James
Susan
aprì la porta dell’aeroporto, dove avremmo preso
un aereo
per Washington. Il distretto della capitale ci aveva già
assicurato che gli uomini che stavamo cercando avevano affittato una
camera d’albergo per i prossimi tre giorni.
“
tre giorni saranno più che perfetti per compire la nostra
missione…” David si scrollò
le spalle e si
fece crocchiare le nocche delle mani. Il rumore delle sue dita
scrocchiate ci aveva accompagnato fin da quando avevamo lasciato il
distretto. Inutile David era sempre il primo ad aiutarti quando
bisognava picchiare duro. Susan e io ci guardammo e sorridemmo dello
spettacolo che David ci offriva.
“vorrai
dire la MIA missione…” dissi precedendolo ed
entrando per
primo nell’aeroporto seguito dal mio amico e da Susan che
lasciò chiudere la porta dietro di noi. La differenza di
temperatura era notevole e dovuta ai condizionatori che andavano a
manetta. I lunghi corridoi bianchi parevano quelli di un ospedale. Si
salvava soltanto per la presenza di grandi finestre che lasciavano
entrare molta luce.
“che
aeroporto…accogliente…”
Mi diressi verso il tabellone
dei voli e lessi con attenzione tutte le notizie che apparvero.
“il nostro aereo
parte tra venti minuti…pronti?”
Susan
e David risposero all’unisono e così ci dirigemmo
verso il
nostro aereo. Una volta a bordo, prima che partisse, tirai fuori il
computer e richiamami l’attenzione dei miei complici con un
gesto
della mano.
“questo
è il piano…una volta scesi a terra ci dovremo
dividere.
Susan ho bisogno che vai ad affittare tre camere comunicanti tra loro
in questo albergo…” le allungai il biglietto da
visita sul
quale c’era scritto indirizzo, telefono e fax
dell’albergo
nel quale risiedevano anche i nostri bersagli.
“devi
attestare le camere a mio nome e dichiarare che sarà la
polizia
locale a pagare il conto. Ricordati di lasciare una breve descrizione
fisica di tutti e due e di precisare che la nostra è
un’operazione delicata e che abbiamo bisogno della maggiore
riservatezza possibile.
“Quando
avrai finito, hai l’incarico di perlustrare
l’interno del
palazzo senza dare nell’occhio. Concentrati maggiormente sui
sistemi di sicurezza e se possibile, cerca di procurarti una
planimetria dell’edificio molto dettagliata.
“David
tu invece dovrai perlustrare l’esterno. Tutti i condotti
d’aria, ogni singola possibile via di fuga. Io intanto
andrò a fare un salto nel distretto locale e
avviserò le
forze dell’ordine della nostra permanenza. È tutto
quanto
chiaro?”
I
miei due collegi annuirono seri mantenendo lo sguardo fisso sul mio
computer che continuava a illustrare immagini dei dintorni del palazzo
e, ogni tanto qualche ambiente dell’interno.
Il viaggio durò un
ora e mezza e, come previsto, fummo davanti all’albergo per
le 19 meno un quarto.
“
mi raccomando…se avvistate il nemico avete il dovere
di
abbandonare qualsiasi attività e di tenerlo
d’occhio. Se
vi riesce, cercate di scoprire la stanza dove alloggiano. Altrimenti
aspetteremo l’indomani per richiedere informazioni.”
Con
questo ultimo preavviso lasciai mio compagni al loro lavoro e
mi
diressi verso il distretto di polizia della città. Per
fortuna
non distava molto e mi c vollero solamente dieci minuti di taxi. Entrai
nell’agenzia. Chissà perché, ma tutti i
distretti
di polizia d’america erano tutti quanti uguali. Mi diressi
verso
l’impiegata di turno e le chiesi cortesemente di portarmi dal
capo ufficio. Ella eseguì i miei ordini e mi condusse
nell’ufficio sulla porta del quale c’era scritto:
ufficio
del sergente Smith.
“il
sergente Smith presumo…” dissi entrando e
osservando con
attenzione l’uomo che mi si parava davanti agli occhi.
“esatto.
Spero che abbia un buon motivo per disturbarmi proprio mentre sto per
andare a cena…” l’uomo sembrava di
statura minuto
anche se stando seduto non riuscivo a identificarlo per bene. Aveva i
capelli neri brizzolati qua e là di grigio. Un uomo sulla
quarantina dalla corporatura robusta. Stava seduto dietro a una grande
scrivania su una di quelle classiche poltrone nere di pelle girevoli da
ufficio. Lo sguardo fisso sullo schermo di un monitor abbastanza
recente smentiva le parole di poco prima.
“oh
certo sergente. Mi chiamo James e volevo avvisare le forze
dell’ordine che io, insieme ad altri due miei colleghi,
dobbiamo
portare a termine una missione molto importante e, se non le dispiace,
vorremo la sua approvazione per operare all’interno dei
limiti
del territorio da lei tutelato.”
L’uomo
alzò lo sguardo scrutandomi dalla testa ai piedi. Di sicuro
non
aveva ancora avuto da fare con noi della PTA e, probabilmente, non si
era mai trovato nella circostanza di avere davanti agli occhi qualcuno
che lo potesse comandare a proprio piacimento.
“posso sapere per chi
lavora, signore?”
“per
la PTA” ecco la parte che preferivo. Adoravo il momento nel
quale
la persona con la quale sto parlando si rende conto di non valere
niente. Come pronunciavo quel nome, era come se privassi tutte quante
le persone a portata d’orecchio, dei propri vestiti. Gli
denudavo
completamente da ogni tipo di auto-stima, orgoglio, di potere. Accadde
anche quella sera negli occhi del sergente. Improvvisamente si
irrigidì e se prima nei suoi occhi fosse presente una
scintilla
di autorità, adesso erano completamente spenti, sottomessi
al
mio potere. Fece un respiro profondo e mi invitò a sedermi.
Rifiutai cortesemente l’offerta. Se c’era una cosa
più terribile dell’essere sottomessi era il
sentirsi
sottomesso e io, con i miei atteggiamenti fin troppo cortesi ero
consapevole di farlo pesare più di chiunque altro. Eppure
come
ero consapevole di questo, ero anche consapevole delle mie
capacità, delle mie abilità. Sicuro di me mi
appoggiai a
un mobile contro la parete laterale dell’ufficio e con un
tono
calmo e placato ripresi a parlare.
“una
sua approvazione ci darebbe il consenso di operare liberamente e
correttamente di fronte alla legge. Però voglio che sabbia
che
siamo abituati a lavorare anche contro la legge quindi la sua non deve
essere una scelta forzata.”
“lei
è il signore Aword…non è
vero?” incrociai le
braccia al petto e guardai il pavimento sorridendo. Mi faceva sentire
una specie di star essere conosciuto per l’america.
“ da cosa
l’ha capito?”
“
bhe…il sergente del distretto di New York è un
amico e
spesso mi parla della vostra associazione e di come…trattate
le
missioni. Lei signore, emana una grande autorità e
così
ho tirato ad indovinare.”
“bene…allora
potrà capirmi se desidero la vostra approvazione per me e
per i
miei compagni. Vorrei anche che non si sapessero in giro i nostri
cognomi…sa com’è…”
“se
si conosce il cognome si arriva a scoprire vita, morte e miracoli della
persona interessata.” Mi interruppe concludendo la frase al
posto
mio. “ stia tranquillo signor James. Avrete la mia
approvazione…per quanto vi tratterete?”
“tre
giorni al massimo. Alloggeremo in un albergo non molto lontano da
qui” Gli allungai lo stesso biglietto da visita che avevo
dato
anche a Susan prima mentre eravamo in viaggio.
“oh…posso
essere d’aiuto in qualche modo?”
“si.
Vorrei che avvisasse l’albergo dell’arrivo della
mia
collega e che lasciasse indicazioni di non chiedere
il…”
“il cognome. Si
certo…qualcosa d’altro?” il sergente era
sveglio. Un impiccio di meno.
“
no, sergente. Arrivederla” dissi dirigendomi verso la porta e
uscendo dall’ edificio per poi dirigermi verso il taxi al
quale
avevo detto di aspettarmi fuori.
Arrivai
in albergo che erano le otto. L’ora prestabilita per la cena
era
per le otto e mezza. Raggiunsi la mia camera dicendo ai miei colleghi
di volermi dare una rinfrescata e assicurando loro che sarei arrivato
giusto in tempo per la cena.
La
camera era ariosa. Una finestra grande quanto tutta la parete che dava
sull’esterno era coperta da lunghe e pesanti tende, che
impedivano così la vista a qualche curioso. Appoggiai il
troller
con dentro tutte le mie cose in un angolo della stanza e ne tirai fuori
una camicia pulita da indossare per la cena. Mi diressi verso il bagno
e mi spogliai entrando in doccia. Lasciai scorrere il getto
d’acqua a lungo sul mio corpo prima di richiuderlo e di
uscire.
“una
delle cose che adoro di più è il getto
dell’acqua
calda sul mio corpo, dopo una giornata stressante.”
Dovevo
ammetterlo…era veramente rilassante. Chiusi gli occhi
cercando rilassare tutti quanti i miei muscoli.
Quando
mi accorsi che si stava facendo tardi mi decisi a spegnere
l’acqua e di uscire dalla doccia. Mi rivestii in fretta e
raggiunsi i miei compagni a cena.
“allora come sono
andati gli incarichi?” chiesi senza lasciare trapelare la
stanchezza che avevo in corpo.
“
bene. Sono riuscita ad ottenere la planimetria che avevi richiesto e
David ci ha aggiunto ogni possibile via di fuga.”
“si…ho
notato che in questo albergo sono presenti parecchi condotti
d’aria e sono tutti quanti abbastanza robusti e grandi per
sostenere il peso di un uomo. Ne parte uno da ogni camera per unirsi
tutti quanti in un unico condotto che sbocca sul retro del
palazzo.”
“bene…io
ho ottenuto l’approvazione del sergente e mi ha assicurato di
non
intralciare il lavoro. Come Susan si sarà accorta non
sarà necessario che svegliamo del tutto la nostra
identità quindi possiamo lasciare detto solamente il nome.
Nessuno ci chiederà indicazioni e secondo me è un
gran
vantaggio. Lo sapete come la penso.”
“si…e
tu sai anche come la penso io.” Susan credeva che non
rivelare il
cognome era come rivelare che avessimo qualcosa da nascondere e in
questo modo attrarre l’attenzione delle persone. Eravamo
sempre
stati discordi in sette anni di missioni a no stop.
“a ognuno la propria
opinione.”
“senti
mi fai un favore?” Susan era visibilmente irritata dal mio
comportamento fin troppo cortese. Lo stesso atteggiamento che avevo
adottato con il sergente. Sorrisi divertito dall’effetto che
poteva fare se usato con intelligenza.
“dimmi…”
“la
smetti di comandare tutti quanti?” risi
divertito…non
avrei mai smesso di comandare. Era una sensazione che adoravo.
“se proprio ci tieni…”
lei mi guardò torva.
Sapevamo tutti e tre che non avrei smesso di comandare. In fondo
comandavo sempre io.
Il
cameriere ci portò la cena che consumammo in fretta.
Rimanemmo
in silenzio studiando ogni singolo ospite. Il campo, secondo i miei
paraggi, si poteva restringere a quattro tavoli. Il 56, il 12 e in fine
il 27.
Al
56 sedeva un uomo e una donna. Non avevano detto niente per tutto il
tempo della cena e si erano limitati, come me e i miei compagni, a
guardarsi le spalle.
Al
12 invece sedevano un gruppo di ragazzi tutti quanti sulla ventina. A
contrario della coppia del 56, questi avevano parlato e scherzato per
tutta quanta la serata. Non avevano l’accento americano e,
come
primo impatto, mi sembrò assomigliassero vagamente agli
asiatici
che erano entrati in casa mia suppergiù un mese fa.
In
ultimo al 27 erano seduti tre uomini. Uno piuttosto giovane mentre gli
altri due erano più anziani. I capelli leggermente
brizzolati la
diceva lunga sulla loro età. Non so perché, ma mi
sembravano i maggiori indiziati possibili. Dopo aver esposto a Susan e
David le mie idee, ci dirigemmo in camera e là decidemmo
cosa
fare per il giorno dopo. David doveva cercare di allontanare la ragazza
che stava all’ingresso e io dovevo riuscire ad inserire un cd
che
Susan avrebbe preparato quella stessa sera. Dalla mia camera lei poi
avrebbe manomettere il computer grazie al mio portatile e al cd che li
metteva in comunicazione. Entro mezzogiorno dovevamo aver
già
scoperto in quale stanza alloggiassero i sovietici.
Io
e Susan cominciammo a parlare d’informatica e di come creare
quel
cd che avrebbe trasferito un virus capace di possedere il computer
interessato. David era visibilmente in imbarazzo. Non era mai riuscito
a capirci niente d’informatica. Il suo rapporto con il
computer
non era uno dei suoi migliori rapporti. Tutte le volte che doveva
lavorarci rischiava di impazzire. Per il suo cervellino complicato era
veramente troppo da sopportare.
“bhe cervelloni
miei…io vado a nanna.”
Susan ed io ci guardammo con
uno sguardo d’intesa e sorridendo, gli augurammo una buona
notte.
“non
ce la potrà mai fare!” esclamò come lui
si richiuse
la porta alle spalle e si coricò sotto le coperte.
“ma
chi David? In tutto il tempo che lo conosco, non l’ho mai
visto
andare d’accordo con qualsiasi tipo di tecnologia.”
“già..anche
io”
Ritornammo a fissare il monitor
e dopo varie discussioni la lasciai fare. Era lei il genio della
tecnologia, qui.
Mi sdraiai sul letto sfilandomi
le scarpe. Ero veramente stanco e non riuscivo a capire il
perché.
“come sta
Kevin?” le chiesi dopo qualche minuto di silenzio.
“a dire la
verità non lo so.”
“come mai? Pensavo
condivideste casa”
“si…una
volta.” Il suo volto si incupì e capii che avevo
toccato
un tasto dolente. Susan frequentava quel ragazzo da cinque anni e ormai
era scontato che avrebbero vissuto il resto della loro vita insieme.
“
che è successo?” osai farle quella domanda e le
feci segno
di sedersi al mio fianco. Le volevo bene. Era la mia cosiddetta
“sorellina” che non avevo mai avuto. Capelli biondi
e
lunghi. Viso angelico. Fisico slanciato. Insomma un gran bel pezzo di
ragazza. Quando ero entrato nell’associazione avevo una
specie di
cotta per questa ragazza. L’avevo corteggiata per dei mesi e
poi
quando finalmente aveva ceduto, tutto aveva perso quella magia, quel
mistero che la ricopriva dalla testa fino ai piedi. Sono sempre stato
un tipo cacciatore e una volta conquistata la preda, avevo di nuovo
bisogno di sentirmi cacciatore. Così era successo con Susan
e
tutte le altre ragazze dopo di lei fino a Kelly.
con il mio portatile in mano,
si alzò e si sedette al mio fianco usandomi come poggia
schiena.
“una
brutta lite. Continuava a ripetermi che era stanco di quella vita e che
prima o poi se ne sarebbe andato. Io non lo avevo mai preso sul serio.
un giorno, quando sono arrivata a casa lui aveva già
preparato
la sua roba. Mi sono diretta automaticamente verso la cucina. Ho aperto
lo sportello dell’armadietto dove tengo la ceramica e ho
preso un
bicchiere per bere un sorso d’acqua.” parlava
tenendo lo
sguardo fisso davanti a se rivivendo la scena. Gli occhi persi nel
vuoto e le mani compievano gli stessi gesti che evidentemente aveva
compiuto quella sera.
“dopo
qualche secondo ho notato che c’era troppo silenzio.
C’era
qualcosa che non andava. Mi controllai intorno e notai delle valige
appoggiate al muro. Lui era in piedi e mi inchiodava con gli occhi. Ha
sempre saputo farci in questo tipo di cose. Riusciva a comunicare senza
aprire bocca e in quel momento capii subito che quella sarebbe stata
l’ultima volta che l’avrei visto. Mi disse di
scegliere. Di
scegliere tra me o lui...”
“non
c’è bisogno che ti dica
qual’è stata la mia
risposta.” La sua posizione le permetteva di nascondersi dal
mio
sguardo interrogatorio. Volevo guardarla in faccia e come ci provai lei
si immerse nel monitor del computer. Le presi il mento e delicatamente
la costrinsi e guardarmi negli occhi. Due strisce argentate le rigavano
le guance e i suoi occhi erano estremamente lucidi. Mi sentii
improvvisamente impotente. Si sciolse dalla mia presa e con un
movimento veloce della mano, si asciugò le lacrime e si
immerse
di nuovo dentro il monitor. La abbracciai goffamente. Non sapevo come
comportarmi. Era meglio per lei sentire un amico vicino oppure essere
lasciata sola con il suo dolore? In qualche modo me lo avrebbe fatto
sapere. Si voltò lentamente. Le guance rosse gonfie e gli
occhietti lucidi mi fecero capire che stava per scoppiare. La attirai a
me stringendola forte e sentendola esplodere sulla mia spalla.
Com’è
strana la vita a volte. Una persona ci mette una vita a costruirsi la
propria bolla di sapone. La bolla nella quale poter vivere felice e
contento. La bolla che speri non si rompa mai e che quindi rafforzi per
far si che nessuno la scoppi. Eppure, i tuoi sforzi non sono mai
sufficientemente adeguati. Basta un nulla per far scoppiare la tua
bolla. Tu rimani lì. Senza la tua bolla. Senza una casa. E
l’unica cosa che puoi fare è chiederti
“perché a me?”.
A Susan purtroppo era successo
proprio questo. Cinque anni. Cinque anni cancellati in poche ore.
Proprio strana questa vita.
In
tutto quel dolore non feci a meno di pensare a Kelly. sperai che la mia
bolla non fosse scoppiata. Che nessuno l’avrebbe fatta
scoppiare.
Avevo un magone sullo stomaco che non andava ne su ne giù.
Non
so da cosa era dovuto, ma rimaneva lì. Proprio a
metà
parte tra la gola e lo stomaco. Nel bel mezzo della trachea. In quel
momento desiderai vedere il suo sorriso. Sentirla vicina. Sentire che
anche lei non avrebbe permesso che scoppiassero la nostra bolla.
Magari
una telefonata veloce per sapere come stava. E se avrebbero
rintracciato la telefonata? No…meglio non rischiare. Dovevo
resistere tre giorni senza di lei. Non potevo fare errori. La nostra
bolla non doveva scoppiare.
Magari una telefonata veloce per sapere come stava. E se avrebbero rintracciato la chiamata? No…meglio non rischiare. Dovevo resistere tre giorni senza di lei. Non potevo fare errori. La nostra bolla non doveva scoppiare.
Come Susan se ne andò a dormire, fu maledettamente difficile resistere alla tentazione di chiamarla. Avevo un bisogno assoluto di sentirla con me, proprio vicino a me anche se era lontana chilometri.
Alzai la cornetta e composi il numero. In fondo…gli asiatici non potevano sapere che alloggiavamo in quell’albergo. Il telefono squillò tre volte prima che rispose. La voce assonnata mi ricordò del fuso orario e che, se da noi erano le undici di sera, da loro era l’una di notte. Mi maledissi di averla svegliata.
“scusa…ti ho svegliato” come tutte le volte che ha sonno, il suo cervello ci mette il doppio del tempo per dare un senso ai suoni che sente, elaborare una risposta e pronunciare le parole esatte senza compiere errori.
“no…tranquillo. Tanto stavo facendo un brutto sogno. Mi hai fatto soltanto un piacere” stava mentendo. Se c’era una cosa che non le riusciva fare era mentire nel sonno.
“sei una piccola bugiarda. Dopo che hai fatto un brutto sogno non hai la voce così rilassata…sembra che dormivi alla grande. Mi dispiace.”
“sai sempre soltanto dispiacerti. Raccontami come va la missione”
“bhe…siamo arrivati oggi e abbiamo pianificato un piano per incastrarli al meglio. Dopodomani dovrei essere a New York. Magari potremo uscire a cena…”
“si…sai che mi manchi?” aveva pronunciato quelle parole soffermandosi tra una parola e l’altra come se avesse dimenticato come si faceva a parlare. Doveva essere molto stanca. Mi sentii nuovamente terribilmente in colpa.
“Mi manchi anche tu, piccola” rimanemmo in silenzio per un po’. “adesso torna a dormire.” stranamente la sua risposta fu immediata. Un riflesso automatico le fece uscire la parola “no” dalle labbra. La sua voce sembrava quasi tormentata come se le stessi facendo un torto a lasciarla dormire.
“dormi. Ciao” la tentazione di ascoltare la sua reazione era troppo forte che non riuscii a resisterle. La cosa più giusta sarebbe stata quella di attaccare il telefono. Avevo ottenuto quello che volevo. Sapevo che in un qualche modo era al sicuro e questo mi bastava.
“ci sentiamo domani?” le sue parole nascondevano una certa ansia. Sarebbe stato bellissimo poterla sentire anche il giorno dopo, ma sapevo benissimo che era troppo pericoloso. Nessun Errore. Eppure quelle sue parole mi fecero sorridere. Era possibile che desiderasse sentirmi così tanto? Come poteva avere bisogno di me? di sicuro si meritava di meglio quello scricciolo.
“okay. Ora dormi, mio piccolo fiore” attaccai la cornetta prima che potesse aggiungere qualcosa. Le avevo mentito. Speravo che non avesse attesto troppo quella telefonata. Speravo che la delusione non l’avrebbe accompagnata per tutto quanto il fine settimana.