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Autore: lady lina 77    09/03/2017    1 recensioni
Cosa sarebbe successo se Demelza, dopo il tradimento di Ross, se ne fosse andata di casa?
Dopo la lite furiosa fra i due in cui ha rovesciato ogni cosa dal tavolo, urlando al marito tutta la sua rabbia, Demelza decide che non ha più senso rimanere a Nampara, con un uomo che non la desidera più e che sogna una vita con un'altra donna.
Prende Jeremy e Garrick, parte per Londra e fa perdere le sue tracce al marito, ricominciando una nuova vita lontana da lui e dalla Cornovaglia.
Come vivrà? E come la prenderà Ross quando, al suo ritorno da Truro, non la troverà più a casa?
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tornare a Trenwith gli faceva uno strano effetto. Le ultime volte che era stato in quella dimora, la sua vita aveva preso una pericolosa deriva e aveva perso tutto quello che di caro aveva al mondo.

Si fece annunciare, c'era un sommesso via vai nel salone. Chi per affetto, chi per semplici relazioni d'affari, erano tutti lì a porre l'ultimo saluto ad Elizabeth Warleggan.

Ross entrò nel salone principale, deglutendo. Era tutto così diverso da come lo ricordava, quella era la casa della sua infanzia, dove scorazzava con Francis, chiacchierava con lo zio Charles che spesso rimproverava lui e suo padre per la loro condotta e poteva vedere ancora, con un po' di immaginazione, zia Agatha seduta al tavolo, intenta a fare i tarocchi. Era tutto cambiato da allora, c'erano gli stemmi dei Warleggan alle pareti adesso e l'atmosfera sembrava cupa e rarefatta. Di ciò che era stata quella casa, dei ricordi della famiglia Poldark che si portava appresso, pareva non essere rimasto più niente.

L'ultimo Poldark, Geoffrey Charles, era stato allontanato e mandato in collegio e ora se n'era andata anche Elizabeth che comunque rimaneva la vedova di Francis e in un certo senso un legame con la famiglia.

Sfiorò con le dita la superficie fredda del grosso tavolo del salone, sentendosi a disagio. La morte di Elizabeth, giunta come un fulmine a ciel sereno, era un'ulteriore chiusura con un passato che non esisteva più. Era una storia finita già da molto ma ora trovarsi lì, in quell'ambiente famigliare e allo stesso tempo sconosciuto, gli dava l'ulteriore conferma che i tempi erano cambiati e che la sua vita, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere proiettata su altro. Aveva una moglie a casa, che amava più della sua stessa vita e che aveva lasciato a malincuore quella mattina, perché indisposta. E due bambini meravigliosi che lo rendevano un padre fiero e orgoglioso. Non chiedeva altro, non voleva altro! Ma Demelza aveva ragione, doveva fare quell'ultimo passo per chiudere quel capitolo della sua vita e benché fosse doloroso e penoso, sapeva che andava fatto.

George scese le scale, raggiungendolo nel salone. Era pallido, sofferente e di certo prostrato dalla morte della moglie. Per quanto lo odiasse, in quel momento avvertiva il suo dolore come qualcosa di autentico. "Sono venuto a porgere le mie condoglianze, George" – disse, sforzandosi di essere gentile.

Il suo acerrimo nemico, annuì. C'era rabbia nel suo sguardo, astio mentre lo guardava. "Ross, è molto che non ci si vede! Ultimamente sono abituato a trattare di più con vostra moglie mio malgrado, come ben sapete".

Ross sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Anche in quelle circostanze, George non riusciva a non essere acido. Ma decise di essere accomodante, non doveva essere un momento per niente facile per lui, aveva appena perso sua moglie e si era ritrovato solo con due figli piccoli, di cui una nata da poche ore. "Credo che non sia il momento di pensare al consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank, giusto?".

George annuì di nuovo, continuando a guardarlo in cagnesco. "Siete venuto a fare visita, Ross?".

"Sì".

"Non è un bello spettacolo, vi avverto".

Ross scosse la testa, irritato. "Non lo ritengo uno spettacolo ma piuttosto un qualcosa di pietoso. La morte di una persona giovane è sempre una disgrazia".

"Soprattutto quando quella persona giovane è stata un nostro antico amore, vero? O forse non così antico come si vuol far credere...".

Ross sospirò, deciso a non cogliere la provocazione. "Chiunque sia stata, rimane sempre una tragedia".

George gli indicò le scale. "Andate, la strada immagino che la sappiate di già. Oggi tornerà anche il vostro amico dottore che magari è pure responsabile di quanto successo".

A quell'accusa non troppo velata, Ross si voltò verso di lui, piccato. "Dwight è un ottimo medico e sia io che voi sappiamo che non ha colpe di quanto successo. La causa la sa solo Elizabeth e suppongo che si sia portata il segreto con se e che non lo sapremo mai. Incolpare persone innocenti non ve la riporterà indietro". E detto questo, si avviò verso le scale senza aspettare una risposta.

Gradino dopo gradino, raggiunse il piano superiore, percorrendo quel corridoio che aveva visto mille volte e che conosceva a memoria.

Davanti alla camera matrimoniale, due uomini sostavano parlottando. Li riconobbe sommariamente, dovevano essere cugini di George. Beh, non gli importava, li superò ed entrò nella stanza. Dovette fermarsi a pochi passi dall'ingresso, però. Un odore nauseabondo, come di un cadavere in decomposizione, impermeava l'aria nonostante la finestra fosse aperta. Non c'era nessuno nella stanza, eccetto lui. Si mise un fazzoletto sul naso e, a piccoli passi, pieno di angoscia e terrore, si avvicinò al letto.

Lei era lì... E non era più lei. "Che cos'hai fatto?" - le chiese, sapendo che non avrebbe mai potuto rispondergli. Gli si strinse il cuore al vederla consumata, con la pelle bluastra, con quell'espressione sofferente impressa indelebilmente nel suo viso. Dwight gli aveva detto che era stata una morte atroce e non dubitava di quanto gli aveva raccontato. Elizabeth era la visione fatta persona della sofferenza, del dolore, del male che ti fa gridare senza speranza di sollievo.

Era la ragazza che aveva amato da giovane, il suo primo idealizzato amore, quello che per tanti anni aveva tormentato la sua anima e il suo cuore impedendogli di vedere pienamente il tesoro di moglie che aveva accanto.

Ricordava tutto di lei, anche se ormai gli appariva come un'estranea. Ricordava il loro primo incontro, le innocenti promesse prima che lui partisse per la Virginia, il dolore provato quando si era sposata con Francis, il modo in cui si era sentito tradito e nonostante tutto avesse continuato ad amarla. Ricordava quella notte terribile, dove rancore e passione si erano fusi nel più grande errore della sua vita e di come poi si fosse sentito confuso, alla deriva, senza nessun appiglio a cui aggrapparsi. Aveva fatto un torto a lei, oltre che a Demelza, quella volta. E si chiese se, a distanza di anni, quell'errore non avesse provocato la morte della donna che aveva davanti.

Ma in fondo era inutile pensarci, darsi delle risposte. Era morta, solo questo contava. Elizabeth non c'era più e non sarebbero più esistiti per lei un futuro, la maternità, giornate belle intervallate a giornate brutte, il veder crescere i suoi figli, vederli farsi uomini e donne e realizzarsi nella vita. Era morta e per sempre, in tutti, sarebbe rimasta immutabile nella sua giovinezza mai sfiorita.

Non l'amava più da tanto e forse non l'aveva mai amata di quell'amore con la A maiuscola che viveva con Demelza, ma in quel momento non poteva dire di non provare un sentimento di affetto unito a pena e rammarico per ciò che era stata e per ciò che non avrebbe mai più potuto essere. Si tolse il fazzoletto dal naso e, nonostante la puzza, si chinò su di lei, baciandola sulla fronte. "Addio Elizabeth... Buon viaggio" – disse, trattenendo a stento le lacrime e la sua commozione.

Si allontanò poi dal letto, le diede un'ultima occhiata ed uscì a passi spediti dalla stanza. Era stato difficile, penoso, aveva bisogno di una boccata d'aria. Ma in un certo senso averlo fatto, esserci stato, lo faceva sentire più leggero. Sua moglie aveva ragione, lo doveva ad Elizabeth e lo doveva a se stesso quell'addio.

In lontananza, nel corridoio, sentì la neonata piangere. Incuriosito, forse desideroso di ritrovare in lei tratti di Elizabeth che in un certo senso l'avrebbero fatta vivere ancora in un certo senso, si avvicinò. Ma a un certo punto dovette fermarsi perché, in una delle stanze del corridoio, vide qualcosa che attirò negativamente la sua attenzione.

Un bambino dell'età di Clowance, dalla testolina piena di capelli ricci e neri, se ne stava tutto solo nella sua stanza, seduto per terra sul tappeto, intento a ordinare dei soldatini giocattolo. Ross ricordò di quanto Demelza gli aveva detto di Valentin, dei suoi dubbi circa la sua paternità e di quanto lui aveva affermato per tranquillizzarla. Quel giorno non gli aveva mentito, non sentiva Valentin come un figlio, nemmeno ora che lo aveva davanti per la prima volta. Tutto quello che i suoi occhi vedevano era un bambino piccolo, col cuore a pezzi, lasciato solo nel suo dolore e senza nessuno accanto a dargli una parola di consolazione. Pensò ai suoi bambini e a come sarebbero stati disperati se avessero perso la loro mamma e gli venne una fitta al cuore a quel pensiero che scacciò subito dalla mente. Però avrebbe voluto fare qualcosa per lui, nonostante tutto, entrare, cercare di distrarlo, parlargli, magari giocare un attimo con con quei soldatini. Ma non poteva farlo, per Valentin lui era uno sconosciuto e di certo avrebbe mal tollerato la sua presenza in un momento del genere.

Una cameriera che giungeva dalla camera dove aveva sentito i vagiti della piccola Ursula, venne in suo aiuto, togliendolo dall'imbarazzo. Conosceva quella donna, era stata tanti anni al servizio di suo zio Charles, prima dell'arrivo dei Warleggan in quella dimora. "Signora Tabb, potete venire per favore?".

La donna spalancò gli occhi nel vederlo, decisamente sorpresa. "Signor Poldark, sono anni che...".

Scosse la testa, non era tempo di convenevoli. Indicò il bimbo che, incurante, con fare meccanico allineava e buttava a terra i suoi soldatini. "Perché quel bambino, in un momento del genere, è lasciato solo? Santo cielo, che qualcuno gli dia retta, ha appena perso la madre!".

La signora Tabb annuì, intimidita dal suo tono. "Si... Si signore! Ma mister Warleggan ha detto di non perdere d'occhio la piccola Ursula e io non riesco a...".

"Ursula ha una balia, immagino! Una volta nutrita e pulita, non ha particolari esigenze, è una neonata. Ma quel bambino capisce e soffre, prendetevene cura!". Lo disse come un ordine, senza ammettere repliche, fregandosene del fatto che quella ormai era la casa di George e che lui non poteva dettarvi regole. Non poteva fare altro per Valentin se non quello. Non era suo padre, nonostante tutto, nonostante forse i legami di sangue, quel bambino era e sarebbe sempre stato di George. E George avrebbe dovuto prendersene cura!

Diede un'ultima occhiata al piccolo, chiedendosi se lo avrebbe rivisto. Poi, con un sospiro, scese dalle scale, si mise il tricorno in testa e senza salutare nessuno, lasciò Trenwith. Vedere Elizabeth in quello stato gli aveva messo addosso una strana ansia e urgenza di tornare a casa. Demelza quella mattina non stava bene e lui non vedeva l'ora di vederla per accertarsi che il suo malessere si fosse risolto. Galoppando, si rese conto che aveva paura, un terrore folle che qualcosa di improvviso e sconosciuto potesse portargliela via. Aveva già provato il dolore di perderla e non era in grado di immaginare di sopportarlo di nuovo, soprattutto con la consapevolezza che forse sarebbe stato per sempre. Non pregava spesso ma mentre tornava a casa chiese a Dio di proteggere sua moglie e i suoi bambini. Non gli importava di nient'altro, solo che loro stessero bene.

Arrivò a casa che pioveva, l'acqua era ghiacciata e punzecchiava il suo viso in maniera fastidiosa. Il cielo imbruniva e, nonostante fosse ancora relativamente presto, sembrava già sera. Quando entrò in casa, trovò i bambini che disegnavano nella libreria e Prudie e Jud in cucina, a preparare lo stufato. "Dov'è Demelza?" - chiese, con urgenza.

Prudie guardò verso le scale, continuando a rimestare il brodo. "Ha mangiato quasi nulla a pranzo e poi si è messa a letto. Non si è ancora svegliata ed è andato Jud a prendere il signorino a scuola".

Ross si accigliò, gli si contorse lo stomaco. Non era da Demelza rifiutare il cibo e soprattutto non era da lei dormire così tanto. Era sempre piena di energie, insancabile, infaticabile e sì, a tutti poteva capitare una giornata storta ma in quel giorno tutto lo rimandava a pensieri foschi.

Diede un bacio ai bambini e poi corse in camera, da lei.

La loro stanza era avvolta dalla penombra, l'acqua picchiava furiosamente sulla finestra e il camino scoppiettava senza sosta, regalando calore all'ambiente.

Si avvicinò al letto, si sedette accanto a lei che, col viso sereno, dormiva avvolta in una coperta di lana. "Demelza?".

La donna aprì gli occhi, assonnata, gli prese la mano e la strinse, incrociando le dita alle sue. "Sei tornato! Com'è andata?".

Ross alzò le spalle. "Suppongo... nel modo in cui va sempre, quando si va a far visita a un morto. Una cosa penosa, non so che altro dire" – concluse, mentre l'immagine del corpo senza vita di Elizabeth gli attraversava dolorosamente la mente. "Credo che Dwight abbia ragione, non è morta di cause naturali e nemmeno per complicanze del parto, era così... diversa... Dagli altri morti che ho visto, intendo".

Demelza si mise a sedere e lo abbracciò, cingendogli il collo con le braccia. "Mi dispiace" – sussurrò, sprofondando il viso nel suo petto.

Ross le accarezzò i capelli, piano, baciandola sulla fronte. "Sto bene e anzi, avevi ragione! Dovevo farlo, dovevo andare. Ora mi sento più leggero per quel che riguarda Elizabeth. Ma...".

"Ma cosa?".

Ross sospirò. "Sono preoccupato per te. Che cos'hai? Io domani faccio venire Dwight a visitarti e non voglio obiezioni".

"Non sono malata, te lo posso assicurare".

"Davvero? E allora perché hai questi mal di stomaco e queste nausee ricorrenti? E perché te ne stai a dormire da ore?".

Demelza rise. "Ross, me lo hai detto tu di riposare".

Scosse la testa, non aveva davvero voglia di scherzare. "Io domani chiamo Dwight" – ripeté.

"Non è necessario".

"Demelza!".

Sua moglie si appoggiò allo schienale del letto, guardandolo pensierosa. Poi, con un sospiro, gli riprese la mano. "Ne parleremo fra qualche giorno, Ross. Oggi non è il caso".

"Parlare di cosa?".

"Del mio malessere".

Ross le si avvicinò, sfiorandole il fianco con la mano. "Demelza, dimmi che sta succedendo perché sai, io ho appena visto una giovane donna morta e in questo momento vorrei avere la certezza che la donna che amo sta bene ed è in salute. Sai, guardavo Elizabeth e attraverso lei io pensavo a te e a come mi potrei sentire se ti perdessi".

Demelza impallidì a quelle parole, tremando lievemente. "Che cosa ti salta in mente?".

"Può succedere ad ognuno di noi, da un momento all'altro. Come è successo per Julia. E io non sono pronto, non lo sarò mai, non posso affrontarlo di nuovo".

"Ross...". Demelza sospirò sorridendogli dolcemente. Gli accarezzò la guancia solcata dalla cicatrice, gentilmente e lentamente. "Non puoi aver paura di questo perché ciò che temi un giorno succederà e noi non potremo farci niente. E' l'unica certezza che abbiamo, la morte. Ma non succederà oggi, non qui. Elizabeth è morta per qualche assurdo motivo, ben prima che potesse essere la sua ora, lo hai visto tu stesso. Ma noi siamo qui, siamo vivi e siamo una famiglia unita e felice e l'unica cosa intelligente e saggia che tu possa fare è godere di questo, giorno per giorno, gustandoti le piccole cose che rendono la nostra vita degna di essere vissuta e che la arricchiscano di ricordi che ci accompagneranno per tutta la nostra esistenza. Non puoi cambiare il nostro destino e la nostra condizione di esseri umani ma una cosa puoi farla, per te stesso e per chi ami: lottare perché tutti noi siamo sempre felici ed uniti, solo questo conta. L'amore".

Ross sorrise. Era così incredibilmente saggia e sapeva sedare le sue paure e il suo animo con poche e semplici parole. Solo lei avrebbe potuto farlo, solo lei era la donna giusta per stargli accanto tutta la vita. E aveva ragione, doveva lottare perché fosse sempre serena, felice e si sentisse amata. "Credo che tu abbia ragione, forse oggi sono solo un po' scosso. Ma resta il fatto che, seguendo quello che hai appena detto, io domani faccio venire qui Dwight".

A quel punto, mascherando un sorriso, Demelza prese la sua mano, appoggiandosela sul ventre. "Non sono malata, semplicemente ce l'abbiamo fatta".

Ross la guardò e per un attimo non capì più nulla. Guardò lei, guardò il suo ventre perfettamente piatto e poi ancora lei. Non ci speravano nemmeno più, non ci pensava da tanto, era l'ultimo dei suoi pensieri e ora... "Sei incinta?" - chiese, spalancando gli occhi.

"Sì. Volevo dirtelo in un altro momento ma non hai lasciato scelta. Non devi preoccuparti, è tutto normale, sto bene. E sono felice".

Col fiato che gli moriva in gola, la guardò. Lei era felice. E lui era terrorizzato! Era contento, certo, di una gioia che aveva quasi timore a far esplodere perché soffocata da mille paure per lei, per il bambino, per tutto... Ma le avrebbe messe da parte perché sapeva quanto Demelza lo avesse desiderato e quanto ci avesse sofferto, mese dopo mese, quando le sue speranze si infrangevano senza apparenti spiegazioni. L'aveva vista piangere per questo e aveva cercato di consolarla in mille modi, dicendole che in fondo avevano già due figli stupendi e che la loro famiglia sarebbe sempre stata completa così com'era. La baciò sulle labbra, deciso a non lasciarla un solo istante. Si era perso tante cose di Jeremy e non aveva vissuto la gravidanza e la nascita di Clowance. Quel bambino che si stava facendo strada in loro avrebbe pareggiato i conti col suo senso di colpa e con le sue mancanze passate. "Avevi ragione poco fa! Non posso temere la morte o ciò che puo' riservarci il destino, questa casa è piena di vita e l'unica cosa intelligente che posso fare è esserne contento".

Demelza sorrise e gli parve bellissima coi capelli sciolti, che le ricadevano disordinati sulle spalle.

"Sei felice davvero, Ross?".

"Felice, terrorizzato, preoccupato. Promettimi che andrà tutto bene, che starai bene. E che starà bene anche questo nuovo bambino".

Demelza rise, abbracciandolo. "Te lo prometto, anche perché non ho assolutamente intenzione di star male per tutta la gravidanza".

Ross rispose all'abbraccio, accarezzandole la schiena. "I bambini lo sanno?".

"No, non ancora. Volevo dirglielo assieme a te".

A quelle parole, Ross si alzò di scatto dal letto. "Bene, che aspettiamo allora?". Corse fuori dalla stanza e poi giù dalle scale, arrivando nella libreria come un tornado. Con foga prese i bambini in braccio e, incurante delle loro proteste, seguito da un Garrick scondinzolante, li portò in camera. "Bambini, io e la mamma dobbiamo dirvi qualcosa" – disse, appena fu davanti al letto.

Jeremy lo guardò stranito e poi si sedette sul letto, appoggiando il capo sulla spalla di Demelza. "Mamma, ti sei svegliata".

Anche Clowance saltò sul letto, sedendosi accanto a loro. Ross le si mise a fianco, mettendosela sulle ginocchia.

"Cosa dovete dirci?" - chiese la bimba, incuriosita.

Demelza si accarezzò il ventre, piano, guardando i suoi figli. "Presto avrete un fratellino. O una sorellina. Aspetto un bambino".

"Oh...". Clowance la guardò pensierosa, poi guardò Ross. "E dov'è? Quando arriva?".

Jeremy rise. "Ma che domande! Sta nella pancia di mamma, non sai proprio niente".

Ross accarezzò la testa del figlio, scompigliandogli i capelli. "Hei, non litigate o spaventerete questo povero fratellino che è appena arrivato fra noi".

"Dovrebbe nascere a fine anno, più o meno alla stessa data in cui sei nata tu, Clowance. Quando compirai cinque anni" – disse Demelza, rivolgendosi alla piccola.

A quelle parole, Jeremy scoppiò a ridere. "Ahah, Clowance! Ti ruberà il compleanno!".

Clowance si imbronciò e i suoi occhi divennero lucidi. "Io non lo voglio un fratellino. E nemmeno una sorellina! E non voglio nessuno che viene a rubarmi il compleanno. Mamma, papà, rimandatelo indietro".

Ross guardò Demelza in viso, trattenendosi dallo scoppiare a ridere. Clowance era sempre fantasticamente buffa e crescendo non era cambiata poi molto dal giorno in cui l'aveva conosciuta. "Beh, non è detto che nasca il tuo stesso giorno".

La piccola incrociò le braccia, arrabbiata. "Ma perché avete preso un altro bambino? Non vi bastavo io? C'è pure Jeremy, è abbastanza. Così adesso quasto qua nasce e io non sono più la tua principessa, papà".

Ross si addolcì a quelle parole. Capiva le sue paure, le sue perplessità e il timore di perdere lo scettro di cocca di papà. La prese fra le braccia, la strinse a se e la baciò sulla guancia. "Tu sei nata per essere la mia principessa e questo non cambierà mai!". Mise la mano sulla spalla di Jeremy, invitandolo a guardarlo in viso. "Sapete, quando ho sposato la vostra mamma, lei aveva solo me da amare. E se l'avessi pensata come voi, non sareste mai nati. Eppure abbiamo voluto avere dei bambini e sapete perché?".

"Perché?" - chiese Jeremy, mentre anche Demelza lo guardava, incuriosita da quel discorso.

"Perché sapevo che la mamma mi avrebbe amato lo stesso e che anzi, mi avrebbe amato ancora di più. Anche con cento bambini, non avevo paura che mi mettesse da parte e lei non l'ha fatto, come potete vedere. L'amore che proviamo per gli altri non si divide, puo' solo crescere e nascere in nuove forme per chi arriva dopo di noi".

Demelza annuì, sorridendogli. Accarezzò i lunghi capelli di Clowance e la bimba reagì avvicinandosi a lei e abbracciandola. "Ti giuro che non lo farò nascere nel giorno del tuo compleanno. Farò del mio meglio perché abbiate compleanni distinti, va bene?".

Ross la guardò scettico, divertito da quella promessa che di certo, benché fosse incredibilmente in gamba, non era in grado di mantenere con certezza. "Bambini, noi siamo contenti per questo bambino! E vorrei che lo foste anche voi".

Jeremy ci pensò su. "Io sono contento. Basta che, se è un'altra femmina, non ami il rosa come Clowance. Ne basta una in casa, così!".

Clowance gli tirò un'occhiataccia ma poi, con un sospiro non troppo convinto, annuì. "Si va beh, sono contenta SE non mi ruba il compleanno".

Ross rise, scopigliando i capelli di sua moglie. "Hai sentito? Sei responsabile del futuro rapporto fra Clowance e questo bimbo, vedi di impegnarti nel decidere il giorno giusto in cui metterlo al mondo".

"Lo farò".

Ross le sorrise, prese i due bambini per mano e li costrinse ad alzarsi dal letto. "Ora andiamo di sotto, la mamma aspetta un bambino e deve riposare".

Clowance annuì e Jeremy sorrise. La salutarono e Ross li accompagnò di nuovo sotto, da Prudie. Ma prima di lasciarli alle cure della serva, si sedette sull'ultimo gradino, fronteggiandoli. "Hei, facciamo un patto noi tre?".

"Quale patto?" - chiese Jeremy.

Ross sorrise. "La mamma ora è in un momento delicato e avrà bisogno di tutto il nostro amore e di tutta la nostra vicinanza. Dobbiamo starle vicino e farle sentire che le vogliamo ancora più bene, d'accordo? Avrà bisogno di noi, avere un bambino è una cosa bella ma anche tanto faticosa e difficile. Mi aiuterete a farla stare bene?".

Clowance annuì. "Sì. Io voglio bene alla mamma".

"Anche io! Certo che ti aiuto, papà" – ribatté Jeremy.

Ross accarezzò loro la nuca. "Sono davvero fiero di voi".

Li riaffidò a Prudie e poi, dopo aver intimato loro di non fare baccano, tornò da Demelza. Mentre erano via si era alzata e si era tolta gli abiti per una più pratica camicia da notte.

"Hai intenzione di stare a letto fino a domattina?" - le chiese, osservandola.

Lei rise, finendo di sistemarsi i capelli davanti allo specchio. "Potrei prenderci gusto, e stare a letto con la camicia da notte è più comodo".

Ross si sedette sul bordo del letto, guardandola. Era bellissima, i capelli le ricadevano morbidi fino alla vita, pieni di riccioli e boccoli, la sua espressione era serena e il suo colorito roseo. Era ancora magra ma non vedeva l'ora di vederla col pancione e godere insieme a lei di quell'attesa che non aveva saputo apprezzare con Jeremy e aveva perso con Clowance.

"Sei stato davvero bravo coi bambini, prima. Hai detto loro delle cose bellissime sull'amore! Non credevo che saresti diventato un tipo romantico" – gli disse, divertita, mentre si faceva una lunga treccia.

Ross rise, imbarazzato. "Non farci troppo l'abitudine".

Demelza gli si avvicinò e lui le sfiorò i fianchi, attirandola a se, affondando il viso contro il suo ventre e baciandolo con dolcezza.

"E' la prima volta che fai una cosa del genere" – sussurrò lei, accarezzandogli i capelli.

"Cosa?".

"Che baci la mia pancia quando sono incinta. Mi piace".

Alzò gli occhi su di lei, perdendosi in quel colore verde-azzurro. "E allora lo farò sempre".

"Ti amo, Ross. E sai, nonostante tutti gli errori e i difetti, io non ti cambierei per niente al mondo".

La attirò a se, baciandola lentamente sulle labbra. "Ti amo anche io. E nemmeno io ti cambierei per niente al mondo. Sei perfetta, per me" – le sussurrò, mentre tutte le angoscie e le paure di quella giornata sparivano, lasciando spazio solo alla vita e alle belle sensazioni che risvegliava in lui. Sarebbe andato tutto bene, lo sapeva. Avrebbero aspettato quel bambino insieme, godendo di ogni istante di quell'attesa, e poi lo avrebbero accolto nella loro famiglia con gioia, amandolo alla follia. La spinse sul cuscino, ridendo. "Ora dormi, devi riposare" – le intimò.

Demelza sorrise, rannicchiandosi sotto le coperte accanto a lui. "Salterò anche la cena, quindi?".

"No, cenerai in camera".

Demelza rise. "Come una gran signora?".

"Come una gran signora sposata con un marito molto apprensivo. Fattene una ragione!".

Scoppiarono a ridere, insieme, sereni. E anche se fuori continuava a piovere, in quella stanza, dopo una giornata difficile, tornò il sereno.

  
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