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Autore: nainai    29/05/2009    0 recensioni
Spin off di una bellissima storia - putroppo troppo breve - di Lisachan "The Wizard - The almost true story of a necklace pick". Da quell'unico episodio tra Matthew e Brian è nato cosa? La casualità degli eventi porta i due musicisti a reincontrarsi e rincorrersi in una catena di sogni spezzati e rancori mai espressi.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Muse, Placebo | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Fury
 
Non c’è solo della follia in noi due.
C’è della disperazione. Talmente autentica da indurci a perseverare nei nostri errori.
Non credi dovremmo smettere, Brian? Direi che al momento è evidente che questa cosa ci sta massacrando. Fa un male fottuto, come diavolo è possibile che nessuno di noi due se ne renda conto?
 
-Insomma, devo darti conto e ragione di tutti i miei spostamenti?!- m’informo.
Vorrei suonare stupito tanto quanto mi sento, invece ascolto la mia voce e mi sembra più che altro arrabbiata – senza ragioni reali. Parlo come un adolescente che pretenda di rivendicare la propria libertà dai genitori…o peggio, come un compagno che tenti di rivendicarla dalla propria donna.
Il che è assurdo.
La mia donna è la causa di questa discussione. O, più precisamente, il fatto che la mia donna stia in Italia e questo mi induca a lasciare l’Inghilterra per periodi di tempo più o meno lunghi, è la causa di questa discussione.
Pensare che generalmente non te ne accorgi neppure se resto via per mesi interi.
Poi però capita che ti vengano pruriti insoliti e tu abbia voglia di presentarti qui all’improvviso…
 
Qui.
A casa mia.
Quand’è successo che casa mia diventasse il ricettacolo della merda che è la nostra relazione?
…ma perché, Matthew, c’è stato un momento in cui questa cosa è diventata una relazione?
 
Sì, c’è stato. È innegabile. Lo è perché c’è stata una terza volta, dopo la seconda, ed alla quarta già mi facevo troppe domande di meno rispetto a quelle che avrei dovuto pormi. Quando alla quinta ho aperto la porta senza discutere, mi sono detto che era fatta. Niente da stupirsi se alla sesta non mi sono neppure posto il problema di ritrovarmi seduto allo stesso tavolo con lui, nella mia cucina, a cenare come se fossimo davvero solo una coppia stanca.
E da allora questa casa – quattro pareti, tre stanze, un bagno… - è diventata un po’ il segno tangibile di ciò che siamo. Un luogo in cui fuggire.
Non è strano? La gente fugge in posti dove smette di sentire dolore, noi fuggiamo in posti dove il dolore diventa l’unica certezza.
E se non ce n’è, lo creiamo. Lo abbiamo creato già quella prima notte ed ora ci metteremo a consumarlo un po’ alla volta.
 
Di solito non penso così. Di solito le mie idee vanno ognuna in una direzione diversa e sono tutte ugualmente trascinanti e prive di schemi. Di solito amo il mio delirare osservando il mondo.
 
Di solito, però, non sono così esausto.
 
-Sarebbe corretto che tu lo facessi, sì.- ritorce lui con un’apatia feroce, che non serve a mascherare l’assurdità evidente di quella semplice affermazione.
Sarebbe corretto, mi ripeto mentalmente, stranito.
-…e quando cazzo sarà che tu farai qualcosa di corretto per me, invece? Eh, Brian?- domando in tono neutro.
È una guerra di nervi. Onestamente penso che l’abbiamo persa entrambi. Lui perché mi fissa con un astio palese che solo la sua voglia di umiliarmi riesce a contenere nei confini di questa cosa; io perché è chiaro che tutto ciò è illogico, ma invece di dirlo – almeno - sto qui e ne parlo come se fosse…normale.
Cristo Santo! cosa accidenti ci può essere di normale in lui che mi fa una scenata di gelosia per la mia donna!
-Brian, io vado da Gaia quando voglio.- notifico incolore, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi in un gesto che vuole essere un segnale del mio stato d’animo.
Sto dicendo: “chiudiamola qui”. Sto dicendo: “non abbiamo davvero bisogno di renderla più complicata di quanto non sia già di suo”.
 
Il punto è che non è la prima volta che lo dico.
In realtà, temo di aver anche perso il conto.
E come se questo non fosse abbastanza – il ripetersi quasi noioso di scene sempre uguali – c’è la consapevolezza di quello che penso ma non dico.
Ossia.
“Perché? perché tu hai il diritto di venire qui, dirmi che mi odi, fare sesso con me ed impormi la tua gelosia. Perché io non devo fare altrettanto?”
Lo sai, Brian, io sono davvero geloso. Geloso di Helena e di Cody e di tutto il tempo che passi con loro. Sono geloso di Stefan, della tua manager, del tuo nuovo batterista di cui non mi hai ancora detto neppure il nome…
…sono geloso di noi.
Geloso delle volte in cui bussi alla mia porta ed io ti lascio entrare, geloso delle ore che passiamo a scopare, geloso delle nostre cene e dei nostri pranzi avvelenati, della cattiveria che ci riserviamo l’un l’altro con tanta sollecitudine. Sì, sono geloso anche dei tuoi insulti, del fatto che perdi il tuo tempo e la tua intelligenza per usarmeli contro come armi.
Sono geloso del fatto che nonostante questo tu non vada via, torni sempre ed ogni volta ti odi un po’ di più e, di riflesso, odi me più della volta precedente. Lo avverto, te lo leggo in faccia, lo leggo nell’irritazione che ormai non nascondi neppure.
Non sono pazzo, Brian, il punto è che mi sono accorto che, ogni volta che torni, un pezzo della maschera scivola via.
 
Magari, se passerà un tempo sufficiente, potrò vedere cosa c’è sotto.
 
Credimi, è da quel 24 Ottobre che sembra lontano come il mondo che mi chiedo cosa ci sia sotto. Sotto i tuoi modi ammiccanti, i tuoi sorrisi che sono luminosi da far male quando – sorridendo - lo fai sinceramente ed anche sotto quelle parole che mi dicesti allora e che adesso mi sembrano assolutamente impossibili.
Io ti guardo. E mentre lo faccio, penso che non tornerò indietro: tu non mi ridarai quel momento perfetto, quello in cui io ho pensato che se avessi potuto sfiorarti mi sarebbe bastato.
 
-Non ho detto che non devi andare da Gaia,- sibila lui incattivito – ho detto che sarebbe corretto mi informassi almeno! Cosa credi? che io non abbia impegni? che sia tenuto a stare qui ad aspettare i tuoi comodi?!
-Brian, stai dicendo un mucchio di stronzate! Io e te scopiamo! Non stiamo assieme!- affermo rabbioso.
-E questo ti da il diritto di sentirti migliore di me, Bellamy?!
Dio mio…
-COSA CAZZO C’ENTRA?!- ruggisco piantandomi di fronte a lui, mani sui fianchi e viso acceso.
Mi sento le guance in fiamme. Mi sento la gola in fiamme. Sono ore che discutiamo.
…Brian, ti supplico…piantiamola qui. Non interessa a nessuno dei due continuare a questo modo.
-C’entra nella misura in cui tu credi di poter fare il cazzo che vuoi, Bellamy! E questo non è né vero, né ammissibile!- mi grida contro di rimando, sporgendo il viso perché io possa ritrovarmi incastrato nel colore assurdo dei suoi occhi una volta di più.- Io non permetterò ad un ragazzino idiota e saccente di…- incespica sulla parola, vorrei che non riuscisse a trovarla mai più, ma la sua non è difficoltà di collegare il concetto ad un suono, è difficoltà di gestire il suo odio a sufficienza da dare vita a quel suono- usarmi!- sbotta alla fine – come se io fossi una puttana qualunque!
-Ah, io userei te come se fossi una puttana qualunque?!- sbuffo incredulo.- Mi prendi per il culo, Brian?! Tu vieni qui quando vuoi, senza nemmeno avvertirmi, pretendi di trovarmi ad aspettarti, entri, scopi, mangi e te ne vai…- elenco impietoso- E la puttana saresti tu?- ribadisco semplicemente.
Sogghigna. Fa impressione quando lo fa, io so sempre che sta per arrivare un diretto preciso e calzante nel mio stomaco. Non importa se fisicamente non muove un muscolo.
A parte quella dannatissima bocca, s’intende.
-Ma tu sei una puttana, Bellamy.- risponde pianamente.- E la cosa ti piace immensamente, visto che lo sei rimasto anche a distanza di dieci anni e nonostante tutto il successo che hai ottenuto.
…io conosco un numero considerevole di usi più intelligenti e più utili per l’umanità con cui potrebbe occuparla quella dannatissima bocca.
-…Brian…vaffanculo.- scandisco lento.
 
Lui ridacchia. Si concede anche questo lusso mentre io mi allontano di riflesso, disgustato.
-Cazzo!- sbotto muovendomi a casaccio dentro il salotto. Osservo lo scenario che ci circonda e, lo ammetto, ho difficoltà a riconoscerlo.- Cazzo, Brian! Cazzo!- ribadisco.
Lui inclina la testa e mi osserva, quasi fosse affascinato dalla vista di un me in preda ad un’evidente crisi isterica.
…cazzo, Brian.
Mi fermo di colpo, soffiando fuori il fiato per cercare di mantenere il controllo della situazione e, soprattutto, di attenuare il dolore che sento stringermi al petto.
-…devi sempre rovinare tutto.- sussurro.
-Rovinare cosa, Bellamy?- ritorce sgranando gli occhi come se non credesse alle sue stesse orecchie.
-Rovinare.- ripeto lento. Lo guardo, impietoso ed implacabile lo fisso con una determinazione che non sapevo neppure di avere.- Tutto, Brian, qualsiasi cosa tu abbia tra le mani.
Rimane in silenzio raccogliendo le idee. Lo vedo mentre lo fa, le vedo addensarsi dietro i suoi occhi come dietro uno specchio, li rendono torbidi e pesanti, scuri e densi come se fossero fatti di metallo liquido. Poi le idee…i pensieri, scivolano giù fino alle labbra, le schiudono e si posano sulla punta della lingua, pronte ad essere scagliate come lance acuminate contro di me.
-…vuoi dire noi due, Bellamy?- domanda scandendo bene le parole.
So che vorrebbe sentirsi dire di sì. Gli offrirei la mia testa su un piatto d’argento e lui la staccherebbe di netto e la getterebbe via, tra i rifiuti, esattamente dove pensa che dovrebbe stare e dove vorrebbe ricacciarmi.
È lì che mi hai trovato, Brian, per questo non riesci a capire come io sia potuto venirne fuori da solo. Nessuno vede davvero un diamante grezzo in mezzo alla spazzatura, tu hai dovuto lottare per farti vedere, io cosa ho fatto a parte cadere dal cielo in braccio ad un produttore.
 
Non lo so cosa ho fatto, Brian.
Non so cosa ho fatto a te.
 
-Rispondimi.- ordina piano quando il silenzio si fa troppo lungo per lui.
E c’è già una minaccia nel tono basso e controllato, ormai lo conosco e so che è lo stesso tono con cui terrorizza la gente che lavora per lui, con cui amministra ogni cosa nella sua vita ed in quella di chi lo circonda. Lo usa anche con me. Generalmente funziona.
-Lo sai.- dico io senza ubbidirgli.
-Oh, no, Bellamy!- mi deride controllando la risata che si affaccia isterica nella sua voce.- Non provarci. Rispondimi.- ripete una seconda volta.
La terza non ci sarà. Non c’è mai.
…non ci sono mai arrivato alla terza, ho sempre ceduto prima, lo ammetto.
-Lo sai!- ribadisco invece, stavolta.
 
Annulla le distanze. Fa un passo, poi l’altro ed io rimango esattamente dove mi trovo. Brian è più basso perfino di me – una consolazione davvero pietosa, ma alla quale aggrapparsi quando l’autostima vacilla! …con lui vacilla spesso, peraltro. – quando mi arriva di fronte, troppo vicino per guardarmi negli occhi, è costretto ad alzare il viso ed io mi ritrovo mio malgrado a cercare il suo sguardo per berne…una volta di più.
-Tu sei un patetico, idiota, insopportabile, arrogante e saccente figlio di puttana!- mi sputa contro feroce.
-Gradirei che lasciassi mia madre fuori dalle nostre conversazioni, Brian.- ritorco concedendomi un sorriso che stento a riconoscere come mio.- Io non avrei metodi altrettanto efficaci per ribattere sulla tua.- concludo.
 
Sono impazzito.
 
-Oh.- constata perplesso, sfoggiando quel suo sguardo da bambolina timida che tanto effetto ha sulla mente dei “maschi”- Tu gradiresti?- mi chiede nuovamente, come se la cosa lo sorprendesse davvero.
Apro la bocca, è ormai evidente che lui ha voglia di litigare.
È altrettanto evidente che ce l’ho anch’io.
 
Ma poi squilla il mio cellulare.
***
Impariamo il valore delle cose solo quando sono perdute.
Per le persone è anche peggio.
Impariamo il valore che una persona ha per noi, solo quando sta per scivolarci via dalle dita o, cosa peggiore, lo ha già fatto.
Forse è per questo che la maggior parte degli esseri umani rimane tanto legata alle storie finite, quelle che dovrebbero essere un capitolo chiuso di un passato che ci si lascia alle spalle ma invece affiorano, e sempre quando ci sentiamo più deboli. Soli. Tristi.
Incapaci.
 
Io ascolto il suono preciso e squillante del cellulare. Lo ascolto mentre si solleva in un silenzio pesante e carico di aspettativa che si tende tra me e lui.
Brian lo sente come me.
Lo annusa.
Mi guarda negli occhi, ma nell’attimo stesso in cui io mi muoverò, la sua testa ruoterà su se stessa ed i suoi occhi si punteranno sullo stesso oggetto inanimato che mi chiama da sopra i cuscini del divano.
È una questione di tempo.
 
-Non rispondi?- mormora lui.
Sembra ammansito. Significa solo che sta per stringere, affondare gli artigli ed uccidermi. Una volta per tutte.
Il mio cuore batte un ritmo così disperato che tutto ciò che riesco a pensare è “non voglio che lo senta, non voglio che capisca che ho paura”. Non so se Brian possa davvero sentirlo, so che l’immobilità è stata spezzata dalla sua domanda, come so che il cellulare continua impaziente ad aspettarmi.
Faccio un passo indietro – mi allontano da lui, è troppo vicino… - e poi in avanti, verso il divano. Le mie dita si chiudono attorno alla plastica rigida, i miei occhi rimangono fissi in quelli di Brian.
 
Dall’altro lato Gaia mi saluta e mi chiede perché ci abbia messo tanto a rispondere.
 
È una questione di tempo. Due secondi esatti? Forse tre?
…no, sono quattro interminabili minuti. Quattro minuti esatti – me lo dice il contatore del telefono quando alla fine riattacco la chiamata – in cui luiBrian – mi guarda. In cui lei, Gaia, mi parla e sorride. Ed in cui io…
Codardo. Vigliacco. Stupido. Sciocco.
…innamorato di un vecchio sogno.
Io rimango zitto e conto tutte le ragioni per cui Gaia vale per me più di ogni altra cosa al mondo. Le conto una dietro l’altra – e lui mi spia, mi osserva – mi dico che sono tutte valide, che sono giuste, che sono davvero importanti.
Sopra ogni cosa mi dico che non potrei farne a meno – e lui sorride, perché sa di aver vinto – e, quando qualcosa di cui non puoi fare a meno è appeso alle dita di qualcun altro - mi sorride, perché gli basterebbe parlare, aprire la bocca, dire qualcosa ed io sarei morto – allora dovresti pregare che sia qualcuno la cui stretta è affidabile e sicura.
 
Ed io invece sto affidando Gaia alle dita di Brian Molko.
 
…per come la vedo io…siamo pari, Brian.
***
Ho aperto l’acqua per coprire il rumore che fa l’aria nel lasciare i miei polmoni. È talmente sibilante, difficoltoso e raschiante che urta me per primo e da l’esatta misura della mia debolezza attuale.
Così ho aperto l’acqua nel lavandino, quando mi sono rifugiato in bagno, e ci ho nascosto dietro la paura nel mio respiro. Stringo le mani attorno alla porcellana bianca finché le ossa non scricchiolano e cominciano a farmi male e ringrazio il Dio in cui non credo che i dannati capelli abbiano raggiunto una lunghezza incomprensibile dietro la quale scappare quando non si ha il coraggio di guardarsi allo specchio.
 
La  mia vita si è decisa in quattro minuti esatti.
Non è mutata di una virgola.
Brian non ha parlato, Gaia lo ha fatto per se stessa e per me, lei non sa di lui, il mio ridicolo segreto è salvo.
In quattro minuti esatti ho preso ciò che restava della mia adolescenza e l’ho lasciato cadere a terra.
 
Sollevo il volto. Sento i passi di Brian muoversi nel salotto alle mie spalle – oltre il corridoio. Osservo la mia faccia pallida, le occhiaie scavate, nel riflesso che mi osserva da sopra il lavandino. Chiudo l’acqua, trovando conforto nella concretezza dei gesti. Poi alzo le mani e le porto dietro la nuca, armeggio con la chiusura della catenina perché non ricordo neppure da quanto non la tolgo e fa resistenza quando provo a forzarla. Alla fine scivola via e mi si raccoglie sul palmo della mano.
 
Quando la ritiro su, resta solo il plettro di plastica. Non pesa niente. Lo infilo in tasca e riallaccio al collo il regalo di Gaia.
 
Torno in salotto per trovare lui già sulla porta, sta sistemando il colletto della camicia sotto il soprabito con gesti così meccanicamente perfetti e studiati da farla sembrare l’inquadratura di un film. Mi sente arrivare, lo so, ma non si volta perché sarebbe già riconoscermi un qualche valore e lui non me ne attribuisce. Spalanca l’uscio come se fosse casa sua, esce ed io lo seguo molto lentamente e lo richiamo quando è già fuori, i piedi sullo zerbino che ingombra la soglia.
-Brian.
Mi guarda.
 
Spingo le dita in tasca e ne tiro fuori il plettro di plastica, glielo tendo tenendolo tra due dita con attenzione.
-Se dovesse mai capitarti di reincontrare la persona che me lo diede, digli che lo ringrazio, mi ha portato fortuna. E digli che mi sono sempre considerato onorato di averlo potuto conoscere.
 
“Fury”
MEM 2008
 Nota di fine capitolo della Nai

E la storia finisce qui ^_^
Sì, lo so, non è nemmeno un vero finale XD
Ringrazio coloro che l'hanno letta, "seguita" e "preferita"!
Alla prossima ^_-
MEM
  
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