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Autore: Koa__    22/02/2017    11 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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L’uomo che tradì il Corsaro Nero
 

 
 
 
Era vestito completamente di nero e con un’eleganza
che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico,
uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d'una camicia,
 e che curavano più le loro armi che gli indumenti. […]
La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante,
 le sue mani aristocratiche, lo facevano conoscere, anche a prima vista,
per un uomo d'alta condizione sociale
e soprattutto per un uomo abituato al comando.
[Emilio Salgari, Il Corsaro Nero]
 
 
 

«Il suo nome era Joe.» Quelle prime parole gli erano uscite di bocca in un sussurro, flebile quasi quanto un mormorio e forse intrise della sincera intenzione che esse stesse avevano nel non farsi udire. Aveva parlottato a bassa voce, John Watson, ben deciso nel non lasciare che nessun altro che non fosse Sherlock Holmes, sapesse quanto aveva da dire. Di certo non lo voleva permettere ai due pirati acquattati nell’altra stanza con l’orecchio teso contro la porta. Non si sentiva a proprio agio all’idea di raccontare di sé e nonostante fosse trascorso del tempo, ancora non aveva trovato pace. Per mesi aveva elaborato quegli stessi avvenimenti, ripassandoli a mente e molte volte aveva tentato di comprendere in quale punto della faccenda aveva commesso l’errore più fatale, purtroppo mai era riuscito a darsi una risposta valida. C’erano stati giorni, quelli in cui la solitudine si faceva sentire a morsi nello stomaco, in cui si era ritrovato ad accarezzare la prospettiva di confessarsi. Nemmeno questo, però, John aveva osato fare poiché ad anima viva avrebbe permesso di venire a conoscenza di tutti quei vergognosi particolari che gelosamente custodiva, e che avrebbe dovuto avere la decenza di dimenticare. Quella, dunque, sarebbe stata la prima volta che raccontava del suo viaggio dall’Inghilterra e di come s’era ritrovato con una mappa disegnata sul petto. Se soltanto fosse riuscito a metter da parte quella sensazione strana e che anche in quegli istanti gli divorava le membra, annebbiandogli i sensi, avrebbe senz’altro tirato fuori una qualche frase di senso compiuto. Nei fatti si sentiva un idiota e neanche avrebbe potuto spiegarne reali le motivazioni. Probabilmente avrebbe dovuto rinunciare a tutto quello, allo stesso modo di come aveva fatto dietro front tante volte quando, già sulla via della chiesa, aveva deciso di mettersi a nudo al prete del villaggio. D’altronde, si ripeté per un’ennesima volta, non era poi così necessario che il pirata bianco conoscesse tutti i dettagli. Avrebbe dovuto dirglielo e fargli sapere che non erano fatti suoi, che doveva semplicemente fidarsi e, anzi, doveva farlo subito. Sì, senz’altro. Non c’era alcuna storia da raccontare, questo era quanto. Aveva una mappa sul petto, ma non era fondamentale che si sapesse come ci fosse finita. Perciò alzò il volto, sollevando il mento e a tratti induriti da una militaresca decisione d’intenti, con il corpo teso a fronteggiare un’ennesima battaglia, John si dichiarò pronto a dirgli quanto doveva.
«Io» esordì con decisione e una punta di cattiveria che mai, mai gli era appartenuta e che vagamente gli ricordava i tempi in cui, amareggiato, girovagava per le vie di Londra in cerca di un qualcosa che lo distraesse da terribili ricordi. A differenza di allora, però, John si ritrovava ad avere Sherlock Holmes parato di fronte. Non riuscì a protestare e non un briciolo di quel ben determinato discorso, gli uscì di bocca. I tanto stoici intenti, la fermezza nel negare di raccontare la verità, tutto, persino le membra stesse del corpo gli si sciolsero come neve sotto al sole. John s’arrese al pirata bianco alla stessa identica maniera di come un esercito di vigliacchi alza bandiera bianca di fronte a un nemico troppo forte. Perché Sherlock aveva un tale effetto su di lui? Come faceva a fidarsi se a stento lo conosceva? Sembrava che il suo istinto già sapesse, che avesse compreso ogni logica del loro nuovo rapportarsi. Eppure erano soltanto sensazioni e, infatti, nemmeno allora seppe darsi una risposta. Tutto ciò di cui fu sicuro era che nell’intensità di quello sguardo avrebbe riposto la vita. La stessa preziosa esistenza che aveva giurato non avrebbe mai messo nelle mani di un qualsiasi corsaro. A render le armi si faceva tanto in fretta, che faticò a rendersene conto. Ma accade, e fu letale, e spaventoso, e magnifico al tempo stesso. Successe nell’esatto dannato istante in cui il suo sguardo incrociò quello di Sherlock. Occhi grandi e sinceri, di un indefinibile tono di azzurro che pareva magicamente variare a seconda dell’intensità della luce o della di lei chiarezza. Un pirata misterioso e leggendario, temuto e rispettato e che se ne stava furbescamente avvolto dalle ombre più nere della stanza, aiutato dal buio delle serrande chiuse da bene. C’era un fascio di raggio di sole che filtrava di poco dal legno degli infissi, uno piccolo e minuscolo che lambiva appena il pavimento e che a stento aiutava a metter in chiaro i contorni nello spartano mobilio di quella casa. Eppure era sufficiente e incredibilmente faceva sì che i contorni di Sherlock Holmes fossero più o meno intuibili, e che l’incredulità di John nell’essere affascinato, fosse palese. Già gli era già nudo e a stento lo comprendeva. Lui, il pirata bianco, con le dita giunte sotto al mento come in preghiera. Non sembrava volersi muovere e allo stesso tempo lo fissava con una forza tale nelle espressioni, che a John fece capire che non sarebbe mai stato in grado di negargli un qualcosa. Persino un racconto di cui si vergognava. Mai nessuno era stato degno della sua scomoda verità, perché un pirata da scorribande e ruberie lo era? Non ne aveva idea, eppure non ci pensò oltre e, preso un profondo respiro, riprese con il proprio discorso.

«Non conosco dettagli della sua storia o quali Natali abbia avuto. Neanche so se “Joe” fosse il suo nome e onestamente ho dei seri dubbi a riguardo. Così come ne ho sul fatto che, per tutti i mesi in cui rimasi con lui, mi abbia almeno una volta detto la verità.»
«Joe è morto» se ne uscì Sherlock a un certo momento, balzando fuori dall’ombroso silenzio che lo avvolgeva con una grazia tale che John sussultò per la sorpresa. Che lo avesse fatto per risparmiargli il dolore dell’ammetterlo o che si fosse limitato ad abbreviare certi dettagli di quella confessione, non lo seppe mai con certezza. Holmes ancora era indecifrabile. Con il tono di voce piatto e le espressioni sagacemente nascoste dal buio, permetteva a stento di venir guardato. John non perse tempo a trovare una risposta, né a giustificarsi in un qualche modo. Si limitò a un cenno di assenso, chinando poi mestamente il capo. Stranamente non si sentiva meglio adesso che qualcun altro sapeva.
«Lo hai ucciso tu?» aggiunse Sherlock e senza preoccuparsi di aspettare una risposta. Come se fosse ovvio o scontato, quasi riuscisse già ad avere una ben precisa idea di quanto successo. Da dove arrivava tanta sicurezza? Era Holmes, il pirata ed era il medesimo uomo che si era fatto impiccare per il puro gusto di far capire a James Moriarty di essere in grado di sfuggirli. Holmes era quello stesso individuo che aveva fronteggiato un comandante dell’esercito inglese, parlandogli come se si sentisse suo pari o, perché no, persino un superiore. Quanto di reale c’era in simili atteggiamenti? Stava distante per il puro gusto di metterlo in difficoltà, per cattiveria oppure aveva una certa timidezza in sé che gli impediva di porsi sotto la luce? Era davvero il terribile pirata bianco o soltanto Sherlock, un ragazzo dai profondi occhi, azzurri come il mare e dal sorriso sghembo e divertito?
«Sì, la responsabilità per la sua morte è mia» soffiò fuori, evitando di perdersi di nuovo nei propri pensieri e scrollando la testa con decisione. «Ma sarà meglio cominciare dal principio.»
«Inizia da Joe» disse Sherlock, con tono di comando.
«Joe» mormorò John, sorridendo al dolce ricordo. «Aveva quell’età in cui ti puoi permettere di non dire a nessuno quanti anni hai, perché la gente non ha bisogno di saperlo con esattezza. Avrebbe potuto sostenere di avere gli anni stessi della terra su cui camminiamo e chiunque gli avrebbe creduto, persino tu e io. Lo conobbi a Londra. In quel periodo mi occupavo di certi affari assieme a mio cognato, il detestabile Duca di Crockwell, Pari d’Inghilterra, già marito della mia cara sorella Harrieth ben prima del mio ritorno dalla guerra» * aggiunse, senza preoccuparsi di nascondere il disgusto che provava, né di far notare una certa ironia nell’uso della parola “cara” dando per ovvio che, Harrieth, cara non lo fosse affatto. «Venne da me un mattino, dicendomi di avere la necessità di esser visitato perché si sentiva debole, non aveva nulla, ma gli raccomandai di mangiare di più perché era deperito. Fu un fatto curioso, il suo sapere chi fossi e ricordo che ci pensai a lungo sopra pur tuttavia senza trovarci mai una spiegazione. Vedi, io avevo studiato da medico e durante la campagna militare per la guerra civile avevo aiutato come potevo sul campo di battaglia, spesso anche quando non c’era poi molto da fare, se non alleviare le sofferenze dei miei compagni d’arme. Da quando ero tornato in Inghilterra non avevo più praticato, né qualcuno era venuto da me con il desiderio di venir curato. A onor del vero, ero convinto che il mondo si fosse dimenticato degli Watson e della nostra antica e nobile tradizione. Dagli accademici e luminari del paese ero ritenuto poco più che un barbiere che cuce ferite. Non seppi mai davvero chi gli disse dei miei studi e non posso affermarlo con certezza, ma sono quasi sicuro che mi abbia scelto. D’altronde, Joe era forse l’uomo più scaltro che io abbia mai incontrato, aveva compreso meglio di chiunque con quanta irrequietezza vivevo e soprattutto sapeva quanto idiota io fossi.»
«Qualsiasi fosse il suo piano» ribatté Sherlock, con prontezza e una sagacia nel taglio della voce che arrivò diritta alle attenzioni dell’ancora confuso John, facendogli drizzare letteralmente le orecchie. «Questo tuo Joe ha agito con saggezza, ha scelto un uomo già avvezzo all’uso delle armi, con conoscenze di lotta e medicina, senza famiglia, sufficientemente istruito da non necessitare d’insegnamenti e abbastanza amareggiato dalla società inglese da poterlo seguire in capo al mondo. Astuto, non c’è che dire e decisamente ammirabile» annuì un’altra volta con una punta di sorriso divertito negli occhi «ma continua, te ne prego.»
«È come hai detto tu» mormorò invece John con ritrovata consapevolezza, lasciandosi cadere su una delle sedie che ospitò membra che pareva avessero visto una lotta senza fine. Affondò il viso tra le mani, sfregando con vigore la radice del naso quasi a voler scacciare i brutti sentimenti, tornati da poco. Sospirò di nuovo e con ancora maggior pesantezza, prima di riprendere le fila di un discorso che non voleva fare ma al quale si era scoperto di non poter rinunciare. Se poco prima aveva indugiato, indeciso sul da farsi, adesso era come se non potesse fare a meno di raccontare la verità. Bramava e al contempo temeva il suo giudizio, come se fosse stato il parere stesso di Dio. Le poche e sagge parole che snocciolava di tanto in tanto, squarciando il silenzio erano una benedizione quando l’idea stessa che ci fosse un essere umano interessato alla sua storia. E per quanto tutto quello potesse essere strano, il suo era un banale desiderio di scaricarsi la coscienza. Di certo era così, che altro avrebbe potuto mai essere?
«Per mesi mi sono rifiutato di ammetterlo, ma in quanto hai detto c’è della verità: Joe aveva scelto l’uomo più manipolabile e stupido fra tutti.»
«Su questo dissento» ribatté invece il pirata bianco e con un evidente tono di rimprovero che andò ulteriormente a confonderlo «non ho detto stupido e mai ti riterrò tale. Sì, sei un idiota sentimentale, ma non uno stupido e se sei rimasto invischiato in una situazione del genere o se sei responsabile della morte di un uomo, allora vuol dire che sei come molti di noi. Ognuno ha i propri fantasmi, John, ombre a cui non vogliamo dare ascolto e che oscurano i nostri giorni di sole. È ciò che ci rende umani e pateticamente schiavi di un qualcosa, noi stessi, nel tuo caso.» Una nota di amarezza aveva offuscato i toni distaccati e freddi del pirata bianco, forse un tremolio aveva increspato la voce mentre un leggero timore aveva agitato le dita, strette ora in un unico pugno nascosto dietro la schiena. John notò a fatica il turbamento, a malapena intuì che un qualcosa che aveva a che vedere con il rimorso aveva fatto vacillare la serietà quasi divertita e a tratti gioviale, di quel misterioso uomo avvolto dalle ombre. In effetti non fece caso a niente. Impegnato com’era a tener a bada i propri, di spiriti malevoli, non sentì altro che il battito del proprio cuore e l’eco dei dubbi che ancora gli si agitavano in testa. Dubbi, che adesso avevano a che vedere con Holmes, il pirata bianco.

Un ansito più tardi, un sospiro trattenuto dopo l’altro e il silenzio scese. Tenue. lieve. Una calma dolce e poco tesa, dominata da una sconosciuta sensazione di fratellanza. Era come se si trovasse di fronte a un vecchio amico con il quale aveva condiviso anni di avventure e lotte, un qualcuno che conosceva meglio delle proprie tasche e con il quale non aveva bisogno necessariamente di riempir gli spazi di parole. Il loro star zitti durò a un lungo, anche se non aveva possibilità di tener sotto controllo il tempo fu certo che molto ne trascorse da un frammento all’altro di discorso. Voleva proseguire perché ancora tanti segreti aveva da svelare, tuttavia restò silente. A occhi chiusi e respirando piano mentre acutizzava i sensi tentando di cogliere il profondo respirare di Sherlock. Rimasero a quel modo fino a che John non decise a racimolare i pochi ricordi che ancora aveva. Sul fatto che non volesse in alcun modo abbandonare tanta ritrovata tranquillità, preferì evitare di convincersi di un qualcosa. Desiderò sinceramente continuare e riprendere là dove aveva lasciato brandelli di conversazione, ma allo stesso tempo amava così tanto starsene a quel modo che stentava a credere di star condividendo un momento tanto intimo con un’altra persona. Forse trascorse un giro intero d’orologio o magari una manciata di istanti, ma a un certo punto, sussurrando così come aveva finito, John ricominciò a parlare. Accantonando immediatamente e relegando in un angolo della memoria, quanto bello fosse lo stargli accanto e il vivergli così vicino da intuire le rughe della fronte o l’agitarsi dei pensieri. Ma via, era meglio non indugiare su quei sentimenti.
«Ci imbarcammo un mattino» riprese, ancora calmo e pacato «presto che non era sorto sole, prendemmo una nave che trasportava merci, pagando con pochi soldi degli alloggi di terza classe. Joe era un uomo ben strano, in effetti, ma tremendamente affascinante (alla sua maniera, s’intende). Sapeva tutto di navigazione e aveva una conoscenza della stessa struttura dei vascelli, oltre che del mare, molto approfondita. Un giorno mi capitò di vederlo a prua, guardava il cielo, annusava l’aria e sembrava preoccupato. Gli chiesi cos’avesse e lui mi rispose che il cielo minacciava tempesta, io gli diedi del matto perché era impossibile dato che lo vedevo sereno e limpido e che il sole splendeva alto, ma ovviamente l’idiota ero io perché quella stessa notte ci fu una tempesta terribile. Altre volte mi parlava degli astri, diceva che i marinai amavano la notte perché guardando in su sapevano dove si trovavano e quanto la terraferma fosse distante. Diceva che le stelle parlavano molto più chiaramente di bussole e sestanti, che sapevano di geografia decisamente più cose di quante ne avrebbe imparate uno studioso. Joe raccontava storie assurde, a dirla tutta molte erano senza senso, favole di venti che avevano voci e avventure di pirati e marinai, di tesori e corsari. Io lo stavo a sentire con lo stesso trasporto con cui si legge un libro, ne ero meravigliato e rapito. Anche se, a pesarci bene, è terrificante il fatto che all’epoca in cui vivevo in Inghilterra non dovette nemmeno insistere sul seguirlo, mi disse che cercava un uomo come lo ero io: forte e giovane, un qualcuno in grado di menare le mani se necessario e accettai senza pensare. Mi disse che aveva bisogno di me perché aveva la mappa di un tesoro. La ricordo come se ce l’avessi ora tra le mani, era un foglio di cartaccia usurato e puzzava di brandy e acqua di mare, Joe lo custodiva in un incavo che aveva ricavato dalla sua gamba di legno e diceva che io ero la prima persona a cui la faceva vedere.»
«La mappa di Joe è la stessa che hai sul petto?» domandò Sherlock, indicando il disegno e aiutandolo a ricordarsi del fatto che avesse ancora il torace nudo. Cosa che gli provocò un certo imbarazzo, che faticò a sedare.
«Sì, sono identiche o meglio lo erano. Ad ogni modo, c’è ancora una parte della storia. La nave che prendemmo andava verso le Indie Occidentali. Joe era uno di quegli uomini tanto minuti e indeboliti dalla vecchiaia che ti dici che sono da proteggere, perché un vecchio non potrebbe mai cavarsela in un’avventura di quella portata. Non da solo. Mi sentii responsabile per la sua vita fin da quando mi venne a cercare a Londra. Ero talmente convinto di star facendo un’opera di bene, che neanche pensai a mia sorella. “Ognuno per sé” mi disse Joe una volta e anche oggi credo avesse ragione.»
«La mappa» mormorò Sherlock, meditabondo e di nuovo congiungendo le dita che portò, pensieroso, sotto al mento «chi l’ha disegnata sul tuo corpo?»
«Indigeni» annuì John, con scarsa convinzione. Ne ricordava i volti e i segni sulla pelle, così come le casupole di paglia e terra, non sapeva assolutamente chi fossero o dove si trovassero. «Io ero offuscato da certi fumi che loro avevano bruciato e a dire il vero non ricordo come abbiano fatto, ma loro ne erano pieni su tutto il corpo. Come ci sia arrivato da quei selvaggi, beh, c’entra di nuovo con la mia idiozia. Viaggiavamo verso Santo Domingo come clandestini, a bordo di una caracca spagnola sulla quale ci avrebbero fucilato già solo per essere inglesi. ** A un certo punto del viaggio, Dio solo sapeva come facesse a saperlo, Joe mi disse che dovevamo scendere. Così, in mezzo al mare e con niente all’orizzonte. Mi svegliò in piena notte dicendomi di seguirlo e io lo feci, perché che altro potevo fare? Fu così che rubammo una scialuppa e che mi ritrovai remare sino a un’isola. Da allora ho pochi ricordi: mi disse che dovevamo andare a prendere il tesoro e che era lì che si trovava. Diceva che quei selvaggi ci avrebbero aiutati perché li conosceva e sapeva che erano innocui. Ci mettemmo a cerchio attorno a un fuoco e da allora tutto è diventato buio. Quando mi risvegliai, Joe era sparito e io ero da solo su un’isola senza civiltà e con una mappa disegnata addosso.»
«Come fai a dire che è morto?»
«I selvaggi» disse, questa volta con determinazione. Era una delle poche cose di cui era sicuro. 
«Non capivo niente di quello che dicevano, ma con dei gesti... Cadde giù da runa rupe, anche se non so come o per quale motivo si spinse fin lassù. Lo cercai per giorni, invano, il corpo dev’essere finito in mare e poi trasportato dalle correnti. Non c’è altra spiegazione dato che tutti i suoi effetti personali erano ancora lì con me, alcune cose le ho conservate. Come la sua bussola o il suo pugnale.»
«E tu te ne senti responsabile» assentì subito Sherlock, occhieggiandolo con una certa consapevolezza. Aveva modi severi e controllati, ma al tempo stesso sembrava sul punto di voler danzare per l’eccitazione. Di certo fremeva e lo sguardo gli si agitava vagabondando sulla figura, ancora stupidamente attonita di John, il quale pareva in grado di fare niente se non starsene immobile a boccheggiare come uno stupido.
«E di chi altri potrebbe essere la colpa della sua morte?» replicò ben deciso a non mollare la presa almeno su un punto. La verità era che per mesi si era accusato della triste fine di Joe e neanche per un secondo aveva ritenuto di essersi sbagliato o di non avere alcuna responsabilità. Tecnicamente era vero, non aveva ucciso Joe, ma ciò non toglieva che se fosse stato meno stupido o distratto, se non fosse stato tanto idiota da farsi fregare da degli indigeni, forse Joe si sarebbe potuto salvare. No, era decisamente sua la colpa. Sua e di nessun altro. E non avrebbe permesso a nessuno, tanto meno a Sherlock Holmes di dire il contrario.
«Ci sono particolari di questa storia che non hanno il minimo senso» disse Sherlock, dopo qualche attimo. Era visibilmente più agitato e tanto che aveva abbandonato la propria immobilità a favore di un vibrare confuso ed eccitato. «Perché mai un uomo che possiede una mappa su carta, dovrebbe farne fare una copia uguale e identica sul torace di un altro uomo?»
«Non ne ho la più pallida idea, tuttavia ho avuto del tempo per pensarci. Anche se non posso esserne sicuro, credo in qualche modo c’entri con lui. Sì, ecco, con il corsaro nero.» ***

John Watson, medico e soldato, finito ad Antigua per vigliaccheria avrebbe ricordato quel momento a lungo. Rimase così impressa nella sua memoria quell’immagine, che in futuro ne scrisse perfino sul suo vuoto diario, raccontandone i particolari come avrebbe fatto un poeta. In quegli istanti, ovviamente, poco badò a ciò che sarebbe stato nei tempi a venire. I suoi sensi erano tutti per il pirata bianco. Per assurdo fu quasi semplice superare lo sconvolgimento iniziale, a cui seguì uno strano divertimento a cui mai avrebbe dovuto dare adito e che restò acquattato dietro un’espressione stupita. Mai si sarebbe aspettato da un uomo controllato e serio, un fuoco di quella portata. Eppure fu ciò che fece e non appena nominata la leggendaria e misteriosa figura del corsaro nero, il bianco pirata dai capelli scuri scattò in avanti senza alcun preavviso e con una ferocia che di rado aveva visto in un uomo, lo costrinse ad alzarsi da dove stava, schiacciandolo contro al tavolo. Nemmeno pareva lo stesso elegante signore di poco prima, questi aveva sguardo fiammeggiante e labbra ritorte in una smorfia indecifrabile. La maniera in cui gli aveva afferrato le braccia prima di stringerlo e strattonarlo, era rabbiosa e violenta, addirittura. C’era un ardore indomabile in quegli occhi e una passione bruciante e sincera, traboccante di emozioni. Essergli tanto vicino da poter sentire il profumo salato della pelle o quello ben più acre del sudore, poter percepire il fiato caldo sfiorargli le guance o il forsennato palpitare del cuore attraverso le carni, gli provocò un brivido che corse, selvaggio, lungo la schiena. Poteva un uomo provare tutto quello? O, meglio, perché John si ritrovava succube di Sherlock Holmes? Non lo avrebbe ritenuto capace di una così profonda e strabordante passione, eppure ora l’aveva lì e riusciva a scorgerla da ogni singolo poro della pelle oltre che dalla determinazione delle rughe del viso. Era ghiaccio e fuoco, Holmes il pirata. Una mescolanza di emozioni impossibili e di leggende strane e indecifrabili. Era un uomo incomprensibile, ma sincero nelle parole che diceva e palese nelle emozioni che provava appena si lasciava andare. Non c’era macchinoso pensiero che John non avrebbe voluto afferrare, né idea che non gli sarebbe piaciuto condividere. Cosa sapeva sul corsaro nero? Si erano mai incontrati? Era chiaro che Sherlock conosceva le gesta di Hanry Morgan, come chiunque d’altronde, però si chiese se la sua fosse più di una fanciullesca ammirazione o invece una sorta di riconoscenza. Ciononostante evitò di domandarglielo, non voleva sembrare ancora più sciocco di quanto, era sicuro, già appariva ai suoi occhi. Poco dopo, per fortuna, ogni suo sentimento e dubbio cadde, sfracellato da una rabbia viva e penetrante. Rabbia con la quale Sherlock Holmes mai più gli avrebbe parlato.

«Ripeti» sussurrò, gridando con impeto. La voce era bassa, ma ricca di un vibrare che parve riuscire a entrargli nel cervello, confondendolo ulteriormente. «Ripeti quel nome, John» disse, ancora, questa volta scandendo per bene ogni respiro, mormorando con diabolica violenza ogni parola.
«Il corsaro nero» annuì, adesso timoroso prima di proseguire e dirgli quanto, poco, sapeva di quella faccenda. «Joe mi aveva detto di esser stato a suo servizio quando già era un corsaro e che Morgan aveva faticato per poter avere quella mappa e che lui gliel’aveva rubata prima di scappare. Credo sia tornato in Inghilterra per questo, per sfuggirgli, ma non ne sono sicuro perché non mi disse mai i dettagli. So solo che nel sud di Londra c’era rimasto per molti anni. All’inizio ho creduto che volesse trovare il tesoro prima di morire, in fondo era molto anziano. Ma dopo che è finito giù dalla rupe e in quel modo, ho cominciato a collegare ogni pezzo. Credo che volesse riconsegnargli la mappa e farsi perdonare o che volesse averne una per sicurezza dove non poteva esser rubata.»
«Per questo ha scelto te, John» intervenne Sherlock, meditabondo. Aveva lasciato la presa su di lui e si aggirava per la stanza al pari di una bestia nella gabbia. «Tu sei uomo giovane e forte, sai combattere. Per prenderti la mappa bisognerebbe ucciderti e levarti la pelle di dosso, e non penso sarebbe semplice. Sei stato membro dell’esercito e sei intelligente. Da quanti mesi sei ad Antigua?»
«Sei o sette, non so con precisione.»
«E per tutto questo tempo non ti sei intrattenuto neanche con le prostitute della taverna, cosa che sarebbe naturale per un giovane uomo come te. Questo perché sai che se una di loro parlasse, per te sarebbe finita. Se Morgan o Moriarty venissero a sapere della tua mappa, non esisterebbero un singolo istante a ucciderti per poterla avere e lo stesso vale per un qualsiasi pirata o corsaro che solca questi mari. Il tuo amico Joe era ben accorto e noi dobbiamo mantenere il segreto, nemmeno i miei uomini lo dovranno sapere e te lo dico, John, con un peso enorme perché mai ho avuto un segreto con loro. Diremo che hai una carta, una volta su la Norbury ne disegnerò io una, copiandola dall’originale. In questo modo potranno vedere un qualcosa di concreto e crederanno alle tue parole, ma è fondamentale che tu non lo dica a nessuno e che non ti faccia mai vedere senza la camicia. Troveremo un modo per cancellare quel disegno, è una promessa» concluse, pensieroso. Poi, del tutto inaspettatamente, scoppiò in una risata sonora lasciandosi andare a una gioia fanciullesca. Sherlock saltava e agitava in aria i pugni ed esultava felice. Erano ancora fuggitivi e non potevano farsi sentire, gli ricordò a un certo punto venendo bellamente ignorato.
«Oh, questa storia, Watson… grazie, grazie davvero» gridò, ridendo ancora prima di roteare su se stesso gettandosi verso la porta della stanza da letto, che venne spalancata con un colpo secco. John riuscì a scorgere Victor Trevor steso sul letto, intento a fissare il soffitto mentre giocherellava distrattamente con la croce che aveva appesa al collo. La stanza era illuminata della luce di mezzogiorno, la quale entrava prepotente dalla piccola finestra affacciata sul mare e che non era stata serrata. Perciò non fu difficile notare il falso boia di nome Lestrade accovacciato sulla sedia accanto allo scrittoio, un Lestrade che ora occhieggiava con grandi e confusi occhi il proprio capitano impazzito di felicità. Il boia non sembrava sicuro di quel che stava succedendo, si alzò infatti da dove stava oltrepassando la porta e facendosi più vicino, ma mantenendo una certa distanza.

«Yo-ho!» enunciò il pirata bianco, a voce ben alta. «Basta dormire e in piedi, miei prodi filibustieri. Abbiamo una rotta per l’isola del tesoro» disse ridendo, ancora più sguaiatamente. John era certo che se ne avesse avuto la possibilità avrebbe sparato per aria o gridato a gran voce. Non lo fece, per fortuna di tutti loro, ma di sicuro non rinunciò a un bel po’ di piratesca scena. «Ma giusto, giusto… prima le presentazioni. John Watson, conosci già Victor Trevor.» Il prete, ancora steso sul letto sollevo un due dita a mezz’aria con le quali fece il segno della croce, come a volerli benedire. Non disse niente e subito riprese a sonnecchiare. «Lui invece è George Lestrade.»
«Greg» lo corresse questi, andando a stringere la mano di John con un’affabile confidenza che lo stupì, non si sarebbe aspettato tanta cordialità e un gran sorriso onesto. Non così immediatamente.
«Gerald è il mio nostromo, gli affiderei la vita.»
«Ma io mi chiamo Greg. Greg» disse di nuovo, questi, innervosito e con un fare lievemente lamentoso che scatenò in John del divertimento.
«Lestrade, questo è John Watson e verrà con noi.»
«Verrà con noi?» ripeté Victor, alzandosi dal letto con uno scatto e lasciando trasparire tutto il proprio disappunto.
«Gli ordini non si discutono, prete» brontolò Lestrade incrociando le braccia al petto e fissando quasi Victor con severità. «Ma forse vuoi essere punito per la tua sfacciataggine? Sarà un vero piacere!»
«Lo so, lo so» annuì Victor «e così come so che il signor Noia qui a fianco a me, non aspetta altro che prendermi a frustate, ma giuro, capitano, che se rispondi a questa domanda obbedirò a qualsiasi ordine mi darai. Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di lui, che ti fidi di John Watson?» Nel sentire quella domanda, John si tese. Quello era, dunque, il momento della verità? Aveva affidato a Sherlock Holmes se stesso, ciò che era stato e il peso opprimente che per mesi aveva portavo. Aveva concesso a quel pirata bianco di sapere tutto di lui, persino i suoi più segreti sentimenti. Ciononostante e per quanto sicuro fosse di aver intuito in lui eccitazione e buoni sentimenti, per quanto convinto fosse della volontà del capitano di salpare per l’isola del tesoro, di niente poteva esser certo. Il bianco era un uomo sfuggente e misterioso, un pirata a cui un misero reduce di guerra aveva dato tutto e senza neanche conoscerlo. No, per quanto gli piacesse, per quanto sentisse di potersi fidare, non poteva dirsi sicuro di una qualsiasi cosa riguardasse Sherlock Holmes.
 

 

Continua
 
 

*Pari d’Inghilterra, titolo nobiliare inglese, così chiamato prima del 1707. Corrisponde al moderno: “Pari del Regno Unito”.
**Il ‘600 fu condizionato da un numero esorbitante di guerre per l’Inghilterra, una di queste fu contro la Spagna per i territori delle Indie Occidentali. Molte isole, tra cui la Giamaica o la stessa Santo Domingo, passarono dalla dominazione spagnola a quella inglese. Ho ritenuto sensato il fatto che bastasse quindi essere inglesi (o spagnoli) per ritrovarsi fucilati senza processo.
***Il corsaro nero è un personaggio realmente esistito, il suo nome era Hanry Morgan ed è stato un pirata, un corsaro e un politico. Il suo esser stato nominato, più che essere un dettaglio importante ai fini della trama (perché potevo anche mettere un qualsiasi altro nome e non sarebbe cambiato nulla) è una citazione. Ogni riferimento riguardante Joe e la storia della mappa copiata sul corpo di John sono di mia unica invenzione. Non traggo ispirazione da nessuna delle opere letterarie e cinematografiche inerenti al Corsaro Nero.

Ringrazio tutti coloro che stanno leggendo e recensendo questa storia. Non sapete quanto io lo apprezzi e quanto mi faccia piacere sapere cosa ne pensate. 
Koa
   
 
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