II
ALI
DI CARTA
«Per
caso... avete dieci dollari da prestarmi?» domandò
Kori, quasi intimorita, ai
suoi fratelli mentre cenavano nella spoglia cucina del loro zio di
Empire.
Komand’r
non le rispose nemmeno, si limitò a continuare a rimestare
svogliatamente la
zuppa nel suo piatto. Era felice che la sorella fosse tornata a casa
dal
collegio per il weekend, a trovarli? Certo che lo era. Lo dava a
vedere?
Assolutamente no.
«Io dovrei
averceli» rispose Ryan, nel frattempo, disponibile.
Amalia
soffocò un sorrisetto. No, lui non ce li aveva. Non dopo che
lei era passata in
camera sua, una sera, prima di uscire. Il suo caro fratellino avrebbe
fatto
meglio ad imparare a nascondere meglio le sue cose.
«Perché
ti
servono?»
«Per
comprare il biglietto del museo. Domani abbiamo una gita
laggiù. A chi paga la
retta la scuola li ha già dati, però... ho perso
il mio...»
Ryan
sospirò pesantemente, per poi scuotere la testa.
«Ti pareva...»
«Per
favore, Ryan! La scuola non effettua rimborsi, ma sono solo venti
dollari, e
dieci ce li ho già! Ti prometto che te li
restituisco!»
«Ma devi
andare per forza? Insomma... è solo un museo,
cos’ha di così entusiasmante?»
Kori si
strinse nelle spalle. «Beh, nulla a dire il vero,
però... verrà anche Richard,
e mi piacerebbe passare un po’ di tempo con lui anche fuori
dalla scuola...»
«Adesso
capisco tutto...» Il ragazzino sghignazzò.
«Vuoi un po’ di intimità con il tuo
fidanzatino...»
Stella
arrossì violentemente e distolse lo sguardo da lui.
«Dai, smettila...» mormorò
appena, facendo ridacchiare il fratello.
Dall’altro
lato del tavolo, Amalia strinse con forza il cucchiaio, fino a farsi
male alla
mano. Richard. Da qualche mese a
quella parte non si sentiva parlare d’altro, in quella casa.
Anche perché le
uniche volte in cui si parlava era quando tornava Kori, circa una volta
a
settimana.
«Te li do
dopo cena, ok? Ma vedi di non esagerare con Richard...»
«Ryan!»
Il rosso
ridacchiò di nuovo. Amalia, intanto, si rabbuiò
ulteriormente. Sentì una
profonda rabbia montarle dentro. Ma che aveva di così
speciale quel Richard?
Lei non lo conosceva, nemmeno lo aveva mai visto, ma era pronta a
scommettere
tutto quello che aveva che era solo l’ennesimo bamboccio che
si era lasciato
incantare da Kori.
Qual è il problema, Amalia? Sei gelosa?
Komand’r si
alzò di scatto dalla sedia, sopprimendo un urlo, portandosi
una mano sulla
tempia. Nel farlo urtò con le ginocchia il tavolo, facendo
tintinnare posate e
bicchieri.
«Komi,
tutto bene?» domandò Kori, con tono sorpreso,
guardandola quasi preoccupata.
Un’espressione molto differente da quella che aveva invece
Ryan.
Amalia
distolse lo sguardo dalla sorella, imbarazzata. «Sto bene.
Vado in bagno.» E
senza dire altro si diresse verso il corridoio, cercando in tutti i
modi di
ignorare lo sguardo di Stella.
Seduta sul
gabinetto, la mora si torturò i capelli con le mani.
«Ma perché?! Perché questa
storia non vuole finire?!» sussurrò a denti
stretti, per poi grugnire
infastidita.
Per quanto
ancora sarebbe dovuta andare avanti in quel modo? Perché non
riusciva a
togliersi dalla testa quel maledetto problema che aveva? Quante altre
ragazze
avrebbe dovuto portarsi a letto per cancellarsi dalla mente quella
trappola dai
capelli rossi?
Se qualcuno
avesse scoperto che cosa nascondeva dentro di lei...
rabbrividì al solo
pensiero. Riusciva perfettamente ad immaginare la reazione dei suoi
genitori.
Sicuramente l’avrebbero cacciata di casa, gridandole che lei
era solamente
stata un errore. E mentre le indicavano la porta, lei avrebbe visto la
delusione e il risentimento che nutrivano nei suoi confronti nei loro
occhi.
Come
biasimarli.
Quando
erano ancora vivi lei non aveva fatto altro che causare loro problemi.
Problemi
su problemi. Scoprire la sua deviazione mentale probabilmente sarebbe
stata la
batosta decisiva, per loro.
Komand’r si
abbracciò le spalle e singhiozzò contro il
proprio volere. Era troppo chiedere
una vita normale? Perché quando si trattava di lei tutto
doveva essere così
incasinato? Che cosa aveva di diverso rispetto a tutte le ragazze della
sua
età?
Amalia si
prese il volto tra le mani, per poi scuotere con forza la testa.
«Cazzo...»
Qualcuno
bussò alla porta, facendola trasalire. «Komi, sei
ancora dentro?» domandò la
voce squillante di Kori dall’esterno.
«S-Sì,
un
attimo...» biascicò Amalia, per poi alzarsi.
Chissà quanto tempo era rimasta
dentro il bagno. E la cosa migliore era che nemmeno lo aveva usato per
davvero.
Si avviò verso la porta e la spalancò, per poi
ritrovarsi di fronte il volto
sorridente di sua sorella.
«Tutto
bene?» le domandò.
Komi
distolse subito lo sguardo da lei. «Certo, perché
non dovrebbe?» chiese a sua
volta, con tono molto più brusco di quello che avrebbe
voluto utilizzare.
Stella si
strinse nelle spalle, mentre il suo sorriso vacillava. «Non
saprei... volevo...
volevo solo...»
«Sto
bene.»
Amalia uscì dal bagno con prepotenza, costringendo Kori a
spostarsi, dopodiché
tirò dritto verso camera sua, senza nemmeno voltarsi.
La sentì
sospirare profondamente, abbattuta, e di conseguenza percepì
una forte fitta di
dolore allo stomaco. Odiava fare così, odiava trattarla in
quel modo, ma non
poteva farci nulla; o quello, o cedere ai sentimenti. E per quanto
stronza
potesse apparire agli occhi degli altri, tutto era preferibile a come
avrebbero
reagito se avessero scoperto cosa teneva nascosto dentro di lei.
Raggiunse
la sua camera e si chiuse la porta alle spalle, per poi abbandonarsi
contro di
essa inspirando profondamente, esausta. I poster delle sue band metal
preferite
appesi al muro sopra il letto le infusero un po’ di coraggio.
Pensò che
probabilmente sarebbe rimasta in camera a spararsi musica ad alto
volume nelle
orecchie per il resto della sera, ma mentre adocchiava la propria
scrivania per
vedere dove aveva lasciato l’mp3, notò il suo
portafoglio posato vicino al
vecchio computer fisso. Si morse il labbro, mentre sentiva il proprio
stomaco
annodarsi nuovamente.
Kori aveva
chiesto dieci dollari, ma Ryan non poteva darglieli, perché
quei soldi se li
era presi lei, ed ora erano lì, proprio in quel portafoglio.
Non le bastava
solo essere scortese con sua sorella, ora doveva perfino impedirle di
poter
andare in quel museo ed essere felice per un paio d’ore con
quel ragazzo. Come
se lei potesse davvero impedire di frequentare chi voleva, con o senza
gita al
museo. Una volta finito con Richard, ne sarebbe arrivato un altro. E
poi un
altro. E poi un altro ancora.
Era così,
Kori. Era sempre stata così. Era una calamita per ragazzi, e
probabilmente
anche per ragazze. E lei avrebbe dovuto imparare a conviverci, o non
sarebbe
più riuscita ad andare avanti.
Sospirò
profondamente ed afferrò il portafoglio, per poi uscire
dalla sua stanza. Sentì
le voci dei suoi fratelli provenire ancora dalla cucina, quindi dedusse
che
Ryan ancora non le aveva dato niente. Con passo leggero si diresse
verso la
camera di suo fratello, per poi sgattaiolarci dentro. Prese i soldi che
aveva
fregato al minore giorni prima, tra cui anche i dieci dollari che tanto
servivano a Kori, e li rimise dove li aveva trovati, nel portafoglio
nascosto
sotto al cuscino. Poi, silenziosa com’era entrata,
uscì e ritornò a barricarsi
in camera sua, rasserenata dal fatto che, forse, per una volta nella
sua
patetica vita era riuscita a fare qualcosa di buono per sua sorella.
Sperò, un
giorno, di trovare il coraggio per potersi riappacificare con lei. Di
sicuro,
avrebbe provato a comportarsi in maniera migliore. Era sua sorella, la
sua
famiglia, e lei, anche se tendeva a nasconderlo, le voleva bene. Forse
anche
troppo, ma non era quello il punto. Avevano sofferto troppo, in
passato, era
stupido ed inutile continuare a vivere in quel modo. Sicuramente non
sarebbe
cambiata da un giorno all’altro, ma si ripromise a
sé stessa che ci avrebbe
provato. Lo avrebbe fatto per Kori, per Ryan e anche per sé
stessa.
Un piccolo
sorriso si accese sul suo volto. Sì, sarebbe cambiata. Per
un futuro migliore,
per poter essere, un giorno, davvero felice assieme alle persone che
amava con
tutto il cuore, ma che spesso faticava a dimostrare.
Si avvicinò
alla finestra e guardò fuori. Il triste paesaggio del Dedalo
si estendeva di
fronte a lei per chilometri e chilometri, ma quella vista non la
turbò.
D’altronde, il peggio ormai era passato. Erano in una nuova
città, in buona
salute, Kori andava al college, Ryan aveva trovato un lavoro e anche
lei dava
il suo contributo, di tanto in tanto. Per quanto barcollante fosse la
loro
situazione, se la cavavano abbastanza bene.
Per una
volta, pensare ad un futuro migliore non le parve più
un’assurdità colossale.
***
Komand’r riaprì gli occhi di
scatto. Una parete bianca
e sporca come la neve accatastata sul bordo della strada apparve di
fronte a
lei. Si sollevò lentamente a sedere, rendendosi conto di
trovarsi sotto alle
lenzuola di un letto. Mugugnò, portandosi una mano sulla
tempia, poi si guardò
attorno. Un armadio di legno ed una finestra da cui filtrava la luce
del giorno
decoravano la stanza. Nient’altro.
Dove sono?
L’ultima cosa che ricordava era la strada
di
periferia sulla quale si era accasciata, più una figura
oscura accovacciata su
di lei. Che collegamento c’era tra quello e la camera da
letto in cui si
trovava? Quei tizi che la stavano inseguendo non l’avevano
uccisa? O forse
l’avevano catturata e portata in quel luogo come loro
prigioniera?
Si accorse ben presto che il dolore al fianco si
era affievolito. Si sollevò la maglietta strappata e con sua
enorme sorpresa
trovò la parte di corpo dapprima ferita ora fasciata con
delle garze bianche e
pulite. Inarcò un sopracciglio. Decisamente, a prelevarla
dalla strada e a
portarla lì non erano stati i suoi inseguitori. Ma allora
chi?
Scese lentamente dal letto, intenta a scoprirlo.
Si sforzò con tutta sé stessa a non pensare al
suo sogno, se così poteva
chiamarlo. Doveva solo concentrarsi sulla situazione attuale e non
lasciarsi
tormentare dai fantasmi del passato per almeno cinque minuti, tempo di
capire
che cosa fosse successo, e dopo avrebbe potuto benissimo ricominciare a
compiangersi per come aveva pensato che tutto potesse andare per il
meglio
proprio il giorno prima dell’esplosione di Empire City.
Il giorno in cui Kori era morta. Il giorno in
cui tutto era di nuovo finito dritto nel cesso.
Amalia strinse i pugni e serrò la
mascella. No,
non doveva cedere a quei pensieri. Non in quel momento.
Afferrò il giaccone
nero che era rimasto sul fondo del materasso, poi aprì la
porta della camera da
letto ed uscì, ritrovandosi in un piccolo corridoio buio che
conduceva
solamente a tre porte, di cui solamente una con un po’ di
luce che filtrava tra
i vetri. Decise di seguire il corridoio ed andare proprio verso di
questa, con
passo felpato, per non allarmare chiunque l’avesse portata
fino a lì. Anche se
le avevano fasciato la ferita, non poteva fidarsi al cento percento.
Era
vulnerabile, e anche disarmata.
Appoggiò la mano alla maniglia e la
abbassò
lentamente. Non appena il primo spiraglio di luce comparve dalla porta,
un
odore molto più gradevole ai quali si era tristemente
abituata invase le sue
narici, accompagnato da un canticchiare sommesso, ma comunque
melodioso, di una
voce femminile.
La ragazza sollevò un sopracciglio, poi
decise
di aprire la porta con un unico, secco gesto. Il canticchiare
cessò
immediatamente, nel momento in cui la mora fece la sua comparsa in
quella
stanza e la donna di fronte a lei, dapprima girata di spalle e china su
un
fornello elettrico, si voltò per guardarla. Dopo un attimo
di stupore iniziale,
questa sorrise. «Oh, sei sveglia. Entra pure, stavo
preparando qualcosa da
mangiare.» Sollevò il cucchiaio di legno che aveva
in mano come a conferma di
questa affermazione, anche se l’odore di uova strapazzate e
carne era una prova
più che convincente.
Komi avanzò di qualche passo, rimanendo
in
silenzio mentre osservava meglio il volto
dell’interlocutrice. Aveva i capelli
lisci e ben pettinati, di un colore argenteo, che arrivavano appena
all’altezza
del collo. Sul volto portava i segni di una bellezza ormai estinta dal
tempo,
ma comunque ancora percepibile alla vista, a causa di alcune rughe
sotto gli
occhi scuri e le guancie scavate.
«Come ti senti? La ferita fa male? Ho
cercato di
rattopparla come ho potuto, ma forse faresti meglio a farti controllare
da
qualche esperto... sempre se riesci a trovarne uno» disse,
con una punta di
macabra ironia nella voce.
«Sto bene» borbottò
Amalia, secca, osservando
quella donna, il cibo sul fornello e il tavolo apparecchiato con piatti
e
posate per due persone come se tutto quello fosse la cosa
più anormale del
mondo. Cosa vera, tra l’altro. Chi era quella donna?
Perché l’aveva aiutata?
Perché le stava preparando... cos’era, pranzo,
colazione? Non sapeva che fuori
dalle mura di quella casa il mondo era caduto a pezzi? No, lo sapeva,
altrimenti non avrebbe fatto quel commento di poco prima. Ma allora
perché?
Forse avrebbe fatto meglio a chiederglielo
direttamente, ora che ci pensava. Ma prima che potesse aprire bocca,
quella la
anticipò. «Mi chiamo Ursula» disse,
tornando a girarsi sul fornello. «Tu
invece?»
La ragazza esitò. Le pareva azzardato
rivelare
il suo nome in quel modo, ma vista la naturalezza con cui lei, Ursula,
le si
era rivolta, forse era giusto ricambiare. E poi, pensandoci meglio, era
solo un
nome. Mica le aveva chiesto la sua sessualità.
«Amalia» rispose, optando per
rivelarle
direttamente il suo nome tradotto, piuttosto che quello originale.
«Amalia» ripeté
Ursula, facendosi pensierosa per
un momento, per poi guardarla di nuovo con la coda
dell’occhio. «Che bel nome.
Mi ricorda "camelia". Sai, no, il fiore. Hai presente?»
«Sì...» Komi
annuì lentamente, anche se non
aveva idea di cosa stesse parlando.
«No, non è vero»
ribatté la donna, ridendo. «Sei
una pessima bugiarda.»
Komand’r sentì le guancie
andare in fiamme. La
cosa peggiore era che il suono di quella risata era tanto bello quanto
innaturale. Non aveva mai sentito nulla di simile, non in quei mesi,
perlomeno.
Era una risata così... spontanea, sincera, non qualche
risata forzata o da
psicopatico come quelle a cui lei si era abituata, tipo quella di
Dreamer.
Era... così strano sentirla. Le
ricordava quella
di Kori. Quella dei tempi in cui le cose andavano meglio, i tempi prima
della
morte dei suoi genitori. E per certi versi... assomigliava anche a
quella di
Tara, probabilmente l’unica ragazza che avesse conosciuto che
ancora sembrava
possedere un pizzico di fiducia e bontà in quel mondo in cui
erano stati
costretti a vivere.
Non appena ripensò all’amica,
Amalia sgranò gli
occhi. Chissà come stava. Non era passato molto da quando
l’aveva salutata,
eppure era un po’ preoccupata. Con tutta la storia dei suoi
poteri ed eccetera,
temeva per la sua salute. Sperò che se la cavasse, che
Rachel e Rosso la
aiutassero. Perché se lo meritava. Non aveva mai fatto nulla
di male a nessuno
e tutte le volte che l’aveva vista, in passato, le era parso
di vedere un fiore
in mezzo ad un campo di erbacce.
Perché per quanto Rachel e Rosso
potessero
cercare di sembrare i buoni della situazione, non erano molto diversi
da
Amalia. Anche loro nutrivano rabbia, odio, rancore, anche se tendevano
a
nasconderlo, proprio come lei. Tara invece no. Non era l’odio
ciò che la
alimentava. Non agiva per vendetta, o per egoismo. Certo, provava
tristezza,
nostalgia, era molto più tormentata di quanto desse a
vedere, ma non era come
loro. Era come Kori, come Ryan e come pochi altri. Lei era... "pura".
Non sapeva come altro descriverla. Le sarebbe piaciuto un sacco
assomigliarle.
«Ehi, ci sei?» La voce di
Ursula la riportò alla
realtà. Amalia trasalì. «Ehm...
sì, scusa. Stavo... pensando.»
La donna la osservò per un momento,
probabilmente domandandosi se stesse avendo a che fare con una qualche
disagiata mentale, poi annuì, rimettendosi ai fornelli.
«Mh, va bene. Comunque,
la camelia è il fiore degli innamorati, secondo la
tradizione. Dovresti essere
felice del fatto che il tuo nome ricordi così tanto una cosa
stupenda come...»
«Senti, perché mi hai
salvata?» tagliò corto
Amalia, con tono molto più duro di quanto avrebbe voluto
usare.
Così duro che per poco Ursula parve
quasi
offesa, facendo sentire di conseguenza Amalia una stupida di prima
categoria.
La donna si voltò di nuovo verso di lei, posò il
cucchiaio e si strinse nelle
spalle. «Ti ho vista sul bordo della strada, sembravi
piuttosto malmessa e
bisognosa di aiuto, io ho solamente... voluto dartelo. Tutto
qui.»
Le due si osservarono a vicenda dritto negli
occhi. Ursula sembrava nascondere qualcosa, Amalia se n’era
resa benissimo conto,
ma di qualunque cosa si trattasse, non era malvagia. Non era la
malvagità a
spingere una persona a cercare di aiutarne un’altra. Certo,
esisteva la
possibilità che Ursula avesse un secondo fine, ma
probabilmente nemmeno quello
era malvagio. Ora che la osservava meglio... Komi notava una sorta di
malinconia dello sguardo dell’albina. Forse quella di Ursula
era solamente
stata compassione, magari aveva voluto aiutarla perché
nessuno in passato aveva
aiutato lei.
Amalia abbassò lo sguardo, sentendosi di
nuovo
in imbarazzo. «Ti chiedo scusa... non avrei dovuto
risponderti in quel modo...»
«Non preoccuparti.» La donna
abbozzò un sorriso.
«Ho capito che tipo sei. È difficile guadagnarsi
la tua fiducia. E francamente,
non ti posso biasimare.» Con gesto della mano, le
indicò il tavolo. «Vuoi
sederti? Tanto qui è quasi pronto. Nel frattempo possiamo
chiacchierare ancora
un po’. Vuoi?»
La ragazza annuì. «Va bene.
Grazie.»
Si accomodò, mentre Ursula continuava a
controllare il cibo sul fornello. In parte, Komand’r non era
ancora molto
convinta da quella situazione. L’albina sembrava riuscire a
leggere dentro di
lei come se fosse un libro aperto. Non riusciva davvero a spiegarsi
tutto ciò.
Forse in passato era stata una specie di psicologa, magari era anche
per quello
che aveva deciso di aiutarla.
«Che ti è successo ieri
sera?» domandò ancora
Ursula. «Chi ti ha ferita?»
Amalia fece una smorfia, ripensando a quanto
accaduto con quei quattro tizi. «Un conduit...»
borbottò, incrociando le
braccia ed osservando con aria assente il piatto di ceramica di fronte
a lei. «Avevo
camminato per qualche chilometro nella zona industriale e mi ero
fermata a
riprendere fiato, quando questi quattro ragazzi hanno accostato vicino
a me e
sono scesi. Non sapevo cosa volessero, ma a giudicare dalle parole del
loro
capo, credo che stessero solo cercando un po’ di compagnia,
se capisci cosa
intendo... peccato che io non ero affatto in vena.»
Ursula fece schioccare la lingua, scuotendo la
testa in segno di disappunto. «Sì, capisco. Che
schifo. E ti hanno aggredita
perché non hai voluto accontentarli?»
Komi piegò la testa.
«Sì e no. Diciamo che la
prima ad estrarre la pistola sono stata io, anche se non avrei mai
potuto
immaginare che due di loro fossero conduit. Mi hanno attaccata, poi uno
di loro
mi ha aggredita e ha cercato di farmi perdere i sensi. Ho capito che se
glielo
avessi permesso le cose non sarebbero affatto finite bene, per me. Sono
riuscita a liberarmi e sono scappata, e loro mi hanno
inseguita.»
«Io non ti giudico di certo. Forse sei
stata un
po’ avventata, ma anche tu hai solo cercato di difenderti. E
comunque bisogna
essere proprio dei vigliacchi per aggredire in quattro una ragazza
sola.»
«Si, beh... ora sono solo più
in tre» commentò
Amalia, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia. Sorriso che
svanì non
appena si accorse dell’espressione basita di Ursula.
«Hai... hai ucciso uno di
loro?» domandò la
donna, a bocca aperta.
Improvvisamente, Komi si sentì minuscola
sotto
il suo sguardo. Non aveva la più pallida idea del
perché, ma si sentiva
parecchio condizionata dal pensiero che l’albina potesse
avere di lei.
«Avevano preso la mia roba»
cercò di
giustificarsi la giovane. «Dovevo riprendermela, ma
c’era questo stronzo di
guardia e io...»
«L’hai ammazzato come il
peggiore dei criminali.
Ho capito» la anticipò Ursula con tono incolore.
Spense il gas e prese la
padella con dentro le uova, per poi versarsene un po’ nel suo
piatto.
«Loro avrebbero ucciso me in ogni caso!
Che
altro avrei dovuto fare?!» domandò a Amalia,
irritata.
«Potevi lasciare perdere. Tanto non mi
pare che
tu abbia riavuto la tua roba. Avevi solo quel giaccone quando ti ho
trovata.»
L’albina prese il piatto della mora, poi cominciò
a riempire anche il suo.
Amalia la osservò, sempre più
accigliata. «Che
ne sapevo io che gli altri tre mi avrebbero beccata?!»
«Non urlare.»
«Non sto urland...»
Komand’r sgranò gli occhi,
interrompendosi di colpo. Si, lo stava facendo. Con le guancie in
fiamme si
portò entrambe le mani di fronte alla bocca, imbarazzata.
Ursula, nel frattempo, andò a prendere
la
padella con dentro la carne. «Non voglio che ti giustifichi
con me per le tue
azioni. Io non sono tua madre, non mi interessa ciò che fai.
Certo, mi da
fastidio sapere di avere aiutato un’assassina, ma sei
comunque una persona. E
in ogni caso non avrei mai potuto abbandonare una ragazza ferita sul
bordo
della strada, alla mercé di chissà quanti
malintenzionati.» La donna posò la
padella sul tavolo, sopra ad uno straccio per non bruciare la tovaglia,
poi
puntò l’indice dritto verso la ragazza.
«Ma voglio che tu sappia che c’è tanta
rabbia dentro di te, e tu stai cercando di tirarla fuori nel modo
sbagliato. E
non credere che io non sappia di cosa sto parlando, perché
io stessa un tempo
ero come te. La rabbia ti consuma, ti senti bloccata in un vicolo
cieco, senza
vie di fuga e l’unica cosa che ti resta da fare è
urlare, mandare tutto a quel
paese, ho ragione?»
Amalia non rispose, si limitò a chinare
il capo.
Quello fu silenzio assenso, per la donna.
«Non si può fuggire da
sé stessi. Non da soli,
almeno. Cercare di farlo... è come volare troppo vicini al
sole con delle ali
di carta. Certo, per un po’ riesci ad andare avanti, ma prima
o poi il calore
te le brucerà. E a quel punto precipitare sarà
inevitabile. E la caduta sarà
dolorosa.»
Komand’r si strinse nelle spalle. Quella
metafora era esattamente ciò di cui non
aveva
bisogno, ma preferì tenere quell’osservazione per
sé. E comunque, era
esattamente così che si sentiva. Stava precipitando, lo
stava facendo già da un
pezzo.
«E come ci si può
salvare?» domandò invece,
quasi con tono implorante. Raramente si era rivolta in quel modo a
qualcuno, ma
quella volta ne aveva bisogno. Aveva bisogno di uscire da quel tunnel
di dolore
e sofferenza in cui da troppo tempo era entrata, aveva bisogno di
liberarsi
dalle sue angosce e dai suoi tormenti. Aveva bisogno di aiuto.
D’altronde, era quello il motivo
principale per
cui aveva deciso di staccarsi dal suo gruppo di compagni di viaggio. Il
suo
obiettivo era riuscire a capire che cosa voleva veramente, doveva
pensare,
riflettere, trovare la sua vera sé. Ed Ursula, forse,
avrebbe potuto aiutarla.
«Qualcuno deve afferrarti al
volo» rispose la
donna, indicandole con il mento la finestra dietro di loro dove, sul
davanzale accanto
ad un vaso per i fiori, si trovava una fotografia.
Raffigurava due giovani donne sorridenti e
strette in un abbraccio, e per Amalia non fu affatto difficile
riconoscere
Ursula. Nell’immagine aveva i capelli a caschetto neri e
lucenti, mentre le
righe del volto erano completamente assenti per lasciar spazio ad una
pelle
abbronzata e priva di imperfezioni. L’altra donna, invece,
aveva i capelli
biondi raccolti in una coda e un paio di occhiali da vista di fronte
agli occhi
azzurri. Era più pallida, ma non per questo meno avvenente
della prima.
Entrambe sorridevano in maniera serena, rilassata, come se al momento
della
fotografia nulla avesse importanza eccetto quel momento.
Un piccolo sorriso nacque sul volto di Amalia
mentre osservava la fotografia in ogni suo piccolo dettaglio.
«Chi è lei?»
domandò, quasi senza rendersene conto. «Una tua
amica?»
Una tenue risatina nacque dalla gola della
donna. «No, non proprio.» Ursula sospirò
quasi nostalgica, mentre Komand’r
spostava lo sguardo su di lei inarcando un sopracciglio.
«Era... la mia compagna.»
La faccia che fece Amalia subito dopo aver
sentito questa affermazione dovette essere davvero sorpresa,
perché non appena
la donna se ne accorse ridacchiò.
«Perché mi guardi così? Non dirmi che
sei
omofoba...»
La ragazza trasalì. «C-Cosa?
N-No, io... no, non
lo sono. È solo che... non me lo sarei
aspettato...»
Ursula annuì. «Sì,
capisco. Beh, vedi, quando
ero giovane io... diciamo che essere omosessuali era quasi
l’equivalente di
essere degli alieni. Non era per niente facile convivere con questa
cosa, per
me. Mi sentivo esclusa, incompresa, non accettata dagli altri. Ero
arrabbiata,
scontrosa, ce l’avevo con tutto e tutti e per sfogarmi
frequentavo locali e
persone non molto raccomandabili.»
Komand’r abbassò lo sguardo
sentendo quelle
parole. Mi ricorda qualcuno..., pensò
amareggiata.
«Ma in cuor mio sapevo che quello era il
modo
sbagliato di comportarsi. Un giorno, poi, ebbi un incidente. Un pirata
della
strada mi lasciò in fin di vita su un marciapiede. Credevo
di essere spacciata,
ma mi risvegliai qualche giorno dopo in ospedale. E qui conobbi un
infermiera.
Lei.» Ed indicò la fotografia.
«Gretchen, che mi spiegò che erano stati degli
omofobi a farmi questo. Cosa di cui non mi sorpresi, visto che gli
episodi di
violenza su di noi erano all’ordine del giorno. Qualunque
omosessuale che
avesse avuto il coraggio di dichiararsi tale apertamente, come me, non
faceva
quasi mai una bella fine. Ma avrei preferito morire, piuttosto che non
essere
libera di essere me stessa. E Gretchen la pensava esattamente come me.
Ed è
stato allora che ho capito di non essere davvero sola. Lei mi ha
afferrata, e
mi ha salvato la vita. Il resto... beh, suppongo che tu possa ben
immaginarlo.
Quindi...»
Ursula riportò l’attenzione su
di lei. «...
credimi, quando ti dico che so bene cosa si prova ad essere arrabbiati.
Non sei
la prima e non sarai neanche l’ultima ad avercela con il
mondo per chissà quale
ragione. Tutto quello che ti serve è qualcuno che sia
disposto ad afferrarti.
Qualcuno che possa ascoltarti, capirti, amarti.»
Amalia soffocò una smorfia sentendo
quelle
parole. Se davvero fosse stato così facile risolvere i suoi
problemi,
probabilmente non si sarebbe trovata lì. Nessuno poteva
capirla veramente. Lei
stessa non riusciva ad accettarsi, come potevano farlo gli altri?
Scosse lentamente la testa, sospirando.
«Nessuno
può capirmi, tantomeno amarmi.»
«Io pensavo lo stesso di me.»
«Ma questa volta è
vero!» protestò Amalia,
sollevando lo sguardo ed inchiodandolo sugli occhi neri di Ursula.
«Io... non
sono normale. Le persone normali non... non avrebbero i pensieri che ho
io.»
«Quali pensieri?»
domandò allora l’albina, con
voce più morbida.
Komand’r si strinse nelle spalle.
«Non... non
voglio parlarne...»
«Perché non vuoi?»
«Perché non voglio vedere...
quello sguardo.»
Ursula sollevò un sopracciglio.
«Quale sguardo?»
«La commiserazione!»
esclamò Amalia, con voce
incrinata. «Non intendo essere guardata dall’alto
verso il basso da nessuno!
Non intendo essere giudicata dagli altri, io stessa mi giudico
già abbastanza!
Io so chi sono, so quello che ho fatto e so che è un
qualcosa che non potrà
essere cambiato in alcun modo, e tutto questo altro non è
che un problema mio!
Non mi serve qualcuno con cui confidarmi, un’altra persona
pronta a liquidarmi
con un "oh, mi dispiace", per poi guardarmi schifata non appena
rivolgo lei le spalle!»
«Se qualcuno farà
così con te allora significa
che non è chi cerchi» rispose Ursula, calma di
fronte al repentino cambio di
umore di Komi. «Anche io all’inizio pensavo che
Gretchen fosse un’altra di quei
bigotti omofobi, ma mi sono sbagliata. Lei mi ha capita, mi ha aiutata,
mi ha
regalato emozioni indescrivibili ed indimenticabili. L’ho
amata come lei ha
amato me, ed insieme eravamo felici. Quando c’era lei, io non
pensavo ad altro
che a noi. Mi ha salvato la vita. Mi ha salvata da me stessa. Ma se tu
non
riesci a capirlo, allora forse meriti davvero di rimanere sola e chiusa
nel tuo
odio.»
L’albina le si avvicinò, per
poi posarle una
mano sul ginocchio. «Io forse non posso capirti come tu
vorresti, ma
rifletti... c’è qualcuno, la fuori, che forse
potrebbe farlo? Qualcuno che
possa aiutarti a dimenticare ciò che hai fatto, che ti aiuti
a voltare pagina? Perché,
credimi, non è affatto facile riuscirci. Soprattutto se si
è soli.»
Amalia si mordicchiò un labbro. Non
voleva
davvero rimanere sola. Ma non voleva neanche essere giudicata. Aveva
paura di
cosa gli altri avrebbero potuto pensare di lei. Rachel,
l’unica persona con cui
si era confidata, e neanche in maniera troppo chiara, non era stata
davvero in
grado di aiutarla. Certo, la sua reazione era stata probabilmente la
migliore
che avrebbe potuto aspettarsi, ma alla fine non aveva cambiato davvero
le cose.
Poi chi altro c’era? Rosso? Probabilmente
nemmeno lui l’avrebbe giudicata, ma l’ultima cosa
che desiderava era apparire
debole dinnanzi ai suoi occhi. Piuttosto che quello, avrebbe preferito
tirare
le cuoia direttamente.
A quel punto restava lei. Tara. L’avrebbe
capita? Probabilmente sì. L’avrebbe giudicata?
Probabilmente no. Ma non voleva
comunque coinvolgerla nei suoi casini. Non era giusto nei suoi
confronti, nei
confronti di quella ragazza che non aveva fatto del male a nessuno e
che aveva
perso comunque tutto ciò che amava. Il suo ragazzo, la sua
famiglia, la sua
vita. Rivolgersi a lei sarebbe stato un atto tremendamente egoista, e
lei non
voleva più comportarsi in quel modo.
La ragazza sospirò.
«Io...»
Un suono stridulo proveniente da fuori dalla
finestra la costrinse ad interrompersi di scatto. Sia lei che Ursula
drizzarono
il capo, sorprese. «Ma cosa...?» domandò
la donna, per poi alzarsi ed andare ad
affacciarsi. Non appena lo fece, spalancò gli occhi.
«Oh no...»
Quella reazione non piacque per niente ad
Amalia. «Che succede?» domandò,
allarmata, alzandosi subito in piedi e
affiancandola. Non appena anche lei vide cosa c’era fuori
casa, rimase sorpresa
tanto quanto Ursula.
Proprio sotto di loro, in strada, un pick-up si
era fermato sul ciglio della carreggiata. Di fianco a lui,
probabilmente scesi
da poco, si trovavano i suoi passeggeri, e tutti e tre stavano
guardando
proprio verso le finestre sopra le loro teste, con l’aria
alquanto corrucciata.
Amalia non poté credere alla propria sfortuna. Proprio sotto di lei... si trovavano i conduit che l’avevano aggredita.
Sì, ho pubblicato in
fretta, ma è solo perché volevo subito togliermi
dalle scatole questi primi due capitoli che tanto ormai conscete bene
(mi riferisco a chi ha già letto Sbagliata), se invece siete
nuovi su questa storia, beh, vi è andata di fortuna. In
genere io non aggiorno così presto. Finalmente, il prossimo
capitolo sarà quello che nessuno aveva ancora avuto l'onore
di leggere, perciò urrà!
Vabbene, alla prossima!
Paper Wings