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Autore: Adeia Di Elferas    08/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Senato di Venezia era stato radunato in fretta e furia la sera del 7 luglio per sentire le notizie appena giunte dai pressi di Fornovo.

Il Doge, Agostino Barbarigo, presiedeva la riunione con un'espressione truce e un'ombra sinistra negli occhi. Non gli era piaciuto il tono mesto con cui il messaggero si era annunciato e nemmeno era stato rassicurato dalle poche parole spezzettate che gli aveva anticipato.

Tuttavia, prima di chiedere ulteriori spiegazioni, aveva ritenuto necessario chiamare i Senatori, affinché tutti sentissero nello stesso momento e si potesse passare a eventuali decisioni e votazioni senza lasciar passare l'intera notte.

Con un gesto ampio della mano, il Doge permise finalmente al messo della Lega di parlare e così questi, ridotto a uno straccio dalla folle cavalcata che lo aveva condotto fino a lì, prese la parola: “Io parlo a nome del Capitano Generale Francesco Gonzaga per riferire l'esito della battaglia contro re Carlo di Francia, avvenuta sul fiume Taro.”

Mentre l'inviato del Marchese di Mantova proseguiva il suo discorso, riportando le stime delle perdite, dei prigionieri fatti e dello scontro più in generale, Agostino si passava pensoso una mano sulla candida barba, la pelle olivastra resa appena più pallida dalla luce spettrale che le candele accese in giro per il salone gettavano addosso a lui e ai convenuti.

Il resoconto, per quanto ancora poco dettagliato, dello scontro non faceva ben sperare. Comunque uno la guardasse, quella di Fornovo appariva una vittoria francese e una disfatta italiana, poco contava se alla fine re Carlo era scappato abbandonando il campo di battaglia.

“Questo è tutto?” domandò il Doge, quando la staffetta smise di parlare.

“Sì, è tutto, Serenissimo.” rispose lo stremato messaggero.

“Bene – concluse Barbarigo, mentre i Senatori cominciavano a vociferare concitatamente tra loro, gesticolando in modo frenetico – aspettiamo ovviamente ragguagli più precisi dal Marchese Gonzaga, ma per il momento vi ringraziamo.”

Il messo ricambiò con un inchino e accettò di buon grado l'invito del Doge a ritirarsi per riposare in una stanza predisposta per lui.

Piero Medici, assieme a Paolo Orsini, era appena fuori dal palazzo e aspettava di sapere novità.

Come altri abitanti di Venezia, aveva capito che era successo qualcosa, perché era rarissimo che il Senato si riunisse a quell'ora, ma non gli era stato permesso di entrare.

Quando l'esule fiorentino intravide la staffetta uscire nel buio della notte veneziana, lo rincorse e lo fermò con una certa irruenza, fingendo di non notare la contrazione nei muscoli potenti della guardia che seguiva il messaggero.

Sovrastando a fatica il rumore delle acque dei canali, che da tutto il giorno erano agitate come se si fosse stati in mare aperto, il Fatuo domandò: “Che si dice? Che succede?”

“Succede – rispose a voce bassa il messo – che a Fornovo s'è persa una grande occasione.”

Invogliato in modo poco gentile dalla guardia a lasciar andare via la staffetta, Piero mollò la presa sulla manica umida che stava stringendo come fosse l'ultima ancora di salvezza e restò muto a guardare allontanarsi il portavoce di una simile notizia.

Paolo Orsini, che era poco distante e aveva sentito benissimo, non sapeva come reagire. Non aveva notizie certe su Virginio e sugli altri Orsini. Una sconfitta della Lega per la sua famiglia poteva essere una catastrofe così come una manna.

Mal interpretando la smorfia di incertezza di Paolo, credendola un'espressione di puro stupore, Piero deglutì e tentò di fargli coraggio, per farne un po' anche a se stesso: “Questa per noi è una grande notizia.” disse: “Perché re Carlo è amico nostro. Lo si è incontrato prima della sua discesa e lo si è avuto grande amico...”

Ma più parlava, più il Fatuo non poteva non ricordare come Savonarola avesse preso il potere proprio grazie a quel re di Francia che, pur con meno uomini e con più stanchezza addosso per la lunga campagna in terra straniera, aveva saputo farsi beffa dell'Italia intera.

 

Giovanni Medici si era risvegliato molto prima dell'alba, colpito da un dolore improvviso e lancinante a un ginocchio.

Senza riuscire in alcun modo a trovare requie, aveva passato il tempo che lo separava dall'alba rigirandosi come un martire sulla graticola, avviluppandosi nel lenzuolo e tuffando il viso nel cuscino, nella speranza di cancellare almeno in parte il tormento che aveva preso la sua povera articolazione, che pulsava, gonfia e rovente.

Per non pensare a quello che stava accadendo a Fornovo, aveva passato tre giorni a fare movimento, camminate, sessioni d'allenamento con il maestro d'armi, e si era sentito bene. Eppure, quella mattina il suo fisico gli stava chiedendo di pagare un conto molto salato.

Non era la prima volta che gli capitava di avere dei dolori dopo un'intensa attività fisica, ma mai di quella entità.

Tanto afflitto da faticare perfino a respirare, Giovanni morse il bordo del guanciale e picchiò due volte il pugno chiuso contro il materasso.

Il bussare insistente e invadente di qualcuno alla porta fece rinsavire un po' il giovane, che, sforzandosi di non gemere, chiese a voce alta chi mai lo stesse disturbando a quell'ora.

“Sono io, fratello!” rispose la voce di Lorenzo.

Giovanni, allora, si rimise dritto nel letto, si coprì il ginocchio gonfio e si passò una mano sul viso, sperando di cancellare un po' il segno delle lacrime che gli erano sfuggite mentre si lasciava masticare l'anima dal dolore.

Deglutì un paio di volte, resistendo a fatica alla tentazione di raggomitolarsi di nuovo su se stesso per affrontare meglio il male, e diede il permesso al fratello maggiore di entrare.

Lorenzo recava in mano un foglio di pergamena e sotto al naso schiacciato campeggiava un sorriso trionfale che però si affievolì nel momento in cui vide le condizioni in cui versava Giovanni.

Era pallido, madido di sudore, tremava quasi, e, benché fosse coperto fino al mento e stesse fingendo di essersi appena risvegliato, i suoi occhi cerchiati lasciavano intendere che il risveglio risalisse a molte ore prima e che fosse stato abbastanza traumatico.

“Cosa c'è, Giovanni? Non stai bene?” domandò il Popolano più vecchio, avvicinandosi in un lampo al letto.

L'altro prese con ambo le mani il bordo della coperta e la tirò ancora più su, rispondendo: “Io sto bene – deglutì per controllare la voce e poi soggiunse – hai notizie da Fornovo?”

“Che diamine, fratello, tu non stai bene affatto...” e così dicendo Lorenzo allungò una mano per sentire la fronte del più giovane, che però si scostò di malagrazia.

“Ti ho detto che sto bene!” ribadì con aggressività Giovanni.

Quel modo di porsi era talmente estraneo al fratello minore, che Lorenzo ebbe la conferma in quello scatto del fatto che stesse davvero male: “Ti mando subito un medico.” disse, tornando verso la porta.

“Aspetta!” lo richiamò Giovanni: “Prima dimmi che novità ci sono, dannazione!”

Lorenzo, agitato per lo stato dell'altro, riassunse: “A Fornovo è finito tutto in sospeso. La Lega non ha vinto, ma non ha vinto nemmeno re Carlo. Lui si è salvato, ma se ne torna in Francia a mani vuote e Gonzaga, anche se ha preso il bottino dei francesi, è stato umiliato sul campo.”

Giovanni annuì, abbandonando il capo all'indietro, mentre le sue mani correvano di nuovo al ginocchio dolente, sfiorandolo e poi lasciandolo subito, come se fosse stato di fuoco incandescente.

“Bene, bene...” soffiò il Popolano più giovane: “Per noi è la cosa migliore...” constatò, ma il fratello maggiore non lo sentì, perché era già corso a cercare il loro medico di fiducia affinché gli prestasse soccorso.

 

“Digli che arrivo immediatamente.” fece Caterina alla sua dama di compagnia, quando questa le disse che Luffo Numai aveva notizie fresche da Fornovo.

La serva chinò il capo e, sollevandosi le gonne per correre più velocemente, lasciò il Paradiso e tornò nel cuore della rocca per riferire.

La Contessa richiuse la porta alle sue spalle e lasciò cadere in terra la vestaglia con cui si era coperta per andare a rispondere alla sua domestica. Mentre cominciava a vestirsi freneticamente, Giacomo, ancora a letto, la guardava con un occhio mezzo chiuso, ostentando un'annoiata insofferenza nei confronti del suo atteggiamento.

“Perché hai tanta fretta? Tanto quello che è successo, è successo...” fece il Barone, quando si accorse che nella premura sua moglie aveva addirittura sbagliato a stringere alcuni laccetti del suo vestito: “Cosa cambia se lo vieni a sapere con qualche minuto di ritardo?”

Caterina lanciò un'occhiataccia al marito che, in tutta risposta, si puntellò sui gomiti e ricambiò con un'espressione accattivante: “Non preferiresti restare qui ancora un po', prima di affrontare la cruda realtà?”

La Contessa sistemò i nodi che aveva invertito per l'ansia, ed evitò di soffermare troppo lo sguardo su Giacomo, che continuava a fissarla in modo inequivocabile. Il lenzuolo lo copriva fino alla vita, lasciando in vista il suo ampio petto e lui sapeva che tanto sarebbe bastato, in altri momenti, a convincere la moglie a dilatare un po' i tempi d'attesa del pedante Luffo Numai.

Tuttavia, quella era una situazione talmente delicata e importante che Caterina fece del suo meglio per resistere agli infidi istinti che aveva ereditato dagli Sforza e dai Visconti, e, prima che Giacomo provasse a forzarle la mano con ragioni ancor più convincenti, lasciò il Paradiso e raggiunse la rocca, dicendo al marito: “Per inciso, anche tu dovresti sentire queste novità. Sei pur sempre il Vicesignore di questo Stato.”

Il Barone, però, a quelle parole non fece altro che afferrare il cuscino e premerselo sulle orecchie, voltandosi sul fianco e fingendo di voler tornare a dormire.

 

Luffo Numai aveva letto ad alta voce, in presenza della Contessa e del castellano il resoconto dettagliato che era stato inviato dal loro referente di fiducia.

Aveva elencato le due formazioni schierate, aveva ripercorso la battaglia, soffermandosi, su richiesta della sua signora, sull'esatta dinamica dello sfondamento centrale in parte fallito dei francesi e sull'attacco alle ali, anche in questo caso solo parzialmente riuscito, degli italiani, e poi aveva concluso leggendo: “Dunque questo scontro porta alla Lega l'ingente tesoro accumulato da re Carlo, ma ne mortifica il Capitano Generale Francesco Gonzaga. In ogni caso, i membri della Lega sembrano intenzionati a considerarla una vittoria a tutti gli effetti e tale faremmo bene a considerarla anche noi.”

Caterina si massaggiò lentamente la fronte. Quello che Numai aveva letto, in fondo, era per lei una buona notizia. Il fatto che nessuna delle due potenze si fosse realmente imposta sull'altra faceva sì che la sua posizione di equidistanza fosse la migliore possibile.

Era anche vero, però, che quell'incertezza avrebbe di certo aperto un vuoto di potere in Italia e presto qualche altro straniero avrebbe fatto il primo passo per ripercorrere le imprese di Carlo VIII, evitandone, però, i fatali errori.

“Segue l'elenco dei caduti più illustri.” annunciò Numai, voltando pagina.

La Contessa fece un cenno per permettergli di proseguire, quando la porta dello studiolo si aprì con lentezza.

Il Barone Feo, con indosso uno dei suoi abiti più nuovi, salutò con un cenno del capo lo zio e Luffo e poi si andò a sedere accanto alla moglie.

Caterina ne fu felice, ma cercò di non dare troppa soddisfazione a Giacomo, temendo che in tal caso sarebbe passato un messaggio scorretto. Suo marito non doveva vedere incombenze del genere come un favore da fare a lei, ma come un suo preciso dovere in quanto Vicesignore delle sue terre e Governatore di Forlì.

Perciò gli dedicò un sorriso appena accennato e lo ragguagliò con una frase circa quello che era stato detto e commentato prima del suo arrivo: “A Fornovo è stato un pari e patta e ora il nostro gentile Numai ci leggerà l'elenco dei caduti più noti.”

Giacomo annuì e si fece serio, guardando Luffo come se davvero gli importasse qualcosa di quei nomi scritti in fretta su un pezzo di pergamena.

“Da parte francese – cominciò Numai – l'unico caduto degno di nota è Everardo Artiseo. Ci sono dei prigionieri importanti, però, tra cui Astorre Baglioni, Giampaolo Baglioni, Morgante Baglioni, Carlo Baglioni, Matteo di Borbone, che è pure ferito, e Francesco Vitelli.”

“E per la Lega?” lo incalzò Caterina, mordendosi l'unghia del pollice.

Luffo passò gli occhi sulla lista dei caduti italiani e già a una prima scorta rapida comprese che quell'elenco avrebbe colpito molto di più la sua signora: “Tra i morti ci sono Luca e Francesco Terzi, Giovan Giorgio da Colorno, Roberto Strozzi, Bonifacio Gonzaga, Guido Gonzaga, Giacomo Cavalli, Alvise Malaspina, Albertino e Giovan Francesco da Sanvitale, Ranuccio Farnese, Ercole Montecuccoli e Rodolfo Gonzaga.”

Quell'ultimo nome fece vacillare Caterina, che ben ricordava come lo zio del Marchese di Mantova fosse stato tra gli uomini che erano accorsi in suo aiuto nella guerra civile contro gli Orsi.

Giacomo, che non ricordava o forse non capiva la carica emotiva che quella morte rappresentava per la moglie, restò un po' interdetto nel vedere gli occhi verdi della Contessa offuscarsi per un momento.

“Non c'è quasi famiglia nobile d'Italia – sussurrò Caterina, stringendo i pugni sulle cosce – che non stia piangendo un parente, quest'oggi.”

Luffo Numai, ripassando la lista in silenzio, si trovò d'accordo e anche Cesare Feo fece un piccolo cenno di solidarietà.

“Credo – prese la parola Giacomo – che non solo i nobili piangeranno dei caduti, dopo questa battaglia.”

Caterina alzò gli occhi verso di lui e per un attimo marito e moglie colsero per l'ennesima volta l'abissale divario che li allontanava.

Con quelle loro semplici affermazioni avevano ricordato di nuovo l'un l'altra di come venissero da mondi diversi e di come fosse difficile, anche nel lutto, cercare di entrare nell'universo dell'altro.

“Ed è tutto per ora?” chiese la Contessa, lo sguardo basso e nella mente ancora i nomi dei caduti.

Numai fece segno di sì e così Caterina lasciò la sedia, pregando il castellano di farla chiamare subito, in caso di ulteriori novità e dicendo al Consigliere di riunire il Consiglio per il pomeriggio.

 

“Può capitare, dopo uno sforzo notevole...” soppesò il medico, rimettendo i suoi strumenti infernali nella bisaccia di pelle che portava con sé.

“Lasciatemi bere...” disse Giovanni, che, dopo gli esami a cui il dottore lo aveva sottoposto, aveva addosso tanto dolore da voler morire.

“Non dovreste, con la malattia di famiglia che vi assilla!” lo rimbrottò l'anziano, porgendogli, comunque, il calice di vino: “Perché non provate invece questa pozione che...”

“Non mi fido di quegli intrugli.” decretò il Popolano, afferrando il bicchiere e trangugiandone il contenuto.

Mentre il vino scendeva nella gola, un calore piacevole gli riempì il petto e Giovanni sperò che il torpore per tutto l'alcool che aveva ingerito arrivasse prima del previsto.

“Evitate gli sforzi eccessivi, moderatevi nel mangiare e, per Dio, anche nel bere... Si tratta solo di un sollievo illusorio, quello che vi dà il vino! Dopo starete solo peggio!” ricordò il medico, mentre i suoi occhi stanchi squadravano il corpo del Popolano più giovane.

Era snello, ma non patito, apparentemente in salute. I suoi ventisette anni lo rendevano prestante e i suoi lineamenti erano fini e aggraziati. Eppure il suo ginocchio era rosso come il fuoco, altrettanto caldo e, dalle smorfie che storpiavano il viso altrimenti notevolmente armonioso, doveva essere anche molto dolente.

Giovanni non salutò il medico, quando lo vide andare via. Si sporse ancora verso la brocca di vino e bevve di nuovo.

Voleva solo trovare il sonno, certo che al risveglio sarebbe stato meglio.

A quel punto, ora che aveva avuto, purtroppo, una conferma certa, il dolore che provava nel corpo nulla era in confronto a quello che provava nell'anima.

Il male di famiglia non lasciava scampo, lo sapeva benissimo. Ricordava ancora molto bene il racconto della morte di suo cugino, il Magnifico, e sapeva anche che prima i sintomi si facevano sentire, più veloce sarebbe arrivata la fine.

Poteva solo sperare di avere ancora anni di relativo benessere davanti a sé e di trovare un modo per non soffrire troppo, quando il momento sarebbe arrivato.

 

“Se penso che uomini della risma di Rodolfo Gonzaga hanno perso la vita per le velleità di quel vigliacco di mio zio Ludovico...!” la voce della Contessa era quasi strozzata per la rabbia, mentre lei e Giacomo rientravano al Paradiso: “Se solo quel pezzo di m...”

“Caterina!” la riprese all'istante il marito, mentre si avvicinavano all'ingresso del loro appartamento privato: “Lo sai che detesto sentirti parlare in questo modo!”

“Al diavolo anche tu, Giacomo!” ribatté la donna, mentre il dispiacere per aver sentito tante famiglie a lei note toccate dal lutto lasciava il posto alla semplice ira.

Poco lontano da loro, senza che né la Contessa né il Barone se ne avvedessero, c'era la moglie di Bernardino, che, approfittando della momentanea assenza di entrambi, aveva deciso di rassettare il Paradiso e stava portandovi delle lenzuola fresche di bucato.

Vedendo i toni accesi tra i due, la donna se ne restò nascosta dietro uno degli alberi da frutto piantati dalla Contessa in persona, sporgendosi di quando in quando per vedere che stesse accadendo.

Non riusciva a sentire che si stessero dicendo, ma era chiaro come il sole che il Barone stesse avendo la meglio, dato che ormai la Contessa non provava più a ribellarsi e se ne stava zitta davanti all'uomo che elencava qualcosa con fare ardimentoso.

Quando la Contessa fece per voltargli le spalle e lasciarlo lì da solo, il Barone l'afferrò in modo perentorio per un braccio e la costrinse a voltarsi verso di lui.

La moglie di Bernardino si prese un momento per rifiatare, perché quella scena l'aveva scossa molto, soprattutto per via di tutti i dubbi che aveva avuto negli ultimi tempi circa il temperamento del cavalier Feo.

Quando tornò a sbirciare, vide che la Contessa era tra le braccia dell'uomo, che la stava baciando con insistenza.

Aggrappandosi alle lenzuola che teneva in braccio, la serva trattenne il fiato quando vide la sua signora divincolarsi con debolezza dal marito segreto per poi, altrettanto debolmente, rimbrottarlo in qualche modo.

Quali che fossero i rimproveri della Contessa, restò il fatto che il Barone prese per mano la donna e la condusse con una certa impazienza al Paradiso e così alla moglie di Bernardino non restò altro da fare se non riportare le lenzuola pulite dove le aveva prese e attendere un altro momento per rimettere in ordine.

 
   
 
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