THE EMPTY HEART
PART 4 - YOU'RE NOT ALONE
Una
settimana. Un’intera settimana. Tre giorni, quattro potevano
essere
accettabili… ma una settimana era decisamente troppo.
Non aveva
sue notizie da quella sera. Forse
aveva esagerato nel cercare di spingerlo a confidarsi con lei,
però non aveva
avuto idee migliori sul momento per indurlo a parlare. La persuasione e
la
dolcezza non avrebbero sortito effetto; o forse lei stessa si era
scoperta
impaziente e frustrata da quella situazione: veder soffrire
l’uomo che amava e
non poter fare niente…! Amava? Aveva detto
“amava”? Sì, non c’era altro
nome
per descrivere il sentimento che la spingeva ad agire in quel modo. Era
successo tutto assai velocemente, eppure le era nato così
spontaneo e rapido
l’attaccamento per lui che aveva sorpreso sé
stessa. Riusciva quasi a vedersi
come in una foto, in un futuro sereno e tranquillo, in una casa tutta
per loro.
Quel sogno era talmente realistico che le pareva di toccarlo e accanto
a lei
vedeva solo lui: John Watson.
L’aveva
lasciato per troppo tempo con i suoi demoni e adesso doveva tornare in
azione,
salvarlo da qualsiasi cosa lo stesse tormentando. E se proprio la loro
relazione doveva finire, che almeno glielo dicesse in faccia in maniera
chiara.
Anche se non avrebbe permesso che accadesse, non senza lottare.
Mary gli
telefonò nuovamente ma rispose la segreteria. Per
l’infermiera fu una conferma.
Decise di recarsi direttamente sotto casa del dottore per affrontarlo
di
persona. Preavviso
o meno. Inoltre era
sabato sera, per cui se non l’avesse trovato presso la sua
dimora si sarebbe recata
in quei due locali che solitamente frequentava.
Una volta
davanti all’ingresso, citofonò. Non ebbe risposta.
Ripeté il gesto… ancora
nulla.
: “ John! –
Lo chiamò ad alta voce – Sono Mary! Lo so che ci
sei, per favore aprimi! John?”
Ancora silenzio. La donna vide le luci accese e di certo lui era
lì da qualche
parte.
: “ Ho
bisogno di parlarti… di vederti. Non è carino far
aspettare una signorina ahah!
“– Continuò provando a fare una battuta
per alleggerire la tensione che
percepiva. Non si mosse una foglia. Assunse allora un tono
più serio – “Sono
preoccupata per te. Non rispondi al telefono da quella sera…
Volevo chiederti
scusa. Perché non me lo permetti?”
Ebbe la
netta sensazione che in qualche modo la stesse ascoltando da dietro la
soglia che
li separava, quasi si stesse barricando. Mary seguitò con
emozione crescente: “
John Watson, apri questa porta! Se non lo farai… beh, io
resterò qui ad
aspettare, fosse anche per tutta la notte. Ne sarei capace, sai? Mi hai
sentito? Io rimango! Non ho intenzione di lasciarti solo,
perché tu non lo sei,
hai capito?! Non sei solo! Qualsiasi cosa ti stia succedendo
io…”
La frase le
si bloccò a mezz’aria in quanto vide spalancarsi
energicamente la porta e
dall’altro lato il dottor Watson stava ritto di fronte a lei,
talmente rigido
che pareva sul punto di spezzarsi.
Mary
trattenne il fiato per un attimo a quella vista. John era molto
pallido,
vestito come da lavoro ma trasandato, teso oltre ogni limite con le
labbra
strette in un’espressione lugubre e gli occhi lucidi. Con un
sussurro che
pareva l’eco dello schianto del suo cuore, le chiese:
“ Puoi ripetere?”
Lei inspirò
e affermò con sicura dolcezza: “ Io rimango. Non
sei solo.”
Watson
scrollò il capo, si morse il labbro inferiore e
guardò a terra, spostandosi leggermente
verso sinistra come per farle spazio. L’infermiera ne
interpretò la prossemica
ed entrò cautamente nell’abitazione fino ad
oltrepassare l’ingresso, il quale
fu poi richiuso da John.
Stettero
davanti uno all’altra, muti, in un’atmosfera tra
l’imbarazzante e il sospeso, i
loro respiri congelavano l’aria e invano entrambi tentavano
di trattenere
l’affanno che li faceva palpitare. D’un tratto Mary
ruppe quella bolla
insonorizzata: “ John…”
: “ Dillo
ancora.” Proferì lui, tenendo lo sguardo sempre in
basso. Ad osservarlo da
vicino, la bionda si accorse che il suo amato aveva cominciato a
tremare. Era
di certo sull’orlo di una crisi di nervi. Era giunto il
momento.
: “ Non sei
solo.”
Fu lì che
la compostezza di John andò letteralmente in frantumi. Erano
le parole che
voleva sentirsi dire. Da giorni viveva l’inferno nel cuore,
inutilmente si
reprimeva e cercava di negarlo. Stava annegando e le lacrime che gli
sorsero
dagli occhi erano solo la superficie di quell’oceano in
tempesta, frutto di lunghi
silenzi e notti inquiete.
Mary gli si
accostò e lo avvolse stretto nelle sue braccia tenendogli le
spalle sussultanti
mentre sussurrava: “ Sono qui, John. Non vado via. Non sei da
solo. Sono
qui...”
La stanza
echeggiò dei singhiozzi nascosti, attutiti dalla stoffa
degli abiti di lei,
soffici e caldi come la sua pelle.
: “ S-scusami
…” Balbettò ansimante intanto che
celava il volto nell’incavo della spalla di
Mary, vergognandosi di quello scoppio emotivo ma incapace di calmarsi
da solo.
Lei scosse
il capo e lo strinse più forte, rassicurandolo: “
No, no sssh… è tutto a posto.
Va tutto bene, John. Adesso sono qui.”
John non
riusciva più a smettere di tremare. Quelle parole
l’avevano fatto crollare
definitivamente: a lungo aveva cercato di trincerarsi innalzando un
filo
spinato attorno al dolore, senza capire che ne veniva ugualmente punto
e
grondava sangue. Le sue allucinazioni, i suoi incubi, la sua tristezza
e i
ricordi nostalgici lo stavano consumando e non sapeva, o meglio non
voleva,
chiedere aiuto. Sentire però il corpo di Mary, averla
vicino, suo angelo e
scoglio nella bufera del suo animo afflitto, gli aveva fatto toccare la
sua
disperazione e l’acqua melmosa che lo soffocava. Voleva
essere salvato.
Tutto
questo ovviamente non riuscì ad esprimerlo in maniera
così chiara, potendo
farfugliare frasi a metà nell’affanno del pianto
che gli rigava le guance
smunte e il respiro strozzato.
Nonostante
ciò lei intuì cosa stesse passando, lo comprese e
lo consolò facendo emergere
il suo lato protettivo: gli accarezzò la testa, i capelli
biondi e la schiena
scossa dai singulti.
Dopo
qualche momento, John si staccò dalla stretta mantenendo gli
occhi coperti con
una mano.
: “
Siediti, adesso. Hai l’aria distrutta. Ti porto un
po’ acqua.”
Si lasciò
condurre, stordito e atterrito dallo sfogo. Dopo aver bevuto assieme si
sedettero
sul divano: lui pallido come uno straccio e lei sbiancata dalla
preoccupazione nel
vederlo in quello stato.
: “ Mi
dispiace …” Sussurrò Mary osservandolo
di sott’occhi.
: “ No, non
devi. Anzi dispiace a me che tu abbia dovuto vedere… di
solito non mi lascio
andare … - Replicò con tono sommesso, faticando a
ricambiare lo sguardo.
Principiò a raccontare, abbandonandosi alla corrente di
pensieri che gli
uscirono dalla bocca spontaneamente – La verità
è che non sto bene. Sto
malissimo. Il mio migliore amico è… morto. Si
è suicidato mesi fa.”
Mary
allungò una mano per stringere la sua che stava visibilmente
tremando. Le stava
aprendo il cuore e comprese quanto fosse complicato per lui, eppure con
quel
tocco volle da un lato assicurarlo di essergli accanto e
dall’altro invitarlo a
proseguire.
: “ Si è
lanciato dal tetto del Saint Barts. Ero lì. Mi
telefonò e mi impose di
fissarlo. Mi salutò e si gettò.”
: “ Dio! È
terribile! … ma perché lo ha fatto?”
: “ Disse
che era un falso. Sai,
era un
investigatore privato famoso in città ma la sua reputazione
fu messa in
discussione. Sono sicuro sia stato un piano architettato dal suo
acerrimo
nemico…”
: “ Un
acerrimo nemico?” Ripeté ella.
: “ Pare
assurdo però esisteva davvero. Ho rischiato di essere ucciso
da lui almeno in
un paio di occasioni.”
: “
Oddio…!” – Esclamò
Mary – “ Un attimo…
il Barts? Ma è il luogo dove ti ho conosciuto, quando sei
svenuto!”
Egli annuì,
dicendole che fu proprio quel luogo a farlo stare così male:
“Era un uomo
straordinario. La sua vita non era comune ed io ho avuto la fortuna di
stargli
accanto come assistente. Era pericoloso, eccitante,
intrigante… mi sentivo
vivo. Se non ci fosse stato lui non mi sarei mai riadattato dopo la
guerra in
Afghanistan.” – La donna annuì,
sorridendo – “Vado ancora a trovarlo, alla sua
tomba. Continuo a pensare che tornerà, che
apparirà da dietro un albero, un
palazzo o sa Dio dove. Lui era coraggioso, leale, brillante…
anche un
egocentrico bastardo insensibile e sociopatico. Ma era il mio
unico… amico” La
voce fu spezzata, come se una scheggia l’avesse iniziata a tormentare. Le lacrime
che avrebbe voluto
cancellare riemersero dagli occhi con prepotenza.
: “ Ero
così solo… non puoi immaginare quanto. I fantasmi
della guerra, il senso di
vuoto… tutto è tornato da quando lui
è… non riesco a…”
L’emozione si impossessò
nuovamente del suo corpo e lo tenne prigioniero con le catene dei
ricordi,
interrompendolo. Morstan allora capì che l’unica
cosa che poteva fare era
abbracciarlo ancora, più forte, fargli sentire che in quella
tormenta di
emozioni c’era un posto sicuro: l’amore, e la pace
sarebbe tornata presto nel
suo cuore. John si lasciò afferrare e quasi cullare. Era un
collasso nervoso
potente che non gli accadeva dai tempi del post trauma dalla guerra.
I loro corpi
di unirono in quella stretta, sprigionando un gentile calore protettivo
e
consolatorio che avvolse John, facendolo sentire per la prima volta
dopo mesi
di arrovellamenti al sicuro dalla sua stessa mente crudele, che gli
riproponeva
nei sogni o in allucinazioni ricordi dolorosi: “ Va
meglio?”
Watson
annuì a bocca chiusa, così si sciolsero e si
fissarono negli occhi. Con sua
sorpresa, il medico notò che anche le pupille della sua
ragazza erano lucide e
alcune goccioline le avevano rigato le guance : “ Oh
Mary…” E con le dita le
volle asciugare le lacrime.
: “ Non ti
preoccupare, mi sono solo commossa. “– Si ricompose
velocemente e gli domandò –
“ Quindi è questo che mi tenevi nascosto. Il tuo
grande segreto…”
John
ridacchiò, volendo allentare la tensione: “
Già. Purtroppo non ho chissà quali scheletri
nell’armadio. La mia vita era monotona e piatta. Con la
scomparsa di… Sherlock,
“ - Quel nome lo articolò con una gran fatica,
avvertendone il peso che
comportava nel pronunciarlo ad alta voce – “
era crollata ogni cosa. Poi ti ho incontrata
quel giorno e mi sembrava di avere ancora una speranza.”
: “ C’è
sempre speranza, una seconda possibilità di tornare a
vivere… ad amare. Sembra
impossibile, si è schiacciati dal dolore della perdita
però piano piano si
torna a respirare. Ti comprendo bene, più di quanto
immagini. L’unica cosa che
mi addolora è l’averti visto soffrire per
così tanto tempo senza saperne il
motivo. Questa me la paghi, dottor Watson: mi hai fatto veramente
preoccupare!
“– Ribatté celiando, poi seguitando con
intenzione – “Temevo che potessi cadere
in un baratro di depressione, non volevo perderti… e non
voglio. Ci tengo
troppo a te. “
: “ Lo so.
Mi dispiace tanto. Dico sul serio. Non volevo ma… era
più forte di me. Faccio
ancora fatica a pronunciare il suo nome. Come se una parte di me fosse
morta
con lui quel maledetto giorno. Non so quando, se mi passerà
mai… Sono
impegnativo, me ne rendo conto, e se vuoi lasciarmi per questo lo
capisco e non
ti biasimo affatto…”
: “ Aspetta
aspetta – Lo interruppe – Pensi sul serio che ti
possa lasciare? Dopo avermi
detto questo?”
: “ Sarebbe
logico. Sono un uomo distrutto, Mary. Vuoi stare davvero accanto a un
rottame
del genere?”
: “ Beh,
parlandomi così non fai altro che attirarmi ancora di
più. Quello che ho detto
prima lo pensavo davvero: io rimango. Ok che ancora non ci conosciamo
da molto
però sento qualcosa e ….”
: “
Potrebbe essere per caso amore?”
Mary
sorrise ambigua, celiando: “ Un po’ presto per
dirlo ma credo siamo sulla
strada buona.”
: “ Mi
conosci così bene. Sono come un libro aperto per te. Da una
parte mi spaventa.”
: “ Perché?
Sai che adoro leggere.”
: “ Vero.” –
Finalmente sorrise anche John, notando la prontezza della risposta.
Seguitò poi
– “
Perdonami se ti ho fatto tanto
allarmare. A questo punto siamo a quota tre.”
: “ Tre?”
: “ La
terza volta che mi salvi la vita.”
Trascorsero
tre mesi dopo quel chiarimento, durante i quali la loro conoscenza e il
loro
affetto s’intensificarono a tal punto che avevano fisicamente
bisogno di vivere
assieme. Nessuno dei due poteva tollerare oltre di essere in due case
separate,
darsi la buonanotte solo attraverso il cellulare e aspettare il giorno
seguente
per vedersi. John in particolare, dovendo ancora metabolizzare
l’uragano di
sentimenti che portava dentro, sentiva quella necessità. La
notte, quando le
immagini terribili del suo inconscio tornavano prepotenti, aveva la
sicurezza che
accanto aveva Mary, la cui forza gli era da esempio per affrontare il
proprio
dolore.
A lei non pesava
quel compito, sebbene comprendesse quanto fosse impegnativo: doveva
assisterlo
emotivamente ed era la tipologia di cura più difficile e
deliziosa al contempo.
Fu proprio lei, la signorina Morstan, ad invitare il dottor Watson a
vivere
assieme nel suo appartamento. Era piccolo e modesto però
sapeva che al suo amato
non importava il fasto di una bell’arredamento.
Lo stesso
giorno che gli fece la proposta, tornò presso la sua dimora
e decise di
iniziare subito a suddividere gli spazi affinché John
vedesse tutto pronto. Era
così eccitata ed energica che pareva una tortora super
indaffarata a creare il
suo nido d’amore. Nello scostare abiti, riposizionare i
mobili, nascondere in
scatole o profondi cassetti il suo disordine, mise mano anche alla
piccola
scrivania che utilizzava più che altro come
“appoggia tutto”. Tra le riviste
che comprava ogni tanto, giornali e libri, vide dei fogli racchiusi in
una
cartelletta blu. Vero… s’era dimenticata di aver
lasciato quel plico proprio lì
sotto! Fortuna che l’aveva ritrovato: sarebbero stati enormi
guai se John l’avesse
visto. Era in procinto di metterlo via insieme alle carte di cui voleva
disfarsi quando fu spinta dalla curiosità di rileggere il
contenuto di quei
fogli, così aprì la cartelletta bloccata da un
fermaglio ed iniziò a sfogliare:
c’erano delle foto, una serie di dati, stampe di un sito
internet dal titolo
spiritoso di “ La scienza della
deduzione”…
niente di particolarmente segreto, specialmente per quanto riguardava
il sito
(che era pubblico), tuttavia Watson sarebbe rimasto assai turbato alla
vista di
un intero album dedicato al suo miglior amico Sherlock Holmes in mano
alla sua
fidanzata. Avrebbe sollevato delle giuste domande alle quali era meglio
non
rispondere. Non poteva certo dirgli che, fin da quando erano cominciati
i primi
incubi, aveva fatto una piccola ricerca ed aveva scoperto della
presenza del
consulente investigativo, della sua influenza su John e della sua
tragica fine.
Aveva esagerato certamente, durante la litigata da lei orchestrata quella sera, quando aveva riproposto la
medesima
scena del suicidio, però era stata mossa dalle migliori
intenzioni. Lo aveva
fatto per comprendere cosa doveva affrontare e soprattutto come
relazionarsi
con il suo caro dottore su quell’argomento così
intimo per lui. Sì, intimo,
perché aveva compreso bene la profondità della
sofferenza dell’ex soldato e da
questo aveva facilmente dedotto dell’importanza della figura
di Sherlock, o
forse era il caso di chiamarlo “il fantasma” del
signor Holmes. Era abituata ad
ottenere informazioni in maniera rapida e segreta. Si sicuro
l’avrebbe perfino
convinto a portarla a visitare la sua tomba. Si capiscono molte cose
dal
monumento mortuario ed era intenzionata a conoscere quel misterioso
individuo,
seppur attraverso dei ricordi. Aveva una grande capacità
deduttiva e avrebbe
indagato in maniera discreta. In passato lo aveva fatto spesso e su ben
altre
questioni.
In fondo
non era necessario che John sapesse tutto su di lei… era
anche questo parte del
suo fascino, no? Sorridendo a quei pensieri, cominciò a
stracciare in frammenti
tutti i documenti contenuti nella raccolta e una volta ultimato li
chiuse in un
sacchetto e li gettò nella spazzatura, sapendo che
già la mattina sarebbero passati
a ritirarlo, incenerendo così ogni prova di quella sua
ricerca.
John non
avrebbe mai dovuto sapere.