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Autore: Adeia Di Elferas    29/01/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Voi non riuscirete mai a colpirlo.” disse Gian Antonio Ghetti, con determinazione, rivolgendosi direttamente al Conte Ottaviano e al fratello minore, Cesare Riario: “La farò finita io, se volete, ve lo ammazzo.”

Nell'angusta stanzetta messa a disposizione da Domenico Ghetti, i due figli della Contessa stavano ascoltando le macchinazioni di alcuni degli uomini su cui il loro progetto aveva fatto più presa.

Ottaviano aveva volutamente ricordato a tutti l'episodio dello schiaffo che il Barone Feo gli aveva rifilato senza dover mai scontare una pena per la sua azione sconsiderata e aveva rincarato la dose aggiungendo con voce malferma: “Se solo avessi avuto con me una spada, quella volta, l'avrei ucciso là dov'era...”

Tanto era bastato ai congiurati per rinverdire il loro proposito di uccidere in fretta Giacomo Feo.

“Dobbiamo approfittare del momento.” concordò Bartolo Marcobelli, appoggiandosi al bordo del piccolo camino spento: “Adesso che Tommaso Feo è via. Finché era a Forlì, sarebbe stato troppo pericoloso colpirgli il fratello.”

“Tommaso Feo è un uomo d'onore – fece notare Bernardino Ghetti, asciugandosi la fronte fradicia di sudore per il gran caldo che si era accumulato nel piccolo ambiente dalle finestre sbarrate – anche lui è fedele alla nostra signora, avrebbe capito che lo si faceva solo per la Contessa, per liberarla da un parassita che la minaccia...”

“Forse, ma forse no.” ribatté Bartolo: “Il sangue è un legame indissolubile, caro Bernardino. Se anche lo sapeste colpevole di una serie di gravi delitti, lascereste uno dei vostri fratelli nelle mani dei suoi assassini impunemente?”

Ghetti chinò il capo e ammise che il Marcobelli aveva ragione.

“Potremmo colpirlo in qualunque momento, se ci pensate.” interloquì Bartolomeo Orcioli, massaggiandosi il mento: “Alla rocca, perfino, o durante un Consiglio a palazzo.”

“No.” disse subito Ottaviano, che vedeva la grande falla in quella proposta.

Gli altri non sapevano e non dovevano capire che la Contessa non era d'accordo con quel piano, anzi, che non ne immaginava nemmeno l'esistenza, quindi non potevano comprendere l'importanza di pescare il Feo da solo, o comunque abbastanza lontano dalla sua amante da potersi ritenere indifeso. Il Conte conosceva a sufficienza sua madre da sapere che, per uno come quello stalliere, non ci avrebbe pensato un attimo a gettarsi tra il suo corpo e la lama del sicario pur di salvargli la vita.

In altri momenti, forse, Ottaviano avrebbe preso in considerazione – come in effetti aveva fatto in passato – l'idea di far uccidere anche lei. Adesso, però, quello che voleva più di ogni altra cosa era unicamente farla soffrire.

“Deve essere solo o lontano da lei, altrimenti potrebbe capire quello che sta per accadere – mentì il Conte, cercando una versione che avesse almeno un minimo di credibilità – e allora riuscirebbe a scappare e scatenerebbe suo fratello e altri contro mia madre.”

Per un momento gli altri restarono perplessi, ma conclusero che Ottaviano doveva conoscerlo meglio di tutti loro messi insieme, dato che viveva sotto il suo stesso tetto da anni.

“Lui va sempre a Messa.” fece a un certo punto Filippo Delle Selle, che se n'era stato zitto fino a quel momento: “E la Contessa non lo segue quasi mai, soprattutto quando va in Duomo.”

“Potrebbe essere un'idea.” annuì Bartolo Marcobelli.

“Io un cristiano non lo ammazzo, in chiesa.” si oppose Gian Antonio Ghetti, che si sentiva già la mano designata.

“Avremmo l'appoggio di Pavagliotta e Don Domenico...” soppesò Bartolomeo Orcioli.

“Anche il fratello del Magnifico di Firenze era stato ucciso in Chiesa e guardate com'è finita.” si oppose di nuovo Gian Antonio: “Se volete fare un tentativo, non contate su di me. Se c'è da tagliargli la gola, io lo faccio, ma lontano da un luogo sacro come la casa del Signore.”

Cesare guardava atterrito gli uomini che lo circondavano. Già c'erano momenti in cui il senso di colpa per quello che aveva accettato di fare lo schiacciava, pensare che il Barone Feo sarebbe stato ucciso in chiesa, poi, lo faceva quasi svenire.

“No, in una chiesa no.” si oppose il ragazzino, passandosi una mano sulla tonsura, quasi a ricordare a tutti che lui stesso in quella sede rappresentava il Signore e le sue leggi: “Trovate un altro posto.”

Orcioli batté le mani contro le cosce e concluse: “E sia. Cercheremo un altro modo.”

Bernardino Ghetti, pensieroso accanto a una delle finestre chiuse, si trovò a valutare una serie di opzioni e alla fine capì di aver trovato una buona soluzione: “Vostra madre – disse ai due figli della Contessa – esce spesso a caccia, vero? E a volte lui la segue...”

“Sì, è così.” confermò Ottaviano, accigliandosi.

“Fate in modo che a volte cominci a prendere con lei anche voi e magari vostra sorella o mia moglie.” disse l'uomo: “Così il Barone si rilasserà, la vedrà dopo un po' come una cosa abituale.”

Il Conte continuava a fissare Ghetti, senza capire quale fosse il punto della sua spiegazione.

“Un giorno, quando ormai lui sarà rilassato e non vedrà più queste uscite come qualcosa di strano, farete in modo che si stacchi un po' dal resto della comitiva, nel tornare in città. E allora lo colpiremo.”

Ottaviano lanciò uno sguardo a Cesare, la cui pelle pallida vibrava appena per la tensione del momento. Alla fine, il giovane Conte annuì e confermò che avrebbe provato a seguire quella strategia.

“Mia madre vi sarà molto grata – fece Ottaviano, mentre il capannello di cospiratori si scioglieva poco a poco, uscendo dalla casa un congiurato per volta, per non dare nell'occhio – quando l'avrete liberata da quell'uomo odioso.”

 

Francesco Gonzaga guardava l'orizzonte, mentre i suoi montavano i padiglioni. Il cielo era grigio e la cappa di umidità che si era concentrata su di loro era quasi insopportabile.

Il Taro, che di solito in quel periodo dell'anno era sempre quasi in secca, si mostrava bello gonfio, anche se non in modo preoccupante.

Gli abitanti di Fornovo che il Marchese aveva incontrato quella mattina gli avevano spiegato che sulle montagne era piovuto e che anche a valle di quando in quando c'erano forti temporali. Per essere il 27 giugno, il clima era decisamente inclemente.

Francesco sentiva l'umidità salirgli fin dentro le ossa e nemmeno la sopratunica spessa che aveva indossato l'aiutava a tenere quella sensazione appiccicosa lontana. Anzi, il tessuto pareva aver bevuto avidamente l'acqua dispersa nell'aria e si era fatto pesante e fastidioso.

“Mio signore – fece uno degli scudieri, raggiungendo il Marchese, che, mani sui fianchi, stava rimirando il campo con occhio attento – il vostro padiglione è pronto.”

L'uomo ringraziò e si affrettò ad andare al riparo. Il vento che si stava alzando non prometteva nulla di buono e in più aveva molte altre cose a cui pensare.

“Fate che Giovan Francesco Sanseverino mi raggiunga il prima possibile.” disse il comandante delle parte veneziana della Lega.

Lo scudiero fece un mezzo inchino e partì di corsa alla ricerca del Sanseverino. Il condottiero si era ricongiunto proprio quel giorno con le truppe del Marchese. All'arrivo dei francesi, certo di non poterli fermare da solo, aveva deciso di ripiegare oltre le montagne e così si era agganciato alla colonna del Gonzaga.

Con le sue truppe, le forze della Lega a Fornovo salivano attorno ai trentamila effettivi. Milano, Venezia e Mantova avevano unito le forze come mai avevano fatto in passato e si stavano apprestando a mortificare il vanaglorioso re di Francia, i cui soldati, a quel che dicevano gli infiltrati, non erano più di diecimila.

Gonzaga non credeva molto a quella stima. Re Carlo aveva saccheggiato e rubato una quantità spropositata di oro e denaro. Di certo aveva almeno trecentomila ducati con cui avrebbe potuto comprare una compagnia di ventura qualsiasi, triplicando a suo piacere il numero dei suoi soldati.

Il Marchese di Mantova si rifiutava di pensare che il rutilante re di Francia sarebbe stato tanto stupido da preferire tenersi i soldi, svendendo allo stesso tempo la sua vita e il suo onore a quel modo.

Giovan Francesco Sanseverino scostò con irruenza la tenda all'ingresso del padiglione e salutò il Gonzaga con una smorfia: “Novità?”

Il Marchese alzò le spalle, la sua tozza figura si era fatta ancora più sgraziata, avvolto com'era nel mantello: “Dicono che i francesi siano a una decina di giorni da qui. Oddio, sarebbero più vicini, ma Carlo ha i suoi tempi.”

“Ha un esercito molto lento, da quando ha cominciato a risalire.” convenne Sanseverino, sedendosi su uno degli sgabelli da campo e allungando le gambe: “Non vuole lasciare l'artiglieria più pesante e viaggia con un carico di oro e preziosi che lo fanno diventare come una lumaca.”

Gonzaga andò al tavolo e si versò un po' di vino, facendo cenno a Sanseverino, che però rifiutò con un gesto infastidito della mano. Prendendo il calice pieno, il Marchese si cercò un altro sgabello e si piazzò davanti a Sanseverino.

“Meglio per noi, no? Abbiamo più tempo per organizzarci.” disse Francesco Gonzaga, sorbendo un sorso.

“Sarà. A me preoccupa il fiume.” sussurrò Sanseverino: “Se dovesse continuare a piovere, il Taro si gonfierà ancora e ancora e a quel punto l'esito della battaglia si farà incerto.”

Il Marchese guardò di sottinsù l'altro e poi concluse: “Non sarà un fiume a sconfiggerci.”

 

“Con i francesi vincitori a Seminara – disse Caterina, infilandosi gli stivali invernali, per quanto si fosse ormai in luglio – la posizione di Ferrandino si è fatta di nuovo critica...”

Giacomo la guardava in silenzio. La notizia appena arrivata di una vittoria fin troppo facile delle truppe di Carlo VIII comandate dall'Aubigny l'aveva indisposta all'istante, rendendola molto nervosa e sfuggente.

Ferrandino d'Aragona e Cordoba avevano cercato invano di spezzare la risalita di re Carlo, ma erano riusciti appena a fiaccarlo, senza riuscire a fermarlo. Avevano solo rallentato la sua cavalcata di un giorno o forse due, ma non avevano nemmeno recuperato parte del bottino di guerra dei soldati d'Oltralpe.

“Se solo avessero aspettato, provando un'azione congiunta con Sanseverino, invece di far di testa loro e lasciarlo solo...” continuò a mezza bocca la Contessa: “Per forza ha dovuto ripiegare, che altro poteva fare? Doveva farsi ammazzare senza motivo?”

Il Barone continuava nel suo mutismo, conscio del fatto che qualsiasi suo commento a riguardo avrebbe fatto scattare la moglie. Aveva provato, nel momento in cui era giunta la missiva alla rocca, a dire la sua e per un momento era stato certo che la moglie gli avrebbe cavato un occhio, tanto si era adirata con lui.

Giacomo trovava avvilente il modo in cui la sua donna se la prendeva con lui solo perché lui non sapeva dimostrarsi acuto e lungimirante quanto altri, ma dall'episodio di Mordano non si era mai più permesso di provare a far valere troppo le sue posizioni.

Così aveva reagito al principio di litigio messo in piedi da Caterina con un certo autocontrollo, lasciandola sfogare e poi chiudendosi nel silenzio più totale.

La donna aveva allora avuto modo di crogiolarsi nella propria inquietudine, senza dover più dar retta alle parole inconcludenti del marito.

Venuta a conoscenza del blocco della Lega a Fornovo, la Contessa aveva deciso di andare a caccia.

Giacomo aveva provato senza successo a offrirsi come accompagnatore, ma Caterina voleva restare da sola, per pensare. Così stava indossando gli abiti da caccia che di solito metteva in autunno e a volte in inverno.

Erano giorni abbastanza freddi, in netto contrasto con le estati roventi a cui si stavano abituando, e il terreno era fangoso e scivoloso.

Il Paradiso era accogliente, tiepido, riparato dal vento freddo che spirava fin dal primo mattino e Giacomo non aveva alcuna intenzione di lasciare il tepore del letto. La moglie non gli aveva mosso nessuna critica, quando lui aveva espresso il desiderio di non badare agli affari di Stato almeno per quel giorno e così il Barone si era sentito subito autorizzato a mettersi in abiti da camera e infilarsi sotto le coperte.

Assicurandosi una volta di più il pugnale sotto le gonne, Caterina cominciò a ragionare sulla situazione in cui verteva la Lega. La scelta di fermarsi a valle degli Appennini poteva dimostrarsi una lama a doppio taglio.

Anche se le truppe milanesi e veneziane potevano contare su Francesco Gonzaga e sulla superiorità numerica, bisognava ricordarsi anche che i francesi avevano Gian Giacomo Trivulzio, che non era certo uno stupido, anzi.

“Torni presto?” domandò Giacomo, quando la moglie fu pronta per uscire.

“Non lo so.” fece lei, sbrigativa: “Devo pensare a molte cose.”

Il Barone avrebbe voluto chiederle almeno un bacio come saluto, ma non osò dire altro, così Caterina lasciò il Paradiso in silenzio, la testa già persa nelle sue congetture.

Una volta nei boschi, la Contessa ripercorse mentalmente tutte le tappe di quella guerra senza senso. Da come era cominciata a come era proseguita, l'invasione dei francesi era stata solo uno sfoggio di forza e codardia ben mescolate.

Mentre si spremeva le meningi per cercare di immaginare l'esito che avrebbe avuto un'eventuale battaglia nei pressi di Fornovo, Caterina avvistò tra le foglie bagnate dalla recente pioggia un guizzo familiare.

Nascondendosi dietro a un cespuglio, la donna rimase in osservazione e poi lo vide di nuovo. Era un daino molto giovane, poco più che un cucciolo. Apparentemente era da solo. Era strano vedere una simile bestia in solitudine, soprattutto in quel punto del bosco.

Distratta dalle immagini che la sua mente creava nel pensare alla battaglia, Caterina tese comunque la corda dell'arco, facendo attenzione a non fare troppo rumore.

Non era sottovento, quindi l'animale non si accorse di lei. Prese la mira e attese un istante. Tra un respiro e l'altro avvertì la corda tra le dita come quella che di fatto era una condanna a morte.

Espirando con forza, abbassò l'arma e tolse tensione alla corda. Quel rumore repentino spaventò il giovane daino, che scappò via a grandi falcate.

Sorprendendosi per prima per la sua condotta, Caterina ricominciò a camminare, chiedendosi cosa mai l'avesse fermata. Per quanto cercasse una risposta, non riusciva a trovarne una accettabile.

Dopo qualche tempo, forse un paio d'ore, finalmente ritrovò la sua solita attitudine alla caccia, ma non ebbe molta fortuna nell'incontrare prede degne di nota.

Abbatté qualche volatile pregiato e centrò alla perfezione un coniglio, ma nulla di più. Legò i suoi miseri trofei alla sella del cavallo e, la mente appena più rischiarata, tornò a in città.

 

Bianca Landriani era appena rientrata nel palazzo che condivideva con il marito, dopo un lungo pomeriggio passato alla rocca a parlare con sua madre Lucrezia.

La donna, che ormai aveva fatto della rocca di Imola una dimora decisamente incantevole, aveva avuto il suo bel da fare a rassicurare la figlia, dissipando in parte tutte le sue pene.

Bianca, infatti, si era rivolta alla madre per metterla a parte una volta di più delle sue paure. Anche se, da quando lei e Tommaso erano tornati a Imola, il marito aveva ricominciato a dedicarsi a lei con una certa assiduità, la giovane andava sempre più convincendosi di non poter generare figli.

Lucrezia aveva insistito molto sul fatto che, anche se fosse stato vero, l'infertilità non l'avrebbe resa una donna inferiore alle altre e che Tommaso l'avrebbe amata comunque.

Bianca aveva ribattuto dicendo che il marito già non nutriva per lei un amore travolgente, ma appena tiepido, quindi se in più si fosse dimostrata una volta per tutte incapace di dargli un erede, allora sarebbe stata la fine della loro relazione.

“Tommaso non ti ripudierebbe mai!” aveva controbattuto Lucrezia, oltraggiata dinnanzi a una simile ipotesi.

Il Governatore di Imola era un uomo integerrimo e la suocera aveva imparato ad apprezzarlo, per quanto non riuscisse a comprendere la sua misuratezza continua e imperscrutabile.

“Non dico che lo farebbe...” aveva risposto Bianca, convinta quanto la madre che Tommaso mai avrebbe osato fare una cosa simile: “Ma non sopporterei di vivere con lui come con un fratello.”

Lucrezia aveva compreso l'apprensione della figlia, ma non aveva saputo fare altro se non consigliarle di nuovo i ricostituenti messi a punto da Caterina: “Se sarai più forte – le aveva detto, dandole per l'ennesima volta uno dei vasetti arrivati da Forlì – vedrai che riuscirai ad avere un figlio robusto e in salute.”

Così Bianca era tornata a casa con il ricostituente e la sensazione che sua madre non volesse dirle la verità, ovvero che nemmeno lei la credeva capace di generare.

Trovò Tommaso nel suo studio, intento a rileggere delle carte che probabilmente riguardavano l'amministrazione della città o dei resoconti dalle campagne.

Togliendosi il mantello, che in quei giorni di inizio luglio era indispensabile come in autunno inoltrato, Bianca si andò a mettere accanto alla scrivania e lanciò uno sguardo alle pagine ingiallite che l'uomo stava leggendo. Aveva ragione, erano conti e calcoli. Numeri piccolini e disordinati messi una riga dopo l'altra, come in un alfabeto segreto noto solo ai contabili più esperti.

“Tutto bene?” chiese la giovane moglie al marito.

Tommaso sollevò appena lo sguardo dalle sue carte e rispose: “Per essere tempo di guerra, direi di sì, anche se presto il grano sarà scarso anche qui a Imola.”

Bianca intuì dal tono dell'uomo che la sua mente era concentrata solo sugli affari. Tuttavia, come faceva spesso da quando erano di nuovo soli a Imola, tentò di indurre in distrazione il suo integerrimo sposo.

Senza far caso all'espressione scocciata di Tommaso, Bianca gli si sedette di prepotenza sulle gambe, interponendosi tra lui e la scrivania.

Tommaso sospirò, mentre la moglie iniziava a sciogliergli i lacci del colletto della camicia. Se nei primi anni del loro matrimonio l'uomo aveva adempiuto ai propri doveri coniugali più per far felice la moglie, che non aveva mai fatto mistero di desiderarlo, nelle ultime settimane aveva riscoperto il valore di Bianca non solo come compagna di vita, ma anche come donna.

Sapeva che era ancora tormentata dal desiderio di dargli un figlio e, se il bambino fosse arrivato, tanto meglio, ma Tommaso non era più così desideroso di avere un erede. Anche se solo qualche mese prima non lo avrebbe creduto possibile, ormai era arrivato al punto in cui gli bastava avere Bianca.

Afferrandola con forza per i fianchi, scostò la scrivania per avere lo spazio per alzarsi e, tenendo in braccio la sua sposa, Tommaso uscì dallo studio e raggiunse la loro camera da letto, che era a poche porte di distanza.

Lasciò cadere Bianca sulle lenzuola ancora perfettamente risvoltate e, riuscendo finalmente a liberare la mente dai numeri e dai resoconti infausti giunti dalle campagne, si abbandonò tra le braccia della moglie che, felice per l'entusiasmo dimostrato dal marito, si permise di sperare nelle parole che sua madre le aveva rivolto quella sera proprio mentre stava per lasciare la rocca: “Lui in fondo ormai ti ama, bambina mia, solo che fa fatica a dimostrarlo.”

 
   
 
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