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Autore: Darkrystal Sky    04/02/2017    1 recensioni
MULTI-CROSSOVER FIC Conoscete tutti la storia di Edward e Alphonse Elric, ma quanto cambierebbe questa se le persone che hanno incontrato durante il loro viaggio non fossero le stesse? Se il Viaggio tra Dimensioni parallele fosse di dominio pubblico e il Multiverso fosse al centro di una faida millenaria?
La storia di Fullmetal Alchemist come non l'avete mai vista.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Envy, Roy Mustang
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9 - La città fantasma

First comes the blessing of all that you've dreamed,
But then comes the curses of diamonds and rings.
Only at first did it have its appeal, but now you can't tell the false from the real.
Who can you trust?
Imagine Dragons - ‘Gold’
 
[…]Anno 1806, la nazione di Amestris riconosce pubblicamente l’esistenza e possibilità del Viaggio Inter-Dimensionale da parte di Individui con le capacità per effettuarli.
L’esistenza dei Viaggiatori viene resa nota insieme a nove leggi inviolabili:
  1.             L’Universo è molteplice.
  2.             Il Multiverso è costituito da Dimensioni o Mondi differenti.
  3.             Il Tempo tra due Mondi differenti può scorrere più o meno velocemente, ma sempre in un’unica direzione.
  4.             Ogni Mondo è unico e distinto. (Due Mondi uguali o simili collassano in un’unica realtà).
  5.             Due Mondi possono essere identici fino ad un evento che cambia radicalmente la realtà di uno di essi: questo evento è detto Fulcro.
  6.             Il non-spazio tra due mondi è detto Medium.
  7.             Due Mondi diversi possono essere messi in comunicazione tramite passaggi attraverso il Medium, detti Gate.
  8.             Un Individuo in grado di passare da un Mondo all’altro è detto Viaggiatore. (L’atto è detto Viaggio).
  9.             Due sono le condizioni necessarie per un Viaggio: uno Strumento per aprire un Gate e l’Abilità per attraversarlo […]
Estratto da “Storia di Amestris” di Arthur Rubeus Barma.
-
“Come sarebbe a dire: ‘ Non c’è più la fermata?’ Che razza di posto è questo?!” sbraitò Edward.
Dopo aver scoperto con loro grande rammarico che la città di Karakura non aveva una propria stazione ferroviaria e che la fermata più vicina a cui i tre erano potuti scendere era un borgo di montagna distante quasi tre ore di cammino, tra salite e tornanti, ognuno dei tre alchimisti aveva reagito in modo diverso. Edward aveva cominciato a litigare con l’anziano capostazione, che ci sentiva pure male e continuava a chiedergli di ripetere le frasi, ma che infine aveva regalato loro una mappa dei sentieri di montagna della zona, incluso quello che portava alle miniere e alla città mineraria. Alphonse aveva reagito con rassegnazione: in fondo, era l’unico per cui tre ore di cammino non rappresentavano minimamente una fatica. Oriel era rimasta in silenzio a osservare Edward che inveiva contro il vecchio. Quando Edward si fu sfogato, i tre si addentrarono nel bosco. Presto furono abbastanza lontani dal centro abitato da non sentirne più i rumori e il vociare.
“Maledetta, lo sapevi che c’era da fare questa strada” disse Edward tra i denti, camminando a lunghe falcate davanti al gruppetto.
“La stazione di Karakura è stata chiusa quando la città ha cominciato il suo declino, ma non ritenevo fosse un problema per voi. Questa strada è percorsa raramente e solo dai carri che portano le materie di scarto a valle. Possiamo parlare senza che orecchie indiscrete ci ascoltino.”
“Di cosa vorresti parlare?”
Oriel gli lanciò un’occhiata significativa e accennò ai suoi automail.
“Non ti sembra il caso di raccontarmi finalmente cosa avete combinato voi due?”
Edward si fermò di scatto e si voltò verso la ragazza, subito imitato da Alphonse.
“Era questo il tuo obiettivo, allora!”
Oriel alzò le spalle.
“Sarei comunque andata a Karakura, prima o poi. Ho solo pensato che avrei potuto prendere due uccelli con una pietra.”
I due fratelli la guardarono allontanarsi. Dopo essersi scambiati un’occhiata, ripresero a camminare. La raggiunsero e, senza soffermarsi troppo sui particolari, le raccontarono della loro trasmutazione umana, di cosa avevano perso e del vero motivo per cui si erano messi alla ricerca della Pietra Filosofale. La ragazza ascoltò rispettosamente in silenzio finché Edward non sembrò voler aggiungere altro.
“Anch’io ho dei segreti, e visto che voi mi avete svelato i vostri, vi svelerò i miei” disse senza guardarli. “Non sono di Amestris. I miei documenti sono per lo più falsi, ma ho dovuto prendere le dovute precauzioni, specialmente dopo la guerra dell’Est.” Ed e Al si scambiarono un’occhiata. “E allora? Niente commenti?” esclamò la ragazza. “Mi aspettavo almeno un po’ di sorpresa da parte vostra...”
“Insomma…” cominciò Al con imbarazzo. “Diciamo che ce lo aspettavamo: parli sempre in un dialetto strano quando sei nervosa, non hai parenti ad Amestris, a parte un fratello di cui non parli mai... Scusa, ma mi sembrava abbastanza ovvio.”
Oriel si fermò e guardò il ragazzino a bocca aperta, e fu il suo turno di essere lasciata indietro dai suoi compagni di viaggio.
“Grazie per non aver detto nulla, allora” mugugnò con imbarazzo quando li raggiunse.
Il gruppo di alchimisti giunse alla città che ormai era tardo pomeriggio. La prima cosa che più li colpì fu l’evidente povertà del luogo: molte delle miniere erano crollate e in disuso, così come un gran numero di abitazioni. L’unico edificio che stonava era una grande villa che svettava in posizione rialzata rispetto al resto degli edifici. I minatori al lavoro lanciarono ai ragazzi le peggiori occhiate, evitandoli e allontanandosi anche quando essi tentarono di fare loro qualunque tipo di domanda.
“Per essere una città che estrae oro è ridotta piuttosto male” commentò Edward, preoccupato. “I minatori, in particolare, sembrano tutti malati.” Gli uomini e le donne che avevano visto fino a quel momento, infatti, indossavano mascherine protettive ed erano smunti e pallidi. Non si vedevano bambini in giro.
“Come ho detto, la città è in declino” spiegò Oriel. “Non estraggono più oro da quando i filoni si sono esauriti, circa quarant’anni fa, o almeno questo è ciò che ho letto. Non so cosa facciano adesso di preciso.”
Edward sbuffò, cercando di non prendersela per il comportamento degli operai.
“E allora? Come li troviamo gli alchimisti che cerchi?”
Oriel indicò la villa.
“La famiglia Ishida è proprietaria delle miniere, perciò, se le mie informazioni sono corrette, sarà meglio cominciare a cercarli andando lassù.”
“Grandioso, un’altra scarpinata” mugugnò Edward.
Mentre imboccavano la scalinata per la villa che supponevano essere dei proprietari del luogo, la gente nelle case sprangava porte e finestre al loro passaggio.
“Non so voi, ma io non mi sento per niente a mio agio qui” mormorò Al, intimorito dal comportamento dei locali.
Edward si guardò intorno sospettoso, ma non aggiunse altro. Oriel, da parte sua, teneva il passo qualche metro più avanti: nonostante la sua determinazione, stava cominciando a pentirsi di essere venuta fin lì. In quel momento avrebbe solo voluto sbrigarsi e tornare a East City il prima possibile.
Quando finalmente i tre giunsero in cima alla scalinata, trovarono un muro di protezione alto diversi metri e sormontato da filo spinato, con un gigantesco cancello di ferro sprangato come unico ingresso. Oriel sbirciò tra le sbarre, mentre i ragazzi la raggiungevano. Le finestre erano tutte oscurate da pesanti tendaggi ed era impossibile sapere se ci fosse qualcuno all’interno.
“Cosa facciamo?” chiese Al, esaminando la villa a sua volta.
“Ci invitiamo dentro” replicò Oriel trasmutando il cancello per aprirlo.
I ragazzi rimasero basiti: da Edward ci si sarebbe aspettata un’azione temeraria simile, ma Oriel era sempre sembrata coi piedi per terra. Che cos’aveva veramente questa famiglia che la ragazza voleva ottenere? Giunti al portone principale, i ragazzi temettero che Oriel stesse per trasmutare anche quello, prima che effettivamente la porta si aprisse e ne emergesse una donna con i capelli neri raccolti in uno chignon e la stessa espressione stanca e malaticcia degli altri cittadini.
“Sono il maggiore Eckhart, alchimista di stato” si presentò Oriel mostrando l’orologio d’argento. “Vorrei parlare con un membro della famiglia Ishida.”
L’espressione della donna fu attraversata da un moto di sorpresa, talmente rapido da essere quasi impercettibile
“La famiglia Ishida non vive più qui da anni, la prego di andarsene” mormorò, poi accennò a chiudere la porta.
Edward infilò il proprio braccio destro nella fessura, impedendo alla porta di chiudersi.
“Perché in questa città sembrano tutti malati? Cosa succede qui?” domandò con veemenza, ignorando l’evidente disagio della donna.
Da dentro la villa si sentirono dei passi avvicinarsi. La donna assunse un’espressione agitata e spinse con forza il braccio di Edward fuori dalla porta.
“Andatevene!” esclamò. “E, per l’amor del cielo, non dite…”
Prima che potesse finire la frase, la porta si spalancò. Un uomo imponente, con i capelli scuri legati in treccine e piccoli occhiali da vista, comparve davanti a loro, squadrandoli con una espressione indecifrabile.
“Chi siete?” domandò guardando Edward dall’alto verso il basso.
“Alchimisti di Stato…” cominciò Oriel, ma il ragazzo la interruppe.
“Io sono l’Alchimista d’Acciaio, Edward Elric” si presentò con boria.
La reazione dei due fu immediata: la donna spalancò gli occhi, mentre l’uomo si irrigidì prima di afferrare Edward per il bavero e sollevarlo da terra.
“Andatevene, ne abbiamo abbastanza degli imbroglioni come voi!” gli gridò in faccia.
Prima che Edward o gli altri potessero reagire in qualsiasi modo, l’uomo lanciò letteralmente Edward in direzione del cancello aperto, e il ragazzo atterrò sulla strada sabbiosa.
“Fratellone!” esclamò Alphonse, correndo verso di lui.
“Chi hai chiamato imbroglione?!” esclamò Edward, accettando la mano che il fratello gli tendeva per aiutarlo a rialzarsi in piedi. Era un po’ ammaccato e sconvolto, ma altrimenti illeso.
L’uomo afferrò Oriel per il braccio e la trascinò fuori dalla cancellata senza troppi complimenti.
“I fratelli Elric lavorano per noi già da alcuni mesi. Un nanerottolo come te non può farsi passare per l’Alchimista d’Acciaio, inventati una scusa migliore la prossima volta!” suggerì, mentre chiudeva i due battenti del cancello con una catena di metallo alla quale fissò un grosso lucchetto.
“CHI HAI CHIAMATO NANEROTTOLO MINUSCOLO CHE SI MIMETIZZA TRA I GRANELLI DI SABBIA, VECCHIO SCEMO?!” gridò Edward battendo i palmi e facendo per lanciarsi nuovamente verso il cancello, prima che Alphonse lo bloccasse afferrandolo per il colletto del cappotto.
Il portone si richiuse e i due scomparvero alla vista.
“Che cosa è appena successo?” mormorò Oriel, incredula.
-
“Sono arrivati. ♥”
L’uomo alzò la testa, smettendo immediatamente di scrivere. Sul suo volto si dipinse un sorrisetto che lasciava a malapena trapelare l’entusiasmo che sentiva.
“Sono in tre?”
“Esatto. ♥ Finalmente possiamo concludere quest’opera meravigliosa.”
L’uomo si alzò con calma e uscì dalla stanza, camminando a passo veloce lungo i corridoi fino ad arrivare alla scala davanti al portone principale. La donna con i capelli neri stava parlando con una delle guardie in modo concitato, quando lui arrivò.
“Kanae,” chiamò l’uomo. La donna si voltò di scatto, stringendo strettamente le pieghe del vestito. “È il momento. Ricordi il nostro patto?”
“Sì, dottor Aizen,” rispose lei, la voce ridotta ad un sussurro.
-
“Mi ci sta volendo ogni briciola di autocontrollo per non fare dietro front e pestare sul muso chiunque si stia facendo passare per me” ringhiò Edward, percorrendo a grandi falcate la strada principale.
“A questo punto non mi sembra l’idea migliore” considerò la ragazza. “Potremmo venire sbattuti in galera per violazione della privacy, rissa aggravata e un mucchio di altri reati minori, e sai quante scartoffie ci sarebbero da far firmare prima che l’esercito mandi un avvocato in questo posto da lupi?” Alphonse annuì, perfettamente d’accordo con la ragazza. Stava per aggiungere qualcosa, ma lei riprese. “Meglio aspettare la notte, almeno avremo l’oscurità a coprirci.”
“Ho a che fare con due giovani delinquenti” pensò Al, sconsolato.
“Pssst, ehi!” Una voce fece fermare i tre ragazzi. Davanti a una delle tante abitazioni grigie sedeva un uomo il cui volto era quasi completamente nascosto da un cappello da pescatore a righe verdi e bianche calcato in testa. Era il primo a rivolgere loro la parola di propria volontà. “Vi starete chiedendo perché vi ho rivolto la parola quando tutti gli altri cittadini sembrano volervi evitare” cominciò, facendo loro segno di avvicinarsi. L’uomo, i cui capelli biondo paglia spettinati arrivavano alle spalle, indossava quello che sembrava un pigiama sotto un’ampia vestaglia nera. “Posso fare luce sui vostri dubbi...” Infilò la mano all’interno della vestaglia, come per prendere un’arma. Il gesto mise in guardia i tre ragazzi, che si prepararono al peggio, ma l’uomo estraesse dalla vestaglia un oggetto di plastica bianca. “...Con questa bellissima lampada portatile a forma di sedere!” concluse, trionfale, dando uno schiaffo all’oggetto dalla forma non poco ambigua, che si accese di una luce rosata. Vittima dell’improvviso calo di tensione, Oriel non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere, guadagnandosi due occhiatacce da parte di Ed e Al. “Oppure siete forse più interessati a questo?” continuò l’uomo, imperterrito, estraendo da dietro la schiena quello che a prima vista sembrava un semplice automail bianco. “Potete attaccarlo alla sedia o alla scrivania ed avere una mano in più a cui appoggiarvi nei momenti di stanchezza.” Edward allargò le braccia, basito. “E che ne dite di queste strisce pedonali srotolabili? Per attraversare la strada in ogni…”
“Basta!” esplose Edward. “Non ce ne frega nulla delle tue chincaglierie, vecchio! Ci puoi dire che cosa succede qui?”
Il viso dell’uomo si illuminò di un sorriso furbo.
“Voi compratemi qualcosa e vi dirò cosa so.”
Edward sbuffò, ma si mise le mani nelle tasche per estrarre le poche monete che gli erano avanzate dall’acquisto dei biglietti del treno.
“Cosa ci puoi dare per queste?” fece bruscamente, lanciandole all’uomo, che le osservò meticolosamente prima di farle sparire in un taschino della camicia da notte.
“Posso darti del filo interdentale al bacon o una roccia domestica…”
“Cosa diavolo è una roccia domestica?” chiese Edward. Per tutta risposta, l’uomo gli lanciò qualcosa che lui prese al volo: era un normalissimo sasso, grande più o meno come un’arancia, con un piccolo collare legato intorno.
“È stato un piacere fare affari con voi, arrivederci!” esclamò l’uomo, poi si alzò in piedi e fece per entrare nella sua misera abitazione, ma Alphonse lo afferrò per un braccio.
“Non è molto corretto da parte sua andarsene senza rispettare la promessa” fece il ragazzo, una sfumatura minacciosa nella voce. “Non le pare?” aggiunse, stringendogli di più il braccio. Torreggiava sull’uomo in modo inquietante.
“V-venite dentro” cedette quest’ultimo.
L’angusto monolocale era inaspettatamente vuoto, eccetto che per una pila di oggetti tra i più disparati che erano stati accatastati su un telo di stoffa. Ed e Al seguirono l’uomo, mentre Oriel si fermò ad esaminare la pila di oggetti. Per essere un negozio era piuttosto nuovo oppure piuttosto trascurato.
“In verità non posso dirvi molto, sono arrivato qui da poco e l’accoglienza non è delle migliori” cominciò a spiegare l’uomo, sedendosi sul pavimento a gambe incrociate. L’abitazione era totalmente vuota di mobilio o decorazioni, e non assomigliava per niente a un locale in uso.
“Arrivato? Da dove?” chiese Edward.
Prima che l’uomo potesse rispondere, la porta da cui i ragazzi erano appena entrati si spalancò ed un bambino con un ciuffo di capelli rossi arruffati sparato in alto e laceri vestiti di tela irruppe nella stanza. Portava sulle spalle il corpicino magro di una bambina dai capelli neri raccolti in due codini.
“Ururu sta male di nuovo!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola, senza prestare la minima attenzione ai tre estranei.
L’uomo col cappello raddrizzò la schiena, immediatamente vigile.
“Falla stendere” ordinò al ragazzino, che appoggiò la bambina sul pavimento. La piccola era pallida e sudaticcia e tossiva in continuazione. “Siete andati di nuovo a ficcare il naso nelle miniere, vero?”
“Stavamo solo cercando la porta di cui ci aveva parlato Tessai! Non pensavamo che fosse così pericoloso!” replicò lui, prima di cominciare a tossire a sua volta.
I tre alchimisti osservavano la scena che si stava svolgendo davanti ai loro occhi senza sapere bene come intervenire finché non vennero chiamati in causa.
“Tu” l’uomo col cappello indicò Oriel improvvisamente, scarabocchiando qualcosa su un foglietto che le allungò insieme ai pochi soldi che Edward gli aveva appena dato. “Vai a comprare queste medicine, fai alla svelta…”
Oriel annuì e, dopo un cenno nella direzione dei due fratelli, corse all’esterno.
“Ma cosa sta succedendo qui?” fece Alphonse.
Il bambino coi capelli rossi gli lanciò un’occhiataccia.
“Da quando siamo arrivati in questo Mondo, Ururu ha cominciato a stare male. Tessai allora si è messo a lavorare alla villa per scoprire cosa sta succedendo, ma senza nessun risultato.”
“In questo Mondo” ripetè Al, cominciando a capire che genere di persone si trovava davanti.
“Siete Viaggiatori?!” esclamò Edward, incredulo.
-
Oriel corse per qualche minuto per le strade della città mineraria, cercando con gli occhi un qualunque segno che le indicasse un ospedale o un’infermeria. Possibile che una città si riducesse in quello stato? Gli edifici sembravano per la maggior parte diroccati o disabitati, i pochi negozi erano chiusi o deserti. Sembrava di camminare in una città fantasma se non per le poche persone che voltavano le spalle o chiudevano le finestre al passaggio della ragazza. I cittadini non sembravano dei cadaveri viventi come i minatori, ma erano evidentemente messi male a loro volta: si sentivano spesso risuonare del colpi di tosse per le strade polverose e la città erano pervase da un odore dolciastro che le faceva girare la testa. Finalmente, dopo diversi minuti che girovagava a vuoto, gli occhi di Oriel caddero su un edificio sulla cui facciata era dipinta rozzamente una croce con della vernice verde. Con un sospiro di sollievo, la ragazza si precipitò all’interno. La porta si aprì con un tintinnio su un ambiente angusto ma privo di polvere e sporcizia. Dietro ad un bancone sedeva da solo un uomo di mezz’età, che alzò gli occhi dal libro che stava leggendo quando Oriel fece il suo ingresso. I sottili occhi blu, mezzi nascosti dai capelli grigi e dalle lenti degli occhiali scrutarono la ragazza con onesta curiosità, e a differenza degli altri paesani, vestiva in giacca e cravatta come un gentiluomo di Central City.
“Salve” cominciò Oriel. “È un ospedale questo, vero? Voglio dire, ho visto il simbolo fuori…” L’uomo fece un breve sorriso divertito, ma non rispose. “Uh, ecco, c’è una bambina che si è sentita male, ho bisogno di sciroppo o brospamina per farle passare la tosse” spiegò, leggendo quello che le aveva appuntato l’uomo col cappello.
L’uomo annuì, posò il libro sul bancone e si alzò in piedi, allungandosi per prendere una boccetta di liquido color miele da una credenza alle sue spalle.
“Non sei di queste parti” mormorò lui, allungandole la medicina.
La ragazza scosse la testa, sollevata dal fatto che almeno questa persona non sembrava avere diffidenza nei suoi confronti.
“Io e miei amici siamo in viaggio,” spiegò semplicemente, senza perdersi nei dettagli. “Quanto le devo?”
“Siamo in un ospedale, non in una farmacia. Non preoccuparti, vai a portare quella medicina alla bambina. Se ci sono peggioramenti, portala qui.” Il suo tono era gentile, ma la sua espressione era neutra. Oriel sorrise, accennando un breve inchino, e si diresse verso l’uscita, ma la voce dell’uomo la fermò. “Un’altra cosa... Tu e i tuoi amici fareste meglio a lasciare Karakura prima possibile.”
Oriel, la cui mano era già sulla maniglia della porta, tornò a voltarsi verso di lui.
“Che cosa sta succedendo qui, esattamente?” chiese. “I minatori sembrano degli scheletri, la gente ha paura...”
L’uomo aggrottò la fronte.
“I problemi di questa città sono tanti, ma ti consiglio di lasciar perdere. Non farti carico di ciò che non ti riguarda.”
“Ma gli alchimisti esistono per aiutare le persone, non è così? Se c’è qualcosa che possiamo fare…”
“Sei un’alchimista?” la interruppe lui, sorpreso. Sul suo volto si dipinse un mezzo sorriso pieno di rammarico. “Gli alchimisti esistono per aiutare…” ripeté. “Se solo altri la pensassero come te…” Le fece un cenno con la testa. “Come ti chiami?”
La ragazza allungò la mano per stringere quella dell’uomo.
“Oriel Eckhart.”
Aurildis, fiamma. Un nome audace” commentò lui. “Io sono Ryuken Ishida.”
Oriel non riuscì a trattenere il sorriso che le si formò sul viso, mentre stringeva la mano dell’uomo che, per caso, era riuscita ad incontrare.
-
Il giovane alchimista, che indossava una complessa maschera antigas, sollevò un alambicco pieno di liquido nero denso che pareva olio e l’osservò in controluce: sul fondo si era formata una piccola pietruzza dai bordi smussati. Cautamente, posò il contenitore sul tavolo e si fece passare un paio di lunghe pinze dall’altra persona nella stanza, prelevando con esse la pietruzza dal fondo del liquido.
La pietra sembrava assorbire totalmente la luce, come un buco senza fondo.
  
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