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Autore: The Custodian ofthe Doors    03/03/2017    1 recensioni
Come si definisce l'importanza di un eroe? Le sue sole imprese possono dirci quanto esso sia stato grande?
Dalle azioni di un uomo si delinea il suo successo ed il ricordo che il mondo terrà di lui, le folli gesta di chi è stato designato come eroe ed è destinato all'immortalità.
Loro non sono altro che mezzi eroi invece, nessuno li ricorderà mai, non saranno i protagonisti di leggende fantastiche e racconti mozzafiato, nessuna canzone verrà composta e cantata alla vivace fiamma di un falò nelle notti stellate, nessun bambino desidererà mai esser come loro, ripercorrere i passi di chi ha lottato, ha sofferto ed è morto come semplice soldato senza poi ricevere la corona d'alloro.
Perché loro erano lì, ma questo non conta.
Loro erano solo Mezzi Eroi e sempre tali sarebbero rimasti.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Half Heroes


20. Will Solace- Punto di Rottura.


C'erano tre punti di raccolta per i feriti, tutti collegati da lunghi capannoni che fungevano da corridoi per il passaggio delle barelle, si stendeva dalla Casa Grande all'infermeria stessa, passando per un punto intermedio che era l'ospedale da campo. Erano tutti riuniti alla rinfusa, Romani e Greci, l'infermeria ospitava le sale operatorie e i ragazzi che vi erano appena usciti, nei piani superiori della Casa c'erano coloro che non ce l'avrebbero fatta, chi era spacciato e doveva solo attendere che Thanatos trovasse un attimo di respiro per giungere a dare anche a lui l'ultimo bacio, il più dolce e fatale.
L'ospedale da campo era un tripudio di ferite differenti, di malattie di ogni tipo, un continuo via vai di gente che portava altri feriti, che spostava corpi, che portava oggetti e medicinali, che portava acqua e cibo, assistendo tanto i pazienti quanto i medici.
Da quanto tempo era in piedi a lavorare? Dalla battaglia se non errava, quindi come minimo da due giorni. Non si era mai fermato, non aveva dormito se non quei due minuti che cadeva in coma su una sedia appena vi si poggiava sopra. C'era chi continuava a ripetergli che dovevano stabilire dei turni, che non potevano fare una tirata unica perché c'era rischio che la loro stanchezza facesse più danni che altro, ma Will, così come tutti suoi fratelli, ne era sordo.
Si asciugò il sudore con il dorso della mano, era stanco morto. Quella stupida battuta nella sua testa lo fece sorridere amaramente: c'era davvero chi era morto e quello non era lui.
Con un gesto automatico poggiò una mano sulla spalla di Nico e lo rispedì lungo disteso sul lettino, << Prova a muoverti di nuovo e questa volta ti do una botta in testa.>> non rimase neanche per sentire la sua replica, non lo guardò neppure, non ne aveva tempo.
Si districò nel labirinto di lettini e barelle che affollavano lo spiazzo coperto, lanciando occhiate a destra e manca, fermandosi di tanto in tanto a controllare qualche fasciatura e a cambiare bende. Scambiò due parole con i suoi fratelli, un ragazzo Romano, figlio di Apollo come loro, li avvertì che il loro pretore, pardon, ex pretore e nuovo Pontifex, voleva alzarsi a tutti i costi dal letto e andare ad aiutare, a scavare tra le macerie per cercare i superstiti.
Ancora una volta Will si ritrovò a piegare le labbra in un sorriso senza gioia: perché, c'era ancora qualcuno vivo? Aveva visto la lista che era stata stilata, tra feriti, morti e dispersi, il numero ammontava a duecento qualcosa, forse. Non ne era sicuro. Ma era così stanco.
Un pianto improvviso allarmò tutti i guaritori riuniti a fare il punto della situazione, una ragazzina singhiozzava disperata accasciata sul corpo di quello che forse era suo fratello, tutta l'attenzione si catalizzò su di loro e presto Will poté vedere più di una persona voltare lo sguardo e asciugarsi le lacrime: un altro, ne era morto un altro. Chi era, cosa avesse fatto, per che parte avesse combattuto, se avesse ucciso altri ragazzi, se aveva dei sogni o una famiglia, Will non lo sapeva, la sua unica certezza era che ne era morto un altro e lui non aveva potuto far nulla per salvarlo.
Un altro.
Quanti erano ora? Avevano superato il centinaio?
Nessuno si mosse, nessuno aveva la forza di toccarlo, quel fantoccio bianchiccio sporco di sangue.
Al limitare del suo campo visivo scorse dei ragazzi appena accorsi, qualcuno doveva averli chiamati perché avevano delle lettighe, ma non uno solo si mosse, soprattutto quando la ragazzina chiamò il nome del fratello morto e Will, così come tutti i greci presenti nella sala, lo riconobbero. Uno di loro, un figlio di Ermes di diciassette anni, che stava al campo da quando ne aveva nove, che tutti loro avevano conosciuto, con cui avevano parlato, combattuto, giocato, vissuto per un po' nell'illusione di poter avere una vita normale.
Poi una figura si mosse, facendosi strada tra tutti gli altri: Clarisse si avvicinò a Jenny e la scostò con una delicatezza inaspettata dal cadavere di David, la sostenne per le spalle e la fece sedere ai piedi della barella di un figlio di Atena che si allungò per sfiorarle una gamba e poi abbracciarla quando si lasciò cadere su di lui sempre più distrutta. Clarisse invece si voltò verso il corpo e solo allora Will registrò che non aveva una lettiga con sé, ma lei era Clarisse e il biondo già sapeva cosa avrebbe fatto. Si chinò su di lui e lo prese in braccio, sollevando quel peso morto come se fosse un bambino addormentato, facendogli poggiare la testa contro la sua spalla e quasi cullandolo nel suo ultimo viaggio verso la pira che avrebbero acceso quella notte.
Quanto sarebbe stata grande? Quanti corpi c'erano? Quanto avrebbe bruciato? Avrebbero mai smesso di ardere i loro fratelli?
La ragazza camminò nel completo silenzio dell'ospedale da campo, persino Jenny aveva smesso di piangere, svenuta per lo sforzo tra le braccia di qualcuno che, seppur ferito, non accennava ad abbandonarla, a lasciarla cadere, forse inconsciamente imitando la presa salda della figlia di Ares. Quando gli passò accanto l'occhio gli cadde sul fianco della giovane, la maglia mimetica completamente nera come buona parte della gamba sinistra, una ferita sicuramente, e ancora più sicuramente molto profonda e brutta. Eppure lei era ancora in piedi e spostava cadaveri che nessuno di loro voleva toccare, come nessuno di loro riusciva più a fare. Come non riusciva più a fare neanche lui, non avrebbe sopportato ancora per molto.
Era pallido, stremato, sporco di terra e sangue, sangue ancora fresco e non suo, ma dei pazienti che cercava di curare inutilmente, di tutti coloro che uscivano dalle sale operatorie improvvisate, dall'Infermeria che ormai non li conteneva più. Aveva voglia di urlare e piangere finché tutto non fosse finito, finché il dolore non lo avrebbe privato dei sensi e lasciato a terra svenuto, ed assieme alla stanchezza arrivò anche la botta di rabbia. Non riuscì a staccare lo sguardo dalla ferita della ragazza e quando lo fece, quando lei era ormai vicina alla porta, intercettò quello di Chris, che silenziosamente gli confermava quanto anche l'indistruttibile Clarisse stesse raggiungendo il punto di rottura.
A passo di marcia avanzò tra le barelle, i capelli sparati in ogni direzione, incrostati di gli dei solo sapevano cosa, gli occhi sgranati e cerchiati di nero lo facevano apparire inquietantemente simile ai tanti corpi che avevano bruciato; quando le parole eruppero dalle sue labbra screpolate erano forti e decise, intrise di quella rabbia sorda, cieca e ruggente che solo il dolore e l'impotenza sapevano dare.
<< Dovrai farti controllare anche tu prima o poi!>> Glielo urlò contro e Clarisse neanche si girò.
Non poteva fare così, lui già lottava ogni minuto contro chi si sporgeva oltre il baratro della morte, non poteva andar dietro anche a chi stava bene, a chi se la sarebbe cavata con una fasciatura ed un po' di riposo, standosene fermo e buono senza dover necessariamente fare il coglione e mettersi in lista anche lui per la sala operatoria, dovevano dargli una mano ad alzarsi, non a cadere ancora più giù. Non poteva farcela cazzo.
Chiuse gli occhi e si passò una mano sul viso, sotto i suoi polpastrelli pieni di tagli da lama, i graffi sulle sue guance gli fecero rimpiangere i giorni in cui solo un rasoio orientato nella direzione sbagliata per poter prendere ogni pelo di quella tanto agognata barba, di quel distintivo ed innegabile segno di maturità, del suo essere finalmente un uomo, poteva regalargli. Perché era ancora in piedi e non in un angolo a piangere, a lasciarsi scuotere dalle convulsioni che avrebbero sfogato tutta la tensione del suo corpo?
Oh, giusto, lui era un dottore. Era un guaritore, di quelli che non lottano in prima persona ma che lo fanno solo assieme agli altri, al paziente che incoraggi, a cui dici che non puoi farcela da solo, che se vuole vivere ti deve aiutare, deve dire al suo corpo di risvegliarsi e lottare, di mettere in moto gli anticorpi e riunire tutte le sue piastrine lì dove ce n'è bisogno, di avvisare i globuli rossi che c'è da fare i turni doppi. Ma alla fine neanche i combattenti se la stavano cavando meglio, tutti i suoi fratelli che con l'arco facevano magie e che avevano sulla coscienza non solo i semidei che non erano riusciti a salvare ma anche quelli che avevano ucciso loro sul campo. Per un attimo rimase congelato, c'era qualcuno in quella sala che aveva prestato cura a chi aveva ferito? C'erano ragazzi che si erano impegnati con la feroce spietatezza di un assassino ad uccidere il loro nemico per poi trovarsi pochi secondi dopo inginocchiato al suo capezzale cercando di salvarlo con la stessa foga con cui prima aveva affondato la lama nel suo corpo?
Il brivido che gli carezzò la schiena ebbe anche la forza di stringersi attorno al suo stomaco e fargli salire la nausea, aveva una voglia incredibile di vomitare e poi lasciarsi cadere a terra. Solo questo.
Solo questo.
Non riusciva a ricordarsi le dinamiche degli ultimi quatto giorni, o forse erano cinque? Se qualcuno fosse entrato in magazzino e gli avesse chiesto che medicinale aveva somministrato neanche mezzora prima a quel figlio di Efesto sarebbe stato in grado di dirgli solo che era qualcosa per calmarlo, che di sicuro quel ragazzo aveva bisogno di uno psichiatra, uno vero, e che avrebbe passato il resto della sua vita in preda ad attacchi di panico, come quella ragazza che saltava ogni volta che c'era anche il più piccolo scoppio, come quel ciocco nel fuoco delle pire, come quell'altro che aveva una crisi isterica tutte le volte che sentiva pronunciare “serrate i ranghi” la frase che i centurioni romani avevano ripetuto per tutta la guerra, prima contro di loro poi contro i giganti. E probabilmente lo psichiatra sarebbe servito anche a lui. Ma non aveva tempo, non ora per lo meno, lo avrebbe trovato dopo, quando tutto si sarebbe calmato. Forse.
Prese un respiro profondo e cercò di concentrarsi, di ricordare cosa stesse facendo in magazzino, cosa cercasse, ma i suoi occhi vedevano solo macchie sfocate ed indistinte. Li strinse forte e si stropicciò la faccia con le mani martoriate. Gli serviva solo un attimo per riprendere fiato, la verità era questa, era andato lui a cercare chissà cosa solo per poter staccare un attimo, aveva operato per sei ore solo il giorno precedente e non ricordava più come fosse sdraiarsi su un letto e, a dirla tutta, non sapeva neanche se voleva ricordarlo, ultimamente tutte le persone che vedeva farlo, che vedeva adagiate su un qualcosa di simile ad un giaciglio erano ferite, gravemente ferite, in procinto di morire o direttamente morte. Forse avrebbe avuto problemi con i letti per un bel po' di tempo dopo di quello.
Il rumore delle porte di legno, il cigolio di quei cardini vecchi, lo sfiorò a mala pena, lasciando entrare i rumori dell'infermeria che prima teneva magnificamente occultati. Però, la sua stanchezza gli giocava proprio brutti scherzi, gli pareva quasi di sentire delle risate.
<< Eccoti!>> Si richiuse, tornò il silenzio.
Will girò appena la testa, assicurandosi di aver riconosciuto la voce e la sua proprietaria, si voltò poi verso di lei, poggiando la schiena agli scaffali. I suoi reni esultarono per quel minuscolo sostegno.
<< Non dovresti entrare nel magazzino, c'è un motivo per cui a voi e ai figli di Efesto è vietato.>>
Rimproverò blandamente, senza eccessiva convinzione ma con un tono neutro ed apatico che delineava il suo stato d'animo. Ma Clarisse neanche se ne curò, fece un passo avanti con quel suo sorriso beffardo, quel ghigno che Will aveva imparato a conoscere e riconoscere in tutte le sue versioni e sfumature. E in quel momento sembrava soddisfatto, come se fosse riuscita a fare qualcosa per gli altri impossibile.
Come quando prese a pugni i suoi fratelli e divenne la capo cabina.
Un pensiero stupido, appartenente ad una vita fa, che Will non sapeva neanche se fosse la sua di vita o quella di un altro, letta da qualche parte. Eppure il ghigno era proprio quello, che urlava “ce l'ho fatta, è tutto merito mio” ed in effetti, questa volta glielo poteva concedere.
<< Dettagli, non facciamo più le bombe con le soluzioni alcoliche da anni. >> perché, lei lo ricordava ancora cosa facevano prima della guerra? << E poi sono quelli della undici che non possono entrare, a noi è stato revocato il divieto.>> Un altro passo, le mani sui fianchi, il petto gonfio d'orgoglio.
Aspettava palesemente che Will le chiedesse cosa ci fosse, perché lo stava cercando e così l'accontentò.
<< Cosa devi dirmi Clarisse? E' successo qualcosa?>>
Il sorriso, sorriso vero, che si aprì sul volto ancora sfregiato della ragazza illuminò tutto il magazzino semibuio, una luce così accecante che Will non poté far a meno che paragonarla ai primi raggi che suo padre lanciava sulla terra dopo ogni notte, che sapevano di rivalsa, di nuovo, di vita, di speranza.
<< Sono finiti.>>
Non comprese subito il significato di quelle parole, non capiva cosa fosse finito ma ironicamente si disse che di certo lui e tutti gli altri guaritori erano “finiti” da un bel pezzo.
Clarisse parve capire la sua confusione e sorrise ancora di più, alzando il mento in altro, verso il cielo e gli Dei.
<< I dispersi, sono tutti finiti, ho trovato l'ultimo un'ora fa. Non c'è più nessun altro da cercare, li abbiamo trovati tutti. Questa sera si accende l'ultima pira.>>
E si, era proprio orgoglio quello che ribolliva nella voce della ragazza, quel tono marcato su quel “ho trovato”. Lo aveva fato lei, ovviamente, Will non aveva dubbi che lei fosse rimasta una dei pochi ancora con la forza di scavare e con i nervi abbastanza saldi da non impazzire davanti all'ennesimo cadavere.
Quella sera avrebbero acceso l'ultima pira...non poteva crederci… e prima che potesse anche solo metabolizzare l'informazione la voce dell'altra risuonò ancora nell'ambiente.
<< E non solo. Stanno smontando le sale operatorie aggiuntive, quelle standard che abbiamo sono più che sufficienti.>>
Silenzio.
Non c'erano più dispersi, non c'erano più cadaveri da cercare, non c'era più nessuno che attendeva sotto le macerie, si sarebbe accesa l'ultima pira e se le altre sale venivano smontate significava che non c'era più un numero così elevato di pazienti che rischiavano l'arresto respiratorio o cardiaco da un momento all'altro, che non dovevano più essere portati d'urgenza sotto i ferri per richiudere ancora quella ferita, bloccare l'ennesima emorragia. Significava che nessuno si aspettava più di dover operare più di due ragazzi.
Non era finita, no che non lo era, ma ne stavano uscendo, ne stavano uscendo davvero.
Le gambe gli si fecero più molli di quanto non lo fossero da troppo tempo, i muscoli stremati ricevettero l'informazione dal cervello, non c'era più bisogno di restare rigidi e sull'attenti, in attesa delle grida strazianti di qualcuno che stava morendo, non c'era più bisogno di economizzare l'energia e prenderla da dove non c'era, inventarsela pur di restare in piedi. Le rotule tremarono nella loro sede, così come la sua spina dorsale, la fascia renale cominciò a lanciargli tante di quelle stilettate che avrebbe visto bianco se solo anche le sue retine non avessero deciso che vedere non era più necessario, che rischiare di bruciare come una pellicola cinematografica non era necessario. La salivazione aumentò di botto, così come diminuì il suo controllo, i polmoni cominciarono ad accartocciarsi e allargarsi spasmodicamente, la gola si contrasse e gli impedì di emettere qualunque suono, mentre un ronzio si impossessava delle sue orecchie ed i polpastrelli delle mani formicolarono togliendogli il tatto.
Ne stavano uscendo, che non era come dire che era finita, ma era un inizio.
L'ultima pira, nessun disperso, nessuno che rischiava di morire ogni secondo.
Se non fosse stato in quelle condizioni avrebbe sentito il suono delle suole di plastica delle scarpe che fanno presa sul pavimento, schiacciate al suolo dalla forza dei muscoli delle gambe di qualcuno che invece non si dava pace per evitare di crollare come stava facendo lui ora; avrebbe sentito il leggero ringhio di Clarisse quando si era buttata sulle ginocchia in scivolata per prenderlo al volo e non farlo franare a terra. Quello era il suo limite: Will si era trattenuto per quasi due settimane, altro che sei giorni come credeva lui, aveva stretto i denti e si era imposto di non mollare mai, finché ce ne fosse stato bisogno, finché qualcuno, anche solo una persona, avrebbe avuto bisogno di lui. Ed ora che i Romani se ne stavano andando, ora che tutti erano più o meno stabili, Will poteva finalmente soffrire come tutti gli altri, come non aveva potuto fare perché “ lui era un medico e doveva mantenere la calma e la lucidità, dare speranza a tutti i suoi pazienti e i loro famigliari”.
Lasciò che Clarisse lo stringesse a sé, le si aggrappò alla maglia, alle spalle, alle braccia piene di tagli ma senza neanche una benda. Sprofondò il volto sul suo petto, nella piega del collo, disperato e distrutto, singhiozzando in preda a spasmi e convulsioni che si era ironicamente autopredetto e che ora lo scuotevano dal profondo del suo torace, per andare a rimbombare in quello della figlia di Ares che, silenziosa, semplicemente lo stringeva e lo cullava, incurante di potergli fare male, consapevole che in quel momento l'importante era sentire che qualcuno c'era, che non si era soli, che un appoggio per non affogare era lì per noi ed era solido, vero, non l'effimera speranza di un folle sopravvissuto.
Ed improvvisamente tutti i ricordi che la sua mente aveva accantonato per permettergli di continuare a lavorare tornarono prepotenti nella sua mente: la preparazione, la ronda, l'arrivo di Nico, della statua, i Romani che li avevano aiutati, i canti di guerra, i proiettili di fuoco, le catapulte, le grida, il rumore delle armi e la terra che tremava. Quando era corso al campo e si era ritrovato a doversi difendere da altri ragazzi, da mostri, dai Giganti senza sapere se sarebbe sopravvissuto.
Ora sentiva tutta la paura di morire e lui non voleva. Glielo disse, lo singhiozzò a Clarisse che lo strinse ancora di più e gli rispose che non sarebbe successo, che era passato, con quella sua strana voce gentile e bassa, un po' impacciata forse, maledettamente sbagliata su di lei perché era una figlia di Ares e non avrebbe dovuto consolare nessuno. E quando lo avevano chiamato per curare il primo ferito grave? Simon, un figlio di Demetra che gli era morto tra le braccia, o meglio, con un suo braccio infilato nell'addome per toglierli una scheggia di proiettile. Non lo aveva salvato, la doccia fredda non era riuscita a sfiorargli neanche le spalle prima che arrivasse qualcun altro, urla disumane, due ragazzi in armatura ne sostenevano un terzo a cui era stato strappato un braccio. Non aveva salvato neanche lui, aveva perso troppo sangue e loro non potevano fagli una trasfusione, non in quel momento, non sul campo, e lui era morto mentre gli cauterizzavano la ferita con un ramo infuocato proprio da un colpo simile a quello che aveva ucciso Simon. Uno dopo l'altro, ne erano arrivati troppi e lui non ne aveva slavati altrettanti.
E Clarisse gli disse che lo sapeva, che non era colpa sua, che sapeva che non ce l'avevano fatta, che loro guaritori erano troppi pochi. Che doveva solo sfogarsi, che aveva fatto il possibile ma che non sempre, quasi mai, il possibile era sufficiente.
Urlò come avevano urlato tanti dei suoi pazienti, disperato e straziato, sollevato che stesse finendo, distrutto perché significava che non avrebbero mai potuto riportare indietro i caduti, tutte quelle povere anime, quei poveri bambini morti. Lo sentiva, il dolore fisico dell'incompetenza, dell'inadeguatezza, dell'impotenza. Era solo un figlio di Apollo, ma ancora di più, era solo un ragazzino di diciassette anni, ne avrebbe fatti diciotto ad Agosto, ne avrebbe fatti -futuro- diciotto ad Agosto, ma tanti altri non avrebbero più festeggiato il proprio compleanno, non avrebbero più riso e pianto come stava facendo lui, niente più sofferenze e gioie, niente più vita.
Non li aveva salvai, non c'era riuscito, non era un buon arciere, un buon combattente… non era neanche un buon guaritore.
Pianse aggrappato all'amica, perché si Clarisse poteva fare la dura quanto voleva ma era sua amica e basta, per un tempo che gli parve infinito, fino a consumarsi le corde vocali e finire le lacrime. Si ritrovò stremato e mezzo incosciente, senza riuscire a tenere gli occhi aperti, abbandonando tutto il suo peso morto sul Clarisse, sicuro che l'avrebbe sorretto come aveva fatto con tutti quei feriti, con tutti quei morti. Chissà quanti ne aveva sollevati, se lui pesava come qualcuno di loro, se sopportare il suo peso le ricordava qualche corpo in particolare e se si fosse stancata di sentirsi schiacciata dalla pressione di un ennesimo essere privo di sensi. Stava quasi per scivolare nel baratro dello svenimento quando un ultimo barlume di coscienza gli lanciò nella mente un'ennesima domanda: per lui la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato l'annuncio dell'amica, ma per lei cosa sarebbe stato? Ebbe il tempo di preoccuparsi per questo, di realizzare che se lui aveva passato come minimo mezz'ora a piangere, tremare, dimenarsi ed urlare in preda ai nervi ormai a pezzi, Clarisse forse avrebbe fatto anche di peggio perché lei era così stupida da trattenersi ancora per mesi e mesi prima di scoppiare.
<< Ci sono… ci sono anch'io per te.>> gli soffiò piano, le palpebre tremule che gli mostravano un'immagine sfocata dell'amica, il volto non più fiero ed orgoglioso ma cinereo e tirato, un frammento di ciò che era dentro lasciato scappare fuori.
<< Lo so, ma non ce n'è bisogno. Pensa solo a riposare, non sei utile a nessuno così.>> Quella era la cosa più dolce e sentimentale che Will potesse aspettarsi e fu anche l'ultima cosa che sentì prima di lasciarsi andare come aveva visto fare a troppe persone ma mai come fecero loro.
Quello era stato il suo limite, il suo sfogo.
Il giorno dopo sarebbe andato di persona a cercare Clarisse, a ringraziarla per avergli dato la notizia in privato, realizzando che lei doveva aver intuito quella sua reazione; la trovò che raggruppava con un rastrello le ceneri delle pire di quella notte, a sentir lei era tutto normale, aveva ottenuto il permesso di chiamare i famigliari dei feriti e farli venire a prendere, per portarli a casa e avere un po' di pace, poi sarebbe andata a trovare tutti i genitori dei caduti e lo avrebbe fatto anche da sola se nessuno avesse avuto le palle per accompagnarla. Will aveva ascoltato tutto in silenzio, annuendo alle volte, se voleva l'avrebbe accompagnata lui ma prima doveva farsi medicare.
Erano fermi sotto il portico distrutto del padiglione del teatro, Will fasciava con lentezza ed accuratezza i tagli e le ferite di Clarisse, alcuni addirittura infetti, quella cretina aveva come al solito esagerato. La rimproverava e si lasciava rispondere male, lasciava che parlasse a sproposito e a vanvera, consapevole che quello invece era il suo di modo di sopportare tutto, di togliere acqua alla sua brocca per evitare che una goccia la facesse straripare.
Cercando i riprodurre la normalità, di imitare quei gesti e quelle dinamiche di una vita fa, Will cercava anche di evitare che la sua amica si spezzasse come aveva fatto lui, anche se in fondo sapeva che, come tutti gli altri, già lo era dentro e forse da molto prima di tutti loro.
Perché in fondo erano umani, erano solo dei ragazzini e come tali avevano tutti quanti i loro limiti, quel confine labile che divideva la forza dal dolore, la perseveranza dall'ossessione, la tenacia dalla pazzia, e forse la Dea Bendata era troppo straziata da quello scenario per concedergli il suo favore, per impedire ad un ennesima anima di raggiungere il punto di rottura da cui mai nessuno è in grado di riprendersi completamente.

   
 
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