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Autore: Adeia Di Elferas    06/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ovunque c'erano solo fango gelido, grida di dolore e di battaglia e sangue.

La parte più concitata dello scontro era cominciata da nemmeno un'ora, ma a chi vi stava prendendo parte pareva di essere nel gorgo dello scontro da secoli.

Rodolfo Gonzaga, muovendosi agile con i suoi quarantatré anni spesi quasi tutti a combattere o ad addestrarsi per farlo al meglio, era ancora in sella. Non vedeva più suo nipote, né Ranuccio Farnese, ma sapeva che lo scontro tra le cavallerie pesanti non sarebbe durato ancora a lungo.

Finito quell'assalto, forse, una delle due parti avrebbe ordinato la ritirata, o forse si sarebbe deciso di combattere fino all'ultimo fiato, comunque restava il fatto che le bestie erano stremate e i cavalieri armati in modo possente non erano più freschi delle loro cavalcature.

Respingendo due appiedati che cercavano di disarcionarlo, Rodolfo finalmente vide tra la folla contratta e confusa un'armatura che ben conosceva. Re Carlo, il venticinquenne arrogante e stolto che a suo tempo aveva accettato di prendere parte al piano infausto di Ludovico il Moro, era momentaneamente sprovvisto di scorta.

Il suo viso era celato dall'elmo decorato, ma Rodolfo non aveva il minimo dubbio. Spronò il suo cavallo, che nitrì tanto forte da sovrastare per un momento il fracasso che lo circondava, e in due ampie falcate, Rodolfo si trovò davanti a re Carlo.

Il giovane francese, che stava tenendo a distanza tutti usando una picca svizzera, si accorse subito del braccio roteante di Rodolfo, che puntava senza ombra di dubbio a colpirlo alla testa con il suo spadone.

Carlo VIII scartò di lato appena in tempo per mandare a vuoto il Gonzaga, che, mancando il bersaglio, subì un brutto contraccolpo e quasi perse l'equilibrio.

Mantenendo a fatica le redini nella mano guantata di ferro, Rodolfo si adoperò a far girare la sua bestia, né più e né meno di come avrebbe fatto nel corso di una giostra.

Mentre faceva questa ampia manovra, però, un fante francese andò sotto al cavallo e, prima di essere travolto dagli zoccoli impazziti del povero animale, gli squarciò il ventre con la spada.

Mentre i visceri dello stallone di Rodolfo Gonzaga uscivano accompagnati da fiotti di sangue caldo, re Carlo fu di nuovo impegnato a tenere a bada dei nemici che tentavano di pungolarlo dal basso, anche se ormai la scorta del francese si era riformata e quindi nessuno poteva avvicinarglisi più di tanto.

Rodolfo si tolse a fatica da sotto il peso funesto del suo cavallo ormai morto e fu pressoché sicuro di avere una gamba rotta. Per fortuna, però, un cavaliere sforzesco gli arrivò accanto e si sporse dalla sella per porgergli un braccio in aiuto.

“Scendi da lì!” ululò Gonzaga, recuperando da terra la spada e strattonando il suo alleato: “Ho da fare una cosa di massima importanza!”

Obbedendo al suo superiore, l'uomo in sella smontò subito e aiutò il dolorante Rodolfo a prendere il suo posto.

Dopo aver dovuto difendere la sua nuova cavalcatura da un paio di picchieri, il Gonzaga ebbe un attimo per scrutare l'orizzonte. Aveva la vista annebbiata e la nausea. Non aveva più dubbi, doveva essersi rotto qualcosa e, probabilmente, sotto il ferro che gli copriva la gamba c'era una ferita che sanguinava in modo irrefrenabile. Ma non era un suo problema, in quel momento.

Per far fronte alla difficoltà di visione, Rodolfo alzò la celata dell'elmo e strinse le palpebre contro la luce stentata, ma fastidiosa, di quel pomeriggio.

Mentre cercava affannosamente il profilo pomposo di Carlo VIII in mezzo a tutti quegli uomini immaltanati e insanguinati, l'uomo non vide arrivare al suo fianco un altro cavaliere bardato coi simboli di Francia.

Sentì degli zoccoli avvicinarsi furiosamente da un lato e così voltò la faccia verso la sorgente del nuovo rumore.

Fece appena in tempo a capire quello che stava accadendo, che la punta di uno stocco francese gli si conficcò nell'occhio, proprio laddove la celata non lo riparava più.

 

Isabella Este ebbe un leggero fremito alle mani, tanto che per poco non rovesciò il vino che riempiva il suo calice.

“State bene?” chiese il musicista Marchetto Cara, sporgendosi verso la Marchesa con apprensione.

Quel giorno, come l'uomo aveva fatto spesso in quel periodo, Cara era a palazzo dalla sua signora per mostrarle alcuni suoi nuovi componimenti.

La dimostrazione di fiducia e affetto che i Gonzaga, in particolare la Marchesa Isabella, sapevano dimostrare a lui e ad altri letterati, musicisti e artisti, era per Marchetto una vera consolazione.

In un'Italia che sembrava capace di pensare solo alla guerra, quando anche Firenze, per colpa del domenicano Savonarola, si era messa a denigrare l'arte e la sua bellezza, trovare una corte tanto viva e attenta ai bisogni dell'anima era come un balsamo per lo spirito.

Ecco perché, vedendo quel momento di smarrimento della Marchesa, Marchetto si adoperò subito per aiutarla.

La vedeva pallida e non gli era sfuggita la fronte imperlata di sudore, benché le temperature fossero decisamente clementi quel giorno.

L'aveva vista distratta fin da subito, ma, ora, quel tremore alle mani lo aveva impensierito più di ogni altro dettaglio.

La donna, che si stava intrattenendo con quel compositore solo per distrarsi dal pensiero pressante della battaglia che di certo si stava consumando proprio in quelle ore a Fornovo, scosse piano il capo.

Marchetto appoggiò i fogli su cui stava leggendo la sua nuova frottola e prese dalle mani pallide e fredde della sua signora il calice per sistemarlo sul tavolo. Isabella lo ringraziò tacitamente, mentre un crampo fastidioso le prendeva la bocca dello stomaco.

Le capitava spesso di essere in ansia per suo marito, ma quella volta c'era qualcosa di diverso.

Era certa che non fosse accaduto nulla a Francesco, altrimenti l'avrebbe saputo. Aveva fatto più volte richieste in preghiera alla Madonna affinché le mandasse un segno, nel caso in cui suo marito fosse caduto in battaglia, quindi la sua fede le diceva che lui era ancora vivo.

Tuttavia, quel dolore sordo nel centro del petto aveva qualcosa di sinistro che non le quadrava.

Benché fosse ancora pomeriggio, Isabella decise di ritirarsi a riposare.

Con un sorriso un po' spento si scusò con Marchetto e fece segno a una delle sue dame di compagnia di avvicinarla. La serva accorse subito ed eseguì l'ordine della Marchesa, che voleva essere sostenuta e scortata fino nelle sue stanze.

Una volta sola nel letto, dopo essere stata cambiata e aiutata a sdraiarsi, senza apparente motivo, Isabella scoppiò a piangere, sicura come non mai che a breve avrebbe dovuto versare lacrime sul corpo di un qualche congiunto.

 

Gli uomini guidati da Antonio da Montefeltro non erano riusciti a dare il supporto necessario a Francesco Gonzaga, che pure aveva gridato l'ordine con tutto il fiato che gli era rimasto in corpo, perciò l'affondo finale ai francesi era venuto meno.

Il Marchese di Mantova, stremato per la lotta e dolorante per una seconda caduta da cavallo, vide con rabbia i francesi che cominciavano a riparare verso la collina.

Ordinare ai suoi di inseguirli sarebbe stato da folli e da presuntuosi, perciò diede voce di non andar dietro al nemico, ma di lasciarlo scappare.

In quello che parve un istante solo, gli uomini di Carlo VIII lasciarono il campo di battaglia e sparirono oltre la nebbia fuori stagione che si era appena alzata, mentre il pomeriggio, con lentezza esasperante, si stemperava nella sera.

Quando fu chiaro che lo scontro era da considerarsi chiuso, Francesco assicurò la spada alla sella e occhieggiò tutt'attorno a sé.

Morti ovunque. Sangue ovunque. Feriti ovunque.

“Rodolfo!” chiamò: “Rodolfo!”, ma nessuno rispondeva.

'Ma dove si sarà cacciato...' pensò Francesco, sputando in terra un grumo di sangue e un pezzo di dente.

“Ah! Ludovico!” chiamò, quando finalmente riconobbe tra i visi sconvolti e sporchi quello di un altro dei comandanti.

Pico gli si avvicinò, dando di sprone al suo cavallo che zoppicava leggermente: “Che c'è?” chiese, mettendo in mostra un occhio gonfio e un taglio accanto al labbro.

Il Marchese di Mantova si scrollò i capelli impastati di fango e disse: “Fate radunare tutti i comandanti nel mio padiglione. Dobbiamo subito chiedere un giorno di tregua ai francesi per recuperare i morti. E poi...” diede un colpo di tosse e un dolore trafittivo alla schiena gli tolse il fiato per un attimo: “Poi dobbiamo scrivere subito a Venezia, appena avremo un quadro delle perdite.”

Ludovico Pico fece un cenno con il capo e si prodigò subito a mettere in atto quello che Gonzaga gli aveva detto.

Francesco, stufo di starsene nell'umidità e nell'odore pungente del sangue e della morte, fece ripartire il suo cavallo per raggiungere il prima possibile l'accampamento di Fornovo.

 

“Madre?” Cesare Riario, vestito di nero e con un testo sacro sotto al braccio, entrò con un po' di titubanza nello studiolo del castellano di Ravaldino, dove la Contessa stava passando quel che restava dell'ultimo pomeriggio prima di raggiungere il resto della famiglia per la cena.

La donna, che aveva ormai abbandonato da un po' le carte che stava ossessivamente scrutando fin dall'alba, teneva lo sguardo fisso verso la piccola finestra oltre la quale si vedeva la luce calante di quello strano giorno di luglio.

Con un sorriso abbastanza accomodante, Caterina accolse il suo secondogenito e chiese: “Vuoi dirmi qualcosa?”

Cesare si schiarì la voce, improvvisamente colto dall'ennesimo ripensamento, ma, allargandosi il colletto dell'abito con due dita, riuscì infine a trovare la voce, mentre si avvicinava alla scrivania dietro cui stava la madre: “Ecco, io e Bianca – disse, sentendosi doppiamente traditore per aver coinvolto con quel semplice incipit anche l'ignara sorella – stavamo pensando che sarebbe bello, uno di questi giorni, venire a caccia assieme a voi.”

La Contessa abbandonò subito il sorriso conciliante di poco prima e si fece più seria. Sporgendosi sul legno scuro del tavolo, fece segno al figlio di sedersi difronte a lei.

Il ragazzino eseguì, provando una fitta di panico. Possibile che, per qualche imperscrutabile motivo, sua madre avesse già capito tutto? C'erano delle spie? Qualcuno aveva sentito lui e Ottaviano discutere?

“Come mai vorreste uscire a caccia con me? Credevo che fosse un passatempo che non vi interessa.” disse Caterina, a voce bassa, cercando di capire da dove nascesse quell'improvvisa proposta.

Passandosi una mano sulla tonsura rasata di fresco, Cesare rispose, un po' in imbarazzo per dover mentire tanto spudoratamente: “Ecco, vi vediamo molto stanca in questi giorni...” cominciò, deglutendo un paio di volte mentre le sopracciglia della madre si sollevavano per lo scetticismo: “E così abbiamo pensato che vi potrebbe far piacere un'uscita tutti assieme.”

La Contessa si abbandonò contro lo schienale e sospirò: “Se proprio ci tenete...”

“In più – proseguì Cesare, che, pur non volendo essere troppo spietato, sapeva dove colpire per ottenere un risultato – Bianca dice che le farebbe piacere poter parlare con voi, durante una di queste uscite, di Astorre Manfredi.”

Quell'accenno fu sufficiente per far rizzare le orecchie a Caterina, che riacquistò molto interesse per tutta la faccenda. Sapeva di essere stata scorretta con Bianca. Non le aveva dato il giusto ascolto e dunque era di vitale importanza cogliere quell'amo lanciato per mezzo del fratello.

“Se è così...” fece la Contessa, ritrovando un barlume di sorriso: “Allora puoi dire a Bianca che sarò felice di assecondare questa richiesta, non appena avremo notizie da Fornovo.”

Cesare annuì, senza capire a fondo cosa mai c'entrasse Fornovo in quel discorso, e aggiunse il tocco finale, su cui Ottaviano aveva insistito molto, nell'istruirlo a quella chiacchierata.

Con voce casuale, mentre si rialzava per andare alla porta, Cesare soggiunse: “E, ovviamente, saremmo felici se venisse con noi anche il Barone Feo.”

La madre strinse per un attimo gli occhi, ma alla fine si convinse che non ci fosse nulla di strano in quell'ultima concessione. Sia Cesare sia Bianca non avevano mai dimostrato nei confronti di Giacomo l'odio che aveva sempre infiammato Ottaviano, dunque era plausibile pensare che a loro non desse troppo fastidio la sua presenza.

In uno slancio di ottimismo, Caterina lasciò uscire il figlio dicendo: “In tal caso, se gli andrà, potrà unirsi a noi anche Ottaviano.”

'Chissà mai – pensò – che finalmente lui e Giacomo imparino ad andare d'accordo.'

 

Le staffette mandate verso il punto in cui i francesi si erano ritirati erano tornate a notte fatta dicendo che re Carlo se l'era data a gambe, sganciandosi dalla battaglia con il favore del buio, lasciando senza alcuna remora i suoi morti sul campo.

“A questo punto – aveva detto allora Ludovico Pico – cominciate pure a contare le nostre perdite, e domattina recupereremo i corpi dei nostri caduti. Per il momento, prendete i carriaggi di Carlo e portateli al nostro campo.”

Così la notte era trascorsa e appena venne fatta una stima grossolana delle perdite fu chiaro che militarmente quella battaglia era stata per la Lega un vero sfacelo.

Pur se con parole di miele, Francesco Gonzaga fu costretto a far scrivere una missiva realistica al Doge di Venezia, che aspettava con ansia notizie dal fronte.

Mentre dettava, con voce spezzata e nervosa, Francesco non riusciva a fare altro che chiedersi dove si fosse cacciato suo zio Rodolfo.

Alle prime luci dell'alba, senza che né lui né Pico fossero riusciti a riposare nemmeno un secondo, presi dal riorganizzare l'esercito, dal valutare la condizione dei feriti e dei prigionieri e dal mettere al sicuro l'ingente bottino di quella giornata campale, Antonio Maria Sanseverino prese da parte il Marchese di Mantova.

“Abbiamo cominciato a recuperare i corpi – gli disse, con gravità – e tra i caduti c'è anche vostro zio Rodolfo.”

Francesco Gonzaga lo guardò per un momento con un'espressione incredula e poi, ritrovando la logica, si rese conto di averlo sospettato fin dal primo momento. Ciò però non bastò a placare la sua ira.

Strappatosi di dosso il cinturone, gettò la spada in terra e lasciò il padiglione quasi di corsa, imprecando e bestemmiando come mai nessuno lo aveva visto fare.

Antionio Sanseverino e Ludovico Pico si scambiarono un'occhiata sconsolata, ma fu Virginio Orsini, che se ne stava in un angolo a ripulirsi una piccola ferita al braccio, che prese in mano la situazione e filò dietro al Marchese.

Lo trovò in un punto isolato del campo, oltre le salmerie, e capì subito dai movimenti convulsi delle sue spalle che stava piangendo.

“Vostro zio ha dato la vita per la gloria dell'Italia, caro Gonzaga.” disse piano Virginio, restando a distanza, per non mettere a disagio il condottiero che, accortosi della sua presenza, stava tentando di ricacciare indietro le lacrime.

“Ma quale gloria..!” sbottò Francesco, la voce un po' incerta: “Questa è stata una disfatta! Carlo è scappato, noi abbiamo perso un sacco di uomini, l'artiglieria pesante non è arrivata in tempo, gli stradiotti si sono dati al saccheggio invece che seguire i miei ordini, la mia strategia si è dimostrata del tutto inadatta a questo campo, io non sono riuscito nemmeno a...”

Virginio, comprendendo subito il danno che il Marchese avrebbe avuto se fosse stato visto da altri generali o dalle truppe in quello stato, si prodigò per calmarlo.

Con passo felpato gli si fece abbastanza appresso da appoggiargli una mano sulla schiena e dirgli nell'orecchio, con tono deciso, ma comunque rassicurante: “Tutti fanno errori, ma questa non è stata una disfatta. Non è così che verrà ricordata, credete a me.”

Francesco voltò il viso verso quello dell'Orsini. I suoi occhi arrossati e gonfi per il dispiacere, la rabbia e la stanchezza riflettevano la luce insicura del primo sole di quel mattino freddo di luglio.

“Anzi – proseguì Virginio, riconoscendo nello sguardo del mantovano un fremito di speranza che andava alimentato fin da subito – avete sbagliato a scrivere in quei termini al Doge. Dovevate dirgli che questa è stata una grande vittoria. Ci è costata molto, è vero, ma ci ha fatto guadagnare ancora di più.”

Il Marchese registrò distrattamente la disinvoltura con cui l'Orsini si inglobava nello schieramento dei vincitori, pur avendo cambiato bandiera da poco più di un giorno.

“Questa battaglia dovrà per forza passare alla Storia come una grandissima vittoria. Abbiamo tutto l'oro di re Carlo, tutti i suoi preziosi e tutti i suoi soldi. Sarà anche riuscito a scappare, ma se ne torna in Francia più povero di quando è partito e decisamente meno baldanzoso.”

“Ma noi abbiamo perso più di tremila uomini, loro nemmeno mille!” ribatté Gonzaga, ritrovando per un istante la rabbia di poco prima.

Virginio fece spallucce, mentre una piccola smorfia di dolore gli rigava il viso, per via della ferita che aveva un po' risentito di quel lieve movimento: “E allora? Il Duca di Milano si sentirà più vincente grazie a tutto l'oro dei francesi di quanto non si sarebbe sentito a vincere con zero caduti contro diecimila!”

“Il Duca di Milano?” chiese Francesco, il labbro superiore sollevato in un'espressione ferina.

“Ludovico Sforza – confermò Virginio, non comprendendo la reazione del mantovano – per lui questa battaglia era di estrema importanza per...”

“Questa battaglia non ha nulla a che fare con il Moro.” sibilò Francesco, mentre poco distante le salmerie si rianimavano per i primi pasti mattutini richiesti dagli uomini che avevano sputato sangue sul campo fino a poche ore prima: “Io, qui, il Duca Sforza non lo vedo! Noi stiamo combattendo questa guerra, non lui! Noi moriamo per i suoi capricci! Mio zio è morto per le sue ambizioni!”

“Calmatevi, Gonzaga.” gli intimò Virginio, scorgendo con la coda dell'occhio uno degli addetti al rancio che guardava curioso in loro direzione, probabilmente attirato dalle urla del Marchese.

“Suo fratello Galeazzo – continuò Francesco, moderando appena la voce – era pazzo, ma almeno aveva il fegato di indossare un'armatura e combattere contro il nemico, invece Ludovico Sforza è solo un codardo e non merita altro che di fare una brutta fine.”

“Queste sono parole molto pericolose.” Virginio prese per un braccio il mantovano e puntò le pupille nelle sue: “State attento a quello che dite, il vostro è un piccolo Stato, rispetto al Ducato di Milano.”

Gonzaga colse l'antifona e cercò di ritrovare la calma, benché fosse tutt'altro che semplice.

“Per il momento – concluse Virginio, prima di ricondurre il recalcitrante Marchese di Mantova nel suo padiglione – voi dovete occuparvi solo di una cosa: ricavare il più possibile da questa vittoria, perché è una vittoria, caro Gonzaga. Voi dovete fare di tutto per convincere tutti quanti del fatto che in questo campo, su questo fiume, la Lega è stata capace di mettere in fuga i francesi e di impossessarsi di tutto il loro bottino. Dovete far sì che da oggi in poi tutti non vi considerino più solo il Marchese di Mantova, oggi al soldo di uno, oggi al soldo dell'altro. Da oggi, amico mio, voi siete Francesco Gonzaga, l'eroe di Fornovo!”

 
   
 
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