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Autore: Adeia Di Elferas    16/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mia signora...” il castellano Cesare Feo entrò nello studiolo bussando sullo stipite della porta mezza aperta.

Caterina, che stava revisionando delle lettere assieme a Francesco Oliva, gli fece segno di aspettare un attimo e chiese al milanese, a voce bassa: “E non avete modo di farvi dire come stanno davvero le cose alla corte di mio zio? Questi messaggi sono troppo vaghi...”

Nella stanza c'era anche il Barone Feo, seduto mollemente sulla poltroncina vicino alla finestra aperta. Non stava prendendo, apparentemente, parte attiva al colloquio serrato tra la Contessa e l'Oliva, ma in compenso parve l'unico interessato all'arrivo del castellano.

Mettendosi a sedere più dritto, il Governatore di Forlì si fece attento, mentre sua moglie continuava a dar corda al milanese.

Oliva si passò, a disagio, una mano sul collo, spiegando: “Manco da Milano ormai da troppi anni, mia signora... Le mie conoscenze sono sempre meno numerose e sempre meno affidabili. Posso provare, ma...”

La donna strinse le labbra, comprendendo la difficoltà di quello che era passato dall'essere uno scomodo ambasciatore al soldo di Ludovico il Moro ad essere un fedele alleato di una Contessa di seconda categoria come lei.

“Ditemi pure.” concesse Caterina, guardando Cesare Feo, che stava ancora aspettando sull'uscio.

“Al portone principale c'è un uomo che cerca di voi. Mi ha detto di annunciarlo come un vostro vecchio compagno d'armi.” spiegò il castellano.

Giacomo si accigliò e fissò la moglie interrogativo. Nemmeno Caterina riuscì a capire al primo colpo di chi si trattasse, così, pregando a voce bassa l'Oliva di provare a fare quel che si poteva con i suoi contatti milanesi, lasciò la scrivania e si avvicinò a Cesare Feo.

“Vi ha detto come si chiama?” chiese, mentre, in un lampo, il marito le era accanto.

“Dice di essere Virginio Orsini, signore di Bracciano.” rispose il castellano, corrucciandosi: “Dice che la sua scorta lo aspetta in una locanda in città, e che vorrebbe salutarvi.”

Sentendo quel nome, alla Contessa si illuminarono improvvisamente gli occhi e, prima che il marito potesse farle qualche domanda in merito, la donna era già schizzata fuori dallo studiolo per correre ad accogliere l'inatteso ospite.

 

Virginio aspettava appena oltre il ponte levatoio, proprio sulla soglia del grosso portone di Ravaldino, con indosso abiti da viaggio leggeri, gravati solo da una corta cotta di maglia che aveva imparato a non abbandonare mai durante i tragitti lunghi, soprattutto di quei tempi.

Aveva il viso impolverato ed era ancora sudato per la lunga cavalcata, tuttavia, quando finalmente vide arrivare da dentro la rocca la Contessa Sforza Riario, le sue labbra si allargarono in un sorriso tanto luminoso da rendere lo sporco del viaggio un mero dettaglio.

Caterina, seguita a brevissima distanza da due uomini, gli si parò davanti: “Allora siete proprio voi!” esclamò.

Non era più la giovane sì e no ventenne che Virginio ricordava, ma una donna matronale, dall'aspetto sicuro e fiero. Anche se i capelli biondi erano ancora lunghi e sciolti sulle spalle e il suo passo veloce, sul suo volto Virginio lesse tutti i momenti bui che aveva passato. Malgrado ciò, però, la gioia di rivederla era ugualmente prorompente.

Con una risata che saliva dal profondo delle sue viscere, l'uomo allargò le braccia e la Contessa non si fece pregare per salutarlo con un informale abbraccio, dinnanzi agli sguardi attoniti dei due che la seguivano e delle guardie che facevano la ronde sui camminamenti sopra alle loro teste.

“Sono passati così tanti anni...” disse Caterina, allontanandosi abbastanza dall'Orsini per poterlo guardare meglio.

Era un po' più stempiato di quanto lo ricordasse e si era fatto crescere sottili baffi, ancora scuri, che si arricciavano appena sul finale. La pelle del suo volto, nascosta da un velo di barba ispida di almeno due giorni, era segnata dai solchi del tempo e, per quanto ancora molto atletico, il suo fisico era quello di un uomo della sua età. I suoi occhi vispi, però, erano rimasti gli stessi.

“Siete sempre una donna bellissima.” rispose Virginio, mentre un lampo di ardita arguzia attraversava le sue pupille.

La Contessa, avvertendo improvvisamente gli sguardi confusi del marito e del castellano alle sue spalle, si decise a ritornare sulla via sicura dell'etichetta.

“Virginio, lasciate che vi presenti il castellano di Ravaldino, Cesare Feo – e l'uomo strinse la mano all'Orsini, che gli dedico uno sguardo d'approvazione – e suo nipote, Giacomo Feo, il Governatore di questa città.”

Virginio scambiò il gesto di cordialità anche con il Barone, anche se lo sguardo freddo del giovane uomo lo raggelò tanto da far spegnere un po' il suo sorriso cordiale.

“Questo – fece Caterina, indicando l'Orsini agli altri due – è Virginio Orsini, signore di Bracciano, ottimo condottiero. Abbiamo combattuto insieme contro i Colonna, anni fa.”

Cesare Feo si profuse in alcune frasi di rito, lodando a scatola chiusa Virginio come se davvero ne conoscesse il valore militare, mentre Giacomo si limitò a dire: “La Contessa mi ha parlato di voi come di un uomo di valore.”

 

Virginio spiegò a Caterina di essere a Forlì solo di passaggio, dato che sperava di raggiungere Bracciano il prima possibile per ricongiungersi con il resto della sua famiglia, tuttavia la Contessa lo convinse con successo a fermarsi in città almeno per una notte.

Così l'Orsini tornò dalla sua scorta per assicurare a tutti loro un alloggio confortevole e poi, dopo essersi rassettato a dovere, tornò a Ravaldino, ospite speciale per la cena.

Quando si presentò alla corte della Contessa, Virginio indossava abiti puliti e aveva le guance perfettamente rasate. Cenò assieme alla famiglia, al castellano e a un paio di rappresentati nobili della città e per tutto il tempo si adeguò docilmente alle chiacchiere vuote tipiche di quando si è in compagnia di gente che si conosce poco o per niente.

Dopo l'ultima portata, però, la Contessa lo pregò a voce bassa di volerla seguire per scambiarsi qualche parola in privato.

Virginio a quel punto aveva lanciato un'occhiata a Giacomo, che aveva reagito un po' rigidamente, ma aveva comunque lasciato intendere con un cenno del capo che la cosa gli stava bene.

Caterina non aveva notato quello scambio di sguardi, visto che era impegnata a congedarsi per la notte dai figli, che si stavano per ritirare nella sala dei giochi a sentir cantare Bianca prima di andare a dormire.

Dopodiché la Contessa intercettò uno dei servi e gli ordinò di portare qualcosa di buono da bere a lei e al suo ospite non appena possibile nello studiolo del castellano, che in quel momento della sera era uno dei punti più tranquilli della rocca.

Quando Virginio e Caterina furono soli, la donna fece segno all'Orsini di accomodarsi pure dove preferiva. L'uomo si sistemò allora sulla poltrona di pelle scarlatta, lasciando il più comodo divanetto alla Contessa.

“Sono passati davvero molti anni...” fece Caterina, come a riprendere un discorso lasciato a metà.

Virginio sorrise e, passandosi due dita sui baffetti, disse: “Ricordo ancora molto bene quei momenti. Se devo dire la cruda verità, credevo che sareste morta alla vostra prima carica e invece eccovi qui, sopravvissuta a prove ben più grandi.”

La Contessa si abbandonò contro lo schienale un po' rigido e constatò: “Ci sono stati momenti difficili, è vero.”

“Eppure vi vedo molto più distesa di quanto non ricordassi.” notò Virginio, sporgendosi appena in avanti per guardare meglio il viso della donna, acceso dai toni caldi delle fiammelle del candelabro vicino e della torcia appesa al muro.

Caterina sorrise pacatamente, ma preferì non approfondire il discorso, così cambiò argomento: “E quindi state tornando a Bracciano. Credevo che foste impegnato a Novara.”

“In tutta sincerità...” cominciò Virginio, ma venne interrotto dall'arrivo del servo che portava con sé una caraffa e due bicchieri.

La Contessa e l'Orsini attesero che il servo mettesse tra loro il tavolino basso e servisse il primo calice a entrambi, annunciando con una certa pomposità: “Il miglior hypocras della cantina di Sua Signoria.”

Di nuovo soli, i due presero i bicchieri, li alzarono e brindarono silenziosamente, entrambi tacitamente impegnati a ricordare i momenti che avevano condiviso al campo quando avevano lottato fianco a fianco contro i Colonna.

Dopo aver sorbito il primo sorso di liquido chiaro e averlo trovato davvero eccezionale, Virginio riprese: “Ho approfittato della prima occasione per andarmene e non prendere parte a quel maledetto assedio. Novara secondo me è una causa persa, o quanto meno – mise le mani avanti – se anche Gonzaga riuscisse a prenderla, sarà in ogni caso un grosso spreco.”

Caterina incrinò un le labbra da un lato e, tenendo il calice con ambo le mani, scrutò il contenuto leggermente ambrato: “Tutta questa guerra è stata solo un grosso spreco. Piuttosto, parlatemi di Fornovo.”

Le iridi chiare degli occhi di Virginio brillarono un attimo, per poi farsi più opache, mentre ammetteva amaramente: “A Fornovo sono scappato dal campo francese, immagino lo sappiate. Ma l'ho fatto solo perché non volevo più sentirmi un traditore.”

“Siete un mercenario, è normale per voi stare dalla parte di chi vi paga, no?” interloquì la Contessa, mentre l'Orsini beveva un po' di hypocras: “Piuttosto, raccontatemi della battaglia.”

Virginio allora si lanciò in una vivida ricostruzione dello scontro, riuscendo, primo tra tutti, a placare la curiosità che Caterina aveva provato fin dal primo momento verso quella disfatta passata poi come grande vittoria della Lega.

Quando l'argomento fu sviscerato attentamente e i due furono al secondo bicchiere, la Contessa, preda dei ricordi della guerra che aveva combattuto accanto a Virginio, chiese: “E Paolo Orsini? Si sa dove sia al momento? Non ho più avuto sue notizie.”

L'uomo si accomodò sulla poltrona e, rivolgendo lo sguardo alla torcia, rispose secco: “Da quel che so è a Venezia con Piero Medici. Perché abbia deciso di legare così tanto il suo destino e un uomo di così poco valore, non saprei dirvelo.”

Dato che Virginio non sembrava ben disposto nel parlare del parentame, Caterina lasciò che la loro conversazione tornasse su un campo più neutrale: quello della guerra.

Quando però non seppero più che dirsi sull'invasione di re Carlo, rendendosi conto che su molte cose la pensavano troppo diversamente per parlarne serenamente, fu l'Orsini a tentare una nuova strada: “I vostri figli sono davvero di rara bellezza.”

Caterina ringraziò con un lieve distacco, come faceva sempre quando si parlava della sua prole e Virginio fu quasi pentito di averli nominati. Lui sapeva bene come pochi altri quanto fosse stato difficile per la Contessa avere quei sei figli.

Tuttavia, nonostante non volesse sembrare troppo impiccione e indelicato, l'uomo si sentì in dovere di mettere a parte Caterina di un'impressione che l'aveva scosso molto nel corso della cena: “Vostro figlio Ottaviano ricorda in modo impressionante suo padre.”

La Contessa strinse i denti e appoggiò il calice al tavolino: “Lo so.”

“State attenta a vostro figlio – la redarguì Virginio, puntellandosi sul bordo della poltrona e raggiungendo una mano di Caterina con la sua – non mi piace il modo in cui vi guarda.”

Nella stretta sicura delle dita dell'Orsini, la Contessa lesse un avvertimento sentito e sincero, tanto che per un momento si spaventò.

Virginio, però, ritrasse la mano quasi subito, come se si fosse accorto di aver osato troppo e arricciò le labbra nel suo sorrisetto furbo: “E del vostro Governatore cosa mi dite?”

“Che dovrei dire?” chiese Caterina, ritirando a sua volta la mano e corrucciandosi.

“Sono qui da poche ore – fece l'uomo, passandosi un dito sul mento rasato – ma ho fatto in tempo a passare dal barbiere Bernardi e ho potuto sentire delle chiacchiere interessanti...”

Il modo in cui la Contessa distolse lo sguardo e si sbrigò a versarsi di nuovo da bere fu sufficiente per Virginio per avere una conferma ai suoi dubbi, così commentò, senza intenzione di fare polemica: “Mi sembra molto giovane.”

“Ha solo un anno in meno del re di Francia – ribatté Caterina, troppo sulla difensiva – e mi sembra che Carlo VIII ci abbia dimostrato che l'età a volte conta poco.”

“Intendevo dire – precisò Virginio, provando una vaga repulsione per il suo stesso modo di porsi in quel frangente – che mi sembra molto giovane per voi.”

La Contessa restò un momento con la bocca aperta e poi constatò, secca: “Se io fossi un uomo e lui una donna la nostra differenza d'età di certo non vi scandalizzerebbe a questo modo, vero?”

Orsini sospirò pesantemente, scrutando il volto della donna che aveva di fronte, chiedendosi che mai fosse capitato davvero nella sua vita in tutti quegli anni: “Avete ragione, i pregiudizi imposti dalla nostra società sono biechi e gretti, ma state solo sviando il discorso... In ogni caso, spero solo sia un uomo migliore del vostro primo marito.”

“E comunque – continuò Caterina, persistendo con il tono acuto con cui aveva iniziato la sua arringa difensiva – non ho detto che le voci che avete sentito sono vere.”

Virginio strinse le palpebre, scorgendo nella Contessa, per la prima volta da quando si erano ritrovati, di nuovo la ragazza che voleva mostrarsi forte anche nei momenti più difficili, ma volle spingere fino in fondo la sua indagine: “Il fatto che ci teniate tanto a negare anche con me mi fa pensare che vi vergognate di lui e a quel punto mi resta difficile credere che il Governatore sia migliore del defunto Conte.”

Virginio e Caterina si guardarono per un lunghissimo istante e tra i due tornò finalmente quella familiarità che entrambi cercavano senza riuscire a trovare. Fu come se fossero di nuovo al campo degli Orsini, pronti a dar battaglia, consci che la vita sarebbe potuta finire in un soffio e che fidarsi l'uno dell'altro sarebbe stata l'unica via di salvezza, nella polvere e nella confusione dello scontro.

Così, arrendendosi al desiderio di avere qualcuno di fidato con cui confidarsi, Caterina cedette e confessò: “Le voci sono vere, anzi – si schiarì la voce – per quel che ne so, non hanno nemmeno capito davvero quanto è profondo il nostro legame. Ma sono costretta a negare con tutti, o lo metterei solo in pericolo.”

“Non ho sentito notizie solo in merito alla natura della vostra relazione, a dirla tutta.” ribatté schietto Virginio: “Ciò che ho sentito mi è parso molto più grave.”

“Cioè?” si informò la Contessa, stupita.

“Dicono che abbia cercato di uccidervi.” buttò lì il signore di Bracciano, restando in attesa di una smentita.

Il pensiero di Caterina corse subito al bieco accordo che Giacomo aveva preso sottobanco durante la guerra. Le pareva passato un secolo. Ricordò quello che ne era seguito, la strage di Mordano, i litigi e tutto quanto le parve improvvisamente nulla, rispetto a quello che ancora provava per suo marito.

L'unica cosa che la inquietava era il fatto che una notizia così riservata e delicata fosse oggetto di pettegolezzo.

Soffiò, come se tutta quella faccenda fosse solo un pettegolezzo da preti, e commentò a denti stretti: “In tutti i matrimoni ci sono alti e bassi, i chiacchieroni di Forlì hanno solo gonfiato le cose.”

“Matrimoni..?” il viso di Virginio tradiva una sincera sorpresa, ma Caterina preferì smorzare sul nascere il suo stupore.

“Sapete da quanto tempo il Governatore è alla mia corte?” chiese la Contessa, sollevando le sopracciglia.

“No, di preciso no, ma in città ne parlavano come se fosse qui da anni.” ammise Virginio.

“Ecco, voi credete che mi sarei tenuta in casa un amante per sette anni?” la domanda era palesemente retorica, ma l'uomo ci stava ragionando sopra seriamente, tanto che diede anche una risposta.

“No, immagino di no.” disse.

“Appunto. O me lo sposavo, o rinunciavo a lui.” spiegò Caterina: “E da quando mi hanno liberata dal peso del mio primo marito ho deciso che non avrei mai più rinunciato alle cose che potevano rendermi felice.”

“È stata una mossa molto azzardata, converrete con me.” fece Virginio, visibilmente colpito da quell'affermazione tanto lapidaria.

Caterina lo guardò un momento e comprese che non era il caso di parlargli anche di Bernardino, anche se forse avrebbe voluto farlo. Virginio era comunque un uomo e non avrebbe capito fino in fondo. Poteva anche esserle amico, ma proveniva da una famiglia antica e la sua istruzione lo aveva portato a essere abbastanza rigido su certi argomenti.

“Azzardata, azzardatissima, anzi, sono d'accordo con voi, ma io sono una donna e certe cose posso permettermi di farle.” tagliò corto la Contessa, con un sorriso.

L'Orsini non era del tutto convinto da quella spiegazione, ma capì che non era quello il momento di portare la Contessa a quello che sarebbe presto diventato un litigio. Perciò evitò di esprimere liberamente il suo pensiero in merito a quella questione e cercò più miti consigli, così, in breve, i due ritornarono a parlare di soldati, artiglieria e cavalli da guerra, argomenti che li mettevano pacificamente sullo stesso piano.

 

Quando Caterina arrivò al Paradiso, quella notte, era già molto tardi, ma Giacomo la stava aspettando alzato.

Era sulla sua poltrona, in abiti da camera, illuminato da un'unica candela e sembrava aver passato tutto il tempo a rimuginare su qualcosa di poco piacevole.

Caterina accese qualche luce in più e cominciò a togliersi gli abiti, mentre il marito la fissava da sopra la spalla in silenzio.

“Cosa c'è?” chiese a quel punto la Contessa, irritata da quel modo strano di atteggiarsi di Giacomo.

L'odore dell'hypocras che uscì dalle labbra della moglie fece contrarre spiacevolmente un muscolo sulla mascella dell'uomo, che chiese, senza mezzi termini: “Davvero non hai mai avuto un amante, quando eri sposata con il tuo primo marito?”

Caterina, che si era appena fatta scivolare in fondo ai piedi la sopravveste, lasciando scoperto il pugnale fissato alla sua gamba, si bloccò un momento. Aveva la testa che pulsava per colpa del vino ed era solo stanca. Un discorso del genere, a quell'ora, era una vera tortura.

“Mi hai già fatto questa domanda una volta e ti ho già risposto in maniera esaustiva, mi pare.” disse la donna, omettendo l'ultima parte del discorso, che rimase solo nella sua mente: 'E comunque non dovrebbe importartene, visto che all'epoca non ci conoscevamo ancora'.

Giacomo sbuffò e lasciò la poltrona, andandosi a puntellare contro la piccola scrivania della moglie, in modo da costringerla a guardarlo: “Dimmi la verità, Caterina, qualunque sia.”

Improvvisamente la Contessa capì e trovò l'idea tanto esilarante che per poco non scoppiò a ridere di fronte alla mestizia con cui il marito le aveva parlato.

Riuscì a trattenersi e fu una fortuna, perché in tal modo diede maggior forza e credibilità alle sue parole: “La risposta sincera è: no. E comunque non devi essere geloso di Virginio Orsini, non ne hai motivo. Per me è sempre stato più come un padre che non...”

Senza lasciarla finire, il Barone si slanciò in avanti e la prese tra le braccia, stringendola a sé con decisione: “Ho solo paura di perderti.” si scusò.

La donna si lasciò cullare per qualche minuto dalle braccia accoglienti di Giacomo, ma poi lo allontanò da sé e chiese: “Credevi davvero che avrei potuto tradirti con lui?”

“È solo che quando ti vedo con uomini come quell'Orsini – disse il Barone, mettendosi a girare per la stanza come un'anima in pena – mi sembrano tutti più adatti a te di quanto non lo sia io. Con loro parli di guerra, armi, tattiche e tutte quelle cose che io non riesco a mettermi in testa... Parlate una lingua che io non conosco, siete cresciuti in un mondo che io non conosco. È una cosa che mi fa paura.”

Caterina fece un sorriso triste, guardando il marito che continuava a misurare ad ampi passi il Paradiso. Quello che le aveva detto non era una novità, ma la faceva soffrire il pensiero che lui ancora si sentisse tanto inadeguato. Non poteva bastargli l'amore che lei provava per lui?

“Non pensarci più.” gli disse, facendolo fermare e accarezzandogli con dolcezza una spalla: “Io ho scelto te.”

Giacomo parve un po' rincuorata da quella dichiarazione e smise di agitarsi per la camera, raggiungendo il letto e aspettando con uno sbadiglio che la moglie lo raggiungesse.

Caterina archiviò in fretta la questione e si preparò per coricarsi. Tuttavia, prima di addormentarsi, stremato dalla serata passata a crogiolarsi nei dubbi più atroci, Giacomo si lasciò scappare una frase che denunciò tutta la sua gelosia.

“Orsini parte domani mattina presto, vero?” chiese.

La Contessa gli rispose: “Molto presto, non preoccuparti.”

 

La visita di Virginio Orsini era stata una piacevole distrazione per tutta la corte, in quell'agosto rovente. Tuttavia, subito dopo la partenza dell'uomo, salutato dalla Contessa come un fratello davanti agli occhi interessati di tutta la rocca e di parte della cittadinanza, tutti quanti erano tornati a occuparsi dei loro affari come se nulla fosse successo.

Anche Battista Sfrondati si era rimesso a macchinare senza tregua non appena l'ospite di Bracciano se n'era partito.

Mentre attraversava a grandi passi il cortile d'addestramento di Ravaldino, teneva nella tasca interna del suo soprabito marrone una lettera molto importante arrivata da Milano e stava cercando da oltre un'ora il Conte Ottaviano per riferirgli un messaggio di vitale importanza.

L'aveva cercato per tutta la rocca e poi anche in alcune zone della città – comprese quelle poco raccomandabili – eppure non aveva avuto successo.

Stava per arrendersi, quando sentì la voce lamentosa dell'ottenne Sforzino provenire dai pressi del fico che stava nel piccolo orto personale della Contessa.

Incuriosito, Sfrondati si avvicinò e vide subito che assieme al Riario più giovane c'era anche il Conte Ottaviano, che, con un'espressione di infantile ripicca in viso, teneva troppo in alto un cavallino di legno con cui, probabilmente, il povero Sforzino stava giocando prima del suo arrivo.

Battista si chiese cosa stesse trattenendo il bambino di otto anni, ben piazzato e tutt'altro che debole, dal tirare un pugno nella pancia al fratello maggiore. Avrebbe spento in un attimo tutta la sua boria. Eppure pareva che l'idea non sfiorasse nemmeno la mente del piccolo.

Sfrondati avrebbe quasi voluto intervenire in difesa di Sforzino, ma era Ottaviano, quello che doveva accattivarsi, per cui si avvicinò ridendo, come se trovasse la scena molto divertente e non semplicemente patetica.

“Conte, posso parlarvi?” domandò, con un inchino.

Ottaviano gonfiò le gote, poi guardò all'orizzonte, con il bel profilo che si stagliava contro la luce franca dell'agosto, e, con un gesto repentino, gettò il giocattolo di Sforzino lontano, tra i ciuffi di erba medica.

Una volta che il bambino fu lontano, per andare a recuperare il cavallino intagliato, il Conte si rivolse all'ambasciatore milanese: “Ditemi.”

“Il Duca di Milano vi invita a sbrigarvi – sussurrò Sfrondati, picchiettandosi il dito contro la lettera celata dal soprabito – si stanno muovendo molte acque, mio signore, e presto, troppo presto, potrebbe essere tardi. Date il segnale ai vostri uomini. Dobbiamo fare prima che finisca il mese.”

Ottaviano, come chi attende troppo a lungo qualcosa che al contempo agogna e teme, sentì improvvisamente la terra mancargli da sotto i piedi.

Di colpo si sentiva terrorizzato e sopraffatto da quello che stava per fare. Cosa sarebbe accaduto dopo? Ci sarebbe stato, un dopo?

“Va bene.” disse al milanese, sforzandosi di restare con la schiena dritta, imperscrutabile e serio.

Sfrondati gli rivolse un sorriso di prammatica e, nel ritirarsi, ribadì: “Date l'ordine il prima possibile, è la nostra ultima e migliore occasione.”

Il Conte tenne gli occhi puntati sulla schiena un po' curva dell'ambasciatore mentre lo vedeva allontanarsi e raggiungere il ponte levatoio.

Quando l'uomo sparì dalla sua vista, Ottaviano si rese conto di avere le mani strette a pugno con tanta forza da farsi dolore le dita.

Passandosi la lingua sulle labbra secche, il ragazzo partì a grandi falcate, diretto in città, deciso a non presentarsi al Consiglio, quel pomeriggio. Doveva riunire entro sera i congiurati più importanti e doveva convincerli che fosse giunto il momento buono.

Per farlo, però, avrebbe dovuto farsi coraggio in qualche modo.

Infilò una mano in tasca e vi trovò qualche moneta. Abbastanza da pagarsi da bere a sufficienza per darsi uno sprone. Non gli piaceva il vino, né i liquori, ma era uno dei pochi modi con cui riusciva a darsi una scossa quando ne aveva davvero bisogno.

Mentre già attraversava una via secondaria diretto a una locanda, cambiò improvvisamente idea e tagliò verso il postribolo più vicino.

 

 
   
 
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