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Autore: Adeia Di Elferas    14/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Rodrigo Borja si sventolava il volto con un foglio ancora intonso, mentre leggeva la risposta che Savonarola si era finalmente degnato di fargli recapitare.

Dopo circa dieci giorni da quando era partita la sua lettera da Roma, il domenicano aveva infine preso la sua decisione, tuttavia Rodrigo avrebbe preferito aspettare qualche giorno in più pur di avere una risposta migliore.

Il frate aveva rifiutato la richiesta del papa di recarsi in Vaticano millantando vaghi problemi di salute e promettendo, con tutta la falsità dei diplomatici di mestiere, un incontro in futuro, magari l'anno a venire, se le sue condizione lo avessero permesso.

In compenso, oltre ad aver aggirato in modo tanto altezzoso una precisa richiesta del Santo Padre, Savonarola aveva avuto l'ardire di spedire assieme al messaggio una copia del suo Compendio di Rivelazioni, precisando in calce come quel libro sarebbe stato per Alessandro VI una valida guida spirituale.

Rodrigo lasciò da parte la lettera e si passò tra le mani il volumetto, smettendo per qualche momento di farsi aria.

L'afa dell'agosto romano era pressante e quel giorno, oltre al cielo grigio di nuvole minacciose, non c'era altro se non il caldo.

Aprì il libro e diede una scorsa veloce alle prime pagine. Gli venne subito un grande mal di testa e così non proseguì. Gettò il piccolo tomo in un angolo della scrivania e farfugliò un paio di improperi rivolti al domenicano.

Era di pessimo umore, quel giorno, perché le sue spie gli avevano riferito una voce che non gli piaceva per niente e che, se fosse stata fondata, avrebbe aperto le porte a una mossa che avrebbe sperato di poter compiere un po' più avanti.

Secondo i suoi delatori, Giovanni Sforza, suo genero, l'uomo a cui aveva perdonato la prudenza quasi eccessiva dimostrata durante la guerra solo perché così facendo il signore di Pesaro aveva esposto Lucrecia a meno pericoli del necessario, era un traditore.

O, per lo meno, lo era nei confronti della Santa Sede.

A quanto sembrava, per tutta la durata dell'invasione francese, quale che fosse il momentaneo schieramento scelto dal papa, lo Sforza aveva fatto continuamente il doppiogioco, tenendo informato il Duca di Milano di ogni mossa del Vaticano.

Non sarebbe stato facile scoprire se fosse vero e, per farlo, forse sarebbe stato opportuno scomodare Ascanio Sforza, che, però, da quando era stato incarcerato a Castel Sant'Angelo, non sembrava più molto desideroso di collaborare con Alessandro VI.

Sbuffando d'impazienza, Rodrigo lasciò la scrivania e raggiunse la porta. Attraversò i suoi appartamenti ad ampie falcate e cercò la figlia Lucrecia.

Quando finalmente la trovò, immersa nel profumato verde dei giardini Vaticani, il papa si sedette su una della panche di marmo e si mise a rimirarla, rapito dalla sua figura tanto eterea quanto straordinariamente carnale, e si chiese che fare con lei e con il suo smidollato marito spione.

 

“Per avere una tresca e non essere nemmeno capaci a nasconderla...” stava dicendo uno degli avventori della barberia di Bernardi, a voce bassa.

Quello che gli stava accanto, in attesa come lui del proprio turno, sollevò le sopracciglia e fece un cenno d'assenso: “Appunto, dico io...”

Il Novacula fingeva di non ascoltare, irritato come non mai ed estremamente teso.

Da qualche giorno per la città sembrava essersi riacceso l'interesse per la figura del Barone Feo, forse, da quello che aveva potuto intuire, per via di certe chiacchiere messe in giro niente meno che dal Conte Ottaviano, che di quel periodo si era fatto un frequentatore abbastanza assiduo del lupanare più in vista della città.

Anche se le sue visite alle donne della casa dovevano restare riservate, tutti sapevano che un simile cliente non poteva passare inosservato.

Il Conte, poi, pareva prodigo di chiacchiere, quando era in dolce compagnia, e così le notizie e le dicerie si erano sparse a macchia d'olio e la relazione presunta – perché Bernardi continuava a sostenere con tutti che tale era – tra la Contessa e il Governatore di Forlì era tornata di gran moda tra i pettegoli.

In molti si erano ritrovati interessati al cursus honorum folgorante del giovane, mentre altri si erano concentrati di più sugli ultimi fatti, in particolare sui lavori al fossato, ormai del tutto abbandonati dal Barone e ripresi in mano dalla Contessa.

“Fosse stata solo una tresca – si intromise con un mezzo ghigno Filippo Delle Selle, che era appena entrato nella bottega, ma aveva fatto in tempo a sentire le ultime frasi – una roba da vedova allegra, intendo...” e lasciò spegnere la voce con fare d'ovvietà.

Cadendo nella sua trappola retorica, il cliente che ne aveva parlato per primo, domandò: “Se fosse stata solo una tresca...?”

“Ebbene – riprese Delle Selle, sedendoglisi accanto e guardando di sottecchi il Novacula, che fingeva in modo poco convincente di non essere in ascolto – se fosse stato solo il capriccio di una giovane vedova, ce lo saremmo tolti dai piedi già da molti anni.”

Gli altri convennero e così Filippo affondò il colpo: “Senza di lui, la metà delle tasse e degli inconvenienti di questa città non sarebbero mai esistiti.”

“Spiegatevi meglio.” lo invogliò il cliente che era appena stato sbarbato.

Delle Selle sospirò, mentre Bernardi stringeva i denti e ritornava ad affilare il rasoio in vista del secondo avventore: “Pensateci bene...” cominciò e poi passò a elencare tutte le colpe – le reali e le presunte – del Barone Feo.

Filippo si sentiva un po' in torto a sfruttare a quel modo la situazione, ma più si addentrava con gli altri congiurati verso la conclusione del loro piano delittuoso, più si rendeva conto che andasse fatta terra bruciata attorno al Feo.

Il fratello del Barone, Tommaso, era ancora molto ben voluto in città e c'era il rischio che qualche pazzo, fomentato magari da qualche famiglia nobile minore ostile alla Contessa, si mettesse contro di loro volendo vendicare lo stalliere ripulito.

Così il Delle Selle si era messo d'impegno, di comune accordo con il Conte Riario, per mettere in giro ancora più voci contro Giacomo Feo, sperando di inimicargli tanto il popolo da non lasciare nemmeno un suo sostenitore in tutta Forlì.

Ovviamente l'uomo sperava, a congiura terminata, di ottenere un premio maggiore rispetto agli altri, proprio grazie al suo impegno, ma per quello ci sarebbe stato tempo dopo. Per il momento doveva solo fare bene il suo compito.

Bernardi ascoltava le parole infervorate di Filippo e, mentre delle gocce gelate di sudore gli scendevano lungo la schiena, si disse che avrebbe dovuto parlarne il prima possibile con la sua signora, perché aveva una pessima sensazione e non riusciva a farsela passare.

 

“Bianca, ricordati che adesso sei una donna sposata.” la voce di Ottaviano, glaciale e pungente, raggiunse la sorella come una lama tra le coste.

La ragazzina, che stava ridendo con un paio di guardie, si voltò subito verso il Conte, che, vestito di seta scura, con i capelli castani inanellati come lo erano stati quelli del padre, pareva un mostro arrivato dagli inferi.

“Perdonatemi.” fece Bianca ai due soldati, congedandosi piegando lievemente le ginocchia a mo' di riverenza, e poi si concentrò sul fratello: “Ma che cosa vuoi da me?” gli domandò a voce bassa e a denti stretti.

Mancavano un paio di giorni a Ferragosto e faceva un gran caldo, tuttavia la figlia della Contessa pareva incurante dell'afa e passava gran parte delle sue giornate all'aperto, intrattenendosi con gli abitanti della rocca oppure passeggiando con le balie dei fratelli più piccoli.

Ottaviano, invece, rifuggiva tanto l'esterno quanto le persone che abitavano a Ravaldino, disertando le riunioni del Consiglio e sfuggendo il più possibile alla madre e agli altri fratelli.

“Sei sposata con Astorre Manfredi, questo lo sai anche tu.” ricordò Ottaviano, prendendo la sorella per un braccio e riportandola verso l'interno della rocca, come a volerla allontanare anche fisicamente da certe tentazioni: “Farti vedere mentre parli amabilmente con giovani e aitanti soldati non farà altro che coprire te e anche me, che sono tuo fratello, di vergogna.”

“Sei sempre esagerato.” lo rimbrottò Bianca, cercando invano di liberarsi dalla sua stretta: “E poi anche nostra madre si intrattiene spesso coi soldati e nessuno ci vede nulla di male!”

Ottaviano strinse ancora più forte, mentre sibilava: “Tu non sei nostra madre e comunque nemmeno lei dovrebbe fare certe cose.”

Il giorno prima, il Conte, Cesare e Bianca erano usciti per una nuova battuta di caccia assieme alla madre e al Barone Feo e Ottaviano ne era rimasto molto contrariato.

Anche se sapeva quanto fosse importante ai fini della buona riuscita del loro piano, per poco non aveva perso il controllo.

Come la prima volta, fin dal primo mattino il gruppo si era abbastanza disgregato. Bianca era rimasta con Cesare e i due si erano messi a discutere di alcuni libri che avevano letto entrambi, mentre Ottaviano aveva cercato di cacciare qualcosa senza riuscirci.

La Contessa era sparita dalla vista di tutti dopo poco e a breve anche il Barone si era eclissato.

Il Conte, non riuscendo a resistere alla sua morbosa curiosità, pur intuendo, o meglio, sentendo nel profondo, quello che avrebbe visto, si era messo a cercarli con circospezione, certo che li avrebbe trovati insieme.

E così era stato.

Aveva dovuto camminare a lungo, tentando di non far rumore e aguzzando la vista, pronto a cogliere ogni minimo segno del loro passaggio.

Alla fine, ben distante da dove erano rimasti Cesare e Bianca, Ottaviano aveva finalmente trovato sua madre e lo stalliere.

Li aveva visti vicini a un grosso tronco, riparati dall'ombra della chioma verde della pianta.

Si era nascosto, accovacciandosi silenziosamente dietro a un cespuglio e, quasi trattenendo il respiro, si era messo a sbirciare.

Li aveva osservati per qualche lungo momento e aveva visto che si parlavano fittamente, ma non era riuscito a comprendere nemmeno mezza parola.

Poi aveva visto sua madre accarezzare il viso del suo amante, smettendo di parlare. Lei lo aveva baciato e poi, prima che Ottaviano realizzasse quello che i due avevano intenzione di fare, la Contessa aveva tirato a sé lo stalliere e aveva iniziato a sciogliegli i lacci del giustacuore blu scuro decorato di fili d'oro.

Oltraggiato e scosso, come se quella vista fosse stata un nuovo schiaffo in pieno volto, il Conte si era allontanato, badando bene a non farli accorgere della sua presenza.

Mentre tornava dai fratelli, Ottaviano si era reso conto che la cosa che l'aveva ferito di più non era stata tanto avere l'ennesima conferma di quello che c'era tra sua madre e lo stalliere, ma vedere come fosse proprio lei ad avere l'iniziativa.

Ricordava troppo bene il modo in cui sua madre rifiutava e allontanava suo padre. Vederla accettare, anzi, vederla cercare con tanta voluttà quell'uomo che con la loro famiglia non c'entrava nulla, né per estrazione sociale né per valore, lo avviliva e lo faceva infuriare.

“Farai bene a stare al tuo posto, a ricamare o a leggere.” disse Ottaviano, lasciando finalmente Bianca, mentre nella sua testa il ricordo della battuta di caccia si faceva ancora più vivo, facendolo quasi impazzire.

La sorella non ebbe la forza di ribattere a tono, troppo offesa dal comportamento del fratello.

La stanza in cui l'aveva portata era una delle più buie della rocca e una delle più spoglie. Era come metterla in punizione.

Prima che Ottaviano si allontanasse, Bianca ebbe la forza di dire: “Tanto con Manfredi sono sposata solo per metà! Se non lo vorrò, nostra madre ha detto che straccerà il contratto di nozze!”

Il Conte voltò appena il viso verso di lei, una luce cattiva nelle pupille: “Ah!” esclamò: “E tu le credi?”

“Certo.” rispose Bianca, la voce un po' tremante, mentre i suoi occhi si abituavano alla penombra di quell'orribile stanzetta.

“E credi che rinuncerebbe all'alleanza con Faenza solo per un tuo capriccio?” la incalzò Ottaviano, voltandosi di nuovo verso di lei: “Ora non paghiamo più i pedaggi e i commerci sono alleggeriti, senza più dazi. Credi davvero che lei rinuncerebbe a questo e a tutti gli altri privilegi che ha ottenuto solo perché a te Astorre non piace?”

“Non parlare così.” sussurrò Bianca, atterrita, mentre il fratello le si avvicinava inesorabile.

“Sei solo una bambina.” concluse Ottaviano, guardando la sorella di sottinsù, facendosi forte della sua poca differenza d'età e della sua maggiore statura.

La ragazzina abbassò lo sguardo, la gola secca e le lacrime pronte ad affiorare per quell'ulteriore beffa a cui suo fratello la stava sottoponendo.

Se solo fosse stata più simile a sua madre, pensava, avrebbe trovato il coraggio e la forza di ribellarsi a lui e di rimetterlo al suo posto.

Ma lei non era come sua madre.

Ottaviano attese ancora un momento, poi, quando fu certo che Bianca non avrebbe più detto nulla, girò sui tacchi e, le mani dietro la schiena, se ne tornò a vagare nelle ali più deserte della rocca, rimuginando sui suoi fantasmi.

 

Virginio Orsini era riuscito a sganciarsi dall'ingombrante incarico presso Francesco Gonzaga e aveva raggiunto Bologna, per parlamentare con Giovanni Bentivoglio.

Si era trattenuto in città per pochi giorni e poi era ripartito subito alla volta di Milano, dove il Moro e degli emissari di Venezia lo stavano attendendo per ridiscutere la sua posizione.

Quando raggiunse il palazzo di Porta Giovia, Virginio si sentì improvvisamente agitato. Sapeva che, benché fosse Orsino il capofamiglia reale degli Orsini, il Duca e i veneziani si sarebbero rivolti a lui come se quell'incarico ingrato fosse il suo.

Gli avrebbero probabilmente chiesto di rispondere delle mosse azzardate di sua sorella Bartolomea e, di rimando, di quelle di suo cognato Bartolomeo d'Alviano.

Così, quando entrò nella sala delle udienze e vide dinnanzi a sé il panciuto Ludovico Sforza e un manipolo di variopinti veneziani, Virginio ebbe un momento di smarrimento.

All'inizio gli fecero domande quasi di circostanza, chiedendo maggiori informazioni su quanto accaduto a Fornovo. A quel genere di quesiti Virginio si era preparato a dovere e seppe rispondere senza indugio anche alle questioni più spinose.

Quando si sarebbe atteso di sentirsi rivolgere le domande peggiori, quelle in merito alla condotta dei suoi familiari, Virginio trasecolò nell'udire, invece, le parole del Moro.

Il Duca, annusando l'aria con il peculiare naso, alzò le spalle in modo plateale e annunciò: “Noi, di comune accordo con il Doge Barbarigo, rappresentato qui dai suoi ambasciatori – e a quelle parole i veneziani vestiti con colori accesi e stoffe preziose accennarono con il capo in segno di compiacenza – abbiamo deciso di ritenervi libero. Avete servito i nostri nemici, ma alla fine siete stato importante per la nostra causa. Dunque vi riteniamo nostro amico e libero da ogni impegno, per il momento. Potete tornare a casa.”

Virginio deglutì un paio di volte e poi, ancora incredulo, buttò un ginocchio a terra e, appoggiandosi una mano stretta a pugno sul cuore, si congedò: “Ringrazio il buon cuore delle signorie vostre. Sarò sempre un vostro fedele servo.”

 

“Il ti... titolo... Di... Que... Questa sua... o... opera...” la voce balbettante di Giacomo si inceppava ogni due o tre sillabe, risuonando incerta tra le pareti del Paradiso, mentre la sua fronte si corrugava per lo sforzo di leggere quelle poche righe che erano appena arrivate da Firenze.

Caterina, che era convinta – vista la calma con cui la staffetta aveva recapitato il messaggio – che non fosse nulla d'urgente, aveva lasciato al marito il compito di leggere ad alta voce, nella speranza di spronarlo a esercitarsi un po'.

Trovando molta difficoltà, Giacomo aveva trascurato in modo quasi imperdonabile i suoi esercizi di lettura e scrittura negli ultimi tempi e la moglie ne era rimasta molto contrariata.

Così il Barone, tenendo con ambo le mani il pezzo di carta, si stava sforzando per non sfigurare completamente davanti alla donna che amava, ma il risultato non era dei migliori: “È Com... Compen... Compendi...”

Caterina, non sopportando più quell'incedere incerto e spezzettato, si alzò di scatto, smettendo di spalmarsi la crema sul viso, e strappò di mano la lettera a Giacomo.

L'uomo finse di non essere troppo risentito per quello scatto, benché il carattere spesso intemperante della moglie fosse tra le poche cose – assieme alla sua propensione per il linguaggio scurrile quando era arrabbiata – che faticasse a digerire.

La Contessa lesse velocemente il contenuto del messaggio: “Il domenicano Savonarola ha pubblicato una nuova opera, il diciotto di questo mese d'agosto. Il titolo di quest'opera è Compendio di Rivelazioni e pare che una copia sia stata inviata anche al Pontefice.”

Sollevando gli occhi dalla lettera, Caterina notò la vergogna malcelata nello sguardo di Giacomo, così cercò di farsi perdonare per la sua poca pazienza.

Lasciò il messaggio sulla sua piccola scrivania, accanto al barattolo della crema: “Scusami. È solo che...”

“Lascia perdere.” fece subito il Barone, le labbra che si sforzavano di formare un sorriso: “La colpa è mia, è uno strazio sentirmi leggere.”

Caterina preferì non aggiungere altro, temendo di non riuscire a trattenersi e finire per essere offensiva.

Prese il panno che aveva appoggiato all'inginocchiatoio e si frizionò per qualche istante il volto, mentre ragionava sul contenuto del messaggio.

Savonarola stava rischiando molto. Un Compendio di Rivelazioni poteva significare la sua consacrazione come la sua discesa verso l'eresia. Di certo era una mossa da disperati. O da arroganti.

Siccome Giacomo non accennava a rasserenarsi, Caterina lasciò perdere Savonarola e il suo Compendio.

La sera era abbastanza fresca e forse il giorno seguente avrebbe piovuto. La finestra del Paradiso era spalancata e si sentiva il frinire insistente dei grilli e delle cicale, mentre una lieve brezza scompigliava un po' i capelli del Barone, che si era messo davanti alle imposte aperte, forse per sfuggire momentaneamente alla moglie e al suo giudizio.

Senza trovare un modo migliore per rassicurare il suo uomo, la Contessa gli si avvicinò e gli passò una mano sulla schiena. Sotto la leggera stoffa della camicia da camera, la pelle di Giacomo era calda e piacevole.

Lasciandosi la notte alle spalle, il Barone si voltò verso la moglie e per un istante eterno i loro occhi si specchiarono alla fioca luce della luna e delle candele accese nella stanza.

Colta da un'improvvisa e inspiegabile paura, Caterina si tuffò tra le braccia del marito e lo strinse a sé. Giacomo fece altrettanto, afferrando con tanta forza la moglie che, se fosse stata fatta di un'altra pasta, di certo gli avrebbe chiesto di far più piano.

Sciogliendosi riluttanti dal loro abbraccio, la Contessa e il Barone si scambiarono un lungo bacio e Caterina invogliò il marito a coricarsi assieme a lei.

Mentre Giacomo cominciava a spogliarla, la donna sussurrò: “Ho cercato un precettore per nostro figlio. Lo faremo tornare alla rocca a fine settembre.”

Il Barone, esaltato da quella resa della moglie, a cui tante volte aveva chiesto quando di preciso avrebbe potuto richiamare a Ravaldino Bernardino – o Carlo come lui lo chiamava ormai da un po' tempo – si fermò un attimo e poi, con un sorriso trionfante come non ne faceva da mesi, ricominciò a darsi da fare e a Caterina non restò altro che assecondarlo e godersi quella breve parentesi di pura felicità.

 
   
 
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