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Autore: Sapphire_    05/02/2017    1 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Salve a tutti!
Sì, lo so, è da agosto che non aggiorno e per questo chiedo scusa! Solo che tra preparativi per l'università, il trascolo e la novità di questa – il primo periodo mi stavo ambientando – non ho avuto tempo né ispirazione; oltretutto, ho avuto anche il pc fuori uso per un mese a causa di un guasto.
Comunque sia, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, ho cercato di farlo più lungo per in qualche modo scusarmi della mia lunga assenza. In questo capitolo continuo a sviluppare la storia per gli eventi successivi, spero vi piaccia!
Cercherò di scrivere il nuovo capitolo il prima possibile – finalmente ho finito la sessione di esami, ma avrò di nuovo le lezioni quindi...
Comunque sia, ora vi auguro buona lettura!
Un abbraccio,

~Sapphire_





~It's too cliché




Capitolo sette

Il risveglio di April fu piuttosto traumatico: la sveglia suonò particolarmente rumorosa quella mattina e, persa com'era nel sonno più profondo, fece in pratica un salto dal letto. Allungò rapida una mano per spegnere quel suono infernale, andando a tentoni con la mano non avendo gli occhiali: così facendo, purtroppo, finì per urtare il bicchiere d'acqua che ogni sera metteva sul comodino; cadde, rompendosi in mille pezzi e bagnando non solo il pavimento, ma anche le pantofole e il tappeto ai piedi del letto.
«Merda!» berciò April, riuscendo finalmente a spegnere la maledetta sveglia e trovando, dopo vari secondi di disperata ricerca, i suoi adorati e più che necessari occhiali rossi.
Li inforcò tra i capelli biondi sconvolti, rendendosi conto del danno appena fatto.
«No...» mugolò vedendo l'acqua che inzuppava il tappeto e le pantofole, più i pezzettini di vetro sparsi più o meno ovunque.
Si alzò con cautela, cercando di fare attenzione ai pezzi di vetro: sorrise soddisfatta quando era a un passo dalla porta – felice di non averne beccato nemmeno uno – peccato che proprio in quel momento sentì una piccola fitta di dolore al piede destro e urlò.
Iniziò a saltellare in precario equilibrio, ma ovviamente non era la sua giornata poiché inciampò sul suo stesso piede e cadde per terra, sbattendo con violenza il ginocchio sinistro.
«Cazzo!» urlò di nuovo.
Rimase poi lì per terra per poi esaminare il piede infortunato: una piccola scheggia di vetro era conficcata sulla pianta del piede e qualche goccia di sangue usciva dalla ferita.
Ecco, anche se non sembrava, c'era una cosa rossa che April odiava con tutto il suo cuore: il sangue.
Impallidì vedendolo e con timore si tolse la scheggia dal piede, per poi correre in bagno a sciacquarselo; le bruciò un po', ma almeno quell'orribile liquido rosso scomparve.
Frugò nei cassetti alla ricerca di un cerotto e quando lo trovò evitò il più possibile di guardare le nuove goccioline di sangue che si stavano formando sulla ferita: non era così grande, quello no, e non le faceva neanche tanto male. Forse però avrebbe dovuto mettere delle scarpe basse il giorno, più comode rispetto ai suoi soliti tacchi.
Appena il sangue sparì dalla sua vista e tirò un sospiro di sollievo a quella tragedia mancata – la ferita ci avrebbe messo giusto un giorno a guarire – sentì però il dolore sordo del ginocchio.
Lo guardò sconsolata: la botta era stata brutta e qualcosa le diceva che le si sarebbe gonfiato di lì a poco.
Filò in cucina scalza, per poi iniziare a frugare nel freezer e recuperare del ghiaccio.
Se lo mise sul ginocchio infortunato per poi iniziare a zampettare per la cucina e prepararsi la colazione: giusto un cupcake avanzato dal giorno prima – uno di quelli che aveva portato a May che aveva a sua volta insistito che se ne prendesse almeno uno da portare a casa – e una tazza di latte bevuta al volo – il caffé l'avrebbe preso al lavoro o da qualche altra parte.
Quando si riaffacciò nella propria camera e vide il disastro che ancora vi era – beh, in fondo era difficile che sparisse da un minuto all'altro – mugolò nervosa e si adoperò per pulire il meglio che poteva: ovvero, raccolse i pezzi di vetro che riuscì a vedere, asciugò veloce con uno straccio e mise il tappeto e le pantofole all'aria ad asciugare; non poteva permettersi di più, era già fin troppo in ritardo.
Per cui corse a farsi una doccia rapida – il piede col cerotto lavato con particolare attenzione per non bagnare la ferita – e si vestì più semplicemente del solito, con solo un paio di jeans a sigaretta, una camicetta primaverile bianca e delle vans rosse. A dire il vero, tentò un paio di tacchi ma a sentire la fitta al piede rinunciò subito.
Con sguardo sconsolato uscì per andare a lavoro.
Qualcosa mi dice che questa non sarà una bella giornata.

Da qualche altra parte, sempre a New York, nemmeno Aaron ebbe un risveglio piacevole: a svegliarlo dieci minuti prima della sua sveglia – e quando si hanno solo tre ore e mezza di sonno perché la sera prima si è dovuto finire un lavoro, quei dieci minuti sono necessari – fu il telefono che iniziò a squillare.
Non lo sentì subito, tanto che chiunque l'avesse chiamato chiuse dopo numerosi squilli; ma la persona non demordette e il telefono riprese a suonare furiosamente, assordando il povero Aaron che si svegliò sentendo l'odio bruciare nella sua testa.
Diede un'occhiata all'ora e, vedendo come mancassero solo dieci minuti alla sua sveglia, gli venne da piangere.
Chiunque sia, lo ucciderò.
Prese il cellulare e con voce assonnata rispose.
«Chi è?»
«Buongiorno zuccherino»
«Tom»
Ok, avrebbe ucciso il suo migliore amico. Non sapeva ancora la dinamica e come farla franca, ma l'avrebbe fatto.
«In tutto il suo splendore» ironizzò Tom, dall'altro capo del filo.
Aaron si schiacciò il cuscino in faccia con aria disperata, l'istinto omicida sempre vivo in lui.
Dopo infiniti anni di amicizia, ancora non sapeva se amasse o odiasse il suo migliore amico. Nel dubbio, faceva entrambi.
«Cosa cazzo vuoi?» borbottò nervoso, la voce impastata dal sonno.
«Bonjour finesse!» continuò sarcastico l'altro e Aaron pensò che, se ce lo avesse avuto davanti, gli avrebbe di sicuro lanciato qualcosa.
«Se mi hai chiamato solo per rompermi le scatole sappi che non la passerai liscia»
Sentì l'amico ridere dall'altro capo del telefono e sbuffò, rinunciando all'idea di dormire ancora per dieci minuti come in teoria avrebbe dovuto fare: qualcosa gli diceva che non ce l'avrebbe fatta.
«A dire il vero credevo fossi già sveglio. Sai, per la tua corsa mattutina»
Aaron si alzò dal letto ciondolando, infilandosi le pantofole e dirigendosi in bagno per farsi una doccia.
«Abbiamo dormito meno di quattro ore e pretendi che io mi alzi per andare a correre? Sei fuori di testa» abbaiò sempre nervoso, iniziando a spogliarsi e mettendo il viva-voce «A proposito, come diavolo fai a essere così energico?» borbottò mentre si dava un'occhiata allo specchio e notava le sue profonde occhiaie.
«Tre caffè e una pasticca» celiò Tom con voce soffice.
Aaron ignorò le ultime due parole mentre terminava di spogliarsi e metteva tutto dentro il cesto della biancheria.
I peli sulle braccia gli si drizzarono in una sensazione spiacevole una volta nudo e corse ad aprire l'acqua.
«Ti stai facendo la doccia?»
«A te che sembra?» chiese a sua volta Aaron, entrando nel box e mettendo il cellulare più vicino possibile per continuare a parlare.
«Uh, quindi sei nudo in questo momento. Mi stai avanzando proposte? Hai deciso di lasciar perdere il genere femminile?» chiese veloce Tom, e ad Aaron stava già iniziando a svuotare la testa.
«No, non ti sto avanzando proposte e sì, credo che inizierò a lasciar perdere il genere femminile» rispose, l'acqua calda che gli scioglieva i muscoli dopo il sonno.
«Beh, lo capisco dopo quello che è successo ieri...»
Aaron per un attimo credette di essersi immaginato quelle parole a causa dell'acqua che nascondeva in parte la voce, ma dopo qualche secondo di silenzio capì che invece aveva capito proprio bene e aprì di scatto gli occhi precedentemente chiusi sotto il getto dell'acqua.
«Come fai a saperlo?!» strillò con voce strozzata e arrossendo.
«Me l'ha detto un uccellino» ironizzò l'amico.
«Dimmelo subito»
Sentì un sospiro provenire dal viva-voce mentre prendeva il bagnoschiuma.
«Vicky. Credo glielo abbia detto Rosalie, o forse tua mamma, ma non so»
«Io quelle le uccido!» urlò incazzato Aaron, iniziando a insaponarsi furiosamente mentre a causa dell'acqua i capelli erano sparati in aria, facendolo sembrare ancora più sconvolto.
«Ma dai, non è venuta a dirmelo apposta, stavamo parlando del più e del meno» cercò di tranquillizzarlo Tom.
Ma Aaron sbarrò gli occhi ancora di più.
«Ti stavi sentendo con mia sorella?! Ci stai provando con mia sorella?!» tuonò irato.
«...Ma no. Stavamo solo chiacchierando, non pensare male»
Aaron impallidì di colpo.
«Ci sta provando con mia sorella» esalò allucinato.
«Come dici? Non ti ho sentito»
Aaron allungò una mano fuori dal box, asciugandosela sull'accappatoio appeso lì affianco.
«Dico che sei una merda!» urlò isterico e senza dare il tempo all'altro di replicare gli chiuse la chiamata in diretta, ritirando nuovamente la mano nel box.
No, quella giornata non presagiva niente di buono.

Quando entrò nel suo ufficio – condiviso, ma comunque suo – April pensò che ci fosse qualcosa che non andava.
Non capiva bene cosa, aveva semplicemente una brutta sensazione che non si decideva ad abbandonarla e la sfortuna della mattina non l'aiutava.
«Ciao» disse solo in direzione di Melanie, l'unica presente in quel momento; Gwen aveva il brutto vizio di fare tardi e spesso era stata ripresa per questo.
La collega rispose solo con un cenno, già presa dal proprio al lavoro al computer, perciò April mollò in silenzio la borsa sul tavolo e, dopo essersi tolta la giacca primaverile, andò nell'altra stanza per farsi un caffè.
Mentre si gustava la sua bibita in tranquillità, assaporando il gusto dolce dopo le tre bustine di zucchero messe al suo interno, cercava di rilassarsi prima di mettersi al lavoro e, soprattutto, di eliminare quella fastidiosa sensazione che proprio non si decideva ad abbandonarla.
Basta April, smetti di farti condizionare da scemenze del genere. Non esistono le “brutte sensazioni”, pensò convinta.
Peccato che, appena bevve l'ultimo sorso di caffè per poi buttare il bicchierino di plastica, una persona entrò come una furia nella stanza facendola sussultare.
Si voltò verso Gwen che la guardava con gli occhi azzurri che lanciavano fiamme.
«Tu» tuonò all'improvviso.
April la fissò interdetta, notando come avesse ancora borsa e giacca – si era precipitata da lei senza darsi tempo.
«...io?» replicò indecisa, l'ansia che le saliva un po' addosso.
Ok, le brutte sensazioni esistono.
«Hai intenzione di rubarmi tutti i ragazzi su cui poso gli occhi?» sibilò inviperita.
April la fissò sorpresa e subito dopo le venne in mente quel Tom. Beh, non gliel'aveva mica rubato: non era colpa sua se il ragazzo aveva mostrato interesse nei suoi confronti, e d'altro canto April non aveva ricambiato proprio niente.
«Parli di Tom?» fece, indecisa.
Non le piaceva entrare in conflitti del genere, non sapeva mai come comportarsi: a volte finiva per farsi mettere i piedi in testa, altre volte per sbottare e fare la figura dell'irascibile, ma è solo che non riusciva a trovare la giusta via di mezzo.
«Non solo lui» sibilò la ragazza, gli occhi azzurri sempre fiammeggianti.
April la guardò spiazzata.
Allora di chi cavolo sta parlando?, si chiese tra sé.
Incrociò le braccia, sulla difensiva.
«Allora spiegati meglio» rispose, innervosendosi.
Gwen, a sua volta, incrociò le braccia sul petto.
«Parlo di Damian. Ce l'hai presente? Barba, occhiali scuri, fotografo, tremendamente sexy» spiegò telegrafica.
Ecco di chi parlava, Damian!
April la guardò interdetta.
«Non hai nulla da dirmi?» continuò Gwen, osservando l'aria silenziosa di April.
April, a quelle parole, e già nervosa di suo per il grandioso inizio di giornata, sbottò.
«Cosa vuoi che ti dica? Non è colpa mia se gli uomini preferiscono me a te. Evidentemente ho più attrattive. Non incolpare me per la tua inadeguatezza» fece sprezzante.
Sentendo quelle frasi neanche troppo velatamente cattive, Gwen arrossì di frustrazione.
«Preferiranno te a me, ma di certo non sono quella che viene scaricata il giorno dopo» rispose acida la castana.
April si immobilizzò, ma l'altra non le diede il tempo di rispondere ed uscì dalla stanza per dirigersi in ufficio.
Stringendo le mani a pugno e percependo gli occhi pungenti, diede un calcio al cestino dell'immondizia, rovesciandolo.
No, quella continuava a preannunciarsi una pessima giornata.

«Ma stiamo scherzando?!»
La voce di Aaron risuonò all'interno dell'auto ferma da più di mezz'ora nel traffico mattutino newyorkese, quella mattina fin troppo intenso.
Suonò il clacson per l'ennesima volta e imprecò notando che la macchina di fronte a lui avanzò di un solo centimetro.
Cazzo. Questa volta mi uccidono se arrivo in ritardo.

Mentre l'ansia gli strisciava addosso come la nebbia in una triste giornata autunnale, la radio accesa ferma su un canale di news lo avvisava che nella sua zona, a causa di un incidente, il traffico aumentava e non sembravano esserci margini di miglioramento.
«Porca puttana» sibilò irato.
Bene, avrebbe fatto di sicuro ritardo anche quel giorno. L'avrebbero squartato vivo, ne era sicuro.
Abbandonò la testa sul volante, premendo per un attimo il clacson che suonò nella strada insieme a quelli di altre centinaia di macchine, e chiuse gli occhi inspirando a fondo.
Rimase cinque minuti così, cercando di calmarsi ed eliminare il nervoso che lo attanagliava.
Infine sollevò la testa e afferrò il cellulare, componendo il numero di Tom. Sperava che, avvisando, non gli avrebbero fatto troppo male.
Il telefono fece tre squilli prima che il suo amico rispose.
«Ti prego, non dirmi che farai tardi» lo accolse la voce familiare.
Aaron si morse un labbro, a disagio.
«Vuoi veramente una bugia?» replicò.
Sentì una vaga imprecazione dall'altro capo del filo, poi qualcosa che cadeva a terra e un breve silenzio.
«Cazzo, Aaron, ma mi vuoi spiegare come diavolo fai? Davvero, è qualcosa di assurdo, anzi, è impossibile»
«Ti giuro, non è colpa mia! C'è stato un incidente e il traffico è bloccato!» tentò di spiegare.
«Certo, ovvio, succede sempre qualcosa. Il giorno in cui arriverai in orario sarà il giorno in cui scoperai con qualcuna» fece sarcastico Tom. Aaron arrossì.
«Fanculo, Tom» borbottò «Avvisa che farò tardi» concluse poi e, senza lasciare il tempo all'altro di rispondere, chiuse la telefonata, giusto in tempo per notare che il traffico iniziava finalmente a muoversi: pareva che lo stessero finalmente deviando.
Che giornata grandiosa.

April sospirò per l'ennesima volta in quella interminabile giornata.
Lanciò una veloce occhiata carica di astio a Gwen, che da quando era arrivata a lavoro quel giorno – dopo averle praticamente gridato contro, ovvio – era seduta alla sua postazione lavorando senza sosta.
Da quando le aveva detto quelle parole non faceva che ripensarci.
È vero, gli uomini la scaricavano sempre dopo la prima notte. Non capiva perché, non capiva cosa diceva o faceva che potesse indurli a un comportamento del genere. Le sembrava di fare ciò che tutte le altre donne facevano, e non le sembrava neanche di vestirsi in chissà quale modo da far fraintendere qualcuno.
Eppure anche l'ultimo tizio, di cui si era già dimenticata il nome, l'aveva scaricata senza troppi preamboli.
Era stanca di quella situazione, ma non poteva farci molto, d'altronde.
Si stiracchiò, decidendo di fare una pausa: aveva la testa altrove e continuando così non avrebbe portato a termine nulla quel giorno; riposarsi e staccare la testa un attimo le avrebbe fatto bene, per poi rimettersi al lavoro ancora più carica di prima.
Si alzò e si mise la giacca, per prenderdere poi la borsa e uscire dalla stanza senza salutare nessuno: Melanie era troppo concentrata su ciò che stava facendo, Gwen non le avrebbe risposto.
Si diresse quindi verso l'uscita dell'edificio, e una volta fuori il tipico rumore del traffico newyorkese la tranquillizzò.
Da sempre il clacson delle macchine, il continuo vociare e pulsare di quella città sempre sveglia, quel caos la facevano calmare. Era strano, considerando che di solito metteva più ansia che altro.
Le venne in mente con un sorriso ciò che le raccontava la madre, ovvero che per farla addormentare doveva accendere la tv o la radio, o in casi estremi portarla in macchina fino alla città più vicina e girovagare a vuoto.
Il ricordo della madre le provocò una punta di fastidio che cercò di scacciare subito, insieme a quei ricordi di un'infanzia già passata.
Si guardò intorno, indecisa su dove andare, per poi ricordarsi dello Starbucks in cui le aveva portate Gwen quella famosa volta. Scrollò le spalle per poi decidere di incamminarsi in quella direzione.
Non ci mise molto ad arrivare, anche se se lo ricordava più lontano – forse era la fame che le aveva dilatato il tempo, l'ultima volta – e appena entrò il profumo dolce delle caffetteria l'avvolse in una nuvola di piacevole serenità.
Ordinò distrattamente al bancone mentre con gli occhi ripassava tutto il locale, cercando neanche lei sapeva cosa – o forse, inconsciamente, cercando quello strano tipo che finiva sempre per incrociare in quel luogo, Tom.
Non vedendolo, si disinteressò subito alla questione, perciò prese veloce la sua ordinazione e si mise in uno dei tavolini vicino alla vetrata che costituiva la parete confinante con la strada; lasciò la sua mente divagare negli ultimi pensieri molesti fino a quando, presa da un lapsus improvviso, afferrò il cellulare e compose un numero che conosceva a memoria.
Non dovette attendere molto.
«Ehi, tesoro»
La voce familiare di May la accolse allegra, mentre dentro di sé già si sentiva più rilassata.
«Ehi» rispose «Che fai?» domandò poco dopo.
«Oggi ho il turno di pomeriggio, quindi sono un po' in centro a fare shopping. Tu invece? Non dovresti essere a lavoro?»
April fece una smorfia, invidiandola.
«Pausa. Se fossi rimasta lì un minuto in più credo che mi sarei buttata dalla prima finestra» borbottò «Shopping? Voglio venire con te!» continuò con tono piagnucolante.
May, dall'altra parte del telefono, rise.
«Non fare la bambina. Questo fine settimana andiamo a farci un giro assieme, ok?» tacque un attimo, poi riprese «Perché dici così, comunque? È successo qualcosa?» la interrogò.
April sbuffò, indecisa se parlarne per telefono o lasciare la conversazione a una sera, con un bel drink davanti. O meglio due.
Scrollò le spalle tra sé: aveva bisogno di parlarne, se no non ne sarebbe uscita.
«Hai presente Gwen?» non attese la risposta a quella domanda retorica «Ecco, stamattina è arrivata con un diavolo per capello, urlandomi praticamente addosso di essere la causa di tutti i suoi flirt andati male» snocciolò.
Sentì May ridere con un tono scandalizzato.
«Ma è fuori di testa quella ragazza? Non ha pensato che magari il problema è lei?» chiese, aggiungendo subito dopo «E poi, “tutti i suoi flirt”... Mi sembra che tu le abbia “rubato” solo quel tipo dello Starbucks, no?» sulla parola “rubato”, accentuò il tono in modo sarcastico.
April fece l'ennesima smorfia di quella mattina.
«Hai presente Damian, il fotografo?»
«»
«Ecco, pare che l'avesse puntato lei da un po' di tempo. O, almeno, questo è quello che ho capito, dato che mi ha accusato di starglielo rubando» spiegò.
Sentì May ridere ancora.
«Beh, ammetto che c'è del divertente nel modo in cui entrambi gli uomini di cui si era infatuata abbiano preferito te» puntualizzò.
«Mh, non credo che quel Tom fosse particolarmente interessato a me, te l'ho già detto. Era strano, piuttosto»
«Comunque fosse, aveva di certo mostrato più interesse a te che a lei, no?»
«Questo è vero» le diede ragione April, dando un morso alla sua ciambella. Il sapore dolce del cioccolato la confortò, ma nell'esatto momento la fece sentire in colpa: i suoi fianchi non sarebbero stati contenti di quel cibo.
«Dovresti fregartene. Insomma, tu non ci puoi fare molto, no? E poi, di quel Tom non te ne frega nulla, mentre di questo Damian...?» si interruppe, non sapendo bene neanche lei come continuare.
April sospirò.
«Non lo so, mi interessa, ma sai com'è» rispose vaga.
«Beh, se ti piace continua ad uscirci. Non sei sua amica, non hai nessun “codice di amicizia” da rispettare. Se piace a entrambe e lui ha mostrato interesse per te, lasciarlo perdere sarebbe un'occasione sprecata» ragionò May.
April tacque per un paio di secondi.
«Ma la situazione a lavoro diventerebbe pesante» disse infine.
«Sarà pesante a prescindere quando inizierà a scadere il periodo dello stage, lo sapevi già o sbaglio? E poi, certo, andare d'accordo con i propri colleghi è sempre consigliato, ma una cosa del genere non ha senso. Che impari ad accettare quando viene rifiutata» continuò con tono sempre più convinto l'amica, tanto che per un attimo April se la immaginò mentre annuiva tra sé soddisfatta di ciò che diceva.
Sorrise.
«Hai ragione. Dovrei semplicemente ignorare tutto questo. Anche se...» si interruppe, indecisa se dirlo o meno.
«Anche se...?» continuò May, incuriosita.
Beh, ormai ho iniziato, pensò April.
«Non so quanto possa andare bene con Damian. Gwen mi ha fatta riflettere su una cosa: anche se gli uomini possono scegliere me e non lei, almeno da lei non fuggono dopo una sola notte» fece asciutta, il malumore che tornava più forte di prima.
Dirlo ad alta voce lo faceva sembrare ancora più brutto di quanto non fosse nei suoi ricordi.
«E chi ti dice che da lei non fuggano? Insomma, non mi sembra che abbia un ragazzo fisso, da quello che tu mi hai raccontato. Ha solo avuto un paio di ragazzi da quando la conosci, no? E dopo la prima cena di cui non faceva che raccontare, poi smetteva di parlarne improvvisamente. Questo non ti sembra strano?»
April si rifletté per qualche secondo.
«Hai ragione. Però non mi interessa della sua vita. Non voglio consolarmi pensando al fatto che lei sia nella mia stessa situazione: ciò non cambia che, dopo il sesso, nessun uomo è più interessato a me»
«Perché sono tutti degli emeriti coglioni che credono che una bionda sia stupida. Mai pensato di tingerti i capelli?» ironizzò l'altra.
April rise per un attimo alla battuta, per poi ripiombare nella sua tristezza.
«Ma è impossibile che nemmeno uno abbia provato ad andare oltre. Evidentemente, l'immagine che do di me è solo di una donna stupida e che vuole solo divertirsi, maniaca dell'aspetto e prototipo della donna stupida e superficiale» continuò, piagnucolando.
Dall'altra parte del telefono, sentì May sbuffare arrabbiata.
«Senti: ripeti un'altra volta queste parole e non ci sarà più nessuna donna, ti farò sparire io. Se sei convinta di dare quell'impressione tu darai quell'impressione. Renditi conto della realtà: sei una bella donna a cui piace curarsi, sì, ma sei anche intelligente, spiritosa, inserita nel mondo del lavoro e con mille opportunità di fronte a sé. Un uomo dovrebbe sentirsi fortunato ad averti»
Sentire quelle parole le scaldò il cuore; per un attimo le vennero gli occhi lucidi, ma poi ruppe il momento romantico scoppiando a ridere.
«Hai ragione. Devo smetterla di buttarmi giù da sola, non migliorerò la situazione in questo modo»
«Ecco, questa è la April che conosco, finalmente!» trillò May.
«Grazie»
«E di cosa? Ti ho solo detto quello che penso, e che dovresti infilarti in testa pure tu»
«Ci proverò!» rispose April, di nuovo con un sorriso sulle labbra tinte di rosso.
«Grazie per la chiacchierata, ora è meglio che torni a lavoro che se si accorgono della mia assenza, altro che “inserita nel mondo del lavoro”... Sarò una disoccupata!»
«Certo tesoro, vai pure. Ci sentiamo stasera, va bene?»
«Assolutamente! A stasera» concluse.
«A stasera!»
April allontanò il telefono dall'orecchio premendo la cornetta rossa che lampeggiava sullo schermo.
Sorrise.
Sì, le sensazioni erano tutte nella mia testa.

Quando Aaron varcò la soglia dell'ascensore – che in quell'ultimo periodo lo accompagnava nei suoi ritardi con la sua sempre più estrema lentezza – non tentò nemmeno di fingere di salutare Daphne, la segretaria: si lanciò verso l'ufficio di Tom, esattamente di fronte al suo, spalancando la porta di scatto e facendola sbattere.
«Eccomi eccomi eccomi. Sono arrivato!» quasi urlò quelle parole, un leggero fiatone che lo accompagnava.
Tom, seduto di fronte alla sua scrivania, non alzò gli occhi dal suo computer.
«Ed era anche l'ora» rispose seccato.
Aaron alzò gli occhi al cielo.
«Avanti, non fare così! Ti ho già detto che c'è stato un incidente e-»
«...e il traffico era bloccato. Sì, lo so» lo anticipò, alzando finalmente lo sguardo verso di lui.
«Nevil ha detto qualcosa?» bofonchiò il rosso, dopo qualche secondo. Tom fece spallucce.
«No. Credo che in qualche modo se lo aspettasse, ormai ti conosce» rispose.
«Perfetto. Allora...» si interruppe, guardandolo dubbioso. Mettergli fretta o no? Minimo ci avrebbe guadagnato un fermacarte in testa.
Infatti Tom gli lanciò un'occhiataccia.
«Allora cosa? Sono io che sto aspettando te eh. Muoviti a mollare le tue cose in ufficio, io ti aspetto da Nevil» fece Tom, alzandosi e afferrando una chiavetta sul tavolo.
Aaron non protestò – anche perché non avrebbe potuto permetterselo – e corse nel proprio ufficio, levandosi giacca, poggiando la borsa e tirando fuori cartelle varie e album da disegno.
Prima di uscire, si diede un leggero sguardo allo specchio posto vicino all'entrata – che poi, perché c'era uno specchio in un ufficio? Certo, era utile, ma... - e notò i suoi capelli sconvolti: con uno sguardo sconsolato cercò disperatamente di sistemarli in qualche modo, ma quelli non avevano la minima intenzione di rimanere giù, perciò si arrese al ciuffo in mezzo alla testa che sembrava intenzionato a rimanere lì impalato, come uno spaventapasseri in un campo di grano.

La giornata continua sempre meglio, pensò funereo.
Andò nell'ufficio di Nevil e, trovando la porta chiusa, bussò educato.
Una voce bassa gli rispose dall'interno, invitandolo ad entrare, perciò abbassò la maniglia ed entrò in quell'ufficio grande almeno tre volte il suo; beh, Nevil era il capo, sarebbe stato strano il contrario.
Vide l'uomo bellamente spalmato sulla sua poltrona in pelle nera, di fronte a lui un bicchiere di acqua e limone, che lo guardava senza espressione.
Era vestito con il solito abito scuro, che in qualche modo stonava con l'ambiente attorno, ricco di gadget per videogiochi, console, foto appese che lo ritraevano con guru del mondo del gaming; vederlo così serio in un ambiente più casual faceva sempre un po' sorridere Aaron.
«Buongiorno Nevil» fece educato, con un cenno di sorriso. L'uomo aveva sempre insistito per venire chiamato con il solo nome, per “aumentare il cameratismo in questo posto”, diceva lui. Non che per loro fosse un problema, anzi, toglieva quella rigidita formalità propria di tutti i rapporti capo-sottoposti.
«Aaron. Anche oggi in ritardo, eh?»
Aaron arrossì imbarazzato, avvicinandosi alla scrivania. Lanciò uno sguardo a Tom, seduto su una delle due poltrone di fronte al tavolo, che lo guardava con un ghigno divertito.

Bastardo.
«Mi spiace, c'è stato un incidente e sono rimasto bloccato nel traffico» tentò di scusarsi.
«Sì, sì, Tom mi ha già spiegato. Rimane il fatto che sei sempre il solito che si becca tutte le sfortune» fece con un sorriso a metà tra l'ironico e il divertito.
«Che ci posso fare, la sfortuna mi ama» replicò Aaron, sforzandosi di non mandarlo a quel paese: era pur sempre il suo capo, suvvia.
«Tom mi stava dicendo che avete finito le bozze per il nuovo progetto. Come sembra?» fece poi, cambiando di netto argomento.
Mentre Tom si alzava per inserire la chiavetta nella televisione nella parete opposta, Aaron aprì l'album da disegno.
«Allora, ci hanno consegnato i temi e la bozza della storia base: il materiale è buono, sembra interessante, questi sono i primi schizzi che ho fatto come prova. Io e Tom abbiamo scelto i migliori e io li ho sviluppati con il programma, mentre Tom si occupava di fare le ambientazioni. Ci è parso di capire che la struttura doveva essere medievaleggiante ma combinare l'antico con strutture tecnologiche. È abbastanza complesso combinare i due elementi senza farli stonare troppo, io e Tom ci stiamo lavorando» spiegò; porse vari fogli a Nevil, alcuni con schizzi in bianco e nero e altri a colori. Nel frattempo Tom apriva la cartella sulla televisione e iniziava a far scorrere le varie immagini, mentre Nevil alternava lo sguardo tra i fogli nelle sue mani e la tv.
Non diceva nulla, tanto che Aaron e Tom si lanciarono uno sguardo dubbioso: possibile che gli facesse schifo?
«Non ti piace?» azzardò dopo vari secondi Tom.
I due ragazzi guardarono Nevil con sguardo dubbioso, lanciandosi poi un'occhiata.

Ok, gli fa schifo, pensò depresso Aaron. Eppure non gli sembrava così male; cioè, ci avevano pure lavorato tutta la notte, il risultato non era da buttare. Certo, c'era bisogno di alcuni aggiustamenti, ma come prima presentazione non era per niente male.
«Eh?» rispose Nevil, quasi cadendo dalle nuvole.
I due ragazzi lo guardarono confusi.
«Non ti piace?» ripeté Tom.
Nevil lo guardò e poi scoppiò a ridere.
«No, no, certo che mi piace! È un buon lavoro come sempre, ragazzi. Stavo pensando a una cosa» rispose.
Aaron, dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo.
«E cosa?» si azzardò poi a chiedere.
Nevil lo guardò di sottocchio, un poco dubbioso. Poi sospirò, poggiò i fogli sulla scrivania e si lasciò andare sulla poltrona, incrociando le braccia.

Ok, questa cosa non mi sta piacendo, pensò con un brivido Aaron.
Sembrava tanto serio, e la cosa non gli piaceva.
«C'è stata fatta una proposta per creare un gioco sulla base di una graphic novel
» iniziò.
Aaron lanciò uno sguardo a Tom, che ricambiò l'occhiata.
Beh, proprio non capiva il motivo del suo tono serio. Certo, entrambi preferivano lavorare su prodotti originali, piuttosto che basare i giochi su fumetti, graphic novel o simili – avevano maggiore libertà, e lavorare con gli autori spesso era fastidioso – ma alla fine l'avevano già fatto e non era andato male.
«E quindi?» chiese Tom.
«Quindi...» iniziò Nevil, tacendo un attimo, poi guardò Aaron «Il problema non è tanto Tom, ma tu, Aaron»
Aaron si immobilizzò.

Oddio, pensò solo. E ora che aveva fatto?
Ora mi licenzia, fu l'unica cosa che gli venne in mente. Bene, poteva dire addio al suo appartamento e tornare a casa dai suoi. Che tristezza.
Ma non fece in tempo a dire qualsiasi cosa, dato che Nevil riprese subito a parlare dopo aver preso un sorso dal suo bicchiere di acqua e limone.
«Il progetto su cui dovreste lavorare è bello, molto interessante, basato su un target over 18, ha già un numero sostanzioso di fan quindi ci sarebbero buone vendite – ovviamente, se riuscirete a essere abbastanza fedeli alla storia, sapete come sono i fan in queste cose: si attaccano a qualsiasi insulso dettaglio sbagliato» continuò.
«E dove starebbe il mio problema?» chiese a quel punto Aaron, confuso da tutto ciò. Non riusciva proprio a capire dove fosse.
«L'autore ha chiesto di essere partecipe del progetto, altrimenti non se ne fa niente» continuò Nevil, continuando a evitare il nocciolo del problema.
«L'abbiamo già fatto altre volte, Nevil. Puoi essere più chiaro riguardo il problema relativo ad Aaron?» insistette Tom.
«L'autore è una ragazza» rispose secco l'uomo.
«Oh» disse Tom.

Oh, pensò solo Aaron, sbiancando.
«Dimmi che scherzi» fece solo funereo. Nevil sospirò esausto.
«Perché dovrei scherzare su questo?» chiese retorico «Aaron, ascoltami bene: è un buon progetto, potrebbe portarvi molta fama – la graphic novel ha ottenuto molto successo – voi siete tra i migliori qui, mi fido del vostro modo di lavorare e credo che possiate fare un buon lavoro... Ma tu devi mettere da parte la tua stupida fobia» fece secco.
Aaron strinse i pugni, cercando di ignorare quel “stupida” che lo fece irritare e basta.
«Pare che tutti pensino che io mi causo questa fobia da solo, giusto per dar fastidio alle persone» disse solo sarcastico.
«Aaron...» lo richiamò Tom.
Aaron lo guardò infastidito, ma consapevole che avesse ragione. Non poteva di certo mettersi a litigare con il suo capo.
«Posso provarci. Ma non ti prometto nulla» disse alla fine.

Provarci” era una parola grossa: non avrebbe soltanto dovuto scambiarci due parole, ma lavorarci assieme per vario tempo – e ok, c'era Tom, ma questo non migliorava la situazione.
«Ti lascio i disegni qui, se c'è qualcosa che non ti convince chiamami» disse infine, ed uscì dall'ufficio con un “buona giornata” che di buono non aveva proprio niente.
Andò nel suo ufficio e si chiuse dentro, prendendo una bottiglietta d'acqua e bevendola tutta nella speranza che lo facesse in qualche modo calmare. Non cambiò la situazione.
Si sedette sulla sedia girevole dietro la scrivania, sospirando.

Evviva.
Fino a quel momento il suo lavoro non gli aveva mai dato grossi problemi relativi a quella sua fobia – escludendo la segretaria e altre poche donne che ogni tanto facevano capolino lì dentro, ma in fondo non gli era mai capitato di dover lavorare con altre donne. Generalmente quello non era un campo amato dal sesso femminile, era stato tranquillo crogiolandosi in quell'idea che, sapeva, fosse comunque molto labile. Non era comunque strano che una ragazzza si appassionasse a cose del genere, però c'era sempre stata quella – stupida – speranza.
«Posso entrare?»
La voce di Tom lo distolse dai suoi pensieri, facendogli alzare lo sguardo; la porta era socchiusa e la testa di Tom sporgeva dentro.
«Sì» rispose solo.
L'amico entrò chiudendo la porta dietro di sé e poi mettendosi le mani in tasca; Aaron sentiva il suo sguardo addosso in maniera fastidiosa.
«Puoi parlare eh» disse alla fine.
«Sei stato un po' brusco» disse l'amico.
Aaron scrollò le spalle. Lo sapeva, ma non gli importava.
«Dovresti fare qualcosa per farti passare questa fobia. Non puoi andare avanti così, ti causa anche problemi al lavoro. Hai detto che ci proverai, ma sai anche tu che poi dovrò sopportare tutti i tuoi attacchi isterici» continuò Tom.
Aaron si alzò di scatto.
«Cosa credi, che la situazione mi diverta? Lo ripeto, dato che magari sono stato poco chiaro:
non mi causo la fobia da solo. Mettetevelo in testa» disse secco.
Tom sbuffò.
«Lo so, che credi? Proprio perché non te la crei da solo, non pensi di dover andare da qualcuno che possa aiutarti?» chiese, stanco.
Aaron rise sarcastico.
«No. Ci penserò da solo» disse infine. Poi andò verso la porta e la spalancò «Ora vorrei lavorare. Grazie»
Tom lo guardò in silenzio. Non disse nulla e uscì dalla stanza, lasciando che Aaron la chiudesse dietro di lui.
Finalmente da solo, il rosso si passò una mano sui capelli e sospirò.

Ok, è ufficialmente una giornata di merda.

  
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