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Autore: Adeia Di Elferas    02/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Sveglia!” la voce di Rodolfo Gonzaga risuonò nel padiglione del nipote Francesco, che si svegliò di soprassalto, con un grugnito infastidito.

Le due giovani donne che dormivano accanto a lui si coprirono subito con la coperta bordata di pelliccia che le riparava, ma non osarono lamentarsi per quel brusco risveglio.

“Avanti, è quasi l'alba.” disse Rodolfo, lanciando il camicione all'altro Gonzaga e facendo segno alle due donne di andarsene in fretta.

Francesco sbuffò indignato per quel trattamento, ma confermò gli ordini dello zio con un cenno del capo e così le sue ospiti si alzarono dal giaciglio da campo del Marchese di Mantova e raccolsero i loro pochi stracci per tornare da dove erano venute.

Rodolfo attese con pazienza che il nipote si vestisse e, quando fu pronto, lo ragguagliò: “Abbiamo notato dei movimenti a ovest del fiume, probabilmente Carlo vuole cominciare a muoversi, sperando di evitarci.”

Francesco, sbadigliando, si infilò il cinturone con la spada e borbottò: “Tanto io lo attacco alle ali, non al centro. Non sono nato ieri, so cosa si aspetta e io sono qui per fargli fare la peggiore figuraccia della sua vita.”

L'altro alzò una spalla e porse la cappa al Marchese, sapendo che erano in procinto di uscire per ispezionare le truppe prima dell'inizio della giornata.

Anche se era il 6 luglio, il tempo era inclemente e faceva freddo, davvero freddo. Da un paio di giorni pioveva e il Taro si era gonfiato a dismisura, e i suoi flutti facevano un tal fracasso che ben pochi soldati erano riusciti a chiudere occhio, quella notte.

“Certo che non mi aspettavo di sapere tuo cognato dalla parte del nemico...” commentò a denti stretti Rodolfo, aspettando che il nipote finisse di legarsi gli ultimi lacci.

Ferrante Este, fratello di Isabella e figlio di Ercole, era in effetti assieme all'esercito francese, ma a Francesco non importava molto, così come non importava molto ai ferraresi.

“Lo fa solo per soldi.” fece il Marchese a denti stretti.

“Parlando di gente che cambia idea all'ultimo minuto – riprese lo zio, appena più serio – non indovinerai mai chi è arrivato stanotte col capo cosparso di cenere, in cerca di protezione e di una condotta, in fuga dal campo francese, fradicio per aver guadato di nascosto il fiume.”

Francesco non aveva voglia di risolvere quella sciarada, perciò guardò il parente con impazienza, invogliandolo silenziosamente a rispondere da solo a quell'arcano.

Rodolfo, che si sarebbe atteso un po' più di curiosità da parte del nipote, non lasciò che l'apatia di Francesco spegnesse il suo tono sensazionalistico nel sillabare: “Virginio Orsini.”

L'attenzione di Francesco Gonzaga, a quel punto, era stata finalmente catturata dalle parole dello zio che, compiaciuto, annuiva lentamente.

“Ha tradito i francesi? Si è messo davvero a nostra disposizione?” chiese il Marchese di Mantova, accennando con la testa all'uscita del padiglione.

Assecondando il nipote, Rodolfo lo seguì fuori, dicendo con certezza: “Sì, ci puoi scommettere. Ha già preso accordi con Sanseverino, ma adesso vuole parlare anche con te.”

Il campo era in fermento e la foschia, assieme alla luce incerta che precedeva l'alba dava un tocco spettrale a quella scena. Inoltre il rumore monotono e aggressivo del Taro non faceva altro che peggiorare i brividi che Francesco sentiva lungo la schiena.

“Bella scelta, comunque.” fece Rodolfo, con un sorrisetto furbo.

Il Marchese, che stringeva gli occhi per guardarsi attorno, gli domandò, distratto: “Che cosa?”

“Le due donne che ti sei portato in tenda stanotte. Bella scelta.” specificò Rodolfo, per poi, mentre i due cominciavano a camminare accanto ai soldati che si preparavano all'azione, aggiungere: “Però mi chiedo che direbbe tua moglie Isabella, se lo sapesse...”

Francesco sporse in fuori il mento e, ingobbendosi nelle spalle già sgraziate, disse: “Lo sa già.”

“E le sta bene?” chiese Rodolfo, sopprimendo una risata e fissando il nipote con tanto d'occhi.

Con un involontario movimento della zazzera di capelli scuri, Francesco si voltò verso lo zio e poi guardò di nuovo verso i suoi uomini, che arrancavano nel fango e tra la nebbia.

“Lo sa.” ribadì: “E se fosse qui, oltre a perdonarmi, mi capirebbe.”

 

“Mia signora...” disse piano la moglie di Bernardino, entrando nella camera della Contessa.

Caterina alzò gli occhi dalle carte che stava studiando e la guardò interrogativa. Ormai la sua stanza alla rocca era adibita quasi esclusivamente alla consultazione di mappe e resoconti dai vari fronti accesi in Italia.

In particolare, in quel momento, la Contessa stava cercando di pensare a come si sarebbe svolto lo scontro nei pressi di Fornovo, perché era ovviamente là che si sarebbero incontrati francesi e italiani.

Da un paio di giorni a Forlì pioveva a dirotto e le temperature erano precipitate, costringendo tutti a uno stile di vita autunnale e mettendo subito in allarme i contadini. Caterina si domandava se anche sul Taro il clima fosse quello e, a quel punto, come la battaglia ne avrebbe risentito.

“C'è il sarto.” spiegò la cameriera, abbozzando un sorriso.

La Contessa la ringraziò e le disse di farlo entrare. Lo aspettava, quindi non si sorprese molto di sentirlo annunciare, tuttavia, quando se lo trovò davanti, restò per un attimo allibita. Aveva creduto di vederlo tornare alla rocca con il suo abito rammendato e invece l'uomo non aveva nulla tra le braccia, solo il cappello tra le mani nodose.

“Come mai non mi avete riportato il mio vestito?” chiese la donna, scostando un po' la sedia dal tavolo per scrutare meglio il sarto.

Questi abbassò lo sguardo e, impacciato, rispose: “Ecco, mia signora... Ho guardato con attenzione lo strappo nuovo, ma ho notato anche due vecchi rattoppi e credo che sia necessario cambiare un'intera manica.”

“E perché non l'avete fatto?” s'informò Caterina, aggrottando la fronte.

“Perché – spiegò il sarto, un po' in difficoltà – credevo che voleste cambiare l'abito, piuttosto che sostituirne solo una parte.”

La Contessa sospirò e si alzò. Si avvicinò all'uomo e gli appoggiò con benevolenza una mano sulla spalla, lasciando che i suoi occhi anziani si specchiassero nei suoi.

“Capisco che preferireste l'incasso di una vestito nuovo...” cominciò a dire Caterina, ma il sarto la bloccò subito.

“Non è questo, mia signora. È che si nota troppo l'usura..!” spiegò l'uomo, con sentita accoratezza.

La Contessa sospirò: “Di quello non mi importa. Voi sostituite la manica e siamo a posto così. Uso quell'abito per le cene informali e per le mattine che passo in questa stanza a controllare i miei documenti, dunque non è un problema.”

Il sarto allora fece un breve inchino e, continuando a rigirarsi il berretto tra le mani, si schiarì la voce prima di dire: “Già che sono qui... Ci sono comande dal Barone Feo?”

“No.” fece subito Caterina, per poi mordersi la lingua e correggere il tiro: “Intendo dire che non lo so, dovete parlarne con lui, non è una mia competenza, il guardaroba del Barone Feo.”

Il sarto la fissò un istante con sguardo penetrante, cercando di capire se le chiacchiere che aveva sentito alla bottega di Cobelli fossero vere. Siccome la Contessa ricambiava lo sguardo con un'occhiataccia severa, alla fine l'uomo lasciò perdere e, ringraziando, si congedò.

 

Gian Giacomo da Trivulzio osservava i soldati dell'esercito di Carlo VIII seguire i suoi ordini alla lettera e ne era molto compiaciuto.

Per il momento si trattava solo di levare le tende e muoversi da Fornovo, ma tempo qualche ora e il re di Francia avrebbe ordinato l'attacco.

Gian Giacomo conosceva i metodi dei Gonzaga, di Francesco in particolare. Si trattava di un uomo con un'istruzione classica che su di lui aveva lasciato pochi segni tangibili e si trattava delle impronte ben visibili degli antichi nella sua mentalità militare. Con tutta probabilità il mantovano avrebbe tentato un attacco alle ali, così i francesi avrebbero agito all'opposto, con una carica centrale.

Tuttavia, quando Gian Giacomo arrivò all'imboccatura della strada principale, grazie alla quale aveva sperato di poter passare il Taro per sferrare il suo attacco agli italiani, il comandante dovette fare i conti con una realtà che aveva sottovalutato.

Il fiume era troppo impetuoso e non ci sarebbe stato modo di guadarlo in quel punto, soprattutto con l'artiglieria e la cavalleria pesante. Così, a malincuore e sperando che re Carlo – ambizioso, ma poco adatto al ragionamento nei momenti concitati – capisse e non si infuriasse.

Dopo aver passato il suo ordine ai sottoposti, Gian Giacomo da Trivulzio osservò i soldati virare verso una strada secondaria, più scomoda, ma forse più semplice da attraversare in quel 6 luglio di umidità e freddo.

 

“Stai ancora leggendo quella roba?” chiese Giacomo Feo, infastidito, quando entrò nella camera della moglie per dirle che il pranzo era quasi pronto.

Caterina lo guardò di sfuggita e, vedendo i suoi abiti perfettamente asciutti, capì all'istante che suo marito non aveva messo fuori dalla rocca nemmeno la punta del naso, malgrado tutti gli impegni che avrebbe avuto sulla carta.

“Qualcuno dovrà pur farlo.” fece la Contessa, girando un foglio, senza dar segno di voler interrompere la lettura.

“Non ne vedo l'utilità.” controbatté il Barone, mettendosi a sedere sul letto, perfettamente rifatto e intatto da settimane: “Anche se le leggi, intendo dire... Che cosa cambia? Mica ci sei tu sul campo di battaglia.”

Caterina strinse le labbra, spostando da davanti a sé la pergamena e girandosi verso il marito: “È vero, non cambia nulla, ma non riesco a farne a meno. Devo farmi un'idea di quello che accadrà. Se vincesse la Lega, l'invasione di re Carlo potrebbe dirsi finita, ma se vincessero i francesi...”

La donna sospirò e scosse piano la testa, mentre Giacomo si abbandonava sul copriletto ricamato, guardando annoiato il soffitto.

“In ogni caso – concluse la Contessa, alzandosi e andandosi a mettere accanto al marito – sono convinta che questa guerra segnerà la fine della nostra indipendenza.”

“Che stai dicendo?” chiese allarmato Giacomo, mettendosi di nuovo a sedere in un lampo, una ciocca ribelle di capelli castani davanti agli occhi e le guance pallide.

Caterina capì all'istante di essere stata in parte fraintesa. Il marito aveva colto il senso più stretto del termine e aveva pensato che il loro Stato avrebbe perso l'autonomia di cui godeva, trovandosi inglobato in qualche possedimento più imponente. Cosa che, di fatto, era già, anche se il Vaticano aveva sempre accordato molta libertà a Girolamo prima e a Caterina poi.

“Intendo dire che l'Italia si sta consegnando agli stranieri. Francesi, spagnoli, l'Impero... Tutti quanti fingono di volerci liberare da qualcuno, ma quello che ha fatto mio zio è stato solo aprire la porta agli invasori – la voce della Contessa era bassa e roca mentre faceva quella dolorosa considerazione – è come se avesse divorato lui Laocoonte, come se avesse spinto tutto da solo il cavallo dentro le mura.”

Giacomo non aveva colto l'ultima allusione, ma aveva intuito che si trattasse di qualche citazione colta che lui non avrebbe mai capito.

Così si limitò a contestare la parte che aveva compreso: “Tu parli di 'Italia' – le disse, appoggiando la propria spalla a quella della moglie – ma sono solo parole al vento. Ognuno pensa solo a se stesso, ogni piccolo Stato è nemico del suo vicino, se ne ha paura e hanno ragione. Non dovresti preoccuparti dell'Italia... È un'idea che esiste solo nella tua testa e che non si avvererà mai.”

Caterina stava per ribattere, quando il marito la zittì con un lapidario: “E poi anche a te piace comandare a casa tua, no?”

Più volte, nelle sere di quei lunghi giorni di attesa degli eventi, Caterina aveva provato a mettere a parte il marito delle sue riflessioni in merito alla penisola italiana. La Contessa era certa che se tutti gli staterelli che la componevano si fossero uniti, ma veramente, in un'unica grande potenza, non ci sarebbe stata storia per gli altri Stati europei.

L'unione che sottostava alla potenza dell'esercito francese che li aveva invasi, o a quello dell'Impero, che dettava legge anche a Milano, o a quello spagnolo, che si apprestava a sottomettere le terre scoperte da Colombo, mancava agli italiani ed era quello il motivo della loro debolezza.

Caterina puntò le iridi verdi in quelle castane del marito e sospirò, abbattuta, certa che in Giacomo non avrebbe mai trovato un interlocutore valido, per lo meno per quel genere di argomenti.

“Mi cercavi perché è pronto da mangiare?” chiese la donna, cercando di suonare meno abbattuta di quanto non fosse in realtà.

Giacomo annuì, si alzò dal letto e la prese per mano: “Andiamo.”

Caterina accettò la stretta, rassicurante malgrado tutto, della mano morbida del suo uomo e lo seguì fino alla sala dove poté annaffiare le sue preoccupazioni con un po' di buon vino.

 

I primi scambi di artiglieria, da un lato all'altro del fiume, non avevano scosso più di tanto né i francesi né i cosiddetti collegati. I generali, da ambo le parti, stavano cercando di interpretare al meglio quella strana condizione atmosferica, ma per il momento nessuno aveva preso una chiara direzione nello schierare il proprio esercito.

Gian Giacomo da Trivulzio guidava l'avanguardia dei francesi, formata da duecento fanti leggeri, trecento cavalieri e duecento soldati tedeschi con picca, difesi dagli archibugi. A seguire, nel blocco centrale, stava Carlo VIII, circondato da arcieri a cavallo, seicento cavalieri francesi e i fanti tedeschi. In pratica, il re si era tenuto la scorta migliore. A chiudere, sotto la guida di Gaston de Foix, si erano schierati quattrocento cavalieri e un centinaio di soldati. L'artiglieria e le picche restanti coprivano la prima linea sul davanti e la seconda verso l'argine del fiume.

Le salmerie, che custodivano il preziosissimo bottino di re Carlo, stavano lontane dalle acque, fuori dal tiro dell'artiglieria italiana, per preciso ordine di Sua Maestà.

Similmente, anche la Lega si era schierata su tre grossi tronconi, a nove linee, a breve distanza dall'accampamento. In testa stava Giovan Francesco Sanseverino, con alle spalle Annibale Bentivoglio, nel centro Francesco Gonzaga, affiancato dall'eventuale rinforzo di Antonio da Montefeltro e in fondo restavano le truppe veneziane, con Bernardino Fortebraccio e, più ritirate, le riserve.

A dividere i due schieramenti, il Taro ribolliva senza tregua, parte integrante della furia della battaglia che stava per cominciare.

A un cenno sicuro di Sanseverino, partì il primo attacco degli italiani, in risposta ai colpi dell'artiglieria francese.

Gli stradiotti al soldo veneziano partirono come furie cercando di passare le acque impetuose del Taro, che invece ne catturò parecchi, trascinandoli via tra i suoi flutti freddi.

“Che diamine..!” strinse i denti Francesco Gonzaga, nel vedere come i cavalli appesantiti dalle armature alla turchesca dei soldati stessero faticando a raggiungere il lato opposto del fiume.

Se l'era aspettato, in realtà, ma vedere coi propri occhi i soldati sparire tra il fango e la corrente del Taro era tutta un'altra cosa. Poteva solo sperare di riuscire a contenere il caos e mettere a segno il suo attacco laterale, cercando di avvicinarsi il più possibile al piano che aveva studiato assieme a suo zio Rodolfo e al Sanseverino.

L'avanzata degli stradiotti era ancora molto difficoltosa, tuttavia alcuni di loro riuscirono ad arrivare dal lato opposto e così cominciò una mischia senza quartiere che infiammò finalmente quella giornata dai toni autunnali.

 

Lorenzo Medici passava ormai più tempo al palazzo della Signoria a discutere che non a casa a badare agli affari di famiglia. Suo fratello Giovanni aveva cercato di fare la sua parte, ma fin dal primo mattino la sua testa era stata da tutt'altra parte.

Si era sparsa la voce che, se non proprio quel giorno, ci sarebbe stato uno scontro a Fornovo tra le forze francesi e quelle della Lega. La notizia era risaputa e pareva che da quello scontro sarebbero dipese le sorti non solo della guerra, ma dell'Italia intera.

Giovanni aveva cominciato a provare una stretta allo stomaco, nel pensare a quella battaglia, certo che ogni esito sarebbe stato per la sua famiglia uno sfacelo. Firenze, benché non avesse fornito nemmeno mezza picca all'esercito straniero, era formalmente alleata di Carlo VIII, per colpa di Savonarola, che aveva di recente fortificato il legame con il re d'Oltralpe. Se i francesi avessero vinto, rendendo definitivamente l'impresa del loro giovane re una gloriosa impresa, allora il domenicano avrebbe visto il suo potere farsi ancora più stabile e difficile da scalfire e probabilmente ne avrebbe approfittato per liberarsi dei Medici – e di tutte le altre famiglie che gli stavano scomode – con un esilio o, peggio, con una condanna a morte per futili motivi.

Se invece avesse vinto la Lega, Firenze sarebbe stata una sconfitta in mezzo alle vincenti e a quel punto ogni Stato confinante non avrebbe fatto altro che chiuderla in un embargo senza altra via d'uscita se non accettare scambi capestri e commerci svantaggiosi. E questo, per i Medici, sarebbe equivalso alla perdita di un'ingente fetta delle loro sostanze e quindi del loro potere.

Così, per scaricare la tensione legata all'attesa di notizie dal fronte, Giovanni aveva trascorso parte della mattina a cavalcare nelle campagne e poi a passeggiare in mezzo al bosco.

Dato che era già pomeriggio e la pioggia aveva fatto capolino rompendo le nuvole grigie che incombevano su Firenze da giorni, il Popolano aveva preferito restare al palazzo della sua famiglia e addestrarsi con la spada.

Pur sapendo di non essere un combattente nato, si era accorto che con l'esercizio le sue abilità si affinavano e, in più, l'attività fisica aveva il potere di schiarirgli la mente.

Il pensiero di Fornovo, però, e di tutto quello che ne sarebbe seguito, era una pietra tanto pesante nella sua coscienza che quel pomeriggio, pur mettendo tutto se stesso nello scontro con spade da allenamento assieme al maestro d'armi, non riuscì a far altro che rimuginare sui due schieramenti, sulle loro potenzialità e sui possibili esiti che lo scontro aperto avrebbe potuto avere.

 

Su consiglio di Gian Giacomo da Trivulzio, i francesi avevano lasciato incustoditi i carriaggi, lasciandoli alla mercé degli stradiotti veneziani che vi accorsero come mosche attirate dal miele.

Questa improvvisa distrazione di parte dei soldati italiani scombussolò la difesa dei collegati e l'ala sinistra francese riuscì a muovere un attacco al cuore dell'esercito italiano, improvvisamente lasciato senza la sua difesa più importante.

Ormai ogni strategia era andata a farsi benedire. Quella che stava diventando una facile vittoria degli italiani si tramutò molto rapidamente in una lotta all'ultimo sangue senza più regole.

Mentre il Maresciallo di Gié notava con disappunto che l'artiglieria si era fatta inservibile, perché del tutto inghiottita dal fango, la riserva veneziana, circa cinquecento uomini, entrò in campo, guidata da Rodolfo Gonzaga, che era rimasto in attesa fino a quel momento, assieme a Ranuccio Farnese, contrario fino all'ultimo a quello scontro sul Taro.

Francesco Gonzaga, che era riuscito a passare fortunosamente il Taro, poco dopo l'avanzata della riserva veneziana, era appena stato disarcionato. Per un istante le urla dei suoi e degli avversari si fecero ovattate. Il fango gli invase la visuale, riempiendogli l'elmo e facendogli mancare il fiato.

Trovando la forza nel punto più fondo della sua paura di morire, il Marchese di Mantova riuscì a tirarsi in piedi e si levò l'elmo con un gesto rapido e deciso. Sputò la terra bagnata di acqua e sangue e si rese conto di aver perso la spada.

Scansò l'attacco di un francese e venne mancato per un soffio da una freccia raminga. Era impossibile scorgere i ranghi e altrettanto difficile era capire da che parte andare. L'unica cosa che Francesco sapeva era che doveva trovarsi presto un'arma.

Finalmente, dopo aver evitato un'ascia diretta contro il suo torace ampio, Francesco vide in terra uno spadone a due mani degno di quel nome. Si chinò rapido e lo strappò dalle mani del cadavere che ancora lo impugnava.

Si sentì mancare quando, nel cranio mezzo distrutto da un colpo probabilmente di una mazza ferrata, riconobbe il viso familiare di Ranuccio Farnese.

 
   
 
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