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Autore: Menade Danzante    30/01/2017    0 recensioni
[ Post Season 4 ]
Il tempo passa e tutto sembra tornare alla normalità. La vita riprende a muoversi mentre gli avventori del 221B di Baker Street combattono ogni giorno la loro personale battaglia per superare i traumi - evidenti e non - che i fatti di Londra e di Sherrinford hanno inevitabilmente causato. Traumi che verranno messi a nudo da un cliente molto diverso dal solito.
Dal testo: "La vita era stata più forte della morte e della disperazione, e la quotidianità aveva ripreso a funzionare. Una quotidianità fatta di casi da risolvere, pannolini da cambiare, passeggiate con i vecchi amici e tazze di tè."
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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L'insolito cliente






John Watson non si era accorto di come Sherlock Holmes lo avesse guardato mentre, nel salotto del 221B di Baker Street, egli intratteneva un accorato dialogo con sua moglie. Dialogo che, a dirla tutta, poteva essere definito come monologo, ma il dottore evitava di passare in rassegna tutte le stranezze comunicative che avevano coinvolto il suo mese di apatia dopo la morte di Mary.

In quell'occasione, il soldato era stato così preso dalla sua confessione, dal suo senso di colpa, dal dolore per non essere stato l'uomo perfetto che Mary aveva creduto che fosse, da non vedere altro che una donna inesistente scandalizzata nell'animo e nel volto, che non esprimeva più emozioni di quelle immaginate da lui. John aveva avuto la decenza di non farsi perdonare dal fantasma di sua moglie, conscio, in qualche modo, di non essere di fronte ad una persona reale. Ma l'improvvisa egoità l'aveva distolto da ogni altro spiraglio di verità presente intorno a lui. Sherlock, sulla sua poltrona, scosso e incapace di sfruttare al meglio la natura umana, non era esistito più per qualche attimo, il tempo per Watson di arrivare alla conclusione di non essere altro che imperfetto, mera figura inventata non rispondente allo stato dei fatti. Non aveva visto gli occhi acquosi e quasi spaventati dell'amico detective. Non aveva colto l'angoscia e il dolore dell'altro, preoccupato come non mai nel vedere il fedele compagno che intratteneva una sentita conversazione con il muro di fronte. Aveva riacquistato coscienza di Sherlock soltanto quando aveva vagamente sentito il rumore di una tazza adagiata su un piano di legno e, infine, quando era stato avvolto in un abbraccio impacciato ma non per questo meno accogliente. Solo allora la sua mente aveva registrato di nuovo la presenza di una seconda persona tangibile nella stanza.

Sherlock era consapevole di aver potuto osservare la scena senza disturbare, senza essere d'intralcio all'autocommiserazione di John. Questo aveva dato al consulente investigativo un netto vantaggio su Watson che, ignaro di quella situazione, non avrebbe mai immaginato di vederla ripetersi.

Fu con questa deduzione che Sherlock Holmes cominciò a studiare silenziosamente il suo amico ogni volta che si trovavano nella stessa stanza, ogni volta che John non lo guardava, si dedicava ad altro, o quando credeva di non essere visto.

Le prime diagnosi furono negative. Il moro aveva notato più volte che lo sguardo del compagno si posava su superfici apparentemente prive di interesse, e che i suoi occhi fissavano qualcosa ad altezza d'uomo. Duravano poco, non erano visioni prolungate, ma in quei momenti la testa del dottore scattava verso l'alto e, subito dopo, si poteva scorgere un accenno di delusione sul suo viso. Breve, ma intensa, e mentre altri come Greg o Molly potevano provare semplice pietà nei confronti di un essere umano messo a dura prova dalla perdita di una persona tanto importante, Sherlock sapeva di cosa si trattasse davvero. Non era la perdita il fattore preoccupante, ma la presenza, e Holmes non aveva idea di come scongiurare il pericolo di vedere John bloccato nell'illusione di avere ancora Mary accanto.

«Mi vede per davvero» commentò, un giorno, la signora Watson, appoggiata allo stipite in mogano dell'androne.

Sherlock, gli occhi fissi sul biondo, annuì nell'intimità del suo palazzo mentale. Strinse persino i pugni, incapace di prendere una decisione al riguardo. Ogni volta era combattuto tra l'idea di intervenire, di fermare sul nascere quello scambio impossibile di sguardi e sorrisi e far concentrare John sul presente, su ciò che poteva essere osservato veramente, e, d'altro canto, non pensava di poter essere davvero d'aiuto, soprattutto nei momenti in cui l'uomo stringeva tra le braccia la piccola Rosie con la quale scopriva il mondo – e ritrovava sua moglie.

«È il suo modo di elaborare l'accaduto» sentenziò dopo un silenzio troppo lungo, e questo fece ridacchiare Mary.

«Oh, Sherlock! Stai diventando lento»

L'uomo quasi non sentì la canzonatura della proiezione della donna, troppo attento ai movimenti di John. Rosie aveva fatto un versetto senza senso e questo aveva colpito suo padre, come qualsiasi altra cosa che la bambina facesse. Tuttavia, prima di voltarsi verso Sherlock per fargli notare il piccolo prodigio, i suoi occhi si erano posati sulla finestra, radiosi, accompagnati da un sorriso orgoglioso. Il detective non aveva perso tempo a guardare nella stessa direzione, consapevole che non avrebbe visto niente, non lui che aveva Mary nella sua testa.

«È bizzarro che tu sia terrorizzato dalle conseguenze per John e non per le tue» fornì la donna, il sorrisetto provocatorio sempre ben visibile sul suo viso.

«Le mie?» sottolineò Sherlock, regalando contemporaneamente una smorfia divertita a padre e figlia seduti sul tappeto, l'una sulle gambe dell'altro.

«Io sono qui anche per te, stiamo facendo una chiacchierata»

«Non conta» Sherlock scoccò un'occhiata intenerita verso Mary, temendo di aver fatto uscire le parole con troppa foga. «Il palazzo mentale non conta, lo sai. I vivi e i morti qui hanno un posto dove stare. Non ci sono conseguenze per me. Sei stata qui anche prima, non lo ricordi più?»

Il sorriso di Mary divenne più dolce. Ricordava, ricordava bene. Ma c'era qualcosa nei suoi occhi che non smetteva di suggerire a Sherlock la pietà, quella che gli altri riservavano a John. In un certo senso, si sentì sollevato: il suo problema era aver perso un'amica fidata, sincera e bugiarda allo stesso tempo, perfetta e determinata, una delle poche persone che aveva avuto accesso alla sua sfera privata.

Mentre i contorni del palazzo sfumavano, Sherlock poté intravedere meglio la delusione di John. Con una morsa spiacevole a stringergli il cuore, il detective annotò il vago miglioramento nella mente: Mary era sparita anche alla vista dell'amico.

Senza la presunzione di poterla sostituire in toto, l'uomo si alzò per raggiungere il duo, si accomodò a gambe incrociate e chiese implicitamente a John di passargli Rosie: era arrivato il suo turno di giocare con il fagottino urlante.

-

Erano passati sei mesi dalle vicende di Sherrinford. Tutto sembrava essere tornato alla normalità, una normalità apparente che faceva bene a tutti. La vita era stata più forte della morte e della disperazione, e la quotidianità aveva ripreso a funzionare. Una quotidianità fatta di casi da risolvere, pannolini da cambiare, passeggiate con i vecchi amici e tazze di tè.

In John il miglioramento era ormai netto. L'attento studio di Sherlock aveva rilevato che gli occhi del dottore non si posavano più sugli spazi vuoti della stanza dove fosse possibile collocare una persona reale. Quando doveva elogiare le straordinarie capacità di Rosie, adesso, la sua attenzione scivolava subito sulle presenze in carne ed ossa. Di tanto in tanto, lo sguardo di John si posava sul tappeto come se quest'ultimo avesse acquistato all'improvviso le caratteristiche di un codice da decifrare. La discrezione aveva impedito a Sherlock di indagare approfonditamente ciò che passasse nella mente dell'altro, ma poteva immaginare il problema alla perfezione. Quando capitavano questi momenti di impasse, il moro stringeva la spalla di John nella sua mano, sperando che quello fosse sufficiente per dare l'idea di un conforto. Si augurava che l'ex soldato fosse conscio di poter liberamente sfogare il suo malessere con lui, ma questo non accadeva mai.

«Non accetterà di essere salvato» gli rammentava puntualmente Mary nel palazzo mentale, materna e innamorata. Sherlock annuiva: andava bene così.

-

Quella mattina Sherlock era stato svegliato dall'aroma del tè. Non ricordava di aver dato disposizioni alla signora Hudson perché preparasse la colazione – e, onestamente, non credeva che una richiesta del genere gli sarebbe stata accordata con tanta docilità dalla padrona di casa –, perciò dedusse che John fosse nell'abitazione, ma non aveva osato predire la scena che trovò in salotto: la sedia riservata ai clienti era stata posizionata di fronte alle loro poltrone, ma l'appartamento era silenzioso, John non stava intrattenendo una conversazione con nessuno nell'attesa che l'inquilino li raggiungesse, anzi misurava a passi larghi il lato lungo della stanza con evidente agitazione.

«Abbiamo visite?» chiese Sherlock, nonostante sapesse già di dover addurre una risposta negativa alla domanda.

«Più o meno»

Santo cielo. Un nuovo caso assurdo come quello de “Il cliente vuoto”? Possibile? L'istinto non sembrava voler dare credito a quella opzione.

Sherlock annuì, scrutando la mobilia in cerca di indizi. Quando non trovò molte cose degne di nota o che spiegassero il senso della sedia, raggiunse la sua poltrona in pelle e si accomodò, prendendo la tazza di tè. Posò gli occhi su John, ma il suo cervello fu straordinariamente lento – o John assurdamente veloce: non si era ancora bagnato le labbra con il liquido ambrato che la sedia vuota era stata occupata dal dottor Watson.

Come aveva fatto a non arrivarci prima? Era semplicemente ovvio che fosse John il cliente. La sua agitazione, il suo nervosismo, l'urgenza di essere ricevuto che lo aveva spinto a svegliarlo con il tè, il salotto già organizzato per la situazione, come se l'uomo avesse pensato di non essere pronto per architettare la cosa davanti a Sherlock, il portamento militare che assumeva ogni volta che doveva scendere in battaglia contro qualcuno. Un qualcuno che, Holmes lo vedeva chiaro come l'acqua, non era il detective.

«John?» apostrofò, la gola vagamente secca. Il pensiero volò immediatamente a Rosie. Era successo qualcosa alla bambina? No, impossibile. Se fosse stato quello il motivo, Watson non si sarebbe disturbato a preparargli la colazione: avrebbe chiamato nel bel mezzo della notte fino a farlo svegliare in preda al panico. Questo lo rassicurò non poco.

John si schiarì la voce, arricciò il naso, inspirò e picchiettò le dita della mano destra sul ginocchio. «Sherlock»

Non era così che funzionava, ma ciò non sorprese il detective in alcun modo. John sapeva di non dover convincere nessuno ad accettare il suo caso, qualunque esso fosse. Il copione, dunque, si sarebbe dovuto adattare di conseguenza e “Ci racconti la sua storia. Si penda tutto il tempo che vuole, ma faccia in fretta” non era la giusta battuta di apertura.

Sherlock alzò appena la tazza di tè, accennando un sorriso all'angolo delle labbra. «Ti ringrazio per il pensiero, John. Non ricevo queste attenzioni da molto tempo» Sorseggiò la bevanda, quanto bastava perché la sua gola non tradisse alcuna sorta di preoccupazione. Il dottore annuì e non accennò a dire altro. Le ipotesi cominciarono a comparire nella mente del consulente investigativo, ma non osava parlare: John adorava il suo modo di capire tutto da un solo battito di ciglia, ma odiava quando Sherlock lo faceva su di lui. L'ultima cosa che voleva era irritare il suo migliore amico che aveva scelto di cambiare in quel modo le carte in tavola. Holmes fu anche attento a non lanciare nessuna occhiata alla poltrona di fronte alla sua. Era lapalissiano che John non volesse intraprendere una chiacchierata tra amici. Doveva essere considerato come una persona qualunque con la propria vicenda personale. Sherlock aveva il dovere morale di assecondarlo. Per questo, alla successiva esclamazione dell'altro, il moro non lo degnò di una risposta.

«Sono una persona orribile»

In condizioni normali, Sherlock avrebbe ribadito un concetto già esternato in altre occasioni: John, con un'espressione del genere, si faceva un torto incommensurabile. Ma in quel momento Sherlock dedusse un'altra cosa: non erano lì per risolvere un enigma. Erano lì perché egli ascoltasse e basta, senza intervenire, senza dare consigli, senza assolverlo, senza spiegargli cosa fosse giusto credere e fare e cosa fosse sbagliato.

«Credi che sia opportuno che resti, Sherlock?» chiese Mary nella testa del detective. Lo sguardo tradiva emozioni agitate in lei, e Holmes sentiva che ci sarebbe stato da temere, che non avrebbe sopportato di gestire anche l'emotività di un altro essere vivente.

«No. Per questa volta lasciaci. Ti racconterò più tardi»

Era importante, in quel momento, che rimanessero solo loro due. Se anche una sola delle ipotesi di Sherlock si fosse rivelata esatta, non ci sarebbero dovuti essere terzi, soprattutto non così nascosti.

«Continua» suggerì in un mormorio l'uomo, rimasto solo, rivolgendosi a John. Poggiò la tazza sul tavolino e, una volta liberate le mani, congiunse le punte delle dita sulle labbra, i gomiti affondati nei braccioli della poltrona. Era quasi assurdo che fossero in quella situazione, ma il detective decise che non era quello il momento per pensarci.

«Sono orribile» ribadì John, la mascella contratta come quando, all'Acquario di Londra, gli aveva rinfacciato il suo voto. Ma Sherlock scacciò via quel paragone: niente avrebbe mai potuto eguagliare l'espressione di quella sera, o se ne sarebbe accorto, avrebbe provato lo stesso intenso disperato dolore. Ciò non stava accadendo, anzi, se il glaciale abitatore di Baker Street aveva imparato qualcosa dell'arte di entrare in empatia con le persone, poteva sentire solo tanta delusione sgorgare da quelle parole.

«Non parlo più con Mary» rivelò il biondo, tirando fuori un sospiro di accettazione che raramente gli era capitato di esalare. Era facile comprendere come la pronuncia di quelle parole fosse stato il primo passo per vederne il vero significato.

Sherlock registrò l'informazione con sentimento ambivalente: da una parte si sentiva terribilmente dispiaciuto per Watson, dall'altra non comprendeva come mai ciò che per la sua analisi era diventato un fattore positivo potesse essere fonte di tale costernazione per John. Tuttavia, fu costretto ad ammettere di aver previsto quella esternazione e si congratulò con se stesso per aver fatto andar via la moglie dalla scena.

«Riuscivo a vederla» continuò a spiegare il cliente particolare del giorno. «Era sempre presente. Era nella stanza in cui mi trovavo. In piedi, seduta, sorridente, comprensiva, vicina. E parlava anche lei, non ascoltava soltanto. Mi è stata accanto quando-» deglutì a vuoto due volte prima di prendere di nuovo fiato e tentare di concludere, «-quando... ti ho allontanato»

Le dita di Sherlock sussultarono appena contro la sua bocca: era stata una bizzarra scelta di parole. L'allontanamento era stata una diretta conseguenza della morte di Mary, l'evento scatenante di tutti i loro guai successivi, il punto fondamentale. Perché, dunque, sottolinearne uno dei tanti risultati?

Sherlock chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, la risposta era chiara nella sua mente: senza Mary, John sarebbe sopravvissuto alla tentazione di creare un fantasma con cui condividere pensieri e idee, ma tolto anche il detective la solitudine aveva fatto sembrare quella soluzione molto più accettabile che in altre condizioni.

Sherlock temette di essere sul punto di ascoltare un'accusa nei suoi confronti. E sentiva di meritarsela, in verità: per colpa sua, che l'avesse voluto o meno, John aveva subito non una, ma due perdite impareggiabili e aveva dato un volto, un corpo e una voce alla sua coscienza.

«Mi hai salvato di nuovo, Sherlock» furono, invece, le parole che solleticarono le orecchie del detective. La risatina che seguì gli diede il tempo per elaborare quanto ascoltato. «Mi hai impedito di diventare completamente pazzo. Sei stato bravo, molto bravo. Sei tornato, hai fatto grandi cose per me e...» John sbuffò mentre un gesto evasivo delle mani accompagnava le parole, «... e Mary è andata via»

Ancora, una lieve risata spezzò il silenzio. «Non è stato all'improvviso» precisò il dottore, appoggiandosi allo schienale della sedia con goffi movimenti, provato dalla posizione scomoda e dalle emozioni. «Ha impiegato del tempo a lasciarmi, Mary, ma se ne è andata. Neanche se mi concentro riesco a riprodurre l'illusione perfetta che ho nascosto perfino a-»

La frase restò senza conclusione. John scoccò un'occhiata all'amico prima di tacere del tutto, e Sherlock comprese che il riferimento doveva essere per Euros in veste di analista. Apprezzò la delicatezza di John, ma seppe anche che avrebbe potuto contenere egregiamente il suo dolore per accogliere quello completo e puro dell'interlocutore. Lasciò che il pensiero indugiasse appena sulla certezza che Euros non fosse stata ingannata sull'argomento, così come non lo era stato lui, ma non fece nulla per distruggere lo stato d'animo dell'altro. Piuttosto, si rese conto che la minaccia della colpa non era stata ancora scongiurata.

«Ho paura di dimenticarla, Sherlock» disse John dopo un lungo, pesante silenzio, la voce rotta. L'uomo batté le palpebre più volte, aspettandosi di sentire l'altro continuare da un momento all'altro. Ma non arrivarono altre precisazioni, solo un accenno di respiro troppo affannato perché non promettesse lacrime.

Il sollievo di non sentirsi causa di un grande male non riuscì comunque a distrarre Sherlock dalla contemplazione spassionata dell'uomo migliore che avesse avuto la fortuna di incontrare. La lealtà e l'onore trovavano personificazione in John Watson e Holmes si sentì fortunato per aver potuto testimoniare ancora una volta alla sua grandezza.

Quella confessione, così vera e sincera, era l'unico assoluto caso sottoposto alla sua attenzione, ossia se fosse possibile dimenticare una persona tanto importante. Sherlock sapeva che rispondere no avrebbe portato il ragionamento ad un paradosso – lui aveva dimenticato sua sorella, dopotutto, l'aveva rimossa come si fa con i traumi più dolorosi, l'aveva chiusa in una scatola e l'aveva relegata ancor più in profondità della cella imbottita di Moriarty. Ma Mary era un'altra storia. Nessuno di loro avrebbe mai dimenticato, e in un certo senso sapeva che anche il dottore ne fosse convinto. A parlare in lui era solo la paura, il terrore di perpetrare un ulteriore torto alla donna con cui avrebbe voluto passare il resto della vita, una vita che ora sembrava essersi ristretta.

Sherlock ebbe per un attimo l'impulso di stringere nuovamente l'amico in un caldo abbraccio, ma si disse che così avrebbe spezzato l'incantesimo, avrebbe distrutto il rapporto cliente-professionista che l'altro aveva cercato di mettere in piedi. Non che ci fosse riuscito più di tanto, ma il contatto fisico avrebbe davvero fatto crollare tutto.

Si assicurò che non ci fosse altro da aggiungere prima di parlare.

«Non accadrà mai, John» disse con dolcezza, cercando di sorridere senza farsi travolgere dalle emozioni che ancora lo prendevano alla sprovvista. «Io... Io ti impedirò di dimenticare. Te lo prometto»

Watson dissimulò la lacrima che aveva preso a rotolargli lungo la guancia con una risata sommessa. Scosse la testa prima di schiarirsi la gola e guardare Sherlock negli occhi. «Ti avverto, bastardo: se questa volta non mantieni la tua maledetta promessa, ti giuro che non sarò disposto a tornare sui miei passi»

Sherlock rise a sua volta, soffocando qualsiasi sentimento che fosse simile al dolore, alla paura di perdere le persone amate, alla disperazione. Doveva essere forte più di John in quel momento, e non gli avrebbe negato quel favore per nulla al mondo, a costo anche di implodere.

«Andiamo a trovarla» propose, alzandosi dalla poltrona, come per suggellare l'ennesimo voto. Si ricordò improvvisamente del tè, ormai freddo, ma non gli importò: aveva visto il dottore irrigidirsi al suo invito, perciò preferì ingollare comunque la bevanda rovinata per lasciargli il tempo di decidere.

«Va bene» accettò infine il militare, alzandosi a sua volta. Era stato così teso per tutta la durata della sessione che quando si rimise in posizione eretta qualche osso scricchiolò sinistramente. «Portiamo Rosie con noi? È da Molly, possiamo passare a prenderla»

Sherlock annuì, avviandosi già verso la porta. Si bloccò quando venne richiamato da un suono simile ad un “Ehi”, ma incompleto, smorzato dalla fatica.

«Sì?» fece, interrogativo, senza far trapelare nulla.

Gli occhi di John dicevano “Grazie”, ma le sue corde vocali optarono per: «Stai dimenticando il cappello»

Uscirono entrambi con un sorriso tenue sulle labbra e un berretto calcato in testa.

Andava bene così.

-

«Allora? Cosa vi siete detti?» domandò Mary, le braccia incrociate e il sorriso furbo. Sherlock, per un attimo, credette che fosse già perfettamente consapevole della conversazione avvenuta qualche ora prima nel salotto del 221B di Baker Street. Ma sapeva anche che questo fosse impossibile.

«Abbiamo parlato di te» fu la risposta sincera.

«Ah! Avete fatto una conversazione piacevole, dunque!»

Il fatto che fosse un'esclamazione e non una domanda fece sorridere Sherlock, che scosse anche la testa, rassegnato.

«Non immagini quanto»








Angolo dell'autrice: Salve!
Continuo a non riprendermi dalla stagione e continuo a produrre cose deprimenti! L'idea è nata per caso, pensando che, dopo una situazione complessivamente disastrosa anche dopo la morte di Mary, John avesse avuto bisogno di una nuova analista, di qualcuno con cui parlare delle sue insicurezze. Considerando le pessime esperienze precedenti (la prima analista era un'incapace, come fa notare Mycroft, la seconda è stata Euros, e questo si commenta da sé), mi è sembrato sensato che il suo pensiero sia volato a Sherlock per l'intimità del rapporto tra loro tre.
Mary nel palazzo mentale di Sherlock non è una novità. È già entrata quando in occasione della 3x03, senza contare tutto lo special di Natale! Quel luogo è uno scrigno di ricordi e persone, oltre che di informazioni, perciò, avendoci trovato anche Anderson, dubito che non ci sia la signora Watson!
Vi ringrazio tantissimo per esservi soffermati a leggere e grazie a tutti coloro che spenderanno qualche minuto per fornirmi il loro parere!
Vi saluto e alla prossima!

Menade Danzante

   
 
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