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Autore: Vavvola    03/06/2009    0 recensioni
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Rinoa81, assistente amministratrice.

Quando l'amore diventa un gioco pericoloso...sei abbastanza coraggioso per andare avanti?
Prefazione
Tum tum tum…ovunque andassi, ero sempre accompagnata dal battito frenetico del mio cuore. Tum tum tum… eppure di missioni ne avevo già fatte tante! Ero sempre agitata quando mi arrivava il fax dal capo con sopra scritta l’impresa da compire. Ormai dovevo esserci abituata! Forse era perché in gioco non c’era solo la mia vita, ma quella della persona alla quale tenevo più in assoluto. Avrei fatto di tutto per proteggerla. Non m’importava della fine del mondo; della criminalità spaventosamente alle stelle; non m’importava di niente. L’importante era proteggere il mio amato da qualsiasi male. Ecco la mia missione. Una missione fallita fin dal principio...
Genere: Romantico, Azione, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi scuso per la mia assenza prolungata. Ho avuto qualche problema con il computer e spero di averli risolti.



James
Susan aprì la porta dell’aeroporto, dove avremmo preso un aereo per Washington. Il distretto della capitale ci aveva già assicurato che gli uomini che stavamo cercando avevano affittato una camera d’albergo per i prossimi tre giorni.
“ tre giorni saranno più che perfetti per compire la nostra missione…” David  si scrollò le spalle e si fece crocchiare le nocche delle mani. Il rumore delle sue dita scrocchiate ci aveva accompagnato fin da quando avevamo lasciato il distretto. Inutile David era sempre il primo ad aiutarti quando bisognava picchiare duro. Susan e io ci guardammo e sorridemmo dello spettacolo che David ci offriva.
“vorrai dire la MIA missione…” dissi precedendolo ed entrando per primo nell’aeroporto seguito dal mio amico e da Susan che lasciò chiudere la porta dietro di noi. La differenza di temperatura era notevole e dovuta ai condizionatori che andavano a manetta. I lunghi corridoi bianchi parevano quelli di un ospedale. Si salvava soltanto per la presenza di grandi finestre che lasciavano entrare molta luce.
“che aeroporto…accogliente…”
Mi diressi verso il tabellone dei voli e lessi con attenzione tutte le notizie che apparvero.
“il nostro aereo parte tra venti minuti…pronti?”
Susan e David risposero all’unisono e così ci dirigemmo verso il nostro aereo. Una volta a bordo, prima che partisse, tirai fuori il computer e richiamami l’attenzione dei miei complici con un gesto della mano.
“questo è il piano…una volta scesi a terra ci dovremo dividere. Susan ho bisogno che vai ad affittare tre camere comunicanti tra loro in questo albergo…” le allungai il biglietto da visita sul quale c’era scritto indirizzo, telefono e fax dell’albergo nel quale risiedevano anche i nostri bersagli.
“devi attestare le camere a mio nome e dichiarare che sarà la polizia locale a pagare il conto. Ricordati di lasciare una breve descrizione fisica di tutti e due e di precisare che la nostra è un’operazione delicata e che abbiamo bisogno della maggiore riservatezza possibile.
“Quando avrai finito, hai l’incarico di perlustrare l’interno del palazzo senza dare nell’occhio. Concentrati maggiormente sui sistemi di sicurezza e se possibile, cerca di procurarti una planimetria dell’edificio molto dettagliata.
“David tu invece dovrai perlustrare l’esterno. Tutti i condotti d’aria, ogni singola possibile via di fuga. Io intanto andrò a fare un salto nel distretto locale e avviserò le forze dell’ordine della nostra permanenza. È tutto quanto chiaro?”
I miei due collegi annuirono seri mantenendo lo sguardo fisso sul mio computer che continuava a illustrare immagini dei dintorni del palazzo e, ogni tanto qualche ambiente dell’interno.
Il viaggio durò un ora e mezza e, come previsto, fummo davanti all’albergo per le 19 meno un quarto.
“ mi raccomando…se avvistate il nemico avete il dovere di  abbandonare qualsiasi attività e di tenerlo d’occhio. Se vi riesce, cercate di scoprire la stanza dove alloggiano. Altrimenti aspetteremo l’indomani per richiedere informazioni.”
Con questo ultimo preavviso lasciai  mio compagni al loro lavoro e mi diressi verso il distretto di polizia della città. Per fortuna non distava molto e mi c vollero solamente dieci minuti di taxi. Entrai nell’agenzia. Chissà perché, ma tutti i distretti di polizia d’america erano tutti quanti uguali. Mi diressi verso l’impiegata di turno e le chiesi cortesemente di portarmi dal capo ufficio. Ella eseguì i miei ordini e mi condusse nell’ufficio sulla porta del quale c’era scritto: ufficio del sergente Smith.
“il sergente Smith presumo…” dissi entrando e osservando con attenzione l’uomo che mi si parava davanti agli occhi.
“esatto. Spero che abbia un buon motivo per disturbarmi proprio mentre sto per andare a cena…” l’uomo sembrava di statura minuto anche se stando seduto non riuscivo a identificarlo per bene. Aveva i capelli neri brizzolati qua e là di grigio. Un uomo sulla quarantina dalla corporatura robusta. Stava seduto dietro a una grande scrivania su una di quelle classiche poltrone nere di pelle girevoli da ufficio. Lo sguardo fisso sullo schermo di un monitor abbastanza recente smentiva le parole di poco prima.
“oh certo sergente. Mi chiamo James e volevo avvisare le forze dell’ordine che io, insieme ad altri due miei colleghi, dobbiamo portare a termine una missione molto importante e, se non le dispiace, vorremo la sua approvazione per operare all’interno dei limiti del territorio da lei tutelato.”
L’uomo alzò lo sguardo scrutandomi dalla testa ai piedi. Di sicuro non aveva ancora avuto da fare con noi della PTA e, probabilmente, non si era mai trovato nella circostanza di avere davanti agli occhi qualcuno che lo potesse comandare a proprio piacimento.
“posso sapere per chi lavora, signore?”
“per la PTA” ecco la parte che preferivo. Adoravo il momento nel quale la persona con la quale sto parlando si rende conto di non valere niente. Come pronunciavo quel nome, era come se privassi tutte quante le persone a portata d’orecchio, dei propri vestiti. Gli denudavo completamente da ogni tipo di auto-stima, orgoglio, di potere. Accadde anche quella sera negli occhi del sergente. Improvvisamente si irrigidì e se prima nei suoi occhi fosse presente una scintilla di autorità, adesso erano completamente spenti, sottomessi al mio potere. Fece un respiro profondo e mi invitò a sedermi. Rifiutai cortesemente l’offerta. Se c’era una cosa più terribile dell’essere sottomessi era il sentirsi sottomesso e io, con i miei atteggiamenti fin troppo cortesi ero consapevole di farlo pesare più di chiunque altro. Eppure come ero consapevole di questo, ero anche consapevole delle mie capacità, delle mie abilità. Sicuro di me mi appoggiai a un mobile contro la parete laterale dell’ufficio e con un tono calmo e placato ripresi a parlare.
“una sua approvazione ci darebbe il consenso di operare liberamente e correttamente di fronte alla legge. Però voglio che sabbia che siamo abituati a lavorare anche contro la legge quindi la sua non deve essere una scelta forzata.”
“lei è il signore Aword…non è vero?” incrociai le braccia al petto e guardai il pavimento sorridendo. Mi faceva sentire una specie di star essere conosciuto per l’america.
“ da cosa l’ha capito?”
“ bhe…il sergente del distretto di New York è un amico e spesso mi parla della vostra associazione e di come…trattate le missioni. Lei signore, emana una grande autorità e così ho tirato ad indovinare.”
“bene…allora potrà capirmi se desidero la vostra approvazione per me e per i miei compagni. Vorrei anche che non si sapessero in giro i nostri cognomi…sa com’è…”
“se si conosce il cognome si arriva a scoprire vita, morte e miracoli della persona interessata.” Mi interruppe concludendo la frase al posto mio. “ stia tranquillo signor James. Avrete la mia approvazione…per quanto vi tratterete?”
“tre giorni al massimo. Alloggeremo in un albergo non molto lontano da qui” Gli allungai lo stesso biglietto da visita che avevo dato anche a Susan prima mentre eravamo in viaggio.
“oh…posso essere d’aiuto in qualche modo?”
“si. Vorrei che avvisasse l’albergo dell’arrivo della mia collega e che lasciasse indicazioni di non chiedere il…”
“il cognome. Si certo…qualcosa d’altro?” il sergente era sveglio. Un impiccio di meno.
“ no, sergente. Arrivederla” dissi dirigendomi verso la porta e uscendo dall’ edificio per poi dirigermi verso il taxi al quale avevo detto di aspettarmi fuori.
Arrivai in albergo che erano le otto. L’ora prestabilita per la cena era per le otto e mezza. Raggiunsi la mia camera dicendo ai miei colleghi di volermi dare una rinfrescata e assicurando loro che sarei arrivato giusto in tempo per la cena.
La camera era ariosa. Una finestra grande quanto tutta la parete che dava sull’esterno era coperta da lunghe e pesanti tende, che impedivano così la vista a qualche curioso. Appoggiai il troller con dentro tutte le mie cose in un angolo della stanza e ne tirai fuori una camicia pulita da indossare per la cena. Mi diressi verso il bagno e mi spogliai entrando in doccia. Lasciai scorrere il getto d’acqua a lungo sul mio corpo prima di richiuderlo e di uscire.
“una delle cose che adoro di più è il getto dell’acqua calda sul mio corpo, dopo una giornata stressante.”
Dovevo ammetterlo…era veramente rilassante. Chiusi gli occhi cercando rilassare tutti quanti i miei muscoli.
Quando mi accorsi che si stava facendo tardi mi decisi a spegnere l’acqua e di uscire dalla doccia. Mi rivestii in fretta e raggiunsi i miei compagni a cena.
“allora come sono andati gli incarichi?” chiesi senza lasciare trapelare la stanchezza che avevo in corpo.
“ bene. Sono riuscita ad ottenere la planimetria che avevi richiesto e David ci ha aggiunto ogni possibile via di fuga.”
“si…ho notato che in questo albergo sono presenti parecchi condotti d’aria e sono tutti quanti abbastanza robusti e grandi per sostenere il peso di un uomo. Ne parte uno da ogni camera per unirsi tutti quanti in un unico condotto che sbocca sul retro del palazzo.”
“bene…io ho ottenuto l’approvazione del sergente e mi ha assicurato di non intralciare il lavoro. Come Susan si sarà accorta non sarà necessario che svegliamo del tutto la nostra identità quindi possiamo lasciare detto solamente il nome. Nessuno ci chiederà indicazioni e secondo me è un gran vantaggio. Lo sapete come la penso.”
“si…e tu sai anche come la penso io.” Susan credeva che non rivelare il cognome era come rivelare che avessimo qualcosa da nascondere e in questo modo attrarre l’attenzione delle persone. Eravamo sempre stati discordi in sette anni di missioni a no stop.
“a ognuno la propria opinione.”
“senti mi fai un favore?” Susan era visibilmente irritata dal mio comportamento fin troppo cortese. Lo stesso atteggiamento che avevo adottato con il sergente. Sorrisi divertito dall’effetto che poteva fare se usato con intelligenza.
“dimmi…”
“la smetti di comandare tutti quanti?” risi divertito…non avrei mai smesso di comandare. Era una sensazione che adoravo. “se proprio ci tieni…”
lei mi guardò torva. Sapevamo tutti e tre che non avrei smesso di comandare. In fondo comandavo sempre io.
Il cameriere ci portò la cena che consumammo in fretta. Rimanemmo in silenzio studiando ogni singolo ospite. Il campo, secondo i miei paraggi, si poteva restringere a quattro tavoli. Il 56, il 12 e in fine il 27.
Al 56 sedeva un uomo e una donna. Non avevano detto niente per tutto il tempo della cena e si erano limitati, come me e i miei compagni, a guardarsi le spalle.
Al 12 invece sedevano un gruppo di ragazzi tutti quanti sulla ventina. A contrario della coppia del 56, questi avevano parlato e scherzato per tutta quanta la serata. Non avevano l’accento americano e, come primo impatto, mi sembrò assomigliassero vagamente agli asiatici che erano entrati in casa mia suppergiù un mese fa.
In ultimo al 27 erano seduti tre uomini. Uno piuttosto giovane mentre gli altri due erano più anziani. I capelli leggermente brizzolati la diceva lunga sulla loro età. Non so perché, ma mi sembravano i maggiori indiziati possibili. Dopo aver esposto a Susan e David le mie idee, ci dirigemmo in camera e là decidemmo cosa fare per il giorno dopo. David doveva cercare di allontanare la ragazza che stava all’ingresso e io dovevo riuscire ad inserire un cd che Susan avrebbe preparato quella stessa sera. Dalla mia camera lei poi avrebbe manomettere il computer grazie al mio portatile e al cd che li metteva in comunicazione. Entro mezzogiorno dovevamo aver già scoperto in quale stanza alloggiassero i sovietici.
Io e Susan cominciammo a parlare d’informatica e di come creare quel cd che avrebbe trasferito un virus capace di possedere il computer interessato. David era visibilmente in imbarazzo. Non era mai riuscito a capirci niente d’informatica. Il suo rapporto con il computer non era uno dei suoi migliori rapporti. Tutte le volte che doveva lavorarci rischiava di impazzire. Per il suo cervellino complicato era veramente troppo da sopportare.
“bhe cervelloni miei…io vado a nanna.”
Susan ed io ci guardammo con uno sguardo d’intesa e sorridendo, gli augurammo una buona notte.
“non ce la potrà mai fare!” esclamò come lui si richiuse la porta alle spalle e si coricò sotto le coperte.
“ma chi David? In tutto il tempo che lo conosco, non l’ho mai visto andare d’accordo con qualsiasi tipo di tecnologia.”
“già..anche io”
Ritornammo a fissare il monitor e dopo varie discussioni la lasciai fare. Era lei il genio della tecnologia, qui.
Mi sdraiai sul letto sfilandomi le scarpe. Ero veramente stanco e non riuscivo a capire il perché.
“come sta Kevin?” le chiesi dopo qualche minuto di silenzio.
“a dire la verità non lo so.”
“come mai? Pensavo condivideste casa”
“si…una volta.” Il suo volto si incupì e capii che avevo toccato un tasto dolente. Susan frequentava quel ragazzo da cinque anni e ormai era scontato che avrebbero vissuto il resto della loro vita insieme.
“ che è successo?” osai farle quella domanda e le feci segno di sedersi al mio fianco. Le volevo bene. Era la mia cosiddetta “sorellina” che non avevo mai avuto. Capelli biondi e lunghi. Viso angelico. Fisico slanciato. Insomma un gran bel pezzo di ragazza. Quando ero entrato nell’associazione avevo una specie di cotta per questa ragazza. L’avevo corteggiata per dei mesi e poi quando finalmente aveva ceduto, tutto aveva perso quella magia, quel mistero che la ricopriva dalla testa fino ai piedi. Sono sempre stato un tipo cacciatore e una volta conquistata la preda, avevo di nuovo bisogno di sentirmi cacciatore. Così era successo con Susan e tutte le altre ragazze dopo di lei fino a Kelly.
con il mio portatile in mano, si alzò e si sedette al mio fianco usandomi come poggia schiena.
“una brutta lite. Continuava a ripetermi che era stanco di quella vita e che prima o poi se ne sarebbe andato. Io non lo avevo mai preso sul serio. un giorno, quando sono arrivata a casa lui aveva già preparato la sua roba. Mi sono diretta automaticamente verso la cucina. Ho aperto lo sportello dell’armadietto dove tengo la ceramica e ho preso un bicchiere per bere un sorso d’acqua.” parlava tenendo lo sguardo fisso davanti a se rivivendo la scena. Gli occhi persi nel vuoto e le mani compievano gli stessi gesti che evidentemente aveva compiuto quella sera.
“dopo qualche secondo ho notato che c’era troppo silenzio. C’era qualcosa che non andava. Mi controllai intorno e notai delle valige appoggiate al muro. Lui era in piedi e mi inchiodava con gli occhi. Ha sempre saputo farci in questo tipo di cose. Riusciva a comunicare senza aprire bocca e in quel momento capii subito che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Mi disse di scegliere. Di scegliere tra me o lui...”
“non c’è bisogno che ti dica qual’è stata la mia risposta.” La sua posizione le permetteva di nascondersi dal mio sguardo interrogatorio. Volevo guardarla in faccia e come ci provai lei si immerse nel monitor del computer. Le presi il mento e delicatamente la costrinsi e guardarmi negli occhi. Due strisce argentate le rigavano le guance e i suoi occhi erano estremamente lucidi. Mi sentii improvvisamente impotente. Si sciolse dalla mia presa e con un movimento veloce della mano, si asciugò le lacrime e si immerse di nuovo dentro il monitor. La abbracciai goffamente. Non sapevo come comportarmi. Era meglio per lei sentire un amico vicino oppure essere lasciata sola con il suo dolore? In qualche modo me lo avrebbe fatto sapere. Si voltò lentamente. Le guance rosse gonfie e gli occhietti lucidi mi fecero capire che stava per scoppiare. La attirai a me stringendola forte e sentendola esplodere sulla mia spalla.
Com’è strana la vita a volte. Una persona ci mette una vita a costruirsi la propria bolla di sapone. La bolla nella quale poter vivere felice e contento. La bolla che speri non si rompa mai e che quindi rafforzi per far si che nessuno la scoppi. Eppure, i tuoi sforzi non sono mai sufficientemente adeguati. Basta un nulla per far scoppiare la tua bolla. Tu rimani lì. Senza la tua bolla. Senza una casa. E l’unica cosa che puoi fare è chiederti “perché a me?”.
A Susan purtroppo era successo proprio questo. Cinque anni. Cinque anni cancellati in poche ore. Proprio strana questa vita.
In tutto quel dolore non feci a meno di pensare a Kelly. sperai che la mia bolla non fosse scoppiata. Che nessuno l’avrebbe fatta scoppiare. Avevo un magone sullo stomaco che non andava ne su ne giù. Non so da cosa era dovuto, ma rimaneva lì. Proprio a metà parte tra la gola e lo stomaco. Nel bel mezzo della trachea. In quel momento desiderai vedere il suo sorriso. Sentirla vicina. Sentire che anche lei non avrebbe permesso che scoppiassero la nostra bolla.
Magari una telefonata veloce per sapere come stava. E se avrebbero rintracciato la telefonata? No…meglio non rischiare. Dovevo resistere tre giorni senza di lei. Non potevo fare errori. La nostra bolla non doveva scoppiare.

Magari una telefonata veloce per sapere come stava. E se avrebbero rintracciato la chiamata? No…meglio non rischiare. Dovevo resistere tre giorni senza di lei. Non potevo fare errori. La nostra bolla non doveva scoppiare.
Come Susan se ne andò a dormire, fu maledettamente difficile resistere alla tentazione di chiamarla. Avevo un bisogno assoluto di sentirla con me, proprio vicino a me anche se era lontana chilometri.
Alzai la cornetta e composi il numero. In fondo…gli asiatici non potevano sapere che alloggiavamo in quell’albergo. Il telefono squillò tre volte prima che rispose. La voce assonnata mi ricordò del fuso orario e che, se da noi erano le undici di sera, da loro era l’una di notte. Mi maledissi di averla svegliata.
“scusa…ti ho svegliato” come tutte le volte che ha sonno, il suo cervello ci mette il doppio del tempo per dare un senso ai suoni che sente, elaborare una risposta e pronunciare le parole esatte senza compiere errori.
“no…tranquillo. Tanto stavo facendo un brutto sogno. Mi hai fatto soltanto un piacere” stava mentendo. Se c’era una cosa che non le riusciva fare era mentire nel sonno.
“sei una piccola bugiarda. Dopo che hai fatto un brutto sogno non hai la voce così rilassata…sembra che dormivi alla grande. Mi dispiace.”
“sai sempre soltanto dispiacerti. Raccontami come va la missione”
“bhe…siamo arrivati oggi e abbiamo pianificato un piano per incastrarli al meglio. Dopodomani dovrei essere a New York. Magari potremo uscire a cena…”
“si…sai che mi manchi?” aveva pronunciato quelle parole soffermandosi tra una parola e l’altra come se avesse dimenticato come si faceva a parlare. Doveva essere molto stanca. Mi sentii nuovamente terribilmente in colpa.
“Mi manchi anche tu, piccola” rimanemmo in silenzio per un po’. “adesso torna a dormire.” stranamente la sua risposta fu immediata. Un riflesso automatico le fece uscire la parola “no” dalle labbra. La sua voce sembrava quasi tormentata come se le stessi facendo un torto a lasciarla dormire.
“dormi. Ciao” la tentazione di ascoltare la sua reazione era troppo forte che non riuscii a resisterle. La cosa più giusta sarebbe stata quella di attaccare il telefono. Avevo ottenuto quello che volevo. Sapevo che in un qualche modo era al sicuro e questo mi bastava.
“ci sentiamo domani?” le sue parole nascondevano una certa ansia. Sarebbe stato bellissimo poterla sentire anche il giorno dopo, ma sapevo benissimo che era troppo pericoloso. Nessun Errore. Eppure quelle sue parole mi fecero sorridere. Era possibile che desiderasse sentirmi così tanto? Come poteva avere bisogno di me? di sicuro si meritava di meglio quello scricciolo.
“okay. Ora dormi, mio piccolo fiore” attaccai la cornetta prima che potesse aggiungere qualcosa. Le avevo mentito. Speravo che non avesse attesto troppo quella telefonata. Speravo che la delusione non l’avrebbe accompagnata per tutto quanto il fine settimana.
  
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