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Autore: CaptainKonny    21/02/2017    5 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8

 

“Impazzirai, lo so che impazzirai

Perché non ci basta il tempo

Perché nulla basta mai”

 

Era notte fonda quando il suo sonno venne disturbato. Serena rimase immobile, cercando di capire cosa l’avesse svegliata. Delle voci concitate provenivano dall’altra stanza. In assoluto silenzio scivolò fuori dalle coperte, un’occhiata a suo fratello che ancora dormiva dall’altra parte della camera e in punta di piedi oltrepassò la porta. Era tutto buio in casa e lei rimase indecisa sul da farsi. Solo uno spiraglio di luce filtrava dalla camera di mamma e papà, dove i genitori stavano discutendo. Ma da quella posizione non riusciva a vedere niente, perciò passò davanti alla porta della loro stanza, veloce come un’ombra, e si arrampicò sulla scala che portava in soffitta per poi sedersi sul fondo di uno scalino; abbastanza nascosta per non essere vista, nella posizione giusta per vedere e sentire quello che stava accadendo all’interno della stanza.

La mamma era in piedi da un lato del letto e le dava le spalle, il papà invece era dal lato opposto e continuava a andare avanti e indietro, portando vestiti verso il letto.

-Aaron, sono le quattro del mattino.- disse Haley, come se quella fosse una scusa più che sufficiente.

-Haley ne abbiamo già parlato, questo è il mio lavoro.- rispose in un sospiro stanco Hotch.

-No, invece! Tu ne hai parlato, ma non hai mai ascoltato la mia versione.-

-Che cosa staresti insinuando?- adesso l’uomo aveva un cipiglio severo. Serena si strinse le gambe al petto dopo averle circondate con le braccine, sicura di essere al sicuro.

-Ti era stato offerto un lavoro d’ufficio, con orari fissi.- l’uomo non rispose, sapeva dove quel discorso andava a parare –Ma tu hai preferito continuare ad andare e venire.-

-Lo sai bene quanto tenga a questo lavoro.-

-E a noi Aaron? A noi quanto tieni? Più o meno del tuo stupido lavoro?-

-Non c’è niente che mi importi di più di te e i bambini.-

-Davvero? Perché non è quello che sembra.-

-Che vuoi dire?-

-Svegliati Aaron! I tuoi figli stanno crescendo con un padre che c’è un giorno sì e tre no. Non lo vedi come ti si attaccano quando ci sei? Hanno bisogno di un padre.-

-Io ci sono per loro.- rispose Aaron con tono pacato, Haley diede in un risolino di scherno.

-Sì, come no! Dall’altra parte del mondo.-

A seguire un lungo momento di silenzio. Serena sentiva solo il suo respiro solleticarle le manine, gli occhi incapaci di distogliersi da quella scena.

-Devo andare.- Aaron afferrò il borsone che aveva preparato.

-Certo vai. Loro sì che hanno bisogno di te.-

-Haley…-

-Aaron basta!- mamma non gridava quasi mai, tantomeno con papà –Non farmi apparire come un mostro.- silenzio; e singhiozzi.

-Tesoro, mi dispiace. Credimi se ti dico che sto facendo tutto quello che posso per passare più tempo possibile con te e i bambini.-

-E’ solo…- mamma stava piangendo -…non voglio che un giorno tu possa svegliarti in una qualunque città e scoprire di non conoscere i tuoi figli.-

Aaron le pose una mano sulla guancia prima di attirarla a sé in un vero bacio innamorato. Poi appoggiò la fronte a quella di lei, occhi negli occhi.

-Cercherò di fare presto. Te lo prometto.-

-Okay.- la voce smorzata dal pianto, sapeva che anche suo marito soffriva della loro mancanza sebbene non lo desse a vedere. Per questo aveva bisogno ogni tanto che anche lui si esponesse.

-Dai un bacio ai bambini da parte mia.-

-Stai attento.-

Un ultimo rapido bacio, un fugace sguardo e l’agente Hotchner uscì dalla stanza e poi giù per le scale. Vedendo che la mamma era rimasta in camera, Serena tornò vicino alla porta della propria camera per poter seguire con lo sguardo il papà andare via. Aaron si fermò con la porta aperta, voltandosi come se avesse percepito lo sguardo della figlia seguirlo. Ma nascosta nel buio della casa non la vide. Serena osservò i lineamenti severi del padre, il suo sguardo a cui non sfuggiva nulla. E per l’ennesima volta vide le sue spalle mentre andava via.

Si svegliò di soprassalto, quasi stesse precipitando. L’immagine di suo padre che partiva per un’altra missione senza nemmeno salutarli ancora davanti agli occhi. Si passò le mani sul viso per schiarirsi le idee; la prima cosa che notò fu che non era a casa propria.

 

“Anche se in fondo il nostro è amore

Usiamo stupide parole

E siam vicini ma lontani, e troppi tentativi vani”

 

POV SERENA

Erano passate ore dal mio arrivo e dopo il colloquio con l’agente Rossi non è che avessi avuto granché da fare. Avevo visto gli agenti Morgan e Prentiss lasciare la base, io invece ero decisamente di troppo. Chi non sapeva chi fossi mi guardava con fare dubbioso e diffidente, una muta e chiara domanda in volto, gli altri mi guardavano con fare sconsolato, quasi fossi troppo fragile e potessi andare in pezzi da un momento all’altro. L’agente Jereau mi aveva chiesto se volessi qualcosa da bere e io avevo gentilmente rifiutato, esprimendo invece quanto fossi scombussolata da tutto quello che era successo. Alle mie parole mi aveva accompagnato in uno degli uffici sopraelevati che si affacciava sull’intero openspace, per la precisione quello di mio padre. Mi aveva detto che avrei potuto risposarmi mentre tentavano di venire a capo di qualche informazione utile, io ero una pedina importante in tutto quel “gioco” e sarebbe stato meglio che fossi stata in forze quando fosse arrivato il mio turno. Inoltre lì non sarei stata oggetto di troppe occhiate indiscrete. La ringraziai, perché in effetti tutta quella storia mi aveva veramente shakerato per bene. Senza rendermene conto ero piombata tra le braccia di Morfeo senza opporre la benché minima resistenza.

Mi misi a sedere, ancora intontita dal mio breve pisolino. Sollevai il polsino della camicia per controllare l’ora: solo un’ora era passata da che mi avevano lasciata a me sessa. Decisi di dare una breve occhiata all’ufficio, ero curiosa, in teoria quello rappresentava l’immagine di mio padre. Davanti al divano in pelle nera su cui avevo appena dormito c’era un tavolino in legno color ciliegio, poco più avanti due sedie girevoli in pelle nera per gli “ospiti”, la scrivania era dello stesso color ciliegio del tavolino. Su di essa ogni cosa era rigorosamente in ordine: libri, agenda, post-it, cucitrice, scotch, portapenne, telefono fisso, tutto quanto. C’erano persino due foto e la cosa mi sorprese non poco. Nella prima c’erano lui, mamma e Jack, ancora piccolissimo; non ero ancora nata all’epoca. Nella seconda c’era solo Jack che giocava a pallone, con indosso la divisa della squadra. Qualcosa dentro di me si mosse notando che non ce n’era una mia, nemmeno una di famiglia dopo la mia nascita, come se davvero avesse fatto di tutto per rimuovermi. Deglutii, autoconvincendomi che anche quello faceva parte del piano affinché nessuno sapesse di  me. La sua poltrona era anch’essa in pelle nera e girevole, solo che aveva i braccioli. Per finire, sull’ultima parete, si estendeva un’immensa libreria piena zeppa di libri e dedussi che quasi tutti dovessero essere di legge. Tomi che nessuna persona sana di mente ad eccezione di un avvocato leggerebbe mai. Curioso, ma mi venne quasi da ridere.

Aggirai la scrivania e cedetti all’impulso di sedermi su quella poltrona. Fu come un salto indietro nel tempo, quando tornava a casa e gli gettavo le braccia attorno al collo, il suo odore mi investì riempiendomi le narici. Non avrei saputo dire esattamente di cosa si trattasse, ma era odore di lui: un miscuglio di dopobarba, profumo e lavoro; fogli impolverati, polvere da sparo e sudore; severità, determinazione e giustizia. Mi era mancato quell’odore, ma non avevo capito quanto. Le lacrime mi pizzicarono gli angoli degli occhi, ma le ricacciai indietro con ostinazione, mentre lo stomaco avvertiva la terra sotto i piedi mancare. Ed era proprio in quei momenti che mi sarebbe piaciuto uscire allo scoperto, dimostrare i miei veri sentimenti, quanto mi mancasse (considerando che nemmeno io avrei saputo quantificare la cosa). Eppure non ci riuscivo, avevo un blocco, quasi avessi tirato il freno a mano e rotto la leva. Che si trattasse di orgoglio? Poteva anche essere. Solo di una cosa ero certa, faceva male, tanto. Troppo il tempo che questa situazione andava avanti, logorandomi dall’interno, distruggendomi. Ed ero del tutto sicura, sebbene senza saperne come, che anche per mio padre fosse la stessa identica cosa.

Per fortuna ci pensò il bussare alla porta a riscuotermi da quei pensieri. La porta si aprì in uno spiraglio, facendo scorgere una chioma bionda.

-Abbiamo nuove informazioni.-

-Arrivo.- non sembrò stupita di trovarmi là seduta e come lei non dissi nulla.

Seguii JJ nell’openspace dove tutti ci stavano aspettando, anche Morgan e Prentiss erano tornati. C’era solo un volto nuovo tra loro, ne dedussi dovesse trattarsi del tecnico informatico, mio padre mi aveva accennato quanto fosse eccentrica, ma al contempo in gamba nel suo lavoro. Era di poco più alta di me, con quel briciolo di carne in più che agli uomini faceva sempre piacere. I boccolosi capelli biondi erano raccolti con dei fermagli, colorati tanto quanto lo era il suo vestiario: a partire dalla magliettina, a seguire il golfino, per finire con la gonna lunghezza ginocchio; tutto con sfumature bianche e rosa shocking. Mentre li raggiungevo non mi aveva staccato gli occhi di dosso, guardandomi come se avesse appena visto un miraggio attraverso gli occhiali viola dalla montatura a farfalla, le labbra rosse di rossetto leggermente dischiuse.

-Ehi Garcia, tutto bene?- le domandò l’agente Morgan, a quanto pareva anche per lui la reazione della donna era nuova. Non lo degnò di una risposta e questo quasi mi fece venire da ridere.

-Oh, cielo! Oh, mio…! Siete identici! Due gocce d’acqua. Avete visto anche voi. Cioè…appena tutto questo sarà finito voglio una vostra foto.- le sorrisi, impossibile non farlo.

-Allora facciamo in modo che sia il più presto possibile. Ti presento Penelope Garcia, il nostro tecnico informatico. Garcia, lei è Serena Brooks.- ci presentò Rossi.

-E’ un vero piacere conoscerti, non per vantarmi ma qui mi chiamano Genio.- mi porse la mano, vincendo la balbuzie con uno slancio di espansività. Gliela strinsi.

-Il piacere è tutto mio. Ho sentito parlare molto di te.- mi guardò, visibilmente sorpresa.

-Davvero? Hotch ti ha parlato di me?-

-Certamente. Senza di te la squadra sarebbe persa. E il curriculum spedito su carta da lettere rosa ormai è leggenda.- la vidi diventare rossa d’imbarazzo e allargai il mio sorriso aggiungendo –A mio parere, quello è stato un vero colpo di classe.-

-Dici davvero?-

-Sicuro. Non sono molte le persone che riescono a sorprendere mio padre.-

-D’accordo bando alle ciance, Garcia cosa hai trovato?- intervenne nuovamente Rossi. In quel momento realizzai che io e Penelope, fuori da lì, avremmo anche potuto essere amiche.

-Sì, ho riesumato la storia del nostro S.I., Rowan McGrant, cinquantacinque anni. È stato incriminato per aver ucciso mogli e figli di diverse famiglie. Incominciò con la propria, utilizzando la scusa di volerla “tenere al sicuro”.-

-Tenerla al sicuro da cosa?- domandò Emily, interrompendo il resoconto.

-Dalla società, dalle altre famiglie. McGrant era convinto di rappresentare il simbolo del buon padre di famiglia, perfezionandosi a tal punto che, per non far cadere i propri famigliari in tentazione, li ha uccisi per tenerli al sicuro.- rispose Reid.

-Esatto genietto, per poi proseguire con il suo massacro, uccidendo chi secondo lui era “compromesso”.-

-Sì, ma perché ha lasciato vivere i mariti?- chiese ancora Emily. Questa volta fu Rossi a rispondere.

-Per farli sentire in colpa, il buon padre di famiglia che non è in grado di proteggere i propri cari. Avrebbero continuato a vivere nel rimorso.- io ascoltavo tutto, cercando di analizzare il profilo del criminale che aveva rapito mio padre.

Fu in quel momento che un suono a noi familiare spaccò il silenzio, paralizzandoci sul posto. Il telefono sulla scrivania di JJ stava squillando.

-Dite di far rispondere lei?- chiese JJ rivolta alla squadra, indicando me.

-Non così in fretta.- intervenne Morgan, sorpassandoci e raggiungendo l’apparecchio.

-Garcia, vedi se riesci a rintracciarlo questa volta.- ordinò Rossi, Penelope prese posto alla scrivania di Reid e iniziò a smanettare sulla tastiera. Un cenno di assenso tra l’agente di colore e l’agente supervisore, poi Morgan sollevò la cornetta.

-Pronto.- il tono era completamente distaccato.

-Agente Morgan, come va? Spero di non avervi fatto girare a vuoto nel frattempo.- sghignazzò la voce dall’altra parte, perfettamente nitida in vivavoce.

-Io non canterei vittoria, siamo più vicini di quanto credi.- un’altra risata.

-Lo sa agente che lei è molto spassoso? Non dev’essere facile mentire sotto stress, perché lo so che questa cosa vi sta snervando, era prevedibile.-

-Come sta Hotch?- lo interruppe Morgan in modo brusco, Rossi gli fece un cenno con la mano, non dovevamo permettere che l’S.I. avesse il controllo della situazione.

-Spiacente agente Morgan, adesso voglio parlare con Serena.- silenzio –So che è lì. passatemela.-

-Perché?-

-Agente, non tiri troppo la corda. Qualcuno potrebbe farsi male. Passatemela.- Morgan si spostò dalla scrivania per farmi spazio, io non ero pronta. Non mi spaventava l’idea di contrattare con un criminale, ma il fatto che fosse coinvolto mio padre, che sarebbe stata questa l’occasione in cui finalmente lo avrei risentito dopo tutti questi anni; e avevo paura. Incrociai lo sguardo di Rossi, mi fece segno con la mani di calmarmi.

-Cerca di mantenere la calma, se qualcosa non va noi ti aiuteremo. E cerca di restare al telefono il più a lungo possibile. Più parla più indizi ci potrà fornire.- mi disse a bassa voce. Tutto ciò che fui in grado di fare fu annuire.

-Pronto.- cercai di mantenere la voce ferma, ma sapevo di non esserci riuscita molto bene. Dal suono che ricevetti in risposta stava sorridendo.

-Ciao Serena. Sono contento che gli agenti ti abbiano trovata, senza di loro non ci sarei mai riuscito. Allora, come stai?-

-Sto bene.-

-Ottimo. E gli studi? Presto sarai una profiler come tutti quegli agenti.-

-Molto bene, grazie.- il cuore mi batteva all’impazzata nel petto, temevo potesse persino coprire le nostre voci.

-Sai, sono colpito che tu abbia accettato l’invito a collaborare a questo caso.-

-Hanno detto che volevi parlarmi.-

-E’ corretto.-

-Allora parliamo.- era indispensabile che riacquistassi la mia fermezza, non potevo permettermi di fallire.

-Ti hanno detto cosa ho fatto?- quella fu una vera e propria doccia gelata; no, le cose non stavano migliorando.

-Hai rapito mio padre.- fui glaciale. Lui rise come se fossimo ad un telequiz.

-Sì e sai qual è la cosa che mi sorprende? Sei accorsa subito.-

-E’ mio padre.- sottolineai col medesimo tono di poco prima, quelle tre parole volevano dire tutto, colmavano qualunque lacuna. Ma a quanto pareva al nostro amico non fu sufficiente.

-Sì, Serena lo è. Ma dopo tutto questo tempo…- lasciò la frase in sospeso, in un modo che non lasciava presagire nulla di buono.

-Che vuoi dire?-

-Andiamo, so che lo sai. Dopo tutto questo tempo. Sei ancora a disposizione per lui. Dopo che ti ha lasciata.-

-Lui non mi ha lasciata.-

-Dopo che ti ha tolto il suo nome.- ormai ci parlavamo sopra.

-Come un’estranea.-

Non risposi. Mi sentivo come quando un ordigno ti esplode vicino e per un momento non senti più nulla, solo un lungo ed acuto fischio. Ecco così, ero fuori dal mondo. Non sapevo cosa dire, non riuscivo a pensare, ero completamente vuota. Alzai lo sguardo e vidi Rossi di fronte a me, era teso, il volto preoccupato; aveva capito che c’era qualcosa che non andava. No, la situazione stava peggiorando di minuto in minuto.

 

POV HOTCH

-Dopo che ti ha tolto il suo nome. …Come un’estranea.-

Il volume era talmente alto che avevo sentito perfettamente la voce di Serena rispondere alle sue domande. Speravo si trattasse di uno stratagemma della mia squadra, una donna prestatasi per dare la voce, ma al solo sentirla era stato come se qualcuno avesse preso in mano il mio cuore, stringendolo in una morsa di preoccupazione. Per “l’occasione” ero stato legato alla sedia del mio risveglio, le corde che nuovamente tornavano a ferirmi i polsi, in mezzo a quello stanzone vuoto in cui rimbombava tutto. La mia più totale attenzione era per la voce che sentivo dall’altra parte dell’apparecchio, quanto tempo era passato dall’ultima volta.

-Fammi parlare con lui.- la sentii dire, il mio cuore prese a scalpitare: ero pronto a risentirla? Mi diedi dell’idiota, quella era una normale conversazione tra rapitore e agenti di polizia, una trattativa. Di certo non ci saremmo messi a guardare delle fotografie, per quello ci sarebbe stato tempo dopo; se ci fossimo arrivati.

-Perché?- fissai gli occhi in quelli dell’uomo di fronte a me, tutte le volte che pensavo di capire quale fosse il suo filo conduttore, mi rendevo conto che c’era qualcosa che mi sfuggiva. Anche in quel momento mi accorsi che quella domanda era stata fatta apposta, per un motivo ben preciso, ma a me ancora sconosciuto. Avevo un brutto presentimento, il problema era che raramente mi capitava di sbagliare.

-Voglio sapere come sta.-

-Sta bene.- rispose lui, lentamente. Questa volta Serena non ebbe esitazioni a ribattere.

-Voglio parlarci.- lo vidi preso in contropiede, non poteva rifiutarsi, lei aveva fatto ciò che lui aveva chiesto, ora toccava a lui. Mi ritrovai a pensare ironicamente quanto il suo tono assomigliasse al mio quando davo disposizioni ai miei sottoposti; buffo. L’uomo mi si avvicinò, appoggiandomi la cornetta all’orecchio. Sudavo tanta era la tensione, le corde ai polsi parevano stringere più di prima. Ci fu un lungo attimo di silenzio dall’altra parte, solo i nostri respiri, sembrò trascorrere un’eternità.

-Pronto.-

Fu come una doccia gelata, un martello che picchia con forza contro una lastra di ghiaccio mandandola in frantumi. La voce mi si spezzò in gola, non un solo suono raggiunse le mie labbra. Era lei, non vi era alcun dubbio. E l’unica cosa che mi venne in mente fu che era una cosa straordinaria. Mi diedi nuovamente dell’idiota per non averci pensato prima, per essermi privato del piacere che solo una telefonata avrebbe potuto dare.

-Papà?-

Il suo tono rimaneva fermo, perché questo era ciò che le circostanze richiedevano, tuttavia distinsi una nota incerta; dovevo risponderle.

-Serena.-

Fu tutto ciò che riuscii a dire, il cuore mi batteva tanto forte da farmi male, faticavo a respirare. In quel momento tutti i miei dolori fisici svanirono per lasciare spazio solo a noi due.

-Sono qui, sta tranquillo. Andrà tutto bene vedrai. Ti tireremo fuori da lì.-

Cercava di mantenere la calma, ma anche lei era nervosa, catapultata come me in questa storia che aveva dell’inverosimile. Curioso detto da me che ne avevo passate tante, anche sopra la mia pelle. Forse questa volta era diverso perché a essere in pericolo ero io.

-Lo so, farete del vostro meglio come sempre.- dissi, cercando di mantenere il mio tono professionale e distaccato.

-Come stai? Che ti ha fatto?-

-Sta tranquilla. Sto bene.-

-Ti ha fatto del male? Sei ferito?-

Era forse apprensione quella che sentivo nella sua voce? Lo sperai con tutte le mie forze. Esitai a rispondere, se avessi risposto di sì tutti si sarebbero preoccupati e avrebbero potuto agire in modo avventato, per non contare che il rapitore ne avrebbe tratto una soddisfazione personale, non potevo permetterlo.

-E’ tutto a posto, sto bene. Ascoltami Serena, non devi ascoltare quello che dice, non fare niente; mi hai capito?-

Le ultime parole fui costretto a urlarle, la cornetta mi venne portata via. La sentii chiamarmi a vuoto, mentre strattonavo inutilmente le corde cercando di liberarmi. L’uomo mi guardo negli occhi e vidi una luce sinistra brillare nei suoi. Rise, piacevolmente divertito, riportandosi l’apparecchio all’orecchio in un fluido gesto, meticolosamente studiato e ormai divenuto ordinario.

-Allora piccola Serena, come è stato risentire paparino dopo tutto questo tempo?- un moto di rabbia mi colse violentemente. Se avessi avuto le mani libere gli avrei attorcigliato il filo del telefono attorno alla gola. Sporco bastardo! Se sperava veramente di metterci l’uno contro l’altra si sbagliava di grosso. Qui il gioco si faceva complicato: era la polizia che tentava di avere la sua fiducia o era lui che cercava di convincere la polizia? Perché era proprio questo il gioco a cui stava giocando, ed in quel momento io ebbi paura per Serena. Era stato furbo, non aveva scelto una persona a caso, aveva scelto la persona a me più vicina, che potesse collaborare con la polizia e dal punto di vista emotivo che fosse anche la più vulnerabile. Potevo solo sperare che Serena tenesse duro.

-Non chiamarmi piccola.-

-Rispondi alla domanda.- intimò lui, mantenendo la voce gentile ma mutando il tono in uno più esigente. Silenzio.

-Non fargli del male.- lo sentii, qualcosa non andava.

-No? E perché non dovrei?- quel sadico si stava divertendo alle spalle del nostro dolore. La mia rabbia lentamente scemava in una paura fredda. Ci fu un attimo di esitazione e lui ne approfittò per infierire ulteriormente –Pensaci Serena: tu sei qui per lui, ma lui quante volte c’è stato per te?- potevo sentirla trattenere il respiro, lo feci anche io. Mi fissava con occhi taglienti e ogni parola era una pugnalata diretta alla nostra emotività; voleva farci crollare.

-Non pensi che meriti una punizione?- e ci stava riuscendo. –Lui ti ha lasciato, Serena. Puoi anche non ammetterlo, ma ti ha abbandonata. E per cosa? Per salvare altre famiglie.-

-Serena, non devi ascoltarlo! Non ascoltarlo!- urlai con tutto il fiato che avevo in gola, facendomi male, sperando di essere riuscito a sovrastare le sue parole. Il silenzio dall’altra parte del telefono mi inquietava parecchio. Non mi ero nemmeno reso conto di essermi sporto in avanti con il busto, tirando i muscoli doloranti, come un cane alla catena che tenta di mordere l’uomo col bastone, ma questo continua a rimanere fuori tiro.

-Ma così facendo, ha ucciso la sua.-

Quelle ultime parole furono in grado di zittire tutti, come se il mondo stesse trattenendo il respiro con noi in attesa del verdetto finale. Temevo quel momento con tutte le mie forze.

-Adesso dimmi Serena, non sei arrabbiata con tuo padre per ciò che ha fatto?- quel silenzio mi fece male oltre ogni dire.

-Sì.-

Quell’unica parola, pronunciata con la tipica freddezza leggermente incrinata da un po’ di titubanza, fu come lo schiocco di una frusta: mi perforò i timpani, mi ferì la pelle. Tutto stava andando secondo quanto lui aveva prestabilito. Il mondo intorno a me, le mie barriere, andavano sgretolandosi come le mura di un castello sotto i colpi di una catapulta. Stava usando il nostro passato per spezzarci, per dividerci, e ci stava riuscendo. Tutti i miei timori, i miei peggior incubi, prendevano forma sotto il peso di quell’unica risposta. Se i sentimenti fossero stati di carne, in quel momento avrei iniziato a sanguinare copiosamente. E in quel momento non c’era medico che potesse curarmi. L’unica persona era quella che mi stava condannando. Gli occhi del rapitore brillarono in modo perverso, gioiosi nel vedermi così. Era lui l’artefice di tutto.

-Non vorresti che anche lui si sentisse come ti sei sentita tu in tutti questi anni?-

-Sì.- in questa risposta c’era più amarezza che in quella precedente. Oh, Serena!

-Avanti, dillo come ti sei sentita.-

-Mi sono sentita sola. Abbandonata. Come se lui non mi volesse più bene…-

-No, no! Serena lo sai che non è vero! Ti sta usando!- la interruppi urlando; fu un pugno violento alla tempia a zittirmi. Sorrideva, il bastardo!

-Come se lui…si fosse dimenticato di me.- fu come sentire una vecchia radio, brusio e rumore. Qualcosa stava succedendo dall’altra parte del telefono, ed anche l’S.I. doveva essersene accorto poiché si premurò di porre fine alla telefonata con un colpo di stile.

-Ti ringrazio molto Serena per le tue parole, ci hai aiutato molto. E non temere, tuo padre capirà presto quello che ha fatto. E lo faremo insieme.- dopo di che riattaccò.

Ero emotivamente distrutto. Lo guardai negli occhi per affrontarlo, ma in quel momento mi sentivo debole come mai prima di allora. Un paio di lacrime erano sfuggite al mio controllo, diedi la colpa al dolore che mi percorreva le braccia e il busto; ma in quel momento la parte che soffriva di più era il cuore. Mi si avvicinò, portando la sua bocca all’altezza del mio orecchio. Non mi ritrassi, troppo stremato da quella battaglia psicologica. Le sue parole sembrarono arrivarmi dritte al cervello.

-Adesso inizi a capire i tuoi errori, agente? I tuoi peggiori incubi si sono avverati e tutto perché sei stato tu a volerlo. Ora devi pagarne il prezzo.-

Non mi picchiò, non mi fece del male. Mi lasciò da solo, lasciandomi in compagnia del mio dolore. Eppure, in quel momento, avrei tanto voluto che mi colpisse. Perlomeno avrei ritardato il momento in cui avrei rivissuto quella telefonata nella mia mente, parola per parola. Invece niente. Trascorsi le ore successive immerso in quel dialogo, torturandomi con i miei stessi pensieri.

 

“Ed è già tardi e vuoi far piano

Il cuore è il tuo bagaglio a mano perché hai tutti i pregi che odio

E quei difetti che io amo

E schegge di una voce rotta, mi hanno ferito un’altra volta”

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