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Autore: Adeia Di Elferas    11/02/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La moglie di Bernardino annuì con una smorfia triste, mentre Rosaria l'aiutava a piegare la biancheria, dicendo: “Se l'hai visto, l'hai visto, c'è poco altro da dire.”

Il cielo era azzurro e le giornate cariche di freddo fuori stagione della settimana addietro erano solo un ricordo. Anche fare quei semplici mestieri all'ombra era una faticaccia, gravata dall'afa prepotente che rendeva difficile perfino respirare.

“Lo so – fece allora la cameriera personale della Contessa – però, capisci, con quello che vogliono fare, devo stare attenta a dire certe cose... Se non fosse vero...”

L'altra, moglie di Gian Antonio Ghetti, sollevò le sopracciglia tanto che sparirono sotto ai capelli scuri per un istante.

La serva, allora, fece spallucce e provò a continuare il suo ragionamento: “Non ho mai visto chiaramente il Barone alzare la mani su di lei, solo che quando l'ho visto mentre la baciava mi sembrava che lo stesse facendo contro la sua volontà...”

“Come se la volontà di noi donne valesse qualcosa, in questi casi...” sbuffò Rosaria, dando l'ultima piega a un camicione da notte, mentre pensava a tutte le volte in cui suo marito si era imposto su di lei senza badare troppo a chiederle se fosse d'accordo.

La moglie di Bernardino strinse le labbra, abbattuta, e prese un lenzuolo dalla pigna, porgendone due capi all'altra donna che, come pensando tra sé e sé, soggiunse: “Certo, non credo che sia poi questo gran sacrificio, cedere alle pretese del Barone Feo...”

La cameriera strappò con disappunto la stoffa dalle dita di Rosaria e, indignata, disse: “Ma come ragioni!”

“Be'?” fece la moglie di Gian Antonio, asciugandosi il sudore dalla fronte e lanciando un'occhiata al sole che premeva sulle loro teste: “È il suo unico pregio, no, quello di essere bello? Che stiamo a dire, cara mia, glielo invidiano tutte e tutte quante – dicendo ciò Rosaria puntò gli occhi in quelli della serva – persino tu e io, non diciamoci storie, saremmo ben contente di scambiarci con Sua Signoria anche solo per una notte.”

La moglie di Bernardino si sentiva molto a disagio nel fare quel genere di discorsi, perciò liquidò l'altra agitando una mano e pregandola: “Non dire mai più cosa del genere. Piuttosto, dirai a tuo marito quello che ti ho raccontato?”

“Non lo so.” fece Rosaria, tornando seria: “Anche a me sta a cuore la nostra signora, cosa credi. A lei devo la fortuna di mio marito. È grazie alla sua benevolenza se abbiamo pane da mettere in tavola tutti i giorni e non è una cosa che possano fare tutti, di questi tempi.”

“Io sono convinta che il Barone sia un pericolo.” disse la moglie di Bernardino, sistemando nel cesto gli ultimi panni asciutti: “Le ha fatto commettere troppi errori e le ha tolto la serenità.”

Rosaria sporse in fuori le labbra carnose e assicurò: “I nostri mariti sanno che fare. Dobbiamo solo dire loro di sbrigarsi.”

 

Con un guizzo dei suoi occhi azzurri, Virginio Orsini ammonì tacitamente Niccolò, che aveva parlato ancora una volta a sproposito.

La battaglia di Fornovo risaliva ormai a una decina di giorni addietro eppure Francesco Gonzaga era ancora molto suscettibile a riguardo.

Anche se Venezia e la Lega sembravano molto soddisfatte del suo operato sul Taro e già pensavano a come imbrogliarsi a vicenda nello spartirsi l'ingente tesoro di Carlo VIII, il Marchese di Mantova pareva incapace di passare oltre a quella che per lui era stata la dimostrazione più cocente della sua inadeguatezza contro eserciti moderni come quello francese.

Così, quando il Moro aveva affidato ancora una volta a Francesco un compito importante, il comandante aveva accettato, ma col mal di pancia e, come risultato, gli altri generali si erano trovati a dover trattare con un Gonzaga ancora provato per la morte dei parenti caduti a Fornovo – suo zio Rodolfo tra tutti – e perennemente avverso a ogni minimo consiglio.

“Però – proseguì Niccolò, senza dar peso allo sguardo severo dell'altro Orsini – Novara è sotto gli occhi di tutti, Gonzaga!”

Giovan Francesco Sanseverino, le braccia incrociate sul petto, convenne a malincuore: “Infatti. È difesa troppo bene. Solo un pazzo, o un incosciente. potrebbe sperare di espugnarla con gli uomini e l'artiglieria che abbiano noi.”

Galeazzo Sanseverino, che stava seduto su uno sgabello da campo all'ombra del padiglione, guardava in lontananza, come se la cosa non lo toccasse. Giovan Francesco avrebbe voluto tirare anche lui dalla sua parte, per dare più forza alle sue ragioni, ma l'uomo sembrava deciso a dar battaglia, proprio come voleva il Gonzaga.

“Non stiamo dicendo di non assediare Novara – provò a dire Virginio, appena più accomodante degli altri – solo di chiedere al Duca di Milano truppe più fresche. Va bene che ci siamo congiunti agli uomini di Galeazzo, ma...”

Il Sanseverino chiamato in causa finalmente guardò gli altri e commentò, a denti stretti: “Intendete dire che i miei soldati non sono abbastanza per prendere una città come questa?”

Francesco Gonzaga, che stava ascoltando superficialmente quello che veniva detto attorno a lui, scalciò un sasso che gli stava davanti al piede e disse, perentorio: “Gli ordini sono ordini e non siete certo voi Orsini o voi Sanseverino che potete cambiare quello che è stato deciso. Siamo al soldo e come mercenari dobbiamo eseguire gli ordini.”

“Non quando sono ordini irragionevoli.” si oppose ancora una volta Niccolò Orsini.

“Senti bene, tu!” lo scatto improvviso del Gonzaga, che aveva afferrato per il colletto l'altro, aveva fatto sobbalzare tutti, soprattutto il povero Orsini.

Mentre questi cercava di balbettare qualcosa per convincere il Capitano Generale a lasciarlo, Francesco proseguì: “Se non fosse stato per quest'altro maledetto Orsini – e così dicendo indicò Virginio con la mano libera – tu ora saresti carne per vermi come tutti quelli che sono morti a Fornovo! Non credere che mi sia dimenticato di come sei passato dalla nostra parte a metà battaglia, quando credevi che avremmo vinto! Sei pagato anche tu per fare quello che ti viene detto, quindi tieni a freno quella dannata lingua o te la strappo con le mie mani!”

Niccolò attese, bianco come un cencio, che Gonzaga si placasse e poi, quando il Marchese, un po' sbollito, lasciò la presa dal colletto del suo camicione, l'Orsini si sistemò gli abiti con uno strattone e si congedò: “Scusate, ho molto da fare.”

Come se non fosse accaduto nulla, Francesco guardò un momento gli altri e decretò: “Domani iniziamo l'avvicinamento e dopo domani daremo il via all'assedio. Novara cadrà, ci volesse anche un secolo. La farò mia.”

'E nessuno potrà più dirmi che sono un incapace' concluse nella sua mente il Marchese.

 

Rodrigo Borja finì di scrivere la lettera su cui tanto aveva meditato e che più volte aveva rimandato.

Adesso che la battaglia di Fornovo aveva ridimensionato lo strapotere francese, secondo il papa era giunto il momento di tentare di riportare coi piedi per terra il filofrancese più caustico che ci fosse ancora in Italia.

Soffiando sull'inchiostro che faticava ad asciugare, forse per via dell'umidità che riempiva anche le stanze di Sua Santità, Alessandro VI rilesse rapidamente l'intestazione e si trovò a pensare che forse era stato anche troppo caloroso nel rivolgersi a Girolamo Savonarola.

Quel domenicano era uno scarafaggio che andava schiacciato senza pietà. Per Roma, i Popolani erano il male minore. Con un cognome ingombrante quanto il loro, non sarebbero mai riusciti a diventare onnipotenti e quindi il papa avrebbe potuto influenzarli e calmarli se necessario.

Senza contare che avrebbe potuto sfruttarli anche finanziariamente. I Medici, in fondo, erano sempre stati ottimi affaristi e avevano, nel bene e nel male, sempre saputo fare gli interessi di Santa Madre Chiesa.

Se in cambio volevano la legittimazione al potere, chi era Rodrigo per dire loro di no?

“Chi è?” chiese il papa, quando sentì dei passi alle sue spalle.

Non aveva chiuso la porta del suo appartamento e aveva anche le finestre aperte, il tutto per convincere un po' di frescura a circolare liberamente nell'ampia stanza. Ovviamente il suo sforzo era vano e il caldo premeva ugualmente su di lui come sul resto dei romani.

Nel voltarsi per vedere chi fosse entrato senza annunciarsi, Rodrigo intravide oltre i vetri aperti il cielo grigio e collerico che ammantava Roma come il cappuccio di un boia.

Lucrecia, con indosso un abito delizioso e coi capelli lunghi e biondi sciolti sulle spalle, aveva tra le mani un piccolo mazzo di fiori.

“Figlia mia amatissima...” la salutò il papa, abbandonando un attimo la lettera sulla scrivania per andarle incontro.

Da quando Lucrecia aveva lasciato Pesaro su pressioni del padre, in modo da essere più al sicuro, le sue giornate erano state molto monotone, ma a modo loro piacevoli.

La quindicenne ne aveva approfittato per andare spesso a trovare la madre Vannozza e per il resto si era ritirata nelle camere a lei dedicate a leggere e a riposare.

Era la pupilla più splendente di Alessandro VI e tutti quanti in Vaticano non potevano che ammirarne la bellezza eterea e criticarne il marito, che sembrava disprezzare una simile moglie standole lontano ogni volta che poteva.

“Avete raccolto fiori?” chiese Rodrigo, pleonastico, mentre la giovane gli porgeva il piccolo mazzo e si lasciava baciare sulla guancia.

Mentre il papa soffermava forse troppo a lungo le labbra sulla pelle soffice e profumata della figlia prediletta, uno dei suoi servi personali fece capolino sulla porta.

Il ragazzo guardò con imbarazzo la scena che aveva davanti a sé, ma riuscì a mantenersi impassibile mentre annunciava: “Vostra Santità, è arrivato Bernardino di Betto Betti e chiede se può essere ricevuto già oggi.”

Rodrigo si allontanò da Lucrecia, che ancora dava le spalle al servo che aveva parlato e, ricordandosi solo in quel momento di quel pittore magrolino che lui stesso aveva voluto richiamare a Roma per decorare gli ambienti del torrione che stava davanti a Castel Sant'Angelo.

La velocità con cui quel nanerottolo, che in molti chiamavano Pinturicchio, aveva accettato la commissione aveva sorpreso il papa, che però poi aveva dovuto ammettere con se stesso che in tempo di guerra – anche se ormai la guerra si poteva dire pressoché alla fine – per un artista doveva essere una vera gioia ricevere un incarico, quale che fosse.

“Arrivo.” disse Rodrigo.

Appoggiò con delicatezza il mazzolino di fiori portatogli dalla figlia alla scrivania e poi le disse di attenderlo, che ci avrebbe messo un momento solo.

“Tanto per spiegargli meglio cosa mi aspetto da lui, poi lo congederò e lo rivedrò domani.” disse il papa, più tra sé che non con Lucrecia.

Mentre il Santo Padre usciva dal suo appartamento privato, seguito dal servo, la ragazzina andò a una delle finestre e fissò a lungo il cielo grigio.

Nessuno le chiedeva mai come stesse davvero. Suo padre l'amava, ma come fosse una sua emanazione e non una persona da lui disgiunta. Sua madre si preoccupava per la sua salute e per il suo aspetto, ma non aveva mai voluto approfondire nulla che riguardasse il suo matrimonio con Giovanni Sforza o la sua vita a Pesaro. E suo fratello Cesare...

Con un sospiro pesante, Lucrecia si scostò dalla finestra e la richiuse, bloccando un soffio di vento di tempesta che si era alzato all'improvviso.

Chiuse tutte quante le imposte, perché l'aria si stava facendo insistente e i fogli che suo padre teneva in disordine sulla scrivania più grande avevano cominciato a sollevarsi e spargersi per il pavimento.

Una volta bloccate tutte le vie d'accesso al vento, Lucrecia cominciò a raccogliere lettere, resoconti e appunti, rimettendoli sul ripiano uno per uno, cercando di darvi un ordine che avesse un senso.

L'ultima pergamena che recuperò da terra sembrava ancora non del tutto asciutta.

Soffiandovi sopra e tenendola con estrema cura, Lucrecia la sistemò in cima alle altre e i suoi occhi svegli e pungenti lessero alcune frasi qua e là.

Aveva visto che il destinatario era fra' Girolamo Savonarola di Firenze, e nell'incipit suo padre il papa aveva elencato una serie di elogi con cui indicava il domenicano come un grande servo del signore, ringraziandolo per tutte le opere compiute nella 'vigna del Signore'.

Lucrecia stava per perdere interesse in quella lettera, quando una frase colpì la sua attenzione. Il papa invitava il domenicano a Roma 'ut quod placitum est Deo melius per te cognoscentes peragamus'.

“Eccomi. Visto? Ho fatto presto.” la voce tonante di Rodrigo, ancora lontano, ma sempre più vicino, diede una strana scossa alle ossa della figlia che lasciò subito il foglio per tornare vicino alle finestre e fingere di essere rimasta a rimirare il panorama fino a quel momento.

Quando Alessandro VI rientrò nella sua stanza, notò le finestre chiuse e l'inconsueto ordine sulla scrivania: “Si era alzato il vento?” domandò, curioso.

In tutta risposta, Lucrecia gli rivolse un sorriso sapiente, di quelli che sapeva fare lei e che avevano il potere di far dimenticare all'istante tutto il resto. Rodrigo ne rimase stregato, come gli capitava sempre, e decise di lasciar perdere un'inezia come quella.

Se anche sua figlia avesse letto ciò che stava scritto sulle lettere che teneva sulla scrivania, di certo non vi avrebbe capito molto e dunque tanto valeva non preoccuparsene.

 

Dato che le giornate si erano fatte calde e dal clima più stabile e che sembravano non esserci particolari rischi politici in vista, Caterina accondiscese alla richiesta avanzata dal figlio Cesare qualche giorno addietro e una domenica, appena dopo l'alba, una piccola comitiva partì dalla rocca di Ravaldino per una battuta di caccia.

“Sì, ti dico – insistette Cesare parlando con Bianca – nostra madre ha deciso così perché spera di poter parlare con te di Astorre Manfredi.”

Ottaviano, che aveva accettato con finta riluttanza di unirsi al gruppo di cacciatori, stava a poca distanza dai due fratelli e ascoltava con attenzione. Cesare si stava dimostrando molto più bravo a mentire di quel che avrebbe creduto.

Bianca, che aveva preso per sé una cavalla molto bella, ma non troppo adatta alla caccia, fece un'espressione un po' cupa, ma sussurrò di rimando: “E va bene, cercherò di parlarle, però potevi dirmelo anche prima.”

Caterina guidava il drappello assieme a Giacomo, che aveva accettato una simile uscita solo per evitare discussioni con la moglie.

A chiudere c'era la cameriera personale della Contessa che, assieme a uno degli stallieri, sedeva sul carro con cui avrebbero, probabilmente, trasportato le prede alla fine della battuta.

Ottaviano era abbastanza tranquillo. Quell'uscita sarebbe servita solo ad avvicinare l'amante di sua madre e a farlo rilassare. Quando avrebbe finalmente visto quelle battute di caccia in gruppo come normali, allora la sua confidenza sarebbe diventata il suo peggior punto debole e i Ghetti l'avrebbero ucciso.

Per la prima parte della mattina, la Contessa sfuggì in modo abbastanza palese ai suoi figli e Giacomo non fu da meno, isolandosi di quando in quando e disertando anche le poste, lasciando che fossero Ottaviano e Cesare a sfruttare i nascondigli migliori per puntare la selvaggina.

Il Conte e il Barone si ignoravano. La tensione tra i due era palpabile, ma, e Caterina ne fu lieta, era chiaro come entrambi si stessero sforzando di non urtarsi.

Bianca non aveva alcuna intenzione di cacciare. Anche se ne era capace e anche se sua madre le aveva insegnato bene come colpire le prede in movimento, non aveva alcuna voglia di sporcarsi le mani di sangue per mero passatempo.

A un certo punto, conscia di non poter più sfuggire alla figlia che la guardava di soppiatto fin da quando erano usciti dalla rocca, Caterina rimise l'arco sul carretto e raggiunse Bianca che stava chiacchierando del più e del meno con la moglie di Bernardino.

“Facciamo due passi?” chiese la Contessa.

La ragazzina annuì e si scusò con la domestica, per seguire la madre che la scortò fino a un punto tranquillo.

Il cielo si stava annuvolando e nell'aria si percepiva distintamente l'odore peculiare che precede gli acquazzoni estivi.

Ogni tanto si sentiva il rumore di una freccia che fendeva l'aria o un'imprecazione di Ottaviano che, tanto per cambiare, aveva mancato il bersaglio. Tuttavia Caterina conosceva molto bene quel bosco e sapeva che il punto scelto per parlare con Bianca era abbastanza lontano dalle poste degli altri da poterlo ritenere sicuro.

“Allora, non abbiamo più discusso di Astorre Manfredi...” cominciò la Contessa, sedendosi sull'erba fresca sotto una pianta che le riparava entrambe dal sole.

Bianca si accomodò accanto alla madre e fece un cenno d'assenso con il capo.

“Niccolò Castagnino, il suo tutore – riprese Caterina, ripensando a quello che le era stato riferito giusto il giorno addietro – chiede di organizzare una tua visita a Faenza prima dell'inverno. In settembre, magari.”

Bianca deglutì e tenne lo sguardo basso, verso il manto erboso che le solleticava i palmi delle mani.

“Non ti ci mando, se non vuoi.” disse la Contessa, sperando di non suonare troppo ruvida.

“Non voglio.” confermò subito la ragazzina.

“Non vuoi perché preferisci non allontanarti da casa o per altri motivi?” chiese Caterina.

“Perché...” cominciò Bianca, anche se non trovò il coraggio di mettere a parte delle sue impressioni la madre.

Già Ottaviano le aveva riso dietro, dicendole che Astorre non era per niente pazzo, ma solo un bambino. Non voleva che anche sua madre trovasse la sua valutazione eccessiva e ridicola.

“Non lo so, fa dei discorsi strani.” fece la ragazzina, prendendola alla larga: “Parla spesso di sua madre e di suo padre che è stato ucciso da lei e mi mette a disagio.”

Caterina pensò che quello non era poi un difetto così pesante. Astorre era ancora piccolo e il trauma subito quando Francesca Bentivoglio aveva assassinato il marito Galeotto doveva averlo segnato parecchio. Forse il giovane signore di Faenza ne aveva parlato con Bianca perché in qualche modo si era convinto di poter trovare in lei un'interlocutrice che lo capisse.

“Va bene, per ora non ti ci mando, a Faenza.” soffiò alla fine la Contessa, ragionando come fosse opportuna un po' di cautela, visto quello che Ottaviano Manfredi sembrava deciso a fare.

Le ultime notizie lo davano a Pisa, in fuga, ma Caterina era sicura che prima o poi si sarebbe riproposto come alternativa ad Astorre. Era imprudente legare ancora di più Bianca a qualcuno che rischiava di essere deposto da un parente. Negli anni che sarebbero passati fino alla maggiore età di Astorre, la Contessa avrebbe avuto modo di farsi un'idea più precisa.

Bianca stava per aggiungere qualcosa, quando il primo gocciolone di pioggia le colpì la punta del naso e a quello ne seguì una vera e propria infinità.

I cacciatori corsero alle loro cavalcature e la moglie di Bernardino pregò lo stalliere di spronare i cavalli che trainavano il carretto con tutta la sua forza: “O ci prenderemo un'infreddatura che ci porterà tutti quanti sottoterra prima di sera!”

 
   
 
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