmesso
l’ospedale,
in quel mondo bianco e vuoto di cespugli secchi e natura in declino
sapeva solo
provare sensazioni stantie e si sentiva vecchio e stanco, sfibrato da
una
spossatezza così prevaricante da lasciarlo inerme. In tutto
questo lei era una
nota di colore fuori dalle righe, un contrasto inadeguato e tanto
assurdo da
rasserenarlo.
Non
si accorse subito di aver appoggiato la testa piano al telaio
della finestra, si era adagiato con la pacatezza con cui riposava sul
seno di
sua madre talvolta, quando voleva solo essere cullato e sentiva il
cuore
svuotarsi di ogni oppressione. Non si accorse nemmeno di aver inclinato
le
labbra nel primo accenno spontaneo di sorriso mentre la guardava
chinarsi,
forse per cercare qualcosa, Demian non riusciva a capire cosa ma non
gli
importava.
Un
blocco di cenere cadde senza rumore dalla sigaretta che
stringeva tra le dita e che andava consumandosi, ma non aveva
più voglia di
nicotina, voleva restare immobile a respirare la vita labile di quella
ragazza
che riusciva a stordirlo anche solo da lontano.
Avrebbe
voluto avvicinarsi forse, per vederla meglio, per sapere
la sua espressione e conoscere la linea del suo viso, per sentire quel
peso
sullo stomaco sciogliersi in una nuvola di nulla e scivolare via,
perché era
quello il vuoto che provava, un vuoto sereno che sapeva di cielo terso
dopo
settimane di tempesta.
Spense
il mozzicone e richiuse la finestra con lentezza, ancora
avvolto dalla calda coperta di un sentimento inspiegabile e familiare
che aveva
conosciuto solo attraverso la sua piccola bestiolina.
Era
l’apparente spensieratezza che l’aveva ingannato,
non aveva
potuto fare a meno di sovrapporre alla figura sfocata di
un’estranea Sarah,
perché era lei che aveva desiderio di vedere ed era lei che
avrebbe voluto
osservare giocare.
Non riusciva mai a pensare a sua sorella adulta, e questo lo tormentava
terribilmente, più di quanto volesse ammettere con se
stesso, la paura di
perderla lo ancorava al presente e il domani non esisteva, nulla gli
faceva più
male di questo. Non sapeva contenere il terrore primordiale di non
poterla
rivedere ed ogni volta che era troppo in difetto con se stesso, forse
per
fatalismo, non riusciva a non essere sopraffatto dall’ansia,
come se non
potesse incontrarla più se avesse perso anche solo una
minima occasione di
trascorrere del tempo con lei.
In
quella ragazza però, per la prima volta, aveva intravisto
come
avrebbe voluto che fosse Sarah da grande, ancora leggera, ancora
spontanea,
piena di un’innocenza mai sporcata.
Era
sempre terribilmente in ansia se si trattava di sua sorella e
troppo irrazionale, il suo naturale pessimismo lo abbatteva sempre
prima che
riuscisse a costruirsi delle speranze e il suo traballante equilibrio
interiore
vacillava al punto che bastava una semplice sconosciuta vestita da
zucca che
gliela ricordasse per fargli tirare un’insospettata boccata
d’ossigeno tra il
malessere.
Decise
di andarsene mentre la zia era ancora impegnata nella
camera di maman, per risparmiarsi una scenata che avrebbe intaccato il
suo fin
troppo instabile buon umore.
Si sentiva ridicolo ma non voleva ammettere di star decisamente
impazzendo,
voleva illudersi ancora un poco di essere abbastanza forte da poter
sopportare
quella situazione a lungo, ché la forza doveva inventarsela
se non c’era e lui
di scelte alternative non ne aveva. Sapere di non avere
possibilità però non lo
aiutava a restare lucido, e niente a suoi occhi era più
drammatico del
diventare irragionevole e ingestibile.
Non
voleva spezzarsi.
Non
voleva anche quell’umiliazione, controllarsi era
ciò che gli
aveva permesso di restare in piedi e non riusciva nemmeno a concepire
cosa ne
sarebbe stato di lui se non ci fosse più riuscito.
Raggiunse
la hall e cercò da lontano Marisa, ma l’infermiera
non
era nei paraggi e dietro al banco informazioni, a parlare con una donna
bionda
dall’aria sfatta, c’erano solo volti poco noti.
Si
rassegnò a non vedere la signora per quel giorno e fece
nuovamente per uscire all’aperto, quando due braccia si
serrarono con
inaspettata decisione attorno al suo collo.
Riconobbe
il familiare profumo d’ibisco e la morbidezza di quella
pelle di caramello sciolto, così in contrasto con la
propria, candida.
«Sei
di buon umore oggi?» gli sussurrò sfiorandogli
l’orecchio con
le labbra grandi. La sua cadenza veneta gli parve la cosa
più scontata e ovvia
del mondo e ne provò un affilato fastidio, un disagio
insopprimibile di cui non
riusciva a sbarazzarsi.
Sentiva
il seno soffice e abbondante contro la schiena e le mani
di Elena aprirsi sul suo petto, facendolo sussultare.
«Dami,
sei più distante del solito» avvertì il
sospiro caldo di
lei sul collo e si morse l’interno della guancia per non
rabbrividire «So che
non lo facciamo spesso, ma puoi anche parlarmi»
«Non
servi per parlare» rispose pacatamente, e lei
s’irrigidì
contro di lui per un breve istante, il tempo di ferirla e che quelle
parole
attecchissero.
Poi
Ellie annuì «Hai ragione» le mani dalle
dita lunghe, quelle
dita da pianista mancata e infermiera fallita, scivolarono lentamente
verso il
bordo dei suoi jeans e lì si insinuarono accarezzandolo con
esasperata lentezza
«Se ne hai voglia allora…» gli prese il
lobo tra i denti e lo succhiò e lambì
con la lingua, in una provocazione che lo fece eccitare.
Le
bloccò subito il polso e si voltò di scatto,
guardandosi
attorno per controllare che nessuno avesse notato i giochetti
istigatori di
Elena e quella sceneggiata da denuncia per atti osceni in luogo
pubblico, il
personale però era completamente dedito alla signora bionda
e non aveva prestato
loro nessuna attenzione. Per il resto, le seggiole della saletta
d’attesa
davano loro la schiena e sembrava che le poche persone sedute non li
avessero
notati.
Allora
si concentrò su Ellie, che dai pochi centimetri in meno che
aveva lo studiava con i grandi occhi da cerbiatta liquidi di desiderio,
i corpi
che si sfioravano. Avrebbe voluto baciarla, ma con cattiveria, avrebbe
voluto
morderla fino a ferirla e sentirla lamentarsi e sopportare e trattenere
il
pianto con quelle sue immense iridi lucide di voglia e dolore.
Avrebbe
voluto e se ne vergognava.
Perché, perché le permetto
ancora
di toccarmi?
Eppure
non riusciva a farne a meno in qualche modo, anche se non
la sopportava e la trovava sì bellissima, ma in maniera
così superficiale da
risultarne scialba. Non sapeva nemmeno come avrebbe dovuto
considerarla.
A
volte la vedeva come un’amica o almeno s’imponeva
di crederlo,
ma lei era la prima e l’unica con cui avesse fatto sesso e
l’unica da cui
accettasse di essere toccato e per questo si ritrovava ad odiarla la
maggior
parte delle volte.
Gli
piaceva, il tocco di Elena, era sensuale e eccitante. Gli
piaceva quel tipo di rapporto che avevano sviluppato, in cui non doveva
aspettarsi o desiderare di più: semplicemente lei era bella,
disponibile a
sopportare i suoi malumori in silenzio e disponibile anche in molti
altri
sensi.
Provava
per lei solamente attrazione e i loro bisogni
s’incastravano perfettamente, che poi Ellie fosse sciocca e
indisponente non
contava, che la odiasse, che lui fosse solo un altro della sua lista da
femme
fatale, non doveva importargli, andava bene lo stesso.
Elena
lo conosceva molto bene ed era brava a leggerlo, gli si
spalmò addosso e gli prese la mano libera, quella che non le
stava trattenendo
il polso, per portarsela fra le gambe.
Dem
riuscì a stento a deglutire e si accorse di essersi indurito.
«Quando
vuoi» gli ammiccò maliziosa, un sorriso
soddisfatto sul
volto da strega. Avrebbe voluto sbatterla contro il primo muro
accessibile e
scoparsela, che tutti vedessero che dannata, prevedibile stronza era e
di come
nascondesse sotto il sorriso affabile e dolente e il suo aspetto
avvenente
tutto il suo egoismo e la sua superficialità da prostituta
d’alto borgo.
Ritrasse
la mano e, continuando a tenerla saldamente per il polso,
attraversò le porte scorrevoli e abbandonò il
padiglione principale. Aveva
paura di non riuscire a frenare il proprio istinto e di finire
veramente con il
compiere un’azione riprovevole davanti a tutti,
perché quello era l’effetto
terribile che Elena aveva su di lui e non era mai riuscito a
combatterlo. La
trascinò malamente sul retro dell’edificio,
stringendo con più forza del dovuto
e ignorando le lamentele di lei che piagnucolava con scarsa convinzione.
«Dami
mi fai male»
La
spinse contro il muro e la congelò con un’occhiata
furibonda
che la zittì all’istante. Ellie deglutì
a fatica, ma poi gli sorrise e Demian
pensò ancora, con rabbia, che tutto il male che desiderava
farle lei lo
meritava sempre, sapeva solo distruggere tutto e rovinare la sua
perfetta bolla
di pace. Le infilò la mano fra i capelli e la
baciò con cattiveria,
schiacciandola contro la parete e mordendole le labbra fino a farla
gemere per
il dolore. Le mani di Elena gli aprirono la felpa e la gettarono da
qualche
parte, poi s’infilarono sotto la sua maglietta. La pelle
fredda di lei che
seguiva il percorso degli addominali gli dava brividi di freddo e
piacere.
Demian interruppe il bacio e le aprì la bocca con le dita
perché le succhiasse.
Quando furono abbastanza umide, con poca grazia le scostò
l’elastico dei
pantaloni di cotone della sua divisa e il bordo delle mutandine, per
infilare
poco gentilmente due dita dentro di lei.
Elena
mugolò, con quella nota dolente che Dem aveva sentito troppo
spesso. Poi l’infermiera s’inarcò in
avanti tra le sue braccia e cercò ancora
le sue labbra, in un bacio che Demian non riuscì a non
ricambiare, anche se non
avrebbe mai voluto darle della tenerezza. Quando Elena sospirava nella
sua
bocca la sua eccitazione in quel modo la sua erezione pulsava in
maniera
dolorosa e la desiderava con un tormento inaccettabile.
Non
aveva smesso di lubrificarla e di giocare con le dita durante
quello scambio, e quando si accorse che il respiro di Elena si stava
facendo
troppo pesante ed era ad un passo dal piacere, Demian
ritrasse la mano suscitando in risposta un ringhio di disappunto.
Allora
le sorrise ironico, mostrandole il canino «Tocca a
te» le
sussurrò all’orecchio, mordicchiandole poi la
pelle del collo per lasciarle un
vistoso segno.
Sapeva
di non doverlo fare, Elena era sempre stata chiara, non
dovevano restarle dei segni o Simone avrebbe dubitato di lei, ma non
gli
importava niente, trasgrediva ogni volta e lei alla fine non opponeva
resistenza. Ed infatti ancora una volta Ellie inclinò il
collo per facilitargli
il compito.
«Sei
un viziato, ti ho abituato troppo bene» si lamentò.
S’inginocchio
davanti a lui e gli abbassò la cerniera dei jeans
senza esitare, ma non fece in tempo nemmeno a sfiorarlo, entrambi si
bloccarono
nel sentire un urlo improvviso alle loro spalle.
Demian
allontanò Ellie facendo pressione sulle sue spalle,
richiuse i jeans e si volse con sgomento, sperando di non essere stato
beccato.
Lo sgomento si trasformò in orrore quando riconobbe poco
lontano una ragazza
con la felpa arancio e la gonna celeste e una matassa di riccioli. Si
sentì per
un istante così svuotato che pensò davvero
sarebbe svenuto, le gambe erano
molli e probabilmente doveva essere più bianco di un cencio.
Di
tutte le persone che avrebbero potuto imbattersi in quello
scabroso spettacolo, quella sconosciuta era l’unica da cui
non avrebbe mai
voluto essere visto, perché sembrava ingenua e tanto sciocca
e sembrava Sarah…
e gli veniva da vomitare.
La
ragazza però non li stava nemmeno guardando, Demian ci mise
qualche secondo per realizzare questo dettaglio. Era caduta a terra, il
ginocchio magro e spigoloso le sanguinava e lei, a così
pochi metri da un
momento tanto inopportuno, era concentrata solamente a tamponare, con
le labbra
arricciate in malumore, la piccola ferita.
L’orrore
scomparve rapidamente e Demian rimase perplesso a
studiare quella rara creatura ignara del resto del mondo mentre con uno
sbuffo
si rialzava, spazzolandosi gambe e gonna, e poi si chinava a
raccogliere delle
foglie sparse a raggiera intorno a lei. In un lampo di comprensione
Demian capì
che poco prima, nel cortile, era probabilmente questo quello che stava
facendo,
stava raccogliendo le foglie cadute.
Valutò
che non doveva essere un genio, ma era terribilmente
carina, così corrucciata e assorta.
Finalmente
la ragazza alzò il viso permettendogli di vederla per
davvero e Demian, che aveva pensato di avvicinarsi, di aiutarla forse,
si
ritrovò immobile e senza parole, con le ghiandole salivari
che lo avevano
abbandonato e la bocca arida come il Sahara.
I
due boccoli scuri sfuggiti alla coda riccia incorniciavano un
volto candido di porcellana e in contrasto con la pelle chiara e i
capelli
scuri, le labbra morbide sembravano rosse come lamponi. Era alta e la
sua
magrezza la faceva apparire ancora più sottile ma non goffa,
quasi aggraziata
nonostante l’imbarazzo infantile che caratterizzava ogni suo
gesto. Ciò
che più lo aveva spiazzato di
quell’incredibile volto dall’aria distratta e
serena erano gli occhi grandi dal
taglio orientale. La distanza non gli permetteva di distinguerne il
colore, ma
erano abbastanza espressivi da manifestare tutta la
perplessità e l’imbarazzo
che l’avevano colpita.
Demian
non ne comprese il motivo, se non fosse stato che fino a
pochi attimi prima era lui quello in procinto di compiere atti osceni
in luogo
pubblico, avrebbe giurato dalla reazione che la ragazza aveva avuto che
era lei
ad essere stata colta in flagrante mentre stava facendo qualcosa che
non
avrebbe dovuto.
Come a supportare quest’impressione, la vide arrossire fino
quasi a sfiorare il
colore della propria felpa.
«Non è come sembra!» esclamò
nascondendo dietro la schiena le foglie che aveva
appena raccolto «Cioè io…
non…»
Demian
era troppo sconcertato per andarle in aiuto, riusciva solo
a esaminarla con le sopracciglia aggrottate ed una notevole confusione
di
congetture in testa. Lei si guardò attorno rapidamente, come
alla ricerca di
una qualche giustificazione che non le veniva, e Dem comprese
dall’aria
spaesata e innocente che non si era resa conto di aver interrotto
qualcosa.
«Io
devo andare!» balbettò imbarazzata e senza
permettergli di
ribattere qualunque cosa, quasi con un pirouette, si volse e corse via.
Rimase
immobile ancora per un momento e si sentì uno sciocco. Ellie
che si schiariva
la gola lo risvegliò dalla catalessi nella quale era caduto.
Si era dimenticato
della presenza dell’infermiera, altrettanto confusa ma
decisamente meno
affascinata di quanto non fosse lui dalla ragazzina appena scomparsa.
Decise di
non guardare più Elena in volto, recuperò invece
la sua felpa e se la rimise
senza chiuderla, prima di raggiungere il punto dove la ragazza era
caduta. Era
rimasta una foglia a terra, una foglia rossa che sfumava nel giallo. La
raccolse e rigirò il gambo sottile tra le dita, facendola
ruotare.
Era
bella, non sapeva perché ora questo pensiero lo stesse
folgorando come una verità assoluta, non gliene era mai
importato nulla e non
erano mai state altro che un elemento di corredo
dell’autunno, le foglie,
eppure ora la fissava e ci credeva davvero, che fosse bellissima.
Ché se tutti
gli alberi avessero avuto quella gradazione il cortile di
quell’ospedale
sarebbe stato meno triste, eppure forse quella sfumatura
l’avevano avuta per
tutto il tempo e lui per abitudine e noia non ci aveva mai prestato
attenzione.
Nondimeno
gli bastava pensare a quella ragazzina che come la
peggiore delle bambine di cinque anni si dedicava ad un passatempo
tanto
sciocco e ci trovava un senso ed una bellezza che gli erano sempre
sfuggiti. Disorientato
si guardò attorno come se fosse potuta ricomparire da un
momento all’altro.
Raccoglie foglie, non deve essere
sicuramente un genio. Anzi, sembra non aver nemmeno capito in che razza
di
situazione è incappata. No, non è un genio.
E,
nonostante questo, gli piaceva il suo volto, era bella in modo
anticonvenzionale, anche con quel corpo spigoloso. Era bella per quegli
incisivi che aveva notato essere divisi, per come in pochi secondi
aveva
mostrato venti espressioni diverse e aveva arricciato le labbra in modi
astrusi
e ridicoli, era bella per quegli occhi dal colore sfuggente,
perché
nell’insieme era una presenza tanto luminosa da risultare
abbacinante. Davanti
a persone come lei Dem sapeva solo chinare lo sguardo, erano come
l’estate e
lui non riusciva a sopportare la presenza del sole, non riusciva
più a vedere
nulla. L’aveva intuito già da quella finestra, che
lei era questo, lo aveva
capito perché con la sua sola presenza lo aveva riempito in
qualche maniera di
lei, di quel modo di essere che era l’opposto del suo.
Aveva
su di lui un effetto stordente.
«Dami?»
La
voce di Ellie ancora una volta lo riscosse. La vide appena,
d’un tratto l’ascendente che con un solo sguardo
aveva sempre esercitato su di
lui non lo scalfì, al contrario quasi si
meravigliò di trovarla ancora lì
quando lui già l’aveva scordata.
«Dami
stai bene?»
Infilò
la foglia nella tasca della felpa e annuì distrattamente.
«Ci
vediamo» bofonchiò, e se ne andò
dedicandole uno sbadato gesto
della mano.
La
verità era che si sentiva stranamente bene e non voleva
vedere
Ellie, non voleva rischiare che di nuovo distruggesse la quiete che
stava
provando da quando aveva incrociato il volto di quella ragazzina troppo
bella
per essere vera.