À Demian
Capitolo quinto
Sogni
Demian non sognava mai
molto, o meglio, non ricordava mai i propri sogni. Gli restavano
addosso come
un sentore, un presentimento di dejà vu indistinto che si
traduceva in una
leggera e impalpabile patina di sudore sulla pelle che evaporava in un
disagio
inespresso con i primi respiri consapevoli. Appena stendeva le braccia,
queste
sensazioni svaporavano e restava come sospeso tra realtà e
dormiveglia con gli
occhi socchiusi volti al soffitto, come nel tentativo di riafferrare
un’impressione perduta per sempre.
Erano i gesti, sua madre
diceva questo quando era bambino. La sera, quando rientrava - non
importava
quanto fosse tardi- maman andava in camera da lui per baciargli la
fronte e gli
sussurrava di fare sogni d’oro. Per Dami quelle parole erano
un rituale senza
senso compiuto, un incantesimo, non le aveva mai scisse per coglierne
il
significato, non ne avevano. “Sognidoro” suonava
proprio come una formula
magica ed anche se avrebbe dovuto dormire, restava sveglio fingendo il
sonno
solo per poter sentire la voce dolce di maman che lo faceva
addormentare.
Al mattino però i sogni non
li ricordava mai, erano un quadro impressionista, una raccolta di
sensazioni
sfocate in un insieme di colori, come il soleil levant
di Monet, con la
sua barca che sapeva solo di ombra confusa nel calore aranciato della
luce. Allora maman gli
aveva spiegato che erano i gesti che facevano dimenticare i sogni,
azioni
istintive come stropicciarsi gli occhi o stirare le braccia. Compiere
questi
movimenti abituali era come dare un colpo di spugna
alla lavagna della memoria.
Demian le aveva creduto,
maman aveva sempre tante storie irreali per ogni cosa, una cantastorie
moderna
che trovava nel suo Io ogni spiegazione, non importava quanto sensata,
e lui
non era mai riuscito a metterla in dubbio veramente, anche le volte in
cui non
le credeva.
Così, era rimasto
meravigliato quando, il mattino seguente, al risveglio, aveva impresso
come un
dipinto ad olio il sogno appena avuto, a pennellate chiare e definite.
Era meravigliato, ma aveva dato
all’episodio il peso che si dà alle banali inezie
quotidiane, non fosse stato
che, il giorno seguente, l’evento si era ripetuto,
lasciandogli addosso un
languido desiderio di qualcosa ancora poco definito.
L’immagine che restava
incancellabile sotto le palpebre, incisa, era sempre la stessa.
Era un parco di alberi
frondosi e antichi, lo stesso dove portava la sua Lalami a passeggio
quando
aveva voglia di sfogare la propria solitudine, eppure nel sogno sapeva
con
certezza sconcertante che quel parco non era “quel
parco”, ma il più semplice
cortile di un ospedale, e lui si ritrovava seduto in placida attesa tra
delle
radici nodose, rannicchiato per combattere un freddo inconscio quasi
annichilente. L’erba era secca e irrigidita e tutto era
avvolto da una caligine
surreale che lo rendeva stranamente consapevole di essersi addentrato
in un
sogno.
Allora, colmo di quella
consapevolezza, aspettava finché lei non compariva.
Cosa sognava, se le
parlava, quei dettagli gli sfuggivano, impressa restava solo
l’idea di una
felpa arancio e di un corpo delicato dai contorni definiti in
un’immagine
appena accennata che di definito non aveva nulla. Gli restava addosso,
come un
parassita, la curiosità di poter sentire la sua risata,
perché la immaginava
scrosciante come un tintinnare di campanelli mossi dal vento, uno
scacciapensieri di carne e sangue e sorrisi infantili, la
curiosità di sapere
la sfumatura di quegli occhi da gitana incantatrice.
Al risveglio, tutto ciò che
gli era rimasto delle proprie fantasie erano una manciata di parole e
un
ricordo che non era mai esistito.
“Non è come sembra”
Quattro
parole, le uniche che le avesse
sentito pronunciare, dette non con la leggerezza
dell’imbarazzo del loro primo
incontro, ma sussurrate con un’inclinazione di disarmante
malinconia, una
fragilità inerme che la rendeva ai suoi occhi evanescente
come un raggio di
luce poroso appena filtrato tra i fitti rami di un’ombrosa
radura.
L’esuberanza
che la caratterizzava ed
era stata evidente anche così, in un incontro di pochi
minuti, lasciava poco
spazio alla tristezza velata che Demian le cuciva addosso nelle sue
fantasie,
eppure l’istinto gli sussurrava che, sotto
l’apparente spensieratezza, la
malinconia le apparteneva, come in
una forza di
opposti che si attraggono.
Se
la prima volta aveva soppresso il
sogno, rotolandosi tra le lenzuola e succhiando il benessere che gli
aveva
gettato addosso come fosse nettare, rifiutandosi di uscire di casa e di
andare
a scuola per non sporcarsi ancora del mondo, il secondo giorno lo aveva
invaso
una nostalgia tale che, finalmente, gli era stato chiaro non avrebbe
mai potuto
lasciar correre.
Allora,
se non era possibile sopprimere
la smania che lo attraversava, la soluzione più semplice era
stata prendersi il
proprio tempo e sparire, almeno per qualche giorno.
Aveva
preso Lalami con sé e si era
trasferito da Nico.
L’appartamento
dell’amico era un luogo
singolare.
Sorgeva
sotto un palazzo di appartamenti a sei piani, in
periferia, e, a causa del dislivello del terreno, dal lato
dell’ingresso risultava
interrato. Se ne si seguiva il perimetro, si trovava che il retro era
un
susseguirsi di vetrate opache che conducevano ad un grande ingresso a
due
porte, forse un tempo destinato ai garage o ad una rimessa. Non aveva
l’abitabilità, ma importava poco,
l’affitto era più basso così e con il
piccolo
ingresso indipendente, interrato di una decina di gradini,
c’era una privacy
diversa. Ogni membro del gruppo aveva la propria chiave ed una stanza,
se di
stanze si poteva parlare. Quella di Demian si trovava nella grande
rimessa sul
retro, non aveva finestre e solo lo spazio per il materasso gettato a
terra, ma
a lui andava più che bene. Nicolas gli aveva ceduto tutto
quello spazio
illuminato dalle vetrate, era la zona più fredda della casa
e d’inverno si congelava
lì dentro, ma era anche lo spazio più grande, e
lui l’aveva fatto proprio negli
ultimi due anni. L’arredamento era essenziale, la si
raggiungeva attraverso un
piccolo corridoio che dava sulla camera di Dave, illuminata da un
lucernario,
e, appena varcata la soglia, sulla destra si trovava la cosa
più simile ad una
cucina che ci fosse in tutto l’appartamento: fornelli da
campeggio appoggiati a
spaiati mobili di legno, un mini frigo pieno più di alcolici
che di viveri, e
poi scaffali in metallo stipati di cibi in scatola a lunga
conservazione, il
tutto racchiuso in una conca a forma di L del muro, una rientranza
dovuta allo
sgabuzzino che era camera sua. In centro svettava una vecchia stufa a
legna che
talvolta accendevano d’inverno, ma non potevano usufruirne
troppo a lungo, i
vicini tendevano a lamentarsi del fumo e per questo, quelle rare volte
in cui
si trovavano tutti insieme a mangiare sul tavolo lì vicino,
corredato da sedie
di diverse misure, dovevano avvolgersi in felpe e maglioni.
Demian
aveva appeso ai muri fogli di carta leggera alti quanto lui
e parzialmente disegnati, lavori alla quale si dedicava sporadicamente,
quando
sentiva la voglia di sporcare qualcosa senza un fine; il tavolo della
cucina
era invaso da album, cartelle e pastelli, ma i colori a olio e le
tempere,
quelli li conservava su uno sgangherato carrello che si spostava di
volta in
volta insieme a lui, a seconda della voglia che lo trascinava.
C’erano
a terra, parallele ai lati opposti dell’ambiente, due file
di assi di legno che, se rimosse, rivelavano dei nascondigli, come
sgabuzzini
interrati, forse usati per conservare i viveri in passato, Dem ci aveva
fantasticato sopra a lungo ma non era mai giunto a comprendere il loro
utilizzo. C’erano delle scale a muro per potersi calare e
aveva trovato pratico
sfruttare quei ripostigli per conservare il materiale più
ingombrante, i secchi
di vernice, i rulli, le casse di bombolette spray e altro ancora. Niko
anche li
utilizzava, ci nascondeva le partite di cocaina, tra i suoi strumenti.
L’unica nota che
non gli
apparteneva era la bicicletta scassata di Nicolas, gettata malamente
contro la
grande porta a due ante della rimessa, accanto a un vaso pieno di fogli
arrotolati, tentativi di disegni mal riusciti.
Aveva
trascorso lì dentro i successivi quattro giorni,
concentrandosi
solo sul lavoro, perché quello era il problema, quando la
smania lo prendeva
doveva sfogarla per darle un senso, sfogarla fino ad esaurirla per
poter
tornare a respirare.
Si
sentiva languido, colmo di un’esasperazione dolciastra,
sollevato come da una carezza. Creare in quello stato di grazia era
come fare
l’amore, assecondare una frenesia che trovava piacere solo
nella sua massima
espressione.
Dave
però doveva essere nuovamente in rotta con i suoi genitori,
perché anche lui aveva occupato in maniera più o
meno fissa la tana di Niko e
proprio per questo non lo aveva abbandonato un attimo. Aveva passato i
pomeriggi seduto per terra contro il muro, magari con una canna, una
volta con
dell’Lsd che Demian aveva accettato di buon grado: gli acidi
lo rendevano
sensibile ai colori, li amalgamavano in maniera imprevista, un guizzo
di luce,
una lucentezza che non avrebbe mai considerato da lucido, una
folgorazione che
dava un senso ad ogni cosa.
E
in tutto questo Dave, come un cagnolino fedele non dissimile a
Lalami ed altrettanto desideroso delle sue attenzioni, non lo aveva
lasciato un
momento con se stesso.
«Cazzo
Dave! Ti levi dai coglioni?»
E
il ragazzo dalla cresta per l’occasione blu, sbuffava e si
lagnava «Mi rompo. Ma non molli mai quei pennelli di merda?
Dai usciamo,
andiamo a fare una partita a biliardo! Mi sto rompendo il cazzo,
Dem!»
Demian
aveva perso il conto di quelle uscite fastidiose e delle
volte in cui aveva ribattuto «Tu scopi mai quando qualcuno ti
guarda?»
Dave
la prima volta si era accigliato
«Che domanda del cazzo è?»
«È
come se stessi scopando e tu mi
stessi guardando. Non vengo se un uomo mi guarda»
Le
volte seguenti l’amico aveva riso e
basta «Ehi Dem, non è che ti ecciti se ti guardo
io? Ti sta venendo duro
fratello, ammettilo!»
«Vaffanculo
stronzo»
Il
quarto giorno era sbottato, aveva
preso a calci Davide in un moto d’ira, sotto gli occhi
indifferenti di Niko che
sorseggiava il proprio caffè con totale nonchalance, aveva
recuperato cane,
cartelletta con gli schizzi e giusto due o tre tele, e se ne era
tornato a
casa.
La
vena creativa non si era esaurita,
nonostante i suoi sforzi, al contrario come un fiume in piena lo
colmava e
soffocava al punto che si sentiva costretto a svuotarsi come un
naufrago cerca
di svuotare d’acqua la propria scialuppa per restare a galla
il più possibile.
I
sogni non erano cessati, non si erano
prosciugati nemmeno dopo la sua marcia forzata con poche ore di sonno,
poco
cibo e troppe droghe creative, non si prosciugavano nemmeno ora che era
tornato
a casa.
Il
sesto giorno si era svegliato con un
grande mal di testa e la voglia di annegare nel Brufen per
anestetizzarsi come
si doveva. Aveva aperto gli occhi piano, la stanza era già
illuminata a giorno
e senza le lenti a contatto e i suoi occhiali da sole vedeva poco e
male.
Qualcosa di umido e caldo continuava a posarsi con dovizia sul suo
volto,
lasciando una scia bagnata dietro di sé, ma era
così intontito che ci mise
qualche istante per mettere a fuoco Lalami, la sua immensa lingua rosa
penzolante e la coda morbida che si agitava gioiosa.
Quando
finalmente riconobbe i suoi
occhioni neri tra il pelo crema balzò all’indietro
con uno scatto, finendo
oltre il bordo del letto. La caduta rovinosa in un groviglio di
lenzuola che ne
seguì gli costò una dolorosa botta al fondoschiena.
«Lala!»
si lamentò cercando con
movimenti spastici di districarsi dalla coperta.
Lalami
non coglieva mai il suo tono di
rimprovero, la sua sola voce bastava per farla scodinzolare di
più e forse non
era il cane più brillante che potesse capitargli, ma nella
sua dolce dedizione
c’era qualcosa di profondamente commovente che la rendeva
adorabile. La
cucciola lo raggiunse subito per ricominciare a leccare con cura il suo
braccio
destro, che spuntava oltre la stoffa come un invito palese, per lei, a
giocare.
Con
rassegnazione e un moto di tenerezza che lo aveva fatto
sbollire all’istante, Demian afferrò la piccola
palla di pelo, accettando così
il suo affetto bavoso, e a sua volta iniziò a grattarla
dietro l’orecchio e sul
pancino.
Come
Lalami si contorceva per potersi mettere pancia all’aria era
una cosa che lo faceva sempre ridacchiare, non aveva
dignità, solo un morboso
desiderio di coccole ed una zampina che si dimenava come posseduta se
toccava
il punto giusto.
Perso
nel suo rituale mattutino ripercorse con la mente, ancora
una volta, il sogno appena trascorso.
Perché
aveva sognato, di nuovo, lo stesso episodio, era la quarta
notte che gli capitava e non riusciva a darsene ragione.
Senza
dubbio qualcosa di lei aveva risvegliato un impulso sopito,
ma Demian stesso ignorava cosa fosse quella sfumatura che il suo
inconscio
aveva colto e che lo tormentava tanto profondamente. Capitava
d’incrociare il
viso di un estraneo e di esserne irrimediabilmente attratto, come a
seguire un
filo invisibile, eppure non aveva mai provato un tale trasporto per
qualcuno e
questo lo frustrava. Se lo avesse capito, quel di più,
sarebbe riuscito a
mettere da parte un’immagine senza importanza che cresceva
nella sua memoria in
maniera forzata e artificiosa, un ricordo che non lo era davvero ma che
lui
stesso continuava a vivere come tale.
«La
tua storia d’amore con il cane è sempre
affascinante, devo
ammetterlo»
Al
suono imprevisto di quella voce, Demian si dimenò,
scacciando
il lenzuolo, e si mise a sedere sul parquet, gli occhi spalancati con
meraviglia.
Sulla
porta, appoggiato allo stipite con le braccia conserte e
l’aria da fighetto per cui lui lo avrebbe volentieri preso a
pugni, c’era suo
cugino.
«An?»
la lingua impastata dal troppo silenzio si attorcigliò
facendogli biascicare il nome e rivelando il suo stato di poca
lucidità.
Acchiappò Lalami e la attirò a sé,
ché già la sua adorabile palla di pelo si
stava precipitando verso il nuovo venuto scodinzolando, e a Dem
l’idea non
piaceva. Lala, per protesta, gli morse le dita e si dimenò,
puntando le zampine
contro il suo petto per allontanarlo e raggiungere Julian, ma lui non
mollò la
presa e non glielo permise. Era assurdamente geloso di Lalami, era la
sua
cucciola e l’amava al punto che provava fastidio quando
tentava di accogliere
un estraneo con lo stesso entusiasmo riservato a lui. Il cane non era
una
persona, era solo una cucciola, e razionalmente sapeva di non poterla
trattare
come un essere umano e pretendere
che
lei capisse la differenza di comportamento che, secondo la sua testa da
padrone
problematico, avrebbe dovuto adottare per farlo felice; saperlo
però non gli
impediva di essere possessivo come fosse una donna pronta a tradirlo.
Nel mentre il cugino aveva abbandonato la sua posa da fotomodello solo
per
scostarsi, con fare teatrale, il ciuffo biondo dagli occhi.
«Non
sono la persona che speravi di vedere? Dalla tua faccia
potrei quasi credere che finalmente tu ti sia trovato una
ragazza» si fermò
solo per squadrarlo con la fronte corrucciata ed un sorrisino ironico
«Ma da
come stringi Lala direi che la tua vita amorosa con il cane procede
come
sempre!»
Canzonarlo
era la ragione di vita di Julian, da quando poi aveva
portato a casa Lalami, due mesi prima, Demian si era dedicato a lei
come un
padre premuroso e ossessivo, soprattutto quando sua madre o sua sorella
non
erano nei dintorni. Sfogava solo su Lala tutto il suo amore represso e
questo
atteggiamento gli aveva valso la beffa dei familiari tutti, di Jules in
particolare.
Si
morse l’interno della guancia e decise che, per quella volta,
si sarebbe trattenuto dal fargli notare che non faceva ridere mai
neanche un
po’.
«Cosa
ci fai qui? Non eri in America?»
Julian
sorrise apertamente, uno sfavillare di denti e labbra stese
che facevano pensare ad un tonto senza pensieri, un libero sciocco che
della
vita sapeva vedere solo il bicchiere mezzo pieno, come se il male non
potesse
scalfirlo. Jules era così, completamente diverso da lui,
carico di una serenità
e di una forza interiore che, forse, avrebbero dovuto farlo sentire in
difetto,
ma che grazie alla sua spontaneità senza riserve si
trasmettevano anche a lui
quando erano insieme, come una boa di salvataggio in mare aperto a cui
affrancarsi per non affogare. Con quel sorriso ebete, Julian gli porse
la mano
per aiutarlo ad alzarsi e Demian l’accolse, non liberando
però Lalami.
«Sei
il solito stordito, sono tornato domenica! Te lo avevo anche
scritto, ma tu i messaggi non sai nemmeno cosa siano, vero?»
lo rimproverò
bonariamente, scuotendo la testa e il suo ciuffo biondo da idolo delle
teenager.
Era
stato via per un mese.
Era
stato pesante, quel mese. Era stato come essere soli, senza
avere qualcuno con cui parlare almeno un poco. Era partito alla fine di
agosto
per New York e Demian, considerati i giorni trascorsi e
l’inizio dei corsi
universitari, avrebbe dovuto saperlo già da sé
che sarebbe rientrato a breve,
solo che Jenevieve in quel mese aveva avuto uno dei tracolli peggiori e
non era
stato in grado di pensare ad altro che a maman.
«Sarah
mi ha detto che sei sparito da una settimana. Ha detto che
non ti sei più nemmeno fatto sentire»
Incassò
la testa tra le spalle.
Quelli
erano i momenti in cui si rendeva conto di quanto le parole
di Julian potessero pesare su di lui: un suo rimprovero, anche detto
con tono
giocoso, lo sviliva tanto da farlo tacere, da abbassare gli occhi. La
verità
era che Demian invidiava Julian e lo ammirava, a modo suo, per quanto
lo
reputasse uno sciocco che non sapeva far altro che correre dietro alle
donne.
Gli
invidiava la leggerezza di vivere e gli invidiava Sarah.
Perché
Jules viveva con lei, la adorava e poteva trascorrerci
insieme più tempo di quanto non fosse concesso a lui da un
anno a quella parte.
«Non
c’è bisogno poi che ti dica che mia madre
è sul punto di
chiamare la Guardia Nazionale per recuperarti. Solo prima di uscire mi
avrà
ripetuto almeno quindici volte che gli risponde sempre la segreteria
telefonica» aveva incrociato le braccia al petto ed assunto
la sua espressione
eloquente da ti conviene parlare,
l’unica che, a volte, riusciva a cavargli qualcosa da quella
gola senza voce
che si ritrovava.
«Come
sta lei?» lo sussurrò con tono labile e i suoni
strozzati da
uno spasmo, e lo guardò appena, con il capo chino.
L’ombra morbida delle
proprie ciglia abbassate offuscava il volto del cugino: era il senso di
colpa
che non gli permetteva di affrontarlo a viso aperto, aveva paura della
risposta, odiava il proprio egoismo che lo spingeva a scappare e
ritrarsi ogni
volta che qualcosa lo sfiorava, lo odiava perché poi
l’imbarazzo e la vergogna
gli rendevano difficile tornare dalla sua piccola peste. Temendo la
risposta
abbracciò Lalami con più dolcezza, permettendole
di ricominciare a leccargli la
mano.
Julian
scosse la testa sbuffando «Potrà meravigliarti, ma
a parte
un fratello cretino Sarah sta benissimo. Che tu ci creda o meno la mia
cuginetta è tosta, non si lascia abbattere da
nulla» socchiuse gli occhi in
un’espressione scrutatrice e sospirò
«Contrairement à toi, direi»
Demian
inclinò il capo e si morse ancora la guancia, per
seppellire l’imbarazzo. Si rendeva conto di non avere un
bell’aspetto in quel
preciso istante, si era curato poco.
Succedeva
sempre così, era un istinto che non poteva combattere,
quando creava pensava solo a creare, a dipanare quel filo di pensiero
ingarbugliato per cercare di arrivare al bandolo, bandolo che non
afferrava
mai. Ed infatti, come a punirlo, ogni sua opera era incompleta, vuota,
nonostante vivesse solo per quel momento, l’attimo
dell’ultima pennellata,
dell’ultimo sguardo ad un lavoro finito.
Non
si faceva la doccia da qualche giorno, aveva dormito male,
mangiato meno e fumato troppo. Non sapeva come giustificare quella sua
condizione da rifiuto.
«Ho
avuto da fare»
Posò
a terra Lala, che non aveva smesso un solo istante di
muoversi, e subito la cagnolina corse a rosicchiare il lenzuolo. Gli
strappò un
sorriso intenerito, tutto di lei era tenero e da coccolare. Jules aveva
la
fronte corrucciata, una piccola ruga si stava scavando fra le sue
sopracciglia,
stava rimuginando sul senso delle sue parole e Demian non se ne
meravigliò: se
c’era qualcuno nella sua vita che non prendeva mai per buona
una sua
affermazione ma ne ricercava sempre un senso nascosto, come un
messaggio in
codice, quel qualcuno era suo cugino.
«È
tornata?» la ruga si appianò all’istante
e il volto di Julian
si aprì un sorriso entusiasta che lo imbarazzò,
se possibile, più di tutta la
conversazione cuore a cuore appena avvenuta.
«Oui»
mormorò, senza distogliere la propria attenzione da Lalami.
«Mon
dieu, ti è tornata l’ispirazione finalmente, dopo
mesi di
facce lunghe neanche t’avessero ammazzato il cane, e il
massimo che sai fare è
quella smorfia e dirmi questo stupido
“oui”?»
Julian
si lasciò andare ad un’energica manata
d’incoraggiamento
amichevole fin troppo sentita sulla sua spalla, manata che
riuscì perfino a
farlo vacillare sui propri piedi. Demian si passò la mano
sul collo, a
scompigliare i capelli già di per loro arruffati in un
groviglio di lana
bianca, mentre cercava di trovare le parole e di domare il proprio
imbarazzo.
Era vero che da mesi aveva sofferto una crisi da tela bianca che
l’aveva
abbattuto fino alla depressione: non riuscire a dipingere era per lui
come non
riuscire ad urlare, a cantare, a piangere, una frustrazione costante e
un
dolore sordo che lo faceva sentire impotente e inutile, ma avrebbe
preferito
riuscire a tenere per sé quegli stati d’animo da
donna in fase premestruale, e
che fosse stato tanto evidente persino ai suoi parenti lo poneva in uno
strana
e immotivata condizione di mortificazione.
Julian,
troppo entusiasta per lui per rendersi conto della
vergogna in cui stava sguazzando, riprese «Come minimo ora
devi farmi vedere
che cosa sei riuscito a tirare fuori»
Demian
sussultò e finalmente sollevò il volto per
guardare in viso
il cugino, aveva gli occhi grandi dal panico. Jul non se lo
lasciò sfuggire e arricciò
ancora le sopracciglia, in un moto di
perplessità.
«Tutto
bene?»
Il
momento peggiore per lui era sempre quello delle spiegazioni, e
sulle tele conservate nell’altra stanza sapeva di doverne
dare molte, e non le
conosceva nemmeno con certezza. Si sentiva in difetto
se considerava che non gli era più riuscito di fare neanche
uno schizzo a
carbone degno di nota per mesi e poi, semplicemente, era bastato un
incontro
puramente casuale e anonimo per portargli una ventata
d’ispirazione sbocciata
in maniera imprevista e morbosa. Piuttosto che ammettere la vera
ragione di
quel momento creativo, avrebbe preferito poter tornare allo stadio di
monotona
apatia e di sentimenti inespressi precedente quei suoi sogni ricorrenti.
Lo
sapeva perfettamente, che Jules non gli avrebbe più dato
tregua
se avesse visto i suoi disegni.
«Ehi
Dami? Ci sei?» la
mano
di Julian sventolò insistentemente a pochi centimetri dal
suo naso. La scacciò
con un gesto secco del braccio «Quanto sai essere noioso.
Sì, ci sono. No. Non
ho intenzione di farti vedere nulla»
Il
suo migliore amico abbozzò un leggero sorriso che doveva
essere
di comprensione, ma che nascondeva una finta condiscendenza che Demian
conosceva fin troppo bene. Nonostante lo sapesse, non riuscì
comunque a
precederlo: con una rapida svolta Julian corse fuori dalla stanza e
attraversò
sbandando il corridoio. Quasi sbattè contro la porta di
quella che un tempo era
stata la lavanderia di casa e che ora era diventata il suo personale
atelier.
Riuscì a raggiungerlo e ad afferrargli il braccio per
strattonarlo poi
bruscamente, solo che ormai era troppo tardi, il cugino si era
già irrigidito
davanti all’ultima tela abbandonata sul cavalletto, e si
guardava attorno
sbigottito.
La
pupilla sembrava mangiare il verde dorato dei suoi occhi
grandi, così simili a quelli di suo padre e distanti dal
taglio obliquo ed
esotico di Claire.
Demian
si sentì colto in flagrante, abbandonò
stancamente le
braccia lungo i fianchi e chinò un poco le spalle, come per
prepararsi
istintivamente ad incassare i commenti che sarebbero seguiti a
quell’analisi
indesiderata.
Sul
muro, fissati con delle puntine, e appesi ad asciugare con
delle pinze ad un filo, decine di fogli facevano sfoggio di un unico,
ricorrente
soggetto.
E
il soggetto era quella ragazza sconosciuta incontrata più
nel
mondo onirico che nella vita vera.
Si
stropicciò il viso e rosicchiò la guancia nel suo
abituale
gesto di nervosismo, alla ricerca delle parole giuste che spiegassero
un’ossessione
che sfuggiva a lui stesso. Era tormentato dalla presenza soverchiante
di quella
ragazza, c’era qualcosa in lei, nella sfumatura non colta dei
suoi occhi, nei
movimenti infantili e nella piega aggraziata del suo capo in una muta
confusione, qualcosa che razionalmente non riusciva a identificare, ma
che il
suo inconscio doveva aver riconosciuto. Una sfumatura di nostalgico
forse, un
senso di appartenenza, come se solo guardandola avesse potuto sapere in
un
istante che loro erano della medesima sostanza, un’essenza
condivisa nata dalla
stessa fonte. E non importava rivederla, non era nei suoi interessi
conoscerla,
semplicemente l’aveva riconosciuta come sua eguale ed era
rimasto affascinato
dalla sua bellezza ingenua e inconsapevole.
«Non
ha gli occhi» constatò Julian, parlando dopo
qualche minuto
di silenziosa contemplazione.
«No,
infatti»
«Io
te lo dico, è un po’ inquietante»
Dem
sollevò l’angolo destro della bocca in un cenno
divertito, per
il tono petulante che Julian aveva usato e per quel suo familiare
quanto
terribile vizio di affermare una sua personale verità con un
“io te lo dico”.
Si concesse una vanitosa e auto celebrativa occhiata a tutti i propri
lavori,
con un sottile compiacimento per l’uso dei colori ad olio ed
una punta di
indisposizione nel realizzare, ancora, che mancava qualcosa alle sue
tele,
qualcosa di essenziale.
L’incapacità
che sentiva di
afferrare l’essenziale era solo un’altra
manifestazione dell’inettitudine che
lo caratterizzava e che proprio non riusciva a combattere. In quasi
tutte le
opere, la ragazza era rappresentata da lontano, sottile come un giunco,
appoggiata con delicatezza ad un albero o magari di schiena, con quella
massa
di ricci indistinta disciolta sulle spalle. Era questo che mancava, il
suo
viso, era questa l’assenza principale.
Si
conosceva abbastanza da sapere che, finché non fosse
riuscito a
raffigurarla per come era davvero, disciogliendo nei colori
l’impressione
onesta di quello che gli aveva lasciato addosso, non si sarebbe mai
liberato di
quell’asfissiante momento di sfogo artistico.
Jules
tossicchiò con fare forzato «Allora sulla ragazza
ci ho
visto giusto, eh?» ammiccò, dandogli una leggera
gomitata sul braccio.
Demian
si ritrovò ad alzare gli occhi al soffitto, esasperato a
prescindere «No. Sei completamente fuori strada»
Suo
cugino si accigliò nuovamente, e questa volta
accompagnò il
gesto con un arricciamento grottesco del naso. Dem avrebbe solo voluto
essere
inghiottito dal pavimento, per non dover dire chiaramente che, in
qualche modo,
aveva assunto l’atteggiamento di uno psicopatico, potenziale
stalker.
«Non
è la mia ragazza. Non la conosco. Non ci ho mai
parlato»
Maledì la propria scarsa
capacità
di eloquenza e il sorrisetto provocatorio dell’amico.
«Beh,
da questi non si direbbe! Sei diventato uno stalker
cuginetto mio?»
«No!»
urlò subito.
Non
riuscì a darsi un contegno e cadde dritto nella provocazione
di Jules, per questo si maledì di nuovo all’istante.
Per quanto non fosse solito alla sua persona, stavolta si
ritrovò ad arrossire,
come colto in fallo, e d’altronde era tremendamente facile
con la sua
carnagione, ancora più facile se le frecciatine ricevute
erano perfettamente in
linea con i suoi stessi pensieri.
«Senti,
putain, è bella
va bene? È un buon modello di base. Niente di più
e niente di meno!»
Jul
scoppiò in una fragorosa risata che lo irritò.
«Quindi
è solo una musa ammirata da lontano?»
«Solo
intravista» sibilò a denti stretti.
Il cugino lo soppesò un istante, facendo scorrere le pupille
attente dalle dita
dei piedi scalzi alla punta dei capelli spettinati, poi gli cinse a
tradimento
il collo, trascinandolo fuori dalla stanza.
«Fratellino
mio, tu hai seriamente bisogno di una ragazza!»
Dem
lottò per liberarsi da quella stretta e quando non ci
riuscì
si ritrovò a sbuffare, esasperato e imbronciato come un
bambino.
Con
tutto l’affetto possibile, avrebbe voluto restare solo, non
di
certo in compagnia di Jules, non in quel momento. L’immagine
del sogno era
labile e i contorni della sua memoria iniziavano già a
slabbrarsi come bordi sdruciti
di una tovaglia senza orlo. L’intreccio si dissolveva e
così il ricordo, e lui
non aveva avuto ancora il tempo di acciuffarlo per fermarlo nel tempo e
rendere
eterno nella sua memoria quell’incontro onirico - la piega di
quel collo
morbido e candido, sottile, la voluttuosità di quei
riccioli, e il sorriso,
quel sorriso da Esmeralda.
Era
triste sentirlo scivolare via, avrebbe voluto dipingerla ad
arcobaleno, quel mattino, come se il corpo di lei fosse stato un prisma
di luce
dalle mille facce che rimandava tutti i colori insieme,
perché quella notte la
sensazione che gli era rimasta addosso, viscosa e molle, indefinita,
non aveva
un solo colore e non era reale, non era terrena, era una sensazione
sospesa e
languida, indolente come un gatto disteso a prendere il sole.
Non
aveva colore, aveva solo luce.
Quella
ragazza sapeva di luce, forse ne aveva anche la consistenza
e l’odore, quel profumo di terra calda e aria rarefatta,
quella sensazione di
bruciore sulla pelle gradevole e soffocante insieme. Senza che se ne
accorgesse
il pensiero era ancora scivolato su di lei e si stava domandando, per
la
millesima volta, perché quella sconosciuta si trovasse nel
cortile
dell’ospedale quel giorno e cosa stesse facendo e per quale
ragione. Gli
piaceva, a volte, idealizzare il tutto e rivedere quei ricordi con le
tinte di
un quadro antico, rinascimentale, toni vividi e ombre nette e taglienti
come
lame, a plasmare figure corpose e solide simili a statue.
Un’immagine sacra
dove lei quasi lo metteva in soggezione, dove ogni gesto era poesia e
aveva
qualcosa di nascosto, che gli sfuggiva, ma che dava
profondità a quel momento
sopra ad ogni altro. Una verità celata a lui preclusa ma
che, immaginava, lei
potesse vedere e sentire, come se fosse Lachesi.
Allora
tutti quei colori e quella luce assumevano un senso arcano
e lo rasserenavano.
Lalami,
nel frattempo, li aveva seguiti scodinzolando senza
togliergli gli occhietti vispi di dosso, e aveva cercato di richiamare
la sua
attenzione, per ricevere anche solo una carezza. La notò e
gli venne da ridere
«Cosa me ne faccio di una ragazza? Io ho Lala,
ricordi?»
Lala
lo osservava davvero con la tenerezza che si riserva ad un
amante, innamorata persa, e Demian la adorava per questo, la cagnolina
era
l’unica intima compagnia che si era concesso da quando Sarah
era andata a
vivere da sua zia e sua madre faceva avanti e indietro
dall’ospedale. Per
questo aveva sviluppato una dipendenza assurda e irragionevole verso
l’affetto
incondizionato che Lalami gli dimostrava ogni giorno.
«Sei
un caso perso. Hai quindici anni: i tuoi ormoni si può
sapere
dove cazzo sono?»
Arrivati
in sala Dem si staccò da lui, ridendo e scuotendo insieme
il capo. Si trovava sempre senza parole davanti alle sue affermazioni
troppo
indiscrete.
«Almeno
dimmi che non sei più vergine! Devi rispettare le
tradizioni di famiglia!» continuò Jules
imperterrito, ignorando il suo
palpabile imbarazzo, magari non visibile dalle sue espressioni ma
certamente
percepibile nei gesti.
«Non
è una tradizione di famiglia, ma una tua
tradizione» gli fece
notare dandogli le spalle per chinarsi sulla televisione e accenderla
insieme
alla Playstation «E solo perché eri un
puttaniere!» specificò, nella speranza
di fargli tagliare il discorso.
«Non
puoi capire. Io ero il tuo modello, ero responsabile della
tua istruzione! È stato un grande peso per me sapere di
essere il tuo maestro»
Dem
scosse con rassegnazione la testa: speranza vana.
«Risparmiami
le tue stronzate di prima mattina»
Gli passò un joystick e Jules lo prese al volo.
«È quasi mezzogiorno Dami. Capisco che il mondo
reale ti va stretto, ma non è
proprio “prima mattina”»
Allora
Demian si raddrizzò e scrollò le spalle con
noncuranza «Non
è che mi cambi granché. Fifa ti va
bene?»
Era solo di un torneo alla Play di cui aveva bisogno, per distrarsi in
maniera
sana, una volta tanto, senza fare sciocchezze. Questo era
ciò che gli suggeriva
una vocina nella sua testa, una petulante, fastidiosa voce che Demian
associava
al suo latente spirito di sopravvivenza che cercava, talvolta, di farsi
sentire.
Di
cose sciocche e senza senso ne aveva fatte fin troppe
nell’ultimo periodo e ora che Julian era tornato, forse
poteva concedersi una
tregua e ricominciare a respirare invece che cercare di soffocarsi da
solo.
«Ovvio»
rispose spiccio Jules.
Dem
si lasciò andare in modo poco elegante accanto al cugino e
tacque in attesa che il gioco si caricasse, per godersi quella piccola
parentesi e ricollocarla finalmente nella sua quotidianità
fin troppo scossa.
Gli era mancato davvero, trascorrere la domenica pomeriggio con Julian,
a bere
Ceres perché l’amico apprezzava solo la birra
doppio malto, a fumare e giocare
tutto il tempo a calcio. Era stato solo un mese, ma gli era parso di
più, forse
era stato solo il mese più difficile.
Demian
iniziava a sentirsi senza speranza e questo gli faceva
paura, forse per questo era stato il più difficile.
Probabilmente
maman non sarebbe tornata a casa.
Per
questo era stato difficile.
Come
se avesse letto l’improvviso incresparsi dei suoi pensieri,
Lala lo chiamò grattando insistente la sua gamba con la
zampetta morbida. La
sollevò e la poggiò delicatamente sul divano
accanto a lui, permettendo che gli
leccasse la guancia quando la piccola palla di pelo si sporse con la
lingua a
penzoloni verso il suo volto.
La
mollezza viscida della sua linguetta gli faceva il solletico e
si ritrovò a ridacchiare.
«È
la cosa più schifosa che io abbia mai visto!» non
perse
occasione di apostrofarlo Jul, con una smorfia disgustata. E poi,
ancora «L’hai
viziata troppo»
Dem
lo incenerì con una delle sue occhiate più ostili
«La mia Lala
può fare tutto quello che vuole!»
soffiò gelido.
«Sì,
certo. Tu e quel cane avete un rapporto malsano, io te lo
dico! Ti sbaciucchi lei quando sei depresso?»
Una
cosa di Julian che non gli era mancata era la sua sfacciataggine
e sì, anche quella capacità rara di dire sempre
la cosa sbagliata e di fare
osservazioni demenziali gratuite.
«Senti,
scegli la tua squadra e non rompermi»
Jules
sorrise condiscendente, inclinando il
capo come un cucciolo perplesso prima di sollevare le mani in un gesto
di resa
«Ok, ok. Concetto afferrato, non toccare Lalami. Piuttosto,
ricordami di darti
il regalo che ti ho portato dopo, ti piacerà un
sacco»
Mugugnò
un “Ok” scarsamente interessato,
tanto lo sapeva che il cugino non si sarebbe offeso per la sua mancanza
di
entusiasmo. Aveva un rapporto discutibile con i regali, lo mettevano in
imbarazzo e allora cercava di tenersi sul leggero per non pensarci.
«Ah,
Dami» riprese ancora quello, dopo un
altro istante di silenzio «Prima che inizi la
partita…» esitò, e a sentirlo
esitare Demian mise in pausa il gioco per alzare finalmente lo sguardo
assonnato su di lui, in un barlume di lucidità
più consapevole: Julian era
privo di tatto, senza speranza, e nei suoi confronti anche una grande
carogna.
Era insolito vederlo trattenersi, come alla ricerca delle parole
giuste, quando
in genere sparava a zero.
«Quella
ragazza, perché non aveva mai gli
occhi?»
Deglutì
rumorosamente un groppo di saliva che
minacciava di soffocarlo e si morse l’interno della guancia e
poi succhiò il
labbro inferiore, in una concatenazione di gesti abituali che gli
davano il
tempo di raccogliere i pensieri.
Anche
il ricordo di quella notte era perso,
di nuovo, come ogni giorno negli ultimi sette giorni. Eppure, Demian ci
provava
davvero, era sicuro di riuscire a distinguerli, nei suoi sogni, quegli
occhi da
gitana incantatrice.
Era
sicuro di riuscire a vederne il colore e
quella sfumatura sconosciuta che, in quel parcheggio, non era riuscito
a
mettere a fuoco abbastanza velocemente prima che lei se ne andasse.
Doveva
essere quello, il buco nero d’incompletezza e frustrazione
per cui non riusciva
ad essere soddisfatto e non riusciva a smettere di provare ad afferrare
l’essenza di lei.
«Perché
non me li ricordo» chiarì a voce
bassa, mentre le dita scivolavano nel morbido pelo di Lalami per dargli
un
contatto con il reale e non farlo perdere nei propri pensieri
«Non sono
riuscito a vederli, o forse li ho visti, ma non riesco a ricordarli.
Credo di
sognarli quasi ogni notte, però quando mi sveglio, al
mattino, sono già
scivolati via e mi resta solo l’impressione di quello sguardo
sulla pelle.
Vorrei solo catturarlo, solo per un momento, allora forse tutte quelle
immagini
avrebbero un senso»
ANGOLO AUTRICE
Questo è un capitolo insolito,
almeno è l’impressione che ne ho ricavato
rileggendolo ancora e ancora, per
essere sicura di non aver creato una situazione eccessivamente onirica,
eppure
temo sia proprio quello che è successo e, come sempre,
sconfitta dai miei
stessi impedimenti getto la spugna!
L’ispirazione, che sia
nello scritto come nell’arte figurativa, è sempre
difficile da afferrare, va e
viene e a volte sono proprio le sciocchezze più impensabili
a far nascere un
germoglio di creatività, uno sguardo, un movimento, una
frase o una situazione.
Personalmente, mi capita di
far trascorrere quasi un anno tra un disegno e l’altro, e non
è che nel mentre
non scarabocchi, ma un lavoro vero, intriso di tutta me stessa e della
mia
fatica e della mia passione, quello mi capita così raramente
da farmi
disperare.
Il disegno è il mio grande
amore non corrisposto che si fa desiderare, e per questo ho scelto
d’impostare
questo capitolo in questo modo, potrà sembrare assurdo ed
ognuno effettivamente
percepisce i periodi di vuoto creativo a modo proprio, ma in questo io
e Dami
siamo simili (ovviamente lui è più talentuoso, ma
non vale visto che le sue
doti artistiche sono ispirate a quell’idiota di mio fratello
e beh, la statua
della tigre scuoiata fatta durante il suo secondo anno ancora mi fissa
con
baldanza e ho passato giornate intere a farne bozzetti, senza farmi
vedere per
non omaggiarlo troppo!) e volevo che almeno qualcosa di me lo avesse!
Per esempio, e lo condivido
così, anche se non vi interessa, questa storia è
nata in una giornata d’attesa
in ospedale. Ero così esasperata che ero scesa a prendermi
una cioccolata alle
macchinette insieme a mia cugina, ma ovviamente quando avevo ritirato
il
bicchiere non c’era la paletta, ed ero tanto irritabile da
averci fatto un
monologo sopra! Poi, tornata in camera, avevo preso un giornale sul
tavolino e
avevo letto la notizia di un gruppo di ragazzi arrestati per spaccio.
Ecco, adesso sapere da dove
nasce il mio Dami!
Oggi sono in vena di
chiacchere a vuoto, ma tra qualche giorno sarà
l’anniversario di quel giorno,
ed io sono una nostalgica, è come se parlassi del mio
bambino troppo cresciuto
e mostrassi le foto della sua infanzia alle vicine di casa annoiate che
non
sanno come sottrarsi al monologo!
Mi ritiro e spoilero (sì,
sono un’immensa, carognosa spoileratrice!) dicendovi che
finalmente, nel
prossimo capitolo la ragazza avrà un nome, ché
forse è anche il caso di
iniziare a conoscerla!
Ps: finalmente, evviva
Julian!