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Autore: rossella0806    15/01/2017    3 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.

(Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 10, 1948)



Le Regie Carceri Mandamentali si ergevano sui resti dell’antica cinta muraria romana, dove a partire dal XIII secolo i Visconti, signori del Ducato di Milano, avevano cominciato a costruire una fortezza dal carattere militare-amministrativo, che con il tempo si era ampliata ed era stata rimodellata a piacimento di chi deteneva il potere cittadino, fino a diventare nota come il Castello Visconteo Sforzesco.
Il cotto lombardo era il materiale principe che sorreggeva l’intero edificio e con cui, nei secoli, si aveva plasmato ogni elemento architettonico, dai bastioni alle merlettature, dalle antiche torrette fino ai camminamenti: in lontananza, da qualsiasi punto cardinale si giungesse, si poteva già intravedere il vecchio ponte levatoio con il profondo fossato, ai cui lati del massiccio portone in legno erano state appese le fiaccole per rendere più agevole il lavoro di sentinelle delle guardie.
Davanti al Castello, a qualche centinaio di metri, sorgeva l’omonima piazza su cui era stato edificato il Teatro Nuovo, dove Costanza aveva assistito mesi prima alle esecuzioni liriche de “L’elisir d’amore” e de “Il barbiere di Siviglia”.
Il carro delle Guardia Civica galoppava sostenuto nella notte, a fare da apripista il tenente e il sottoufficiale a cavallo: mancavano una decina di minuti alle otto di sera, e per le strade della città vi erano pochi avventori di dubbia moralità, i volti rischiarati dai lampioni e dalla luce lunare.
“Come ti senti?” domandò Eugenio a Pietro, seduti l’uno di fronte all’altro, ognuno perso nei propri pensieri.
Non si erano rivolti la parola, sebbene Maffucci, di tanto in tanto, lanciasse occhiate interrogative e cariche di significato all’amico, che rimaneva immobile con il capo abbassato, come a volersi proteggere da eventuali inquisitorie.
“Bene”
“Non hai dolore?”
“Non particolarmente. Solo qualche rara fitta alla spalla, ma il ginocchio è tornato come nuovo”
L’avvocato annuì, poi aprì bocca per ribattere, stanco di quel teatrino senza senso.
“Devi smetterla con questo atteggiamento disfattista, Pietro! Non ti servirà a nulla, maledizione! Che fine ha fatto l’uomo coraggioso ed altruista che ho conosciuto?! Non capisci che così facendo rischi di far soffrire chi ti vuole bene, dalla tua famiglia ai tuoi amici?! E parla, per l’amor di Dio, parla, di’ qualcosa!”
Il conte Caccia fissò gli occhi di ghiaccio in quelli scuri dell’avvocato, elegante in un completo verdone, tutto l’opposto della sua camicia strappata e dei suoi pantaloni lacerati.
Si guardò la punta inzaccherata degli stivali, quindi prese la parola.
“Eugenio, non voglio che nessuno di voi venga coinvolto in questa stupida storia! Né tu, né gli altri ragazzi del gruppo, né Paolo… nessuno! Devi promettermi che proteggerai la mia famiglia da un’eventuale onta in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo! Quello che sta accadendo è una questione che riguarda solamente mio fratello e me, lo capisci?”
Maffucci scosse con vigore il capo, sbuffando e piantandosi le unghie sulle cosce.
“No che non lo capisco! Tu sei nostro amico, Pietro, e gli amici non si abbandonano nel momento del bisogno! E poi, tu sei innocente e lo dimostreremo! Se solo questi damerini travestiti da soldati sapessero quanto abbiamo lottato per aiutare l’Esercito e la causa di Liberazione, se solo potessero comprendere quanta profonda e sincera sia la dedizione che abbiamo impiegato per prodigarci in tutto questo! Sarebbero i primi a gridare a gran voce la tua rettitudine e a supplicare il tuo perdono, ne sono certo!”
“Ma loro non possono saperlo, Eugenio, non possono. Rischieremmo che tali informazioni vengano udite da orecchie indiscrete, da persone che potrebbero riferirle ai nemici, ai filo Austriaci, e questo non possiamo permettercelo. Tu lo sai bene che non possiamo…”
Uno scossone fece sobbalzare i due giovani, che si ritrovarono catapultati con la spalla contro il finestrino.
“Non pensi a Nicolò? Al sacrificio che lui e tanti come lui hanno compiuto per cercare di farci vincere e di vivere in uno Stato libero?”
In quel mentre, la porta della vettura si aprì, lasciando intravedere i due soldati a cassetta che li incitavano a scendere.
Eugenio aiutò il conte a muoversi, quindi alzarono lo sguardo verso l’ampio cortile del Castello, disseminato da torce e uomini in divisa che montavano di guardia.
“Venite, da questa parte…”
Il tenente comparve dietro di loro e, dopo aver bisbigliato qualche parola con il sottoufficiale ed i soldati che avevano assistito all’arresto, condusse gli ospiti oltre lo spiazzo, fino a raggiungere una porta laminata lasciata aperta.
I cinque la attraversarono e si ritrovarono a percorrere un corridoio lungo e spoglio, dalle pareti di cotto e verniciate in qualche raro punto di bianco, mentre gli imberbi militari facevano luce con altre fiaccole che reggevano tra le mani.
L’atmosfera aveva un che di cupo, non si poteva definire allegra, ma al contempo vantava qualcosa di rassicurante e di calmo, forse per i bagliori che proiettavano ombre allungate sulle pareti e sui volti del misto gruppetto di avventori, fornendo una strana sensazione di calore.
Una decina di minuti più tardi, il tenente si fermò davanti ad un’altra porta, questa volta di legno massiccio: bussò un paio di colpi con le nocche ossute, quindi aspettò il nullaosta per entrare.
“Aspettate qui” sentenziò con tono piatto, poco prima di sgusciare all’interno della misteriosa stanza.
Eugenio ne approfittò per guardarsi intorno e lanciare uno sguardo d’incoraggiamento in direzione di Pietro, che ricambiò appena.
Il dolore alla spalla era quasi scemato, ma le fitte al ginocchio, a causa della deambulazione sostenuta, lo stavano quasi facendo impazzire.
D’altro canto, vi era qualcosa di angusto e di malsano in quel posto, qualcosa che innervosiva l’avvocato.
“Come luogo di villeggiatura non è certo il massimo…” tentò di alleggerire la tensione, mentre l’amico si stringeva nelle spalle e rabbrividì appena.
Dovevano essere scesi di qualche metro, pensò il conte, dal momento che il pavimento di pietra appariva in lieve pendenza e la temperatura si era raffreddata di qualche grado.
“Hai freddo?” sembrò leggergli nel pensiero Eugenio, che fu subito pronto a togliersi la giacca e a donargliela.
“Non importa, non preoccuparti. E’ solo la naturale reazione all’essere stato ferito”
Ma Maffucci non demorse e, con un’occhiata di sbieco, gli impose in silenzio di accettare.
Il rumore dei cardini poco oliati riportò i presenti in quel luogo di sofferenza e di oscurità.
“Signor conte, entrate. Nel frattempo, andrò a chiamare il medico perché vi visiti”
Pietro, riprendendo a zoppicare, oltrepassò il lieve scalino che lo condusse nel locale, mentre Eugenio lo seguiva.
“No, avvocato, voi dovete attendere fuori. Non ci vorrà molto, state tranquillo” lo bloccò il tenente, che subito si allontanò lungo il corridoio che si apriva alla loro sinistra.
“Ma non potete escludermi dall’interrogatorio del mio assistito!” tentò di ribattere il trentenne dai baffetti, la cui debole protesta si perse nell’eco di quei sotterranei.
L’imputato entrò in una stanza quadrangolare e spartana: su una parete, davanti ad una finestrella minuscola e protetta da spesse inferriate, lo accolse l’ennesimo soldato –all’apparenza non particolarmente alto, la carnagione chiara e gli occhi scuri come i capelli lisci- che, seduto dietro una scrivania ordinata e quasi sgombra, gli intimò di prendere posto sulla seggiola di legno davanti a lui, mentre segnava l’orario sul primo dei fogli che aveva dinnanzi.
Pietro arrancò con dignità verso il carceriere, notando il pavimento irregolare costruito in sasso e due dei muri in pietra ricoperti da scaffali ricolmi di vecchi volumi e fascicoli numerati.
La luce delle torce, più numerose rispetto al corridoio che avevano percorso poco prima, permise al giovane di vedere con chiarezza il volto del militare, che pressappoco avrà avuto venticinque anni.
“Prego, sedetevi”
Il carcerato spostò quel tanto che bastava la seggiola, quindi si lasciò cadere con aria atona e fiacca. 
“Dunque, confermate di essere il conte Pietro Alberto Ermanno Caccia, nato a Novara il 16 giugno 1818?”
L’interrogato annuì.
“Confermate altresì di essere il figlio primogenito del conte Aldo Guido Teresio Giuseppe Caccia e della marchesa Rosanna Agnese Maria Eufemia Biroli Montalenti?”
E ancora Pietro annuì, le mani conserte abbandonate sulle gambe.
“Siete a conoscenza del motivo per cui siete stato arrestato?”
L’altro ebbe un attimo di esitazione, indeciso se negare, ma alla fine optò per la verità.
“Mi si accusa di tradimento ai danni della patria, sebbene nello specifico non abbia alcun dettaglio a riguardo…”
Il soldatino finì di compilare il documento che aveva davanti, poi alzò la testa con sguardo incolore e aria compita.
“Esattamente, signor conte. Stamani è giunta denuncia anonima in cui vi si accusa di aver cospirato contro il nostro ex sovrano, Carlo Alberto, e di aver inoltre tramato con le truppe austriache per l’esito disfattista della battaglia del 23 marzo scorso”
Lo scribacchino riabbassò il capo, intinse la penna d’oca nel calamaio e continuò a riempire il modulo, fino a quando Pietro non richiamò la sua attenzione.
“Vorrei sapere se vi sono delle prove a mio carico. E se è possibile visionarle”
“Per quanto concerne la loro visualizzazione, non spetta a me negarvi o assecondarvi il permesso, bensì al signor tenente. Tuttavia, posso accennarvi che il denunciante ha provveduto ad elencarne alcune, principalmente riguardanti la vostra appartenenza a certi gruppi rivoluzionari che mirano a far decadere il governo de Launay  e l’attuale regnante, Sua Maestà Vittorio Emanuele II. Rispondete dunque, è la verità?”
“Certo che no” tagliò corto l’imputato, le fitte alla spalla che tornavano a pressarlo.
Ma egli non demorse: doveva saperlo e lo doveva fare in quel momento, prima che tutto andasse perduto.
“E ditemi, soldato, queste famose prove di cui mi avete parlato riportano i nomi di altre persone oltre al mio?”
“Non so dirvelo” rispose l’altro, continuando a redigere l’atto d’arresto “non sono stato io ad averle visionate, signore. Bene, avete qualche cosa da dichiarare a proposito?”
“Nessuna…”
“Avete effetti personali o lettere che desiderate far pervenire ai vostri famigliari o conoscenti?”
L’interrogato fece di no con la testa, soffocando un sorriso di scherno: suo fratello lo avevo lasciato letteralmente senza nulla, aveva i vestiti a brandelli, era senza armi, né tantomeno possedeva un orologio o altri oggetti di valore.
“Vi ritenete colpevole per il reato ivi ascritto e di cui siete stato messo a conoscenza pocanzi?”
“Nella maniera più assoluta sono e mi ritengo innocente, soldato”
Il militare, il volto illuminato per metà dalla luce delle fiaccole appese ai muri, aggrottò un sopracciglio e si accinse a scrivere qualcos’altro sul documento.
Rilesse le parole, quindi voltò pagina e avvicinò il foglio a Pietro, chiedendogli di firmare.
“Molto bene, signor conte. Potete accomodarvi fuori. Dopo la visita medica di cui mi hai informato il signor tenente, verrete condotto in una cella singola fino all’interrogatorio ufficiale di domattina. Addio”
 

“Allora? Cosa ti hanno detto?”
Eugenio lo assalì non appena l’amico uscì dalla stanza.
“Nulla, sta’ tranquillo. Mi hanno solo rivolto delle domande formali per compilare i documenti riguardanti il mio arresto, ma non mi è stato chiesto niente di specifico o di particolarmente compromettente, non temere”
I soldati che li avevano accompagnati fino a lì erano ancora sull’attenti, di fianco ad altre due guardie più anziane, anch’essi con i fucili su una spalla.
I passi sicuri di alcuni stivali interruppero il silenzio che si era creato, lasciando intravedere l’arrivo del tenente.
“Vedo con piacere che avete già finito, signor conte. Allora possiamo andare: venite, da questa parte…”
“E il medico che ci avevate promesso?” lo assalì Maffucci, affiancandolo.
“Mi sembra di vedere maggiormente preoccupato voi, caro avvocato, rispetto al vostro cliente. Stiamo andando dal dottor Terzani, è lui che si occupa dei nostri ospiti di riguardo”
Pietro arrancava dietro al gruppetto, alternando il dolore al ginocchio a quello provocato per le fitte alla spalla.
“Non pretendo trattamenti di favore, signor tenente” cercò di farlo ragionare, trattenendo il fiato per non avvertire ulteriore male.
“Infatti non avrete alcun trattamento di favore, non temete. E’ la normale prassi che si usa per i nuovi arrivi in condizioni precarie, esattamente come è la vostra situazione: una veloce visita medica, tanto più nelle vostre condizioni, non potrà che farvi bene. Inoltre, dato il rango di cui godete, avete il diritto di usufruire di una cella singola e della cena, sebbene fuori orario. Ma, passatemi il termine, se le accuse che vi sono state rivolte si riveleranno fondate, state pur certo che nessuna condizione sociale di cui godete vi preserverà dalla pena capitale e dal servizio annesso”
“A cosa vi riferite? Mi auguro non alla tortura perché… ” s’intromise Eugenio.
“Calmatevi, avvocato, ne discuteremo a tempo debito. Piuttosto, eccoci arrivati…”
Il tenente fece un cenno d’assenso ai due soldati che avevano continuato a seguirli fino a lì: essi si posizionarono sull’attenti, mentre l’ufficiale bussava ad una porta di legno di colore chiaro, le torce negli appositi anelli in ferro a rischiarare le pareti in cotto e i loro volti.
Una voce profonda e allo stesso tempo squillante intimò ai nuovi venuti di entrare.
Una volta dentro, Pietro, Eugenio e il militare si ritrovarono davanti ad un uomo sui cinquant’anni, brizzolato e con gli occhiali, la corporatura robusta e la mascella ispida di barba.
“Dottor Terzani, questo è il prigioniero di cui vi ho parlato. Fatevi avanti, signor conte”
Il medico e il carcerato si lanciarono un cenno di saluto con il capo, quindi lo scienziato invitò il giovane a sedersi su una specie di lettino di legno duro.
In religioso silenzio, visionò senza troppi complimenti le ferite alla spalla e al ginocchio destri, poi si concentrò a pulirle con delle pezze biancastre imbevute di acqua, che aveva preparato in un catino sbrecciato appoggiato su un tavolino rettangolare, quindi le disinfettò con un miscuglio di tintura e alcool.
Pietro soffocò un gemito dopo l’altro, piantandosi le unghie nella carne.
Infine, si avvicinò ad una vetrinetta dietro di lui, la aprì e recuperò un bandolo di bende, che avvolse con destrezza attorno alle ferite.
Contemplò per una manciata di secondi il lavoro che aveva fatto, poi passò ad una rapida visita delle sclere e delle articolazioni.
“Abbiamo finito. Per me non c’è nulla di cui preoccuparsi, potete accompagnarlo in cella”
Eugenio avrebbe voluto ribattere, cercare di procrastinare quel momento per impedire che Pietro venisse allontanato ed isolato.
Ma nemmeno il diretto interessato aveva alcuna cura di angosciarsi per il suo destino.


La cella era grande tre metri per due e vi era una finestrella su di una parete, quasi prossima al soffitto, le cui grate non permettevano di far entrare troppa luce e neppure di vedere all’esterno, se si escludeva uno strappo di cielo buio e puntellato di stelle.
Da un muro pendeva un tavolaccio infisso con degli anelli arrugginiti, ciò che con molta fantasia avrebbe spinto a pensare di trovarsi in presenza di un letto.
A pochi passi, era stato posizionato un tavolo ed uno sgabello, entrambi mangiati dalle tarme: sul tavolo era stato lasciato un piatto con delle fette di pane, del formaggio e di fianco un bicchiere di vino abbondantemente annacquato.
“Se desiderate una coperta, fatelo presente alla guardia qua fuori, e ve la porterà. Ci vediamo domani mattina. Buonanotte, signor conte”
Il tenente si stava apprestando ad uscire, quando Maffucci lo bloccò.
“Per che ora è previsto l’interrogatorio?”
“Alle nove. Adesso dovreste uscire anche voi, avvocato. Fino a prova contraria è il vostro amico ad essere stato arrestato, non voi…”
“Certo, vi chiedo solamente un minuto, poi me ne andrò”
Il trentenne dai baffetti attese che l’ufficiale se ne andasse, quindi rivolse la sua attenzione a Pietro.
“La notte porta consiglio, non temere. Vedrai che domattina troveremo una soluzione: stanotte, se necessario, starò sveglio per trovare la migliore linea difensiva che abbia mai scritto! Ma tu, amico mio, promettimi che mangerai e che avrai cura di te, Pietro. Promettimelo, ti prego!”
L’altro lo guardò per qualche secondo, quindi annuì e gli diede una pacca su una spalla.
“Ti prometto che farò il bravo bambino. A domani, Eugenio”
Maffucci lo abbracciò, stando attento a non sfiorare le ferite.
Uscì a passi lenti, voltandosi ancora una volta prima di oltrepassare la soglia illuminata dalle torce e sorvegliata dall’ennesimo soldato.
Fece ancora un cenno con la mano e scomparve, inghiottito nel buio di fine aprile.





QUALCHE NOTA STORICA


La pena di morte restò in vigore fino al 1947 nel nostro codice penale civile e fino al 1994 nel codice penale militare.  
 

Il Castello di Novara - detto anche castello visconteo - sforzesco - ha origini molto antiche. Si narra che in quello stesso luogo sorgesse in epoca celtica una costruzione e poi in epoca romana un altro edificio, realizzato con ciottoli di fiume i cui resti sono parzialmente interrati sotto il cortile centrale.
Ma è nel Medioevo che il Castello di Novara prende corpo e forma:
nel 1272 l'allora signore di Milano, Francesco Torriani, fece realizzare una torre con recinto, con il dominio di Galeazzo Visconti, verso la seconda metà del Trecento, il castello diventa un'importante piazzaforte. 
Verso la metà del Cinquecento, l'amministrazione spagnola del Ducato di Milano decise di rafforzare i baluardi difensivi e il Castello ebbe un ruolo essenzialmente militarizzato. Fu sotto l'amministrazione sabauda, nel Settecento, che i bastioni furono trasformati in luoghi di passeggio pubblico.
Nel periodo napoleonico, divenne carcere fino al 1973.
Nella seconda metà dell'Ottocento, fu abbattuta buona parte della cinta di bastioni e fu realizzato un bel giardino - Parco dell'Allea San Luca - attorno al castello, con alberi secolari e piante rare. 
       
Claudio Gabriele de Launey, aristocratico, generale e reazionario, fu eletto primo ministro il 27 marzo 1849. Rimase in carica fino al 7 maggio dello stesso anno, dopo che il 6 maggio si dimise per incomprensioni interne.  A lui successe Massimo d’Azeglio, anch’egli aristocratico ed esponente della Destra storica.




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  Risultati immagini per castello sforzesco novara  Sopra e di fianco, l'interno e parte della facciata esterna con il ponte levatoio ed il fossato del Castello.
   
 
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