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Autore: lady igraine    20/01/2017    1 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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À Demian


Capitolo quinto

Sogni

 

 

 

 

Demian non sognava mai molto, o meglio, non ricordava mai i propri sogni. Gli restavano addosso come un sentore, un presentimento di dejà vu indistinto che si traduceva in una leggera e impalpabile patina di sudore sulla pelle che evaporava in un disagio inespresso con i primi respiri consapevoli. Appena stendeva le braccia, queste sensazioni svaporavano e restava come sospeso tra realtà e dormiveglia con gli occhi socchiusi volti al soffitto, come nel tentativo di riafferrare un’impressione perduta per sempre.

Erano i gesti, sua madre diceva questo quando era bambino. La sera, quando rientrava - non importava quanto fosse tardi- maman andava in camera da lui per baciargli la fronte e gli sussurrava di fare sogni d’oro. Per Dami quelle parole erano un rituale senza senso compiuto, un incantesimo, non le aveva mai scisse per coglierne il significato, non ne avevano. “Sognidoro” suonava proprio come una formula magica ed anche se avrebbe dovuto dormire, restava sveglio fingendo il sonno solo per poter sentire la voce dolce di maman che lo faceva addormentare.

Al mattino però i sogni non li ricordava mai, erano un quadro impressionista, una raccolta di sensazioni sfocate in un insieme di colori, come il soleil levant di Monet, con la sua barca che sapeva solo di ombra confusa nel calore aranciato della luce. Allora maman gli aveva spiegato che erano i gesti che facevano dimenticare i sogni, azioni istintive come stropicciarsi gli occhi o stirare le braccia. Compiere questi movimenti abituali era come dare un colpo di spugna alla lavagna della memoria.

Demian le aveva creduto, maman aveva sempre tante storie irreali per ogni cosa, una cantastorie moderna che trovava nel suo Io ogni spiegazione, non importava quanto sensata, e lui non era mai riuscito a metterla in dubbio veramente, anche le volte in cui non le credeva.

Così, era rimasto meravigliato quando, il mattino seguente, al risveglio, aveva impresso come un dipinto ad olio il sogno appena avuto, a pennellate chiare e definite.

Era meravigliato, ma aveva dato all’episodio il peso che si dà alle banali inezie quotidiane, non fosse stato che, il giorno seguente, l’evento si era ripetuto, lasciandogli addosso un languido desiderio di qualcosa ancora poco definito.

L’immagine che restava incancellabile sotto le palpebre, incisa, era sempre la stessa.

Era un parco di alberi frondosi e antichi, lo stesso dove portava la sua Lalami a passeggio quando aveva voglia di sfogare la propria solitudine, eppure nel sogno sapeva con certezza sconcertante che quel parco non era “quel parco”, ma il più semplice cortile di un ospedale, e lui si ritrovava seduto in placida attesa tra delle radici nodose, rannicchiato per combattere un freddo inconscio quasi annichilente. L’erba era secca e irrigidita e tutto era avvolto da una caligine surreale che lo rendeva stranamente consapevole di essersi addentrato in un sogno. 

Allora, colmo di quella consapevolezza, aspettava finché lei non compariva.

Cosa sognava, se le parlava, quei dettagli gli sfuggivano, impressa restava solo l’idea di una felpa arancio e di un corpo delicato dai contorni definiti in un’immagine appena accennata che di definito non aveva nulla. Gli restava addosso, come un parassita, la curiosità di poter sentire la sua risata, perché la immaginava scrosciante come un tintinnare di campanelli mossi dal vento, uno scacciapensieri di carne e sangue e sorrisi infantili, la curiosità di sapere la sfumatura di quegli occhi da gitana incantatrice.

Al risveglio, tutto ciò che gli era rimasto delle proprie fantasie erano una manciata di parole e un ricordo che non era mai esistito.

 

“Non è come sembra”

 

Quattro parole, le uniche che le avesse sentito pronunciare, dette non con la leggerezza dell’imbarazzo del loro primo incontro, ma sussurrate con un’inclinazione di disarmante malinconia, una fragilità inerme che la rendeva ai suoi occhi evanescente come un raggio di luce poroso appena filtrato tra i fitti rami di un’ombrosa radura.

L’esuberanza che la caratterizzava ed era stata evidente anche così, in un incontro di pochi minuti, lasciava poco spazio alla tristezza velata che Demian le cuciva addosso nelle sue fantasie, eppure l’istinto gli sussurrava che, sotto l’apparente spensieratezza, la malinconia le apparteneva, come in una forza di opposti che si attraggono.

Se la prima volta aveva soppresso il sogno, rotolandosi tra le lenzuola e succhiando il benessere che gli aveva gettato addosso come fosse nettare, rifiutandosi di uscire di casa e di andare a scuola per non sporcarsi ancora del mondo, il secondo giorno lo aveva invaso una nostalgia tale che, finalmente, gli era stato chiaro non avrebbe mai potuto lasciar correre.

Allora, se non era possibile sopprimere la smania che lo attraversava, la soluzione più semplice era stata prendersi il proprio tempo e sparire, almeno per qualche giorno.

Aveva preso Lalami con sé e si era trasferito da Nico.

L’appartamento dell’amico era un luogo singolare.

Sorgeva sotto un palazzo di appartamenti a sei piani, in periferia, e, a causa del dislivello del terreno, dal lato dell’ingresso risultava interrato. Se ne si seguiva il perimetro, si trovava che il retro era un susseguirsi di vetrate opache che conducevano ad un grande ingresso a due porte, forse un tempo destinato ai garage o ad una rimessa. Non aveva l’abitabilità, ma importava poco, l’affitto era più basso così e con il piccolo ingresso indipendente, interrato di una decina di gradini, c’era una privacy diversa. Ogni membro del gruppo aveva la propria chiave ed una stanza, se di stanze si poteva parlare. Quella di Demian si trovava nella grande rimessa sul retro, non aveva finestre e solo lo spazio per il materasso gettato a terra, ma a lui andava più che bene. Nicolas gli aveva ceduto tutto quello spazio illuminato dalle vetrate, era la zona più fredda della casa e d’inverno si congelava lì dentro, ma era anche lo spazio più grande, e lui l’aveva fatto proprio negli ultimi due anni. L’arredamento era essenziale, la si raggiungeva attraverso un piccolo corridoio che dava sulla camera di Dave, illuminata da un lucernario, e, appena varcata la soglia, sulla destra si trovava la cosa più simile ad una cucina che ci fosse in tutto l’appartamento: fornelli da campeggio appoggiati a spaiati mobili di legno, un mini frigo pieno più di alcolici che di viveri, e poi scaffali in metallo stipati di cibi in scatola a lunga conservazione, il tutto racchiuso in una conca a forma di L del muro, una rientranza dovuta allo sgabuzzino che era camera sua. In centro svettava una vecchia stufa a legna che talvolta accendevano d’inverno, ma non potevano usufruirne troppo a lungo, i vicini tendevano a lamentarsi del fumo e per questo, quelle rare volte in cui si trovavano tutti insieme a mangiare sul tavolo lì vicino, corredato da sedie di diverse misure, dovevano avvolgersi in felpe e maglioni.

Demian aveva appeso ai muri fogli di carta leggera alti quanto lui e parzialmente disegnati, lavori alla quale si dedicava sporadicamente, quando sentiva la voglia di sporcare qualcosa senza un fine; il tavolo della cucina era invaso da album, cartelle e pastelli, ma i colori a olio e le tempere, quelli li conservava su uno sgangherato carrello che si spostava di volta in volta insieme a lui, a seconda della voglia che lo trascinava.

C’erano a terra, parallele ai lati opposti dell’ambiente, due file di assi di legno che, se rimosse, rivelavano dei nascondigli, come sgabuzzini interrati, forse usati per conservare i viveri in passato, Dem ci aveva fantasticato sopra a lungo ma non era mai giunto a comprendere il loro utilizzo. C’erano delle scale a muro per potersi calare e aveva trovato pratico sfruttare quei ripostigli per conservare il materiale più ingombrante, i secchi di vernice, i rulli, le casse di bombolette spray e altro ancora. Niko anche li utilizzava, ci nascondeva le partite di cocaina, tra i suoi strumenti.

 L’unica nota che non gli apparteneva era la bicicletta scassata di Nicolas, gettata malamente contro la grande porta a due ante della rimessa, accanto a un vaso pieno di fogli arrotolati, tentativi di disegni mal riusciti.

Aveva trascorso lì dentro i successivi quattro giorni, concentrandosi solo sul lavoro, perché quello era il problema, quando la smania lo prendeva doveva sfogarla per darle un senso, sfogarla fino ad esaurirla per poter tornare a respirare.

Si sentiva languido, colmo di un’esasperazione dolciastra, sollevato come da una carezza. Creare in quello stato di grazia era come fare l’amore, assecondare una frenesia che trovava piacere solo nella sua massima espressione.

Dave però doveva essere nuovamente in rotta con i suoi genitori, perché anche lui aveva occupato in maniera più o meno fissa la tana di Niko e proprio per questo non lo aveva abbandonato un attimo. Aveva passato i pomeriggi seduto per terra contro il muro, magari con una canna, una volta con dell’Lsd che Demian aveva accettato di buon grado: gli acidi lo rendevano sensibile ai colori, li amalgamavano in maniera imprevista, un guizzo di luce, una lucentezza che non avrebbe mai considerato da lucido, una folgorazione che dava un senso ad ogni cosa.

E in tutto questo Dave, come un cagnolino fedele non dissimile a Lalami ed altrettanto desideroso delle sue attenzioni, non lo aveva lasciato un momento con se stesso.

«Cazzo Dave! Ti levi dai coglioni?»

E il ragazzo dalla cresta per l’occasione blu, sbuffava e si lagnava «Mi rompo. Ma non molli mai quei pennelli di merda? Dai usciamo, andiamo a fare una partita a biliardo! Mi sto rompendo il cazzo, Dem!»

Demian aveva perso il conto di quelle uscite fastidiose e delle volte in cui aveva ribattuto «Tu scopi mai quando qualcuno ti guarda?»

Dave la prima volta si era accigliato «Che domanda del cazzo è?»

«È come se stessi scopando e tu mi stessi guardando. Non vengo se un uomo mi guarda»

Le volte seguenti l’amico aveva riso e basta «Ehi Dem, non è che ti ecciti se ti guardo io? Ti sta venendo duro fratello, ammettilo!»

«Vaffanculo stronzo»

Il quarto giorno era sbottato, aveva preso a calci Davide in un moto d’ira, sotto gli occhi indifferenti di Niko che sorseggiava il proprio caffè con totale nonchalance, aveva recuperato cane, cartelletta con gli schizzi e giusto due o tre tele, e se ne era tornato a casa.

La vena creativa non si era esaurita, nonostante i suoi sforzi, al contrario come un fiume in piena lo colmava e soffocava al punto che si sentiva costretto a svuotarsi come un naufrago cerca di svuotare d’acqua la propria scialuppa per restare a galla il più possibile.

I sogni non erano cessati, non si erano prosciugati nemmeno dopo la sua marcia forzata con poche ore di sonno, poco cibo e troppe droghe creative, non si prosciugavano nemmeno ora che era tornato a casa.

Il sesto giorno si era svegliato con un grande mal di testa e la voglia di annegare nel Brufen per anestetizzarsi come si doveva. Aveva aperto gli occhi piano, la stanza era già illuminata a giorno e senza le lenti a contatto e i suoi occhiali da sole vedeva poco e male. Qualcosa di umido e caldo continuava a posarsi con dovizia sul suo volto, lasciando una scia bagnata dietro di sé, ma era così intontito che ci mise qualche istante per mettere a fuoco Lalami, la sua immensa lingua rosa penzolante e la coda morbida che si agitava gioiosa.

Quando finalmente riconobbe i suoi occhioni neri tra il pelo crema balzò all’indietro con uno scatto, finendo oltre il bordo del letto. La caduta rovinosa in un groviglio di lenzuola che ne seguì gli costò una dolorosa botta al fondoschiena.

«Lala!» si lamentò cercando con movimenti spastici di districarsi dalla coperta.

Lalami non coglieva mai il suo tono di rimprovero, la sua sola voce bastava per farla scodinzolare di più e forse non era il cane più brillante che potesse capitargli, ma nella sua dolce dedizione c’era qualcosa di profondamente commovente che la rendeva adorabile. La cucciola lo raggiunse subito per ricominciare a leccare con cura il suo braccio destro, che spuntava oltre la stoffa come un invito palese, per lei, a giocare.

Con rassegnazione e un moto di tenerezza che lo aveva fatto sbollire all’istante, Demian afferrò la piccola palla di pelo, accettando così il suo affetto bavoso, e a sua volta iniziò a grattarla dietro l’orecchio e sul pancino.

Come Lalami si contorceva per potersi mettere pancia all’aria era una cosa che lo faceva sempre ridacchiare, non aveva dignità, solo un morboso desiderio di coccole ed una zampina che si dimenava come posseduta se toccava il punto giusto.

Perso nel suo rituale mattutino ripercorse con la mente, ancora una volta, il sogno appena trascorso.

Perché aveva sognato, di nuovo, lo stesso episodio, era la quarta notte che gli capitava e non riusciva a darsene ragione.

Senza dubbio qualcosa di lei aveva risvegliato un impulso sopito, ma Demian stesso ignorava cosa fosse quella sfumatura che il suo inconscio aveva colto e che lo tormentava tanto profondamente. Capitava d’incrociare il viso di un estraneo e di esserne irrimediabilmente attratto, come a seguire un filo invisibile, eppure non aveva mai provato un tale trasporto per qualcuno e questo lo frustrava. Se lo avesse capito, quel di più, sarebbe riuscito a mettere da parte un’immagine senza importanza che cresceva nella sua memoria in maniera forzata e artificiosa, un ricordo che non lo era davvero ma che lui stesso continuava a vivere come tale.

«La tua storia d’amore con il cane è sempre affascinante, devo ammetterlo»

Al suono imprevisto di quella voce, Demian si dimenò, scacciando il lenzuolo, e si mise a sedere sul parquet, gli occhi spalancati con meraviglia.

Sulla porta, appoggiato allo stipite con le braccia conserte e l’aria da fighetto per cui lui lo avrebbe volentieri preso a pugni, c’era suo cugino.

«An?» la lingua impastata dal troppo silenzio si attorcigliò facendogli biascicare il nome e rivelando il suo stato di poca lucidità. Acchiappò Lalami e la attirò a sé, ché già la sua adorabile palla di pelo si stava precipitando verso il nuovo venuto scodinzolando, e a Dem l’idea non piaceva. Lala, per protesta, gli morse le dita e si dimenò, puntando le zampine contro il suo petto per allontanarlo e raggiungere Julian, ma lui non mollò la presa e non glielo permise. Era assurdamente geloso di Lalami, era la sua cucciola e l’amava al punto che provava fastidio quando tentava di accogliere un estraneo con lo stesso entusiasmo riservato a lui. Il cane non era una persona, era solo una cucciola, e razionalmente sapeva di non poterla trattare come un essere umano e pretendere  che lei capisse la differenza di comportamento che, secondo la sua testa da padrone problematico, avrebbe dovuto adottare per farlo felice; saperlo però non gli impediva di essere possessivo come fosse una donna pronta a tradirlo.
Nel mentre il cugino aveva abbandonato la sua posa da fotomodello solo per scostarsi, con fare teatrale, il ciuffo biondo dagli occhi.

«Non sono la persona che speravi di vedere? Dalla tua faccia potrei quasi credere che finalmente tu ti sia trovato una ragazza» si fermò solo per squadrarlo con la fronte corrucciata ed un sorrisino ironico «Ma da come stringi Lala direi che la tua vita amorosa con il cane procede come sempre!»

Canzonarlo era la ragione di vita di Julian, da quando poi aveva portato a casa Lalami, due mesi prima, Demian si era dedicato a lei come un padre premuroso e ossessivo, soprattutto quando sua madre o sua sorella non erano nei dintorni. Sfogava solo su Lala tutto il suo amore represso e questo atteggiamento gli aveva valso la beffa dei familiari tutti, di Jules in particolare.

Si morse l’interno della guancia e decise che, per quella volta, si sarebbe trattenuto dal fargli notare che non faceva ridere mai neanche un po’.

«Cosa ci fai qui? Non eri in America?»

Julian sorrise apertamente, uno sfavillare di denti e labbra stese che facevano pensare ad un tonto senza pensieri, un libero sciocco che della vita sapeva vedere solo il bicchiere mezzo pieno, come se il male non potesse scalfirlo. Jules era così, completamente diverso da lui, carico di una serenità e di una forza interiore che, forse, avrebbero dovuto farlo sentire in difetto, ma che grazie alla sua spontaneità senza riserve si trasmettevano anche a lui quando erano insieme, come una boa di salvataggio in mare aperto a cui affrancarsi per non affogare. Con quel sorriso ebete, Julian gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi e Demian l’accolse, non liberando però Lalami.

«Sei il solito stordito, sono tornato domenica! Te lo avevo anche scritto, ma tu i messaggi non sai nemmeno cosa siano, vero?» lo rimproverò bonariamente, scuotendo la testa e il suo ciuffo biondo da idolo delle teenager.

Era stato via per un mese.

Era stato pesante, quel mese. Era stato come essere soli, senza avere qualcuno con cui parlare almeno un poco. Era partito alla fine di agosto per New York e Demian, considerati i giorni trascorsi e l’inizio dei corsi universitari, avrebbe dovuto saperlo già da sé che sarebbe rientrato a breve, solo che Jenevieve in quel mese aveva avuto uno dei tracolli peggiori e non era stato in grado di pensare ad altro che a maman.

«Sarah mi ha detto che sei sparito da una settimana. Ha detto che non ti sei più nemmeno fatto sentire»

Incassò la testa tra le spalle.

Quelli erano i momenti in cui si rendeva conto di quanto le parole di Julian potessero pesare su di lui: un suo rimprovero, anche detto con tono giocoso, lo sviliva tanto da farlo tacere, da abbassare gli occhi. La verità era che Demian invidiava Julian e lo ammirava, a modo suo, per quanto lo reputasse uno sciocco che non sapeva far altro che correre dietro alle donne.

Gli invidiava la leggerezza di vivere e gli invidiava Sarah.

Perché Jules viveva con lei, la adorava e poteva trascorrerci insieme più tempo di quanto non fosse concesso a lui da un anno a quella parte.

«Non c’è bisogno poi che ti dica che mia madre è sul punto di chiamare la Guardia Nazionale per recuperarti. Solo prima di uscire mi avrà ripetuto almeno quindici volte che gli risponde sempre la segreteria telefonica» aveva incrociato le braccia al petto ed assunto la sua espressione eloquente da ti conviene parlare, l’unica che, a volte, riusciva a cavargli qualcosa da quella gola senza voce che si ritrovava.

«Come sta lei?» lo sussurrò con tono labile e i suoni strozzati da uno spasmo, e lo guardò appena, con il capo chino. L’ombra morbida delle proprie ciglia abbassate offuscava il volto del cugino: era il senso di colpa che non gli permetteva di affrontarlo a viso aperto, aveva paura della risposta, odiava il proprio egoismo che lo spingeva a scappare e ritrarsi ogni volta che qualcosa lo sfiorava, lo odiava perché poi l’imbarazzo e la vergogna gli rendevano difficile tornare dalla sua piccola peste. Temendo la risposta abbracciò Lalami con più dolcezza, permettendole di ricominciare a leccargli la mano.

Julian scosse la testa sbuffando «Potrà meravigliarti, ma a parte un fratello cretino Sarah sta benissimo. Che tu ci creda o meno la mia cuginetta è tosta, non si lascia abbattere da nulla» socchiuse gli occhi in un’espressione scrutatrice e sospirò «Contrairement à toi, direi»

Demian inclinò il capo e si morse ancora la guancia, per seppellire l’imbarazzo. Si rendeva conto di non avere un bell’aspetto in quel preciso istante, si era curato poco.

Succedeva sempre così, era un istinto che non poteva combattere, quando creava pensava solo a creare, a dipanare quel filo di pensiero ingarbugliato per cercare di arrivare al bandolo, bandolo che non afferrava mai. Ed infatti, come a punirlo, ogni sua opera era incompleta, vuota, nonostante vivesse solo per quel momento, l’attimo dell’ultima pennellata, dell’ultimo sguardo ad un lavoro finito.

Non si faceva la doccia da qualche giorno, aveva dormito male, mangiato meno e fumato troppo. Non sapeva come giustificare quella sua condizione da rifiuto.

«Ho avuto da fare»

Posò a terra Lala, che non aveva smesso un solo istante di muoversi, e subito la cagnolina corse a rosicchiare il lenzuolo. Gli strappò un sorriso intenerito, tutto di lei era tenero e da coccolare. Jules aveva la fronte corrucciata, una piccola ruga si stava scavando fra le sue sopracciglia, stava rimuginando sul senso delle sue parole e Demian non se ne meravigliò: se c’era qualcuno nella sua vita che non prendeva mai per buona una sua affermazione ma ne ricercava sempre un senso nascosto, come un messaggio in codice, quel qualcuno era suo cugino.

«È tornata?» la ruga si appianò all’istante e il volto di Julian si aprì un sorriso entusiasta che lo imbarazzò, se possibile, più di tutta la conversazione cuore a cuore appena avvenuta.

«Oui» mormorò, senza distogliere la propria attenzione da Lalami.

«Mon dieu, ti è tornata l’ispirazione finalmente, dopo mesi di facce lunghe neanche t’avessero ammazzato il cane, e il massimo che sai fare è quella smorfia e dirmi questo stupido “oui”?»

Julian si lasciò andare ad un’energica manata d’incoraggiamento amichevole fin troppo sentita sulla sua spalla, manata che riuscì perfino a farlo vacillare sui propri piedi. Demian si passò la mano sul collo, a scompigliare i capelli già di per loro arruffati in un groviglio di lana bianca, mentre cercava di trovare le parole e di domare il proprio imbarazzo. Era vero che da mesi aveva sofferto una crisi da tela bianca che l’aveva abbattuto fino alla depressione: non riuscire a dipingere era per lui come non riuscire ad urlare, a cantare, a piangere, una frustrazione costante e un dolore sordo che lo faceva sentire impotente e inutile, ma avrebbe preferito riuscire a tenere per sé quegli stati d’animo da donna in fase premestruale, e che fosse stato tanto evidente persino ai suoi parenti lo poneva in uno strana e immotivata condizione di mortificazione.

Julian, troppo entusiasta per lui per rendersi conto della vergogna in cui stava sguazzando, riprese «Come minimo ora devi farmi vedere che cosa sei riuscito a tirare fuori»

Demian sussultò e finalmente sollevò il volto per guardare in viso il cugino, aveva gli occhi grandi dal panico. Jul non se lo lasciò sfuggire e arricciò ancora le sopracciglia, in un moto di perplessità.

«Tutto bene?»

Il momento peggiore per lui era sempre quello delle spiegazioni, e sulle tele conservate nell’altra stanza sapeva di doverne dare molte, e non le conosceva nemmeno con certezza. Si sentiva in difetto se considerava che non gli era più riuscito di fare neanche uno schizzo a carbone degno di nota per mesi e poi, semplicemente, era bastato un incontro puramente casuale e anonimo per portargli una ventata d’ispirazione sbocciata in maniera imprevista e morbosa. Piuttosto che ammettere la vera ragione di quel momento creativo, avrebbe preferito poter tornare allo stadio di monotona apatia e di sentimenti inespressi precedente quei suoi sogni ricorrenti.

Lo sapeva perfettamente, che Jules non gli avrebbe più dato tregua se avesse visto i suoi disegni.

«Ehi Dami? Ci sei?»  la mano di Julian sventolò insistentemente a pochi centimetri dal suo naso. La scacciò con un gesto secco del braccio «Quanto sai essere noioso. Sì, ci sono. No. Non ho intenzione di farti vedere nulla»

Il suo migliore amico abbozzò un leggero sorriso che doveva essere di comprensione, ma che nascondeva una finta condiscendenza che Demian conosceva fin troppo bene. Nonostante lo sapesse, non riuscì comunque a precederlo: con una rapida svolta Julian corse fuori dalla stanza e attraversò sbandando il corridoio. Quasi sbattè contro la porta di quella che un tempo era stata la lavanderia di casa e che ora era diventata il suo personale atelier. Riuscì a raggiungerlo e ad afferrargli il braccio per strattonarlo poi bruscamente, solo che ormai era troppo tardi, il cugino si era già irrigidito davanti all’ultima tela abbandonata sul cavalletto, e si guardava attorno sbigottito.

La pupilla sembrava mangiare il verde dorato dei suoi occhi grandi, così simili a quelli di suo padre e distanti dal taglio obliquo ed esotico di Claire.

Demian si sentì colto in flagrante, abbandonò stancamente le braccia lungo i fianchi e chinò un poco le spalle, come per prepararsi istintivamente ad incassare i commenti che sarebbero seguiti a quell’analisi indesiderata.

Sul muro, fissati con delle puntine, e appesi ad asciugare con delle pinze ad un filo, decine di fogli facevano sfoggio di un unico, ricorrente soggetto.

E il soggetto era quella ragazza sconosciuta incontrata più nel mondo onirico che nella vita vera.

Si stropicciò il viso e rosicchiò la guancia nel suo abituale gesto di nervosismo, alla ricerca delle parole giuste che spiegassero un’ossessione che sfuggiva a lui stesso. Era tormentato dalla presenza soverchiante di quella ragazza, c’era qualcosa in lei, nella sfumatura non colta dei suoi occhi, nei movimenti infantili e nella piega aggraziata del suo capo in una muta confusione, qualcosa che razionalmente non riusciva a identificare, ma che il suo inconscio doveva aver riconosciuto. Una sfumatura di nostalgico forse, un senso di appartenenza, come se solo guardandola avesse potuto sapere in un istante che loro erano della medesima sostanza, un’essenza condivisa nata dalla stessa fonte. E non importava rivederla, non era nei suoi interessi conoscerla, semplicemente l’aveva riconosciuta come sua eguale ed era rimasto affascinato dalla sua bellezza ingenua e inconsapevole.

«Non ha gli occhi» constatò Julian, parlando dopo qualche minuto di silenziosa contemplazione.

«No, infatti»

«Io te lo dico, è un po’ inquietante»

Dem sollevò l’angolo destro della bocca in un cenno divertito, per il tono petulante che Julian aveva usato e per quel suo familiare quanto terribile vizio di affermare una sua personale verità con un “io te lo dico”. Si concesse una vanitosa e auto celebrativa occhiata a tutti i propri lavori, con un sottile compiacimento per l’uso dei colori ad olio ed una punta di indisposizione nel realizzare, ancora, che mancava qualcosa alle sue tele, qualcosa di essenziale.

L’incapacità che sentiva di afferrare l’essenziale era solo un’altra manifestazione dell’inettitudine che lo caratterizzava e che proprio non riusciva a combattere. In quasi tutte le opere, la ragazza era rappresentata da lontano, sottile come un giunco, appoggiata con delicatezza ad un albero o magari di schiena, con quella massa di ricci indistinta disciolta sulle spalle. Era questo che mancava, il suo viso, era questa l’assenza principale.

Si conosceva abbastanza da sapere che, finché non fosse riuscito a raffigurarla per come era davvero, disciogliendo nei colori l’impressione onesta di quello che gli aveva lasciato addosso, non si sarebbe mai liberato di quell’asfissiante momento di sfogo artistico.

Jules tossicchiò con fare forzato «Allora sulla ragazza ci ho visto giusto, eh?» ammiccò, dandogli una leggera gomitata sul braccio.

Demian si ritrovò ad alzare gli occhi al soffitto, esasperato a prescindere «No. Sei completamente fuori strada»

Suo cugino si accigliò nuovamente, e questa volta accompagnò il gesto con un arricciamento grottesco del naso. Dem avrebbe solo voluto essere inghiottito dal pavimento, per non dover dire chiaramente che, in qualche modo, aveva assunto l’atteggiamento di uno psicopatico, potenziale stalker.

«Non è la mia ragazza. Non la conosco. Non ci ho mai parlato»

Maledì la propria scarsa capacità di eloquenza e il sorrisetto provocatorio dell’amico. 

«Beh, da questi non si direbbe! Sei diventato uno stalker cuginetto mio?»

«No!» urlò subito.

Non riuscì a darsi un contegno e cadde dritto nella provocazione di Jules, per questo si maledì di nuovo all’istante. Per quanto non fosse solito alla sua persona, stavolta si ritrovò ad arrossire, come colto in fallo, e d’altronde era tremendamente facile con la sua carnagione, ancora più facile se le frecciatine ricevute erano perfettamente in linea con i suoi stessi pensieri.

«Senti, putain, è bella va bene? È un buon modello di base. Niente di più e niente di meno!»

Jul scoppiò in una fragorosa risata che lo irritò.

«Quindi è solo una musa ammirata da lontano?»

«Solo intravista» sibilò a denti stretti.
Il cugino lo soppesò un istante, facendo scorrere le pupille attente dalle dita dei piedi scalzi alla punta dei capelli spettinati, poi gli cinse a tradimento il collo, trascinandolo fuori dalla stanza.

«Fratellino mio, tu hai seriamente bisogno di una ragazza!»

Dem lottò per liberarsi da quella stretta e quando non ci riuscì si ritrovò a sbuffare, esasperato e imbronciato come un bambino.

Con tutto l’affetto possibile, avrebbe voluto restare solo, non di certo in compagnia di Jules, non in quel momento. L’immagine del sogno era labile e i contorni della sua memoria iniziavano già a slabbrarsi come bordi sdruciti di una tovaglia senza orlo. L’intreccio si dissolveva e così il ricordo, e lui non aveva avuto ancora il tempo di acciuffarlo per fermarlo nel tempo e rendere eterno nella sua memoria quell’incontro onirico - la piega di quel collo morbido e candido, sottile, la voluttuosità di quei riccioli, e il sorriso, quel sorriso da Esmeralda.

Era triste sentirlo scivolare via, avrebbe voluto dipingerla ad arcobaleno, quel mattino, come se il corpo di lei fosse stato un prisma di luce dalle mille facce che rimandava tutti i colori insieme, perché quella notte la sensazione che gli era rimasta addosso, viscosa e molle, indefinita, non aveva un solo colore e non era reale, non era terrena, era una sensazione sospesa e languida, indolente come un gatto disteso a prendere il sole.

Non aveva colore, aveva solo luce.

Quella ragazza sapeva di luce, forse ne aveva anche la consistenza e l’odore, quel profumo di terra calda e aria rarefatta, quella sensazione di bruciore sulla pelle gradevole e soffocante insieme. Senza che se ne accorgesse il pensiero era ancora scivolato su di lei e si stava domandando, per la millesima volta, perché quella sconosciuta si trovasse nel cortile dell’ospedale quel giorno e cosa stesse facendo e per quale ragione. Gli piaceva, a volte, idealizzare il tutto e rivedere quei ricordi con le tinte di un quadro antico, rinascimentale, toni vividi e ombre nette e taglienti come lame, a plasmare figure corpose e solide simili a statue. Un’immagine sacra dove lei quasi lo metteva in soggezione, dove ogni gesto era poesia e aveva qualcosa di nascosto, che gli sfuggiva, ma che dava profondità a quel momento sopra ad ogni altro. Una verità celata a lui preclusa ma che, immaginava, lei potesse vedere e sentire, come se fosse Lachesi.

Allora tutti quei colori e quella luce assumevano un senso arcano e lo rasserenavano.

Lalami, nel frattempo, li aveva seguiti scodinzolando senza togliergli gli occhietti vispi di dosso, e aveva cercato di richiamare la sua attenzione, per ricevere anche solo una carezza. La notò e gli venne da ridere «Cosa me ne faccio di una ragazza? Io ho Lala, ricordi?»

Lala lo osservava davvero con la tenerezza che si riserva ad un amante, innamorata persa, e Demian la adorava per questo, la cagnolina era l’unica intima compagnia che si era concesso da quando Sarah era andata a vivere da sua zia e sua madre faceva avanti e indietro dall’ospedale. Per questo aveva sviluppato una dipendenza assurda e irragionevole verso l’affetto incondizionato che Lalami gli dimostrava ogni giorno.

«Sei un caso perso. Hai quindici anni: i tuoi ormoni si può sapere dove cazzo sono?»

Arrivati in sala Dem si staccò da lui, ridendo e scuotendo insieme il capo. Si trovava sempre senza parole davanti alle sue affermazioni troppo indiscrete.

«Almeno dimmi che non sei più vergine! Devi rispettare le tradizioni di famiglia!» continuò Jules imperterrito, ignorando il suo palpabile imbarazzo, magari non visibile dalle sue espressioni ma certamente percepibile nei gesti.

«Non è una tradizione di famiglia, ma una tua tradizione» gli fece notare dandogli le spalle per chinarsi sulla televisione e accenderla insieme alla Playstation «E solo perché eri un puttaniere!» specificò, nella speranza di fargli tagliare il discorso.

«Non puoi capire. Io ero il tuo modello, ero responsabile della tua istruzione! È stato un grande peso per me sapere di essere il tuo maestro»

Dem scosse con rassegnazione la testa: speranza vana.

«Risparmiami le tue stronzate di prima mattina»
Gli passò un joystick e Jules lo prese al volo.
«È quasi mezzogiorno Dami. Capisco che il mondo reale ti va stretto, ma non è proprio “prima mattina”»

Allora Demian si raddrizzò e scrollò le spalle con noncuranza «Non è che mi cambi granché. Fifa ti va bene?»
Era solo di un torneo alla Play di cui aveva bisogno, per distrarsi in maniera sana, una volta tanto, senza fare sciocchezze. Questo era ciò che gli suggeriva una vocina nella sua testa, una petulante, fastidiosa voce che Demian associava al suo latente spirito di sopravvivenza che cercava, talvolta, di farsi sentire.

Di cose sciocche e senza senso ne aveva fatte fin troppe nell’ultimo periodo e ora che Julian era tornato, forse poteva concedersi una tregua e ricominciare a respirare invece che cercare di soffocarsi da solo.

«Ovvio» rispose spiccio Jules.

Dem si lasciò andare in modo poco elegante accanto al cugino e tacque in attesa che il gioco si caricasse, per godersi quella piccola parentesi e ricollocarla finalmente nella sua quotidianità fin troppo scossa. Gli era mancato davvero, trascorrere la domenica pomeriggio con Julian, a bere Ceres perché l’amico apprezzava solo la birra doppio malto, a fumare e giocare tutto il tempo a calcio. Era stato solo un mese, ma gli era parso di più, forse era stato solo il mese più difficile.

Demian iniziava a sentirsi senza speranza e questo gli faceva paura, forse per questo era stato il più difficile.

Probabilmente maman non sarebbe tornata a casa.

Per questo era stato difficile.

Come se avesse letto l’improvviso incresparsi dei suoi pensieri, Lala lo chiamò grattando insistente la sua gamba con la zampetta morbida. La sollevò e la poggiò delicatamente sul divano accanto a lui, permettendo che gli leccasse la guancia quando la piccola palla di pelo si sporse con la lingua a penzoloni verso il suo volto.

La mollezza viscida della sua linguetta gli faceva il solletico e si ritrovò a ridacchiare.

«È la cosa più schifosa che io abbia mai visto!» non perse occasione di apostrofarlo Jul, con una smorfia disgustata. E poi, ancora «L’hai viziata troppo»

Dem lo incenerì con una delle sue occhiate più ostili «La mia Lala può fare tutto quello che vuole!» soffiò gelido.

«Sì, certo. Tu e quel cane avete un rapporto malsano, io te lo dico! Ti sbaciucchi lei quando sei depresso?»

Una cosa di Julian che non gli era mancata era la sua sfacciataggine e sì, anche quella capacità rara di dire sempre la cosa sbagliata e di fare osservazioni demenziali gratuite.

«Senti, scegli la tua squadra e non rompermi»

Jules sorrise condiscendente, inclinando il capo come un cucciolo perplesso prima di sollevare le mani in un gesto di resa «Ok, ok. Concetto afferrato, non toccare Lalami. Piuttosto, ricordami di darti il regalo che ti ho portato dopo, ti piacerà un sacco»

Mugugnò un “Ok” scarsamente interessato, tanto lo sapeva che il cugino non si sarebbe offeso per la sua mancanza di entusiasmo. Aveva un rapporto discutibile con i regali, lo mettevano in imbarazzo e allora cercava di tenersi sul leggero per non pensarci.

«Ah, Dami» riprese ancora quello, dopo un altro istante di silenzio «Prima che inizi la partita…» esitò, e a sentirlo esitare Demian mise in pausa il gioco per alzare finalmente lo sguardo assonnato su di lui, in un barlume di lucidità più consapevole: Julian era privo di tatto, senza speranza, e nei suoi confronti anche una grande carogna. Era insolito vederlo trattenersi, come alla ricerca delle parole giuste, quando in genere sparava a zero.

«Quella ragazza, perché non aveva mai gli occhi?»

Deglutì rumorosamente un groppo di saliva che minacciava di soffocarlo e si morse l’interno della guancia e poi succhiò il labbro inferiore, in una concatenazione di gesti abituali che gli davano il tempo di raccogliere i pensieri.

Anche il ricordo di quella notte era perso, di nuovo, come ogni giorno negli ultimi sette giorni. Eppure, Demian ci provava davvero, era sicuro di riuscire a distinguerli, nei suoi sogni, quegli occhi da gitana incantatrice.

Era sicuro di riuscire a vederne il colore e quella sfumatura sconosciuta che, in quel parcheggio, non era riuscito a mettere a fuoco abbastanza velocemente prima che lei se ne andasse. Doveva essere quello, il buco nero d’incompletezza e frustrazione per cui non riusciva ad essere soddisfatto e non riusciva a smettere di provare ad afferrare l’essenza di lei.

«Perché non me li ricordo» chiarì a voce bassa, mentre le dita scivolavano nel morbido pelo di Lalami per dargli un contatto con il reale e non farlo perdere nei propri pensieri «Non sono riuscito a vederli, o forse li ho visti, ma non riesco a ricordarli. Credo di sognarli quasi ogni notte, però quando mi sveglio, al mattino, sono già scivolati via e mi resta solo l’impressione di quello sguardo sulla pelle. Vorrei solo catturarlo, solo per un momento, allora forse tutte quelle immagini avrebbero un senso»




ANGOLO AUTRICE

 

Questo è un capitolo insolito, almeno è l’impressione che ne ho ricavato rileggendolo ancora e ancora, per essere sicura di non aver creato una situazione eccessivamente onirica, eppure temo sia proprio quello che è successo e, come sempre, sconfitta dai miei stessi impedimenti getto la spugna!

L’ispirazione, che sia nello scritto come nell’arte figurativa, è sempre difficile da afferrare, va e viene e a volte sono proprio le sciocchezze più impensabili a far nascere un germoglio di creatività, uno sguardo, un movimento, una frase o una situazione.

Personalmente, mi capita di far trascorrere quasi un anno tra un disegno e l’altro, e non è che nel mentre non scarabocchi, ma un lavoro vero, intriso di tutta me stessa e della mia fatica e della mia passione, quello mi capita così raramente da farmi disperare.

Il disegno è il mio grande amore non corrisposto che si fa desiderare, e per questo ho scelto d’impostare questo capitolo in questo modo, potrà sembrare assurdo ed ognuno effettivamente percepisce i periodi di vuoto creativo a modo proprio, ma in questo io e Dami siamo simili (ovviamente lui è più talentuoso, ma non vale visto che le sue doti artistiche sono ispirate a quell’idiota di mio fratello e beh, la statua della tigre scuoiata fatta durante il suo secondo anno ancora mi fissa con baldanza e ho passato giornate intere a farne bozzetti, senza farmi vedere per non omaggiarlo troppo!) e volevo che almeno qualcosa di me lo avesse!

 

Per esempio, e lo condivido così, anche se non vi interessa, questa storia è nata in una giornata d’attesa in ospedale. Ero così esasperata che ero scesa a prendermi una cioccolata alle macchinette insieme a mia cugina, ma ovviamente quando avevo ritirato il bicchiere non c’era la paletta, ed ero tanto irritabile da averci fatto un monologo sopra! Poi, tornata in camera, avevo preso un giornale sul tavolino e avevo letto la notizia di un gruppo di ragazzi arrestati per spaccio.

 

Ecco, adesso sapere da dove nasce il mio Dami!

Oggi sono in vena di chiacchere a vuoto, ma tra qualche giorno sarà l’anniversario di quel giorno, ed io sono una nostalgica, è come se parlassi del mio bambino troppo cresciuto e mostrassi le foto della sua infanzia alle vicine di casa annoiate che non sanno come sottrarsi al monologo!

 

Mi ritiro e spoilero (sì, sono un’immensa, carognosa spoileratrice!) dicendovi che finalmente, nel prossimo capitolo la ragazza avrà un nome, ché forse è anche il caso di iniziare a conoscerla!

 

 

Ps: finalmente, evviva Julian!

 

  
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