Il
lunedì trovava sempre un modo per essere detestabile a qualcuno e ci riusciva
puntualmente. In quello specifico caso era toccato a Emily.
La
ragazza si era svegliata di buon’ora come era solita fare all’inizio della
settimana. Si era fatta una doccia, aveva preparato il tè sia per lei che per
Sherlock mettendo la sua parte di bevanda in un thermos e, afferrata una
manciata di biscotti, si era avviata fuori di casa, l’ombrello giallo
agganciato al gomito.
Arrivata
alla London Metropolitan
University, un sole pieno sopra la testa, Emily aveva raggiunto
l’aula pronta per la lezione solo per scoprire che il suo professore era
ammalato. L’università aveva avvertito tutti gli studenti dell’annullamento
della lezione prontamente, tramite e-mail, ma nel caso della ragazza la sua
mail era finita nello spam e lei non aveva avuto modo di visionarla. Terminato
il lungo elenco di imprecazioni soffocate che Emily aveva recitato in seguito
alla scoperta, la ragazza si era diretta verso la caffetteria del campus con
l’intenzione di farsi una dose extra di caffè nelle speranza di poter essere
sollevata nell’umore. Ottenuta la sua bevanda si era sistemata nel tavolino più
isolato che aveva trovato e aveva affondato il naso in uno dei suoi libri di
criminologia, pur non riuscendo ad afferrarne una sola parola.
Si
sentiva giù di corda da un paio di giorni, esattamente dal sabato sera in cui
aveva deciso di aprirsi a Sherlock Holmes. Da quella sera loro due non si erano
quasi più rivolti parola, principalmente perché lei tendeva a evitare l’uomo.
Era certa che Sherlock avesse capito ben più di quello che lei gli aveva detto,
sebbene lui si ostinasse a dire che i sentimenti non erano il suo settore. Il
desiderio di Emily di riuscire a vivere una storia come quella di John e Mary
racchiudeva un significato ben più profondo, anche se era più corretto dire che
nascondesse la sua paura più grande: la paura di rimanere sola. Le avevano
sempre insegnato a essere se stessa e lei aveva fatto tesoro di
quell’insegnamento, tuttavia, a venticinque anni, era arrivata a domandarsi
perché essere sé fosse così sbagliato.
Scosse
improvvisamente la testa, con forza, cercando di non pensarci più. Non si era
mai trascinata così a lungo le sue tristezze e non avrebbe certo iniziato ora.
Decise di smetterla di rimuginare sulla faccenda e dedicarsi allo studio, che
l'aveva sempre fatta sentire realizzata, ricordandole qual era il suo scopo.
Avrebbe lasciato da parte quella spiacevole sensazione di malinconia mista a
tristezza che l'aveva pervasa nelle ultime ore – e che era stata poi arricchita
dalla frustrazione per il suo viaggio a vuoto in facoltà – e sarebbe rientrata
a casa per studiare e trascorrere nuovamente del tempo con Sherlock il quale,
dopotutto, non aveva commesso niente di male e non meritava di essere evitato
come gli era successo - sebbene, e Emily ci avrebbe giurato, la cosa pareva
lasciarlo indifferente. Aveva raggiunto Londra con uno scopo ben preciso, che
esulava completamente dalla propria vita sentimentale ma c’entrava
esclusivamente con quello che era il suo desiderio: vivere facendo ciò che le
piaceva di più. C’era tempo per trovare qualcuno con cui mettere su famiglia o
con cui trascorrere in casa le piovose serate gallesi e non dubitava che un
giorno, quel qualcuno, sarebbe arrivato.
Improvvisamente
la ragazza si sentì rinata. Ringraziò mentalmente il caffè, che ingollò fino
all'ultima goccia, guardò il limpido cielo che si affacciava fuori dalla
finestra e si dipinse un sorriso in volto, pronta a rientrare al 221B.
Per
lasciarsi dietro le spalle qualcosa di brutto niente era meglio di lavoro e
amici ed entrambi – sebbene la seconda cosa forse valeva solo per lei – si
trovavano a Baker Street.
Mise
il libro nello zaino e si alzò dal suo posto. Appena fu in piedi si accorse di
un giovane comparso accanto a lei. Lui la guardò e le sorrise. Non si trattava
di Eddie – Emily non lo aveva più incrociato dopo la sua rocambolesca uscita di
scena al loro primo incontro – ma di un altro ragazzo che lei non aveva mai
visto. Doveva essere di poco più grande e, la ragazza non riuscì a non notarlo,
era sorprendentemente affascinante. Aveva lineamenti sfuggenti e piacevoli,
nascosti appena sotto una lieve barba incolta. Gli occhi scuri e limpidi e i
capelli castani facevano risaltare notevolmente il suo sorriso.
Emily
si ricompose subito, sorridendo appena.
«Stai
andando via?» le chiese poi lui.
Lei
ci pensò un momento. Non le sarebbe dispiaciuto trascorrere un po' di tempo con
quel ragazzo, tuttavia la sua voglia di stare con Sherlock, in quel momento,
era più forte. Qualcosa in lei le stava dicendo che se fosse rientrata a casa
avrebbe avuto una bella sorpresa.
«Sì,
stavo proprio andando» rispose alla fine, mettendosi in spalla lo zaino. Le
parve di notare un leggero dispiacere negli occhi del ragazzo, ma capì di
essersi sbagliata quando lui, di tutta risposta, abbozzò un sorriso e disse: «Ah,
ok. Mi siedo qui allora, grazie.»
Prese
posto al tavolino, con visibile disappunto di Emily. Veramente si era illusa
che uno tanto carino volesse offrirle qualcosa? O che fosse dispiaciuto per la
sua improvvisa uscita di scena? Dopotutto rimaneva pur sempre il fatto che lei
non nascondeva il suo essere "diversa", perennemente concentrata su
altro e con un’assurda fissazione per le deviazioni altrui e la cosa, a quanto
pareva, teneva ben alla larga le persone, perfino quelle che non la conoscevano.
Sospirò
leggermente, avviandosi verso l'uscita del campus.
Durante
il viaggio di ritorno in metropolitana si ritrovò a pensare al ragazzo della caffetteria. Le fu
innegabile dover ammettere di esserci rimasta un po' male per come erano andate
le cose, con lui sì che avrebbe preso volentieri un caffè. Alla fine si
costrinse ad arrendersi all'evidenza: non avrebbe trovato il ragazzo giusto in
facoltà; con molta probabilità quello giusto per lei era mezzo matto e nascosto
nel più impensabile dei posti – forse un parco divertimenti. Sorrise da sola a
quel pensiero, sentendo il suo innato buonumore fare ritorno da lei. Quel
lunedì poteva anche essere iniziato per il verso sbagliato, ma stava
stranamente recuperando.
Si
avviò lungo Baker Street una volta scesa dalla metro. Davanti alla porta di
casa notò una berlina nera parcheggiata, ma non le diede il peso che avrebbe
dovuto. Frugò nello zaino in cerca delle chiavi, tuttavia non fece in tempo a
trovarle che la porta le si aprì davanti al naso. Da dietro l'ingresso comparve
Mycroft Holmes, il quale si arrestò di colpo vedendo Emily. Quest'ultima
collegò solo in quel momento l'uomo alla macchina.
«Buongiorno
Mr. Holmes» lo salutò.
Lui
uscì definitivamente dalla casa, salutandola di rimando.
«È
per caso successo qualcosa?» volle sapere la ragazza chiedendosi per quale
motivo Mycroft avesse raggiunto Baker Street.
L’uomo
le sorrise, tranquillo. «Assolutamente niente. Diciamo che c’è stato un
semplice scambio di favori fra me e il mio fratellino.»
Superò
Emily, raggiungendo la berlina. Ne aprì la portiera prima di voltarsi verso la
ragazza e farle un cenno con il capo. «Credo di doverti ringraziare, mia cara.
Ci sei riuscita.»
Salì
in macchina senza aspettare una risposta e scomparve dietro al vetro oscurato. Emily
rimase a guardare l’auto allontanarsi, perplessa. Era riuscita a fare cosa? In preda alla più assoluta
curiosità entrò in casa e salì in fretta le scale. Raggiunto il soggiorno aprì
la porta e vi trovò Sherlock fermo in piedi, lo smartphone in mano. L’uomo alzò
lo sguardo e la vide.
«Ah,
eccoti qui. Stavo per scriverti» disse, posando il cellulare.
«Ho
incrociato Mycroft di sotto. Cosa intendeva con “ci sei riuscita”? Tu lo sai
vero?» domandò, consapevole che lo aveva appena chiesto all’unico che, oltre a
Mycroft, poteva conoscere la risposta.
Sherlock
corrugò la fronte sentendo quelle parole, infastidito.
«Mai
una volta che Mycroft si tappi la bocca» borbottò, voltandosi per afferrare
qualcosa dal tavolo alle sue spalle. Da sopra il caos di carte, lettere, fogli
di giornale e altro che ricopriva la scrivania, sollevò una busta trasparente,
contenente un foglio A4. Emily si avvicinò di un paio di passi, lo sguardo
fisso su quel foglio.
Era
una lettera scritta con ritagli di articoli di giornale, accostati fra loro a
formare un messaggio: morirai nel sonno.
Tre parole inquietanti se accostate così, per quanto quella combinazione
apparisse scontata.
Contro
ogni possibile previsione – tranne per quella di Sherlock – la ragazza sorrise.
Capì subito cos'era quella lettera, così come capì cosa significava. Non poteva
che essere la lettera che aveva raggiunto il Vice Primo Ministro, quella con la
minaccia di morte che un paio di giorni prima Mycroft aveva sottoposto a
Sherlock senza successo. Improvvisamente le parve di intuire cosa intendesse il
maggiore dei fratelli Holmes con quello che le aveva detto, sebbene ancora non
le era chiaro come potesse essere merito suo se Sherlock aveva accettato;
probabilmente l'uomo lo aveva fatto solo perché si stava annoiando e, in tal
caso, lei certo non ne aveva merito. Tuttavia quella questione passò
completamente in secondo piano.
«Hai
accettato il caso?» domandò radiosa, sorridendo in direzione del detective.
Quella mattina stava decisamente recuperando alla grande.
Di
tutta risposta, però, l’uomo fece una smorfia. «L’ho già risolto, in realtà.»
Emily,
aprì bocca, attonita. «Cosa? Ma… subito non ti interessava e ora, non solo lo
accetti, ma lo risolvi ancor prima che io possa venire a sapere che quella
lettera è in casa nostra?» esclamò. «C-che ne è della mia tesi, Sherlock? Lo
sai che ho bisogno di vederti lavorare per riuscire a scrivere qualcosa.»
Il
dispiacere nella sua voce era palpabile. Non aveva fatto in tempo a essere
felice per la notizia che l’uomo le aveva dato, che subito lui aveva detto
qualcosa in grado di ribaltare completamente il suo umore. Ciò che, oltretutto,
la faceva stare peggio era lo sguardo impassibile con cui Sherlock la stava
guardando.
Quest’ultimo,
come se non bastasse, sollevò un sopracciglio e inspirò. «È un caso banale e,
te lo assicuro, anche noioso. Ci ho messo talmente poco a capire chi ha
confezionato questo bigliettino che, posso garantirti, non avresti raccolto
molto sul mio modo di lavorare. Era per questo che non volevo accettarlo quando
Mycroft me lo ha sottoposto, non c’era gusto nel risolverlo.»
A
quelle parole la ragazza aggrottò la fronte, confusa. Perché doveva essere
sempre tutto così poco chiaro con Sherlock?
Sospirò.
«Ok, non ci sto capendo niente» ammise alla fine, arrendendosi all'evidenza. «Perché,
se era un caso tanto semplice, Mycroft voleva affidartelo a tutti i costi?
Poteva risolverlo lui.»
«Il
problema di mio fratello è che si sente superiore a queste cose. Le considera
una perdita di tempo, ma visto le figure che vi sono in ballo non può tirarsi
indietro, perciò viene da me. Se non ci fosse stato di mezzo il Vice Primo
Ministro ti garantisco che non si
sarebbe neanche mosso dal suo prezioso ufficio.»
Sentendo
quelle parole Emily si ritrovò ancora più confusa. «Certo che voi due siete
strani» disse infine, perfettamente consapevole del fatto che si era
volutamente infilata in quella casa – anche se, nonostante tutto, la cosa
continuava a piacerle.
«No.
Mycroft è strano» replicò subito l'uomo, dopodiché agitò la busta trasparente
che ancora teneva in mano. «Allora ti interessa o no?»
«Certo
che mi interessava. Ma tu lo hai già risolto» sbottò.
«Il
tuo ragionamento non fa una piega» disse Sherlock, sarcastico. «Tuttavia tu non
sai chi abbia inviato questa lettera al Vice Primo Ministro.»
«Arriva
al punto, ti prego.»
L’uomo
le tese finalmente la lettera. «Ho accettato il caso per te.»
Emily
si bloccò, incredula. Non aveva certo immaginato di potersi sentir dire una
cosa del genere e non fu in grado di rispondere all’affermazione appena fatta
dal detective – per quanto asciutta fosse stata.
Sherlock
riprese parola: «So perfettamente quanto ti aveva incuriosita e non venirmi a
dire che non è vero. Ho solo pensato che, dato che è un paio di giorni che mi
sembri meno euforica del solito – e non per colpa mia, vorrei sottolineare –
lavorare a qualcosa che fosse di tuo gradimento avrebbe potuto tirarti un po'
su il morale.»
Lo
disse con una tale disinvoltura da essere addirittura sorprendente. Emily,
infatti, si sentiva proprio sorpresa. Quello che Sherlock aveva fatto per lei,
per quanto al resto delle persone sarebbe potuto apparire insensato, era
qualcosa di insolitamente premuroso e lei non poté fare a meno di provare un
improvviso moto di gratitudine – e affetto – nei confronti del suo coinquilino.
«Non
fraintendere,» riprese lui, davanti al silenzio vagamente imbarazzato della
ragazza, «l'ho fatto solo perché vorrei che finissi di girare per casa come una
specie di ameba. Mi deconcentri.»
La
magia si ruppe proprio in quel momento. Tuttavia, alle parole di Sherlock,
Emily sorrise radiosa. Il detective le stava dando la possibilità di indagare
da sola al suo primo caso, qualcosa che, oltretutto, non aveva mai avuto modo
di affrontare e che, proprio per tale motivo, la incuriosiva ancor più di
quanto lei stessa aveva creduto possibile. Forse si stava sbagliando, ma lei
volle credere che, nel gesto di Sherlock, si racchiudesse qualcosa di più.
«Posso
indagare sul caso, quindi?» domandò poi, con entusiasmo crescente.
L'uomo
si strinse nelle spalle. «Mycroft mi ha lasciato le cose apposta. E prometto di
evitare di dirti chi è il colpevole.»
A
quelle parole lei afferrò la lettera dalla mano di lui e gli sfilò accanto per
raggiungere la scrivania. Si tolse zaino e cappotto e si mise seduta, gli occhi
fissi sulle parole composte dai ritagli di giornale.
«C'è
anche questo» le disse poco dopo Sherlock, indicando un plico di fogli puntati
fra loro sulla scrivania. «Non per offenderti, Emi, ma senza non penso tu
riesca a risolvere granché.»
«Come
fai a dirlo?» domandò lei, fingendosi offesa.
«Ci
sono i risultati delle analisi che hanno svolto sulla lettera. Ti serviranno,
credimi.»
Detto
ciò si allontanò in direzione della cucina. Emily afferrò il plico a quelle
parole, cominciando a sfogliarlo. Rimase quasi sorpresa nel vedere la quantità
di cose che erano riusciti a scovare sulla superficie di un foglio A4. Lesse
alcune formule chimiche e azionò il suo portatile per poter iniziare la
ricerca.
Era
eccitata. Decisamente non c'era più traccia della tristezza che l'aveva
posseduta per i due giorni precedenti e il merito di tutto ciò era di Sherlock
Holmes.
*
Come
Emily aveva già avuto modo di verificare, le modalità per combattere la noia usate
da Sherlock erano a dir poco inusuali e, anche in quel momento, nulla le
avrebbe permesso di dubitare della cosa. L’uomo, infatti, sebbene vestito di
tutto punto come lo era nella mattina, era disteso sul divano da un paio d’ore.
Mentre Emily continuava a studiare la lettere di minaccia inviata al Vice Primo
Ministro come se fosse vitale riuscire a individuare chi fosse il mittente –
nonostante, anche scoprirlo, non sarebbe più servito a molto dato che per
merito di Sherlock questi era già stato certamente arrestato – il detective
aveva prima letto più capitoli di uno dei più complicati libri di psicologia
criminale della studentessa e poi, probabilmente stufo di nozioni che
certamente già sapeva, aveva cominciato a borbottare che si stava annoiando e
aveva preso a lanciare contro il muro una pallina da tennis comparsa come per
magia fra i cuscini del divano.
Dopo
quello che, con tutta probabilità, doveva essere il cinquantesimo rimbalzo
della pallina contro la parete, Emily raggiunse il limite.
«Sherlock,
ti prego» sbottò, abbandonando sul ripiano della scrivania i fogli e gli
appunti che aveva messo insieme sul caso, anche grazie a internet.
L’uomo
afferrò al volo la pallina al termine del suo rimbalzo e la bloccò nella mano.
«Ci
sei sopra da tre ore, com’è possibile che ancora non hai capito chi è il
colpevole?» le domandò, una leggera nota di nervosismo a condire la voce.
«Beh,
non siamo tutti come te a fare intuizioni» rispose lei, acida. «Se tu ci sei
riuscito in dieci minuti è solo perché sei tu.»
«Quello
che hai appena detto non ha alcun senso.»
Di
tutta risposta Emily sbuffò un po’ d’aria, tornando a dedicarsi alle sue carte.
«Ti
stai concentrando sulla cosa sbagliata. Usa quei maledettissimi fogli che
Mycroft ti ha lasciato e ragiona in senso più ampio. Immaginati gli scenari,
osservali» riprese a parlare lui. Lasciò andare la pallina da tennis che cadde
in terra e rotolò fino ai piedi della ragazza. Lei lo guardò, incuriosita.
Sherlock stava cercando di darle qualche suggerimento o si era semplicemente
stancato di non poter dire niente a riguardo perché lo aveva promesso lui
stesso?
Osservò
il suo profilo, gli occhi chiari fissi al soffitto. Lo vide sospirare sonoramente
e passarsi le mani sul volto, dopodiché tornò a concentrarsi sul suo lavoro.
Tuttavia,
solo pochi minuti dopo, qualcosa attirò nuovamente la sua attenzione. Era un
suono metallico, uno scatto, qualcosa che aveva sentito un numero sufficiente
di volte in film e documentari per capire che non era un buon segnale. Sollevò
nuovamente lo sguardo su Sherlock e la sua paura si materializzò esattamente
davanti a lei, con il volto annoiato e indifferente del suo coinquilino.
L’uomo
teneva in mano una pistola calibro 22 semiautomatica – valutò rapidamente la ragazza – di cui lei ne
aveva viste a bizzeffe durante i suoi studi. Il suono che aveva sentito poco
prima le permise di capire che altro non poteva essere se non il caricatore che
veniva incastrato al suo posto, pronto. Il suo cuore accelerò i battiti di
colpo, mentre le sue sicurezze vennero meno.
«S-Sherlock»
lo chiamò, incerta.
Lui
si voltò a guardarla. Emily si accorse che nei suoi occhi non c'era nulla di
simile al desiderio omicida e la cosa l'aiutò a tranquillizzarsi un po', ma
comunque molto poco.
«Dove
hai trovato quella pistola?» chiese, cercando di mantenere il proprio
autocontrollo.
«Sotto
il divano» rispose calmo l'altro.
«Sotto
il divano?» ripeté sconvolta Emily, salutando il suo autocontrollo. «Perché
tieni una calibro 22 sotto il divano?»
Nuovamente
Sherlock non si scompose. «È di John. Probabilmente l'ha dimenticata qui un
giorno in cui era di fretta.»
Sentendo
il suo tono impassibile Emily si alzò, decidendo di fermarlo prima che potesse
fare qualcosa di sconsiderato. Raggiunse il divano con fare sicuro e tese la
mano in direzione di Sherlock «Ok, dammi la pistola» disse, cercando di apparire
il più ferma possibile.
Di
tutta risposta lui le lanciò un'occhiata infastidita. «Perché mai?»
«Vorrei
evitare che ti metessi a sparare per casa, ecco perché. Non credere che mi
siano sfuggiti i fori sparsi sulla parete. Ho capito che sono stati causati da
dei proiettili e John non ha mai detto niente per convincermi del contrario.»
Si
sentì improvvisamente come la sorella maggiore alle prese con il fratello
piccolo e la cosa le procurò una strana sensazione.
«Non
sai neanche se la pistola è carica» le fece notare Sherlock.
«Preferirei
scoprirlo in un modo che non implichi necessariamente l'atto di dover sparare.
Ora dammela.»
Il
detective si puntellò sui gomiti, mettendosi poi a sedere, ma sempre rivolto
verso la parete alla destra del divano. Guardò
Emily con una sorta di sfida, senza muoversi, la pistola ancora in mano.
«Basta.
Dammela» riprese a dire la ragazza. Si fece forza e afferrò il calcio dell'arma
con la mano desta, con l'intenzione di strapparla all'uomo. Non si era, però,
aspettata la sua presa salda, sicura, al punto che i due si trovarono
reciprocamente a strattonare la pistola nella propria direzione finché, per
colpa di chi non furono in grado di stabilirlo, partì un colpo. La
deflagrazione spezzò l'aria, un suono sordo che fece sussultare Emily,
terrorizzandola. Liberò la presa dall'arma è si lasciò sfuggire un urlo per lo
spavento, allontanandosi inoltre da Sherlock e imprecando a gran voce per la
paura. L'uomo, invece, era fermo al suo posto, impassibile come se non fosse
successo nulla e ripercorse con lo sguardo la traiettoria del proiettile,
individuando il punto esatto in cui esso si era conficcato nel muro.
«Sei
impazzito?» urlò la ragazza in direzione di Sherlock.
Quest'ultimo
sollevò le sopracciglia. «Prego? Fino a prova contraria tu hai cercato di
strapparmi la pistola di mano. Se fossi stata ferma non sarebbe successo niente
di tutto questo.»
Emily
era pronta a replicare quando, dalle scale, sopraggiunse la voce di Mrs. Hudson:
«Che sta succedendo lì sopra?» domandò, preoccupata.
«Niente
Mrs. Hudson» risposero prontamente e all'unisono i due. Sentirono la donna
chiudere la porta del proprio appartamento e capirono di averla fatta franca
almeno per quel momento.
Si
scambiarono un'occhiata, seri. Alla fine, sentendo l'adrenalina scivolare via
insieme alla tensione, Emily scoppiò a ridere. Si lasciò andare a una delle
risate più disinibite che ricordasse da tempo, al punto che non riuscì a notare
lo sguardo perplesso lanciatole da Sherlock.
Quando
si fu risistemata il detective sentenziò: «Poi sarei io quello strano.»
Si
alzò dal divano e posò la pistola sul tavolino, borbottando un: «Tanto è
scarica» davanti allo sguardo della ragazza.
La
raggiunse alla scrivania – dove lei era tornata a sistemarsi – e osservò quello
che aveva raccolto da quando aveva cominciato a indagare sul caso. Lesse gli
appunti e i piccoli scarabocchi che lei aveva lasciato sugli angoli delle
pagine, scoprendo che aveva cominciato ad andare nella direzione giusta. Con
tutta probabilità avrebbe scoperto il colpevole entro sera.
Emily
cercò di ignorare la consapevolezza di avere Sherlock fermo alle sue spalle,
come se fosse stato il suo esaminatore dell'università. Si concentrò su quello
che aveva, convinta di essere vicino alla soluzione: avrebbe finalmente risolto
il suo primo caso da sola.
Tuttavia
non fu così. L'ingresso del 221B venne aperto da qualcuno, qualcuno che sia
Emily che Sherlock ebbero modo di poter identificare come John Watson non
appena lo sentirono salutare la padrona di casa passando davanti alla sua
porta. John salì le scale con calma, facendo cigolare a dovere i gradini e
infine entrò nel soggiorno dove incontrò il detective e la ragazza.
«Ciao»
li salutò.
Entrambi
risposero in modo distratto, concentrati sul lavoro di Emily.
«Avete
saputo l'ultima?» riprese poi John, provando ad avviare un discorso e
sentendosi inspiegabilmente di troppo in quel momento.
«Quale
ultima?» domandò la ragazza, improvvisamente incuriosita.
Il
medico parve rianimarsi. «Del Vice Primo Ministro. La minaccia di morte
gliel'ha scritta la domestica.»