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Autore: lightvmischief    13/03/2017    1 recensioni
Una ragazza.
Un gruppo.
La sopravvivenza e la libertà.
Le minacce e i pericoli della città, delle persone vive e dei morti.
Prova a sopravvivere.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 4
 
Voglio andarmene al più presto, ma prima devo pensare a quale parte della città esplorare, così vado diretta verso le tribune e prendo posto.
Potrei tornare al supermercato e cercare un modo per barricare le entrate: in questo modo avrei un posto sicuro in cui dormire, provviste a volontà e un sacco di spazio.
Non è una brutta idea.
Ho solo bisogno di controllare il posto un’altra volta e fare in modo che non ci siano zombie.
E se non fosse possibile chiudere le porte, potrei cercare di ripulire una casa nelle vicinanze, così che quando ne ho bisogno posso andare a prendere le provviste.
C’è anche da considerare il fatto che Calum sa che il posto è pieno di provviste di qualsiasi tipo, quindi potrebbe tornare.
E ci potrebbero essere altri sopravvissuti che mi ucciderebbero senza problemi davanti a tutta quella roba.
Voglio davvero correre questo rischio?
Quali altre possibilità ho?
«Ehi»
Mi sono persa nei miei piani così tanto che non mi sono nemmeno accorta che Wayne si è seduto al mio fianco.
Lo guardo con un sopracciglio alzato; sono curiosa di sapere cosa deve dirmi.
Si passa una mano tra i capelli dorati e li tira indietro, togliendoseli dal viso.
«Alcune volte Calum può essere un po’ scontroso…»
Sposto lo sguardo davanti a me e scuoto la testa, ridendo.
«Se sei venuto qui per parlarmi di lui o per parlarmi di ciò che è successo là fuori, stai sprecando tempo.» lo interrompo subito.
Non ho voglia di sorbirmi delle cose inventate al momento.
Piego le ginocchia davanti a me e spingo sul pavimento con i talloni.
«È successo qualcosa fuori? Calum ha detto che…» esclama sorpreso, ma lo interrompo di nuovo.
«Stava per essere morso»
«Lo hai salvato tu?»
Annuisco e comincio a giocare con la stoffa dei pantaloni.
«Beh… Grazie. Non eri obbligata a farlo.»
«No, infatti»
Non mi interessa molto la sua gratitudine. L’ho fatto e basta, non voglio ringraziamenti, non pretendo niente in cambio.
«Senti… Te l’ho detto ieri, se vuoi rimanere qui, fai pure» mi dice, appoggiando una mano sul mio ginocchio destro.
Sposto la gamba e la sua mano scivola via. Non mi piace tutta questa confidenza e non mi piace essere toccata da persone che conosco a malapena.
«E quante persone sarebbero d’accordo?» gli chiedo sarcasticamente.
Nessuno lo sarebbe.
Lui, forse.
Ma penso che lo faccia solo perché gli ho salvato il culo, così come al suo amico.
«Ci potremmo lavorare su. Potremmo fare un’assemblea o qualcosa del genere e poi…»
«Senti, ho intenzione di lasciare questo posto tra un’ora.» constato, cercando di farlo smettere di parlare.
«Ne sei proprio sicura?»
«Certo.»
***
Esco dal bagno della palestra: finché sono qui voglio godermelo. Era da settimane che non vedevo un bagno del genere.
Sulla porta ci sono un uomo e una donna: entrambi mi guardano male.
Non mi interessa, a dire il vero. È solo una prova di ciò che ho detto prima ad Wayne: nessuno mi vorrebbe qui.
Ho pulito il coltello, anche se non rimarrà così per molto tempo, ma almeno è già qualcosa.
Ritorno alle tribune, cercando di non incrociare lo sguardo con nessun altro, principalmente perché non ho voglia di iniziare una conversazione.
Una volta mi sarebbe piaciuto, forse sarei stata anche io la prima ad iniziarla, ma le cose sono cambiate, le persone sono cambiate.
Raccolgo lo zaino e la mia camicia e scendo i gradini. Non ho nient’altro da fare qui.
Mi lego la camicia ai fianchi: non fa freddo fuori – dopotutto siamo alla fine di settembre -  e preferisco stare in canottiera. È più comodo perché quando scende il freddo ho la camicia da indossare, mentre, se ce l’avessi già addosso sarei alla ricerca di qualcos’altro con cui coprirmi. Ma ho scoperto a mie spese che non ci sono molti abiti nelle case che ho esplorato.
Sciolgo un po’ i muscoli delle spalle prima di mettere lo zaino; non fanno più male come all’inizio, ormai mi sono quasi abituata a portare peso continuamente, ma questa volta lo zaino è più pesante.
Infilo il coltello nella cintura dei pantaloni e sistemo meglio la pistola.
Sono pronta per andarmene.
Lancio un ultimo sguardo alla palestra quando sono vicina alla porta e mi convinco che niente mi lega e questo posto.
Esco e vado dritta per la mia strada.
Ritorno a concentrarmi sul mio obiettivo: il supermercato.
Percorro la stessa strada che abbiamo fatto ieri io e Calum.
Entro nella via, ma mi fermo all’istante: il posto è pieno di zombie. Sono sparsi tutti per la via e, ad occhio e croce, sono una centinaia. Non ce la farei mai a farli fuori tutti, sarebbe un suicidio.
Cammino all’indietro lentamente, poi, quando arrivo a cinque metri di distanza, mi volto ed esco dalla via. Non corro, non ce né bisogno; non mi possono vedere. Ed è veramente una fortuna.
Devo trovare un piano B.
Continuo a camminare, in cerca di un’uscita dal centro della città. Se mi sposto in periferia, ci sono meno zombie e più provviste, anche se non sono tutte nello stesso punto, ma piuttosto dilazionate.
Potrei trovarla lì una casa sicura. Certo, se trovassi anche una macchina con della benzina dentro sarei molto più veloce, ma sarebbe troppo bello.
Ne sono già andata alla ricerca di una e, anche se la trovai, non aveva carburante. Ho provato a dormirci per una notte, ma si è verificato inutile: mi sono svegliata di soprassalto con uno zombie a centimetri dalla faccia. Non c’è da dire che ciò successe il primo mese che mi ritrovai da sola a combattere contro il mondo. Non lo avrei mai fatto ora, non ce n’era ombra di dubbio.
Tengo stretto il manico del coltello, ancorato alla cintura dei pantaloni. Sono un po’ arrabbiata perché avevo davanti a me un’opportunità perfetta, ma si è verificata un fallimento.
Sospiro e lancio un sassolino con il piede; inizia un’altra ricerca, un altro percorso.
Svolto in un vicolo, ma devo uscirne subito: è pieno di zombie.
Devo uscire dal centro della città, non c’è altra scelta.
Mentre cammino, penso se ne valga davvero la pena. Insomma, prima o poi, faremo tutti la stessa fine.
Il termine “morto” ha cambiato completamente significato, in questi ultimi tempi.
Ormai le persone “morte” non lo sono più, anzi, vanno in giro in cerca di carne fresca da mettere sotto ai denti.
Li vedi, lì, che si tengono a stento in piedi, che cercano di camminare, che cercano di vederti ma non possono.
Hanno gli occhi vitrei e sembra che ti sorridano quasi, quando si avvicinano.
Ogni tanto mi fermo anche a pensare che, una volta, erano persone: potevano avere un lavoro, una casa, una famiglia…
Alcuni di loro sono bambini.
Potrebbero essere i miei fratelli.
A questo pensiero scuoto la testa e alzo lo sguardo al cielo: il sole è stato coperto dalle nuvole e credo che pioverà presto.
Ho scoperto tempo fa che la pioggia riesce a rallentarli; non sono veloci di per sé, ma se camminano più lentamente, in caso di pericolo potrei anche cavarmela.
Nonostante questo, però, voglio evitare di bagnarmi: ammalarmi è l’ultima cosa che voglio.
Mi affaccio su un’altra via: sembra vuota. Decido di imboccarla.
Un tuono squarcia il silenzio. Sobbalzo: comincerà a piovere a minuti.
Lancio lo sguardo alla mia destra e trovo una porta che sembra socchiusa.
Faccio una corsetta e la spingo con due dita: si apre.
Nel frattempo che prendo in mano il coltello, qualche goccia di pioggia comincia a cadere.
Entro cauta nella casa e mi chiudo la porta alle spalle. La esploro attentamente e vengo piacevolmente a scoprire che non c’è alcuna traccia di zombie.
Il primo ambiente è la cucina: con mio dispiacere non sono rimaste provviste e penso immediatamente che chiunque vivesse in questa casa non deve essere morto da molto tempo. Oppure ha deciso di andarsene.
Il prossimo ambiente è il salotto: è intatto, pulito, ha un aria di fresco.
Salgo le scale, stringo bene il coltello nel palmo della mano destra. Apro una porta e in quella che una volta era una camera da letto c’è un letto con le coperte sul pavimento. Al suo fianco c’è un comodino con una lampada al di sopra.
Anche qua nessuna traccia di zombie. La cosa mi sorprende.
Esco dalla camera da letto e entro in un’altra porta: il bagno.
La prima cosa che mi colpisce è il puzzo di marcio che ne esce.
La vasca da bagno ha una tendina impermeabile e penso che chiunque abitasse qui abbia deciso di farla finita proprio in quella vasca. Mi avvicino lentamente e tiro indietro la tendina: nella vasca c’è il corpo di una donna che ha in braccio un neonato. Entrambi sono morti con un colpo alla testa e, infatti, appena sotto le gambe della donna c’è una pistola.
Mi pizzicano gli occhi.
Tiro velocemente la tenda e esco immediatamente dal bagno.
***
Dopo essermi riposata un po’ sul letto, sono andata a controllare la porta: pensavo avesse qualche problema con la serratura dato che l’avevo trovata aperta, ma in realtà non ne aveva alcuno. Era solo stata lasciata aperta. Così l’ho chiusa, assicurandomi di dare tutte le mandate possibili. Non volevo rischiare di ritrovarmi a faccia a faccia con decine di zombie.
Il fatto che abbia trovato madre e figlio ancora intatti nella vasca da bagno e che non erano stati divorati da zombie mi sorprendeva molto.
Mi affaccio alla finestra della cucina: fuori piove da ormai una mezz’ora. È stata una vera fortuna aver trovato questa casa.
Non avevo ancora aperto cassetti, armadi e dispense, lo avrei fatto domani. Ora volevo solo rilassarmi.
Dopo aver controllato ancora una volta che tutte le finestre e la porta fossero ben chiuse, vado in salotto e mi stendo sul divano, dove pochi minuti dopo cedo al sonno.
Mi sveglio di soprassalto e mi accorgo di aver dormito per un’ora: è un record. Non riuscivo a dormire per così tanto tempo di fila da molto tempo ormai. Ero sempre attenta e forse anche spaventata che qualche cadavere-camminante sarebbe potuto spuntare fuori dal nulla.
Mi alzo e sento i muscoli della schiena e delle gambe farmi male, ma non ci faccio molto caso.
Decido di andare in camera da letto per vedere cosa contengono gli armadi: potrebbero esserci vestiti che mi calzano e magari anche un giubbotto. Sarebbero molto utili data la stagione autunnale in avvicinamento.
Apro un’anta dell’armadio e sono sorpresa quando la prima cosa che mi si presenta davanti sono tre scatole di proiettili piene e una pistola. Prendo tutte e quattro le cose e le butto sul letto dietro di me. Prendo anche alcuni vestiti dall’armadio; dopo penserò a smistarli.
Guardando ancora nell’armadio noto un vestito estivo color pesca. Doveva essere di quella donna.
Devo assolutamente spostare quei corpi. Mi inquieta troppo il fatto di averli a pochi passi da me. Per la prima volta, mi ritrovo ad essere più spaventata di quei due corpi che degli zombie. Non ne so il motivo, lo sono e basta.
Nel frattempo, decido di cercare dei contenitori in cui io possa raccogliere l’acqua; fuori piove ed è veramente una fortuna, soprattutto ora che ho trovato un rifugio: è difficile trovare dell’acqua in giro. Stare senza cibo è una cosa, stare senz’acqua è assolutamente orribile: la stanchezza prende il sopravvento, la vista si annebbia, il mondo attorno a te comincia a girare, la gola si asciuga sempre di più fino a diventare completamente asciutta, secca, arida. È orrendo.
Trovo tre contenitori, sono abbastanza capienti e mi vanno più che bene. Li metto sui davanzali delle finestre, sperando che nessuno zombie ci si incastri dentro.
Vorrei buttarmi sul letto e non alzarmici mai più, ma ho altre cose più importanti da fare ora.
Setaccio ogni punto della casa e vengo a trovare cose molto interessanti, ma soprattutto utili. Niente cibo, ma penso che quello che ho preso ieri al supermercato sia sufficiente per un po’.
Finalmente, mi stendo sul letto e in pochi minuti mi ritrovo in un sonno profondo.
***
Ho avuto un’idea per quanto riguarda i cadaveri nel bagno: l’unico modo per liberarmene è bruciarli nella vasca. Non riesco a spostarli e non voglio che se ne cibino gli zombi.
Non sono così insensibile.
Così, prendo un grosso respiro e apro la porta del bagno con l’accendino – che ho trovato ieri – nella mano. Ho trovato anche dell’alcol, che vado subito a prendere.
Sono davanti ai due cadaveri.
«Mi dispiace»
Verso l’alcol sui due corpi. Prendo un pezzo di carta e lo incendio, poi lo butto nella vasca. Subito s’innalza una fiamma ed indietreggio velocemente mentre mi pizzicano di nuovo gli occhi. Apro velocemente la finestra e chiudo con un tonfo la porta.
Mi dispiace.
***
Prendo i contenitori, ora pieni d’acqua e li appoggio per terra. Ho delle bottiglie vuote nello zaino, le prendo.
Faccio bollire l’acqua.
Mentre aspetto che sia pronta, mi guardo intorno: le pareti del soggiorno sono bianche, addobbate da qualche piccolo quadro qua e là. Il tappeto sul quale sono seduta è verde mela, davanti a me ho un camino, ormai spento da tempo. Sopra ad esso c’è un televisore.
 
«Kayla, non puoi fare due cose assieme. O guardi la tele o fai i compiti.» dice mio padre, appena tornato a casa dal lavoro.
«Allora guardo la tele» rispondo con un sorriso da ebete sul viso.
«Piuttosto vai a fare un giro con Ebony. Guardare per troppo tempo la tv fa male alla vista» dice mia madre, scendendo le scale con in braccio mia sorella.
Ha cinque anni, ma vuole uscire ancora nel passeggino. Aah, i bambini.
«Non dovresti portarla in braccio, mamma. Sei incinta, non dovresti fare certi sforzi» dico, mentre mi alzo dal pavimento e spengo la televisione. Questa donna è già al terzo figlio. Non ci posso credere.
«Dai, Ebony, ti porto al parco» le dico, mentre mi infilo velocemente le scarpe.
Io e mia sorella usciamo, salutando mia madre e mio padre, dirette verso il parco della città.
 
Scuoto la testa.
Non avrei mai pensato che, quattro anni dopo, sarebbe finito il mondo. Anche se non letteralmente, è finito per come lo conoscevamo.
I miei piani erano diversi, ma non va sempre tutto come ci si aspetta.
Devo smetterla di pensare al passato.
 
«Kayla, ascoltami bene adesso» comincia mia madre, prendendomi il viso decisa e guardandomi dritto negli occhi.
«Non legarti emotivamente a nessuno e ce la farai, okay?» dice, questa volta con le lacrime agli occhi.
Mi abbraccia, assieme a lei anche mio padre. Ebony e Jackson sono in macchina, piangono.
«Io non vi lascio qua. Non vi lascio!» dico, mentre le lacrime cominciano a scendere.
«Salvati, almeno tu!» urla mio padre, sciogliendo l’abbraccio e spingendomi via da loro.
«Ce la farai. Ti vogliamo bene.»
 
La porta si spalanca violentemente e sbatte contro il muro.
Apro velocemente gli occhi, che mi era accorta solo ora di aver chiuso.
La mano corre velocemente sul tappetto, di fianco a me, a racchiudere in una morsa solida la pistola.
«Tu devi essere Kayla.»
   
 
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