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Autore: Koa__    15/03/2017    11 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Pensa prima di parlare!
 



 
Dovunque vorremo andare andremo. Una nave è questo in realtà.
Non è solo una chiglia, uno scafo con un ponte e le vele.
Sì, la nave è fatta così.
Ma ciò che una nave è, ciò che la Perla Nera è in realtà: è libertà.

[La maledizione della prima luna]
 



 
Tanto per cominciare, la Norbury era magnificente. Questa fu la prima impressione, alquanto banale, che ebbe una volta giunto a bordo. Era gigantesca, assurdamente precisa nelle decorazioni e negli intarsi del legno. Sopra le loro teste, tre alberi si stagliavano con imperiosità. Il più alto di essi, quello di trinchetto, ospitava vele quadre di un funereo colore nero, che si riuscivano comunque a scorgere nonostante fossero arrotolate su loro stesse. Sulla destra stava il cassero di poppa, lievemente rialzato rispetto alla superficie ponte, elegantemente ornato da fregi e intarsi e molto meglio illuminato rispetto alla prua. La ringhiera che separava la zona dedicata al comando e che era preclusa ai semplici marinai, aveva decorazioni degne di un qualche dipinto. Fregi che parevano essere ancor più ricchi ed elaborati, poiché sotto il giogo di una luce scarsa e i cui giochi d’ombra irretirono i sensi di John per svariati istanti. Sulla sinistra, al di là del bompresso si riusciva facilmente a scorgere la prua dal tipico fare appuntito e alla cui più lontana estremità, stava la bella polena che già prima lo aveva incantato. Quella sirena ammaliatrice, baciata dai raggi lunari, pareva ancor più splendida a vedersi ora. Ne era ancora affascinato, così come lo era da quella stessa nave che quei pirati chiamavano la Norbury e il cui nome tanto poco aveva a che fare con bastimenti spagnoli. Non poteva ritenersi un esperto di navigazione, al contrario ne sapeva ben poco, ma quel veliero sembrava molto più confortevole del vascello mercantile con cui aveva attraversato l’oceano. Probabilmente perché, stando alle parole del buon Lestrade, la Norbury era in realtà un galeone spagnolo di speciale nascita. Era il più veloce, il meglio armato e più riccamente decorato dell’intera flotta. Greg aveva sottolineato più volte il fatto che quella nave fosse stata scelta appositamente da capitan Holmes perché la preferita di Sua Maestà Filippo. * Anche se quest’ultima cosa gli era parsa un’invenzione bella e buona, i racconti dei pirati erano spesso e volentieri abbelliti o resi all’estremo da invenzioni ed esagerazioni. Spesso le leggende che li riguardavano nascevano dall’ignoranza o da una fervida immaginazione. Poteva quindi trattarsi di una diceria o di un tentativo da parte di Lestrade di far apparire il gesto di capitan Holmes come ancor più straordinario di quanto già non fosse. Seppur non potesse ritenersi poi tanto improbabile come atto piratesco. Sherlock era pur sempre stato tanto coraggioso da farsi impiccare per dimostrare d’essere in grado di sfuggire alla morte e sarebbe stata proprio da lui una ruberia del genere. Ovviamente non poteva esserne certo e lui detestava il non sapere, anche se a dire il vero lì su quella Norbury, o come si chiamava, c’erano fin troppe cose che faticava a comprendere. Ciò di cui, però, era fermamente sicuro era del fatto Holmes avesse scelto un bellissimo vascello. Che lo avesse fatto unicamente dispetto, questo, al momento aveva ben poca importanza.

Per quanto affascinato fosse, negli attimi successivi alla sua ascesa a bordo si ritrovò ad ammettere di non sentirsi esattamente a proprio agio, ed era proprio la ciurma a renderlo inquieto. Non che John avesse presente come dovesse comporsi una ciurma piratesca per poter essere considerata tale, ma non poteva negare che l’immagine che si era fatto nel corso del tempo era relativamente diversa da quella che ora si trovava ad aver di fronte. Se fino a quel momento ne aveva avuto soltanto un vago sentore, osservando Lestrade e Victor, adesso poteva dire d’esser certo incappato in qualcosa di unico. Si trattava di un centinaio di uomini, illuminati a stento da lampade a olio appese qua e là, evidentemente atte a rischiarare il ponte. La maggior parte di loro aveva un fisico forte e irrobustito grazie al lavoro pesante, non erano trasandati come quelli che ad Antigua o Barbuda frequentavano i bordelli. Di certo non avevano la raffinatezza di Sherlock Holmes, né la sua carnagione bianca e pallida, al contrario la pelle era bruciata dal sole e li faceva apparire più invecchiati di quanto in realtà non fossero. Alcuni erano inglesi, aveva constatato dopo averli sentiti parlottare. Diversi provenivano dal continente, Francia o Prussia mentre altri, dalla naturale colorazione nera, appartenevano senz’altro alle isole delle Indie Occidentali. Il più alto tra coloro che aveva di fronte era un corpulento uomo dall’accento del sud, i cui capelli grigi erano stati legati in un codino. Aveva il viso tatuato, la cui fattura era del tutto simile alla stessa che John aveva sul petto. Quello, però, non raffigurava alcuna mappa ma soltanto linee che tratteggiavano i contorni del volto in maniera più o meno precisa. Su entrambi i lobi aveva un orecchino mentre al collo una pesante catena d’argento spuntava di tanto in tanto dalle pieghe della camicia. Portava una vistosa benda nera a coprirgli un occhio e alla cintola, stretta in vita, s’intravvedeva distintamente una pistola e un grosso coltellaccio, il cui manico lavorato in oro era premuto contro il prominente stomaco. Quel tizio, pensò John immediatamente dopo averlo squadrato da capo a piedi, era senz’altro un pirata: aveva un aspetto minaccioso, sguardo torvo e inquietante e inoltre era sicuro di aver visto una grossa “P” impressa a fuoco su una delle mani. Era stato senz’altro accusato di pirateria. Tuttavia non fu quello a sorprenderlo, a esser ancor più incredibile era il fatto che stesse tenendo fra le braccia un bambino. Un ragazzino di forse dieci o undici anni con una chioma folta, le guance arrossate e lo sguardo curioso. Con occhi adoranti, quel piccolo uomo fissava Sherlock Holmes e con molta probabilità rimaneva in attesa che questi dicesse qualcosa. Sembrava proprio che non vedesse l’ora di salutare il capitano e infatti fu ciò che fece qualche attimo più tardi. Sgusciato via, egli corse ritrovandosi ad abbracciare una delle gambe di Sherlock che strinse con forza.
«Sei tornato» esultò il bambino, con fanciullesca gioia prima di venir strappato da dove si trovava e far ritorno tra le braccia dell’uomo corpulento.
«Angelo, perché Archie è ancora sveglio?» chiese il capitano, con severità, rivolgendosi al tale con la benda sull’occhio. Che strano nome aveva; che fosse spagnolo? Non ne aveva idea, ma dalla maniera che aveva di parlare poteva anche esserlo.
«L’ho messo a letto ore fa, giuro! Ma non ci voleva stare. Voleva aspettarti e sapere se eri vivo oppure no. Tutti noi eravamo preoccupati perché quando al tramonto non vi abbiamo visti arrivare, credevamo che vi avessero presi di nuovo.»
«C’è stato un imprevisto» annuì Lestrade, ma senza spiegare quanto successo e limitandosi a rasserenare gli animi già fin troppo concitati. Fu allora che capitan Holmes prese parola. Lo fece in maniera vistosa ed eccentrica, saltando con un balzo sulla ringhiera del cassero, sopra la quale si teneva miracolosamente in equilibrio. Come riusciva a stare lì sopra senza cascare? Si chiese John prima di portare lo sguardo sulla ciurma, radunatasi ora in un gruppo più consistente. Era incredibile quanto tenessero in considerazione le sue parole, ognuno di loro, nessuno escluso, aveva gli occhi fissi sul pirata bianco. Lo guardavano con reverenza e una punta di timore appena accennata e che di tanto in tanto gli si velava in viso, oscurandogli lo sguardo. In silenzio, i pirati de la Norbury attendevano che il proprio capitano prendesse parola. C’era un’eccitazione in loro, come se ciò che stava per pronunciare fosse la loro unica ragione di vita.

«Ascoltatemi» esordì Sherlock con voce imperiosa, pur senza gridare. C’era da dire, rifletté a un non ben precisato momento, che a vedersi così come stava, con i fasci di luce delle lanterne che talvolta ne lambivano i tratti e talvolta invece lo oscuravano, capitan Holmes appariva ancor più leggendario di quanto fosse. Di nuovo si domandò quante e quali di quelle storie che aveva sentito fossero vere, ma preferì non indugiare tra quei ricordi e, portato il naso all’insù, azzittì la propria mente fin troppo vivace.
«Oggi sono stato impiccato e il marchio mi è stato impresso a fuoco sul petto. Per il rispettabile esercito di Sua Maestà, sembra che io sia un pirata» proseguì, scatenando l’ilarità dei marinai, che presero a ridere sguaiatamente. «Non vi mentirò: mi è stata offerta la grazia a patto che accettassi di diventare un corsaro. Pare che depredare navi spagnole o portoghesi per conto del nobile impero britannico, sia ben più virtuoso che farlo per se stessi. Ma io dico, non è ugualmente un reato? Una colpa è una colpa, se sei un Re e uccidi un uomo, sei lo stesso reo di un qualcosa. Il potere e il denaro non giustificano niente, nemmeno gli arrembaggi. Dite, mia valorosa ciurma: avrei forse dovuto accettare?» Un coro di ripetuti “no” si levò dalla folla adesso ancor più numerosa, che prese a sbraitare e a sbracciarsi in segno di protesta. A quel punto Sherlock estrasse un coltello dalla cintola dei pantaloni e, puntando la lama verso i propri uomini, prese a indicarli uno dopo l’altro, quasi sentisse il bisogno di metterli alla prova. Nessuno si tirò indietro e fu allora che capì in vero significato di quel gesto, stava soltanto ribadendo il concetto. Aiutandosi con un coltello, il che era… insolito? Sì, decisamente insolito e anche molto, ma molto affascinate e al punto che senza quasi rendersene conto, John si ritrovò a sorridere.
«Sherlock Holmes non si mescola con la feccia» riprese subito il capitano. «Il pirata bianco non è di nessuno e non sarà mai di nessuno. La mia parola, la mia fede non verrà riposta in un inglese che sia Re o principe, conte o duca. L’onore di Sherlock Holmes vale molto di più dell’oro o di un incarico a corte. Questa nave e il suo equipaggio non saranno venduti, nemmeno per tutte le ricchezze del mondo. Mai cederò alla vigliaccheria o alla paura, neanche in punto di morte venderò me stesso per diventare un corsaro» concluse, calcando il tono di voce su quell’ultima parola, che sputò fuori con evidente disprezzo. «Perché Sherlock Holmes è un pirata e tale resterà.»
«Lunga vita al capitano» urlò Angelo a squarciagola mentre cori di grida festose si levavano dal gruppo. Molti di loro ballavano, altri bevevano e brindavano alla salute del loro capitano. «Lunga vita al pirata bianco, il terrore dei sette mari. Lunga vita a capitan Holmes!» cantò nuovamente Angelo. Poi, inaspettatamente, una voce pacata interruppe le festa.

«Capitano, capitano» intervenne a quel punto una voce. Era quasi flebile e pacata, i modi non rozzi e l’accento non sporcato di straniero come quello di Angelo, ma al contrario inglese e ben istruito. John riconobbe le parole come gentili e dolci, il tale che le aveva pronunciate aveva un qualcosa di pacifico nella maniera di porsi, il che lo si evinceva dalla maniera in cui aveva domandato parola.
«Chi è che osa rivolgesi a me?» chiese Sherlock con tono di scherno. Era chiaro che non facesse sul serio, ma che stesse in qualche modo giocando, forse perché ancora divertito dallo scampato pericolo di quello stesso mattino. Certo che era strano, sembrava tutt’altra persona rispetto all’uomo che aveva dimorato per tutto il giorno in casa sua, rintanato in un angolo buio del soggiorno senza quasi mai intervenire in qualche discussione. Era distante dal capitano dai modi fermi e severi o ancora da quello che, con modi beffardi, aveva osato sfidare l’esercito. Quante sfaccettature di carattere nascondeva dentro di sé? Che quella fosse la maniera con cui si rivolgeva alla ciurma? Che potesse essere un trucco per tenere alto il morale? Non lo sapeva, ma di nuovo i suoi ragionamenti vennero interrotti. Fu a quel punto infatti che un tale grassoccio si fece avanti. Era non molto alto e aveva un bel sorriso gioviale, occhi sereni ma allo stesso tempo acuti, erano nascosti dietro a un sottile paio di occhiali, forse con l’intenzione di mascherare la fine capacità d’osservatore.
«Mastro Stamford, per servirla, capitano» disse, inchinandosi appena in un cenno di riverenza misto a divertimento. Sorrideva apertamente, e lo si intuiva dalle labbra stirate in un ghigno oltre che agli occhi allegri e sereni. Che inusuali costumi avevano, quei tizi. Stamford era di certo inglese, dedusse John nell’immediato. Portava una camiciola bianca e un panciotto, in abiti di ottima fattura e alla moda delle persone di alto rango. Aveva mani curate e capelli corti e ben pettinati, la sola cosa che stonava era l’abbronzatura forte che rendeva la sua pelle bronzea e non pallida. Ad ogni modo, quello non era il genere di abbigliamento di un pirata; che anch’egli fosse di nobile stirpe? Che avesse una storia simile a quella di Victor? Se così era, cosa ci faceva a bordo de la Norbury e quale colpa aveva commesso?
«Ah, il nostro saggio quartiermastro. Dimmi, quali dubbi ti fanno dolere?» chiese Sherlock con fare canzonatorio mentre una risata scoppiava anche nel resto dell’equipaggio.
«Mi domandavo chi fosse l’individuo che avete portato con voi dall’isola. È nostro prigioniero?»
«No» s’affrettò a rispondere, secco e più severo. Ora ogni traccia di spasso era del tutto scomparsa e il suo volto era nuovamente una maschera tirata di rigidità e freddezza. Che lo stesse facendo unicamente per imporre il proprio volere o per timore che uno di loro lo ritenesse un prigioniero, trattandolo come tale, questo non poteva saperlo. Nel dubbio, scelse per entrambe le ipotesi.
«Egli sarà nostro gradito ospite» riprese il capitano. «Finché non deciderà lui stesso ciò che vuole fare. John Watson, questo è il suo nome» urlò, indicandolo con un cenno elegante della mano «è un medico, nel caso vi occorressero i suoi servigi ed è stato un soldato della guerra civile. Ho un accordo di affari con lui, non vi interesseranno i dettagli, ma una cosa la vorrete senz’altro sapere. John ha una mappa con sé e che mi ha gentilmente donato. Si tratta della mappa di un tesoro, per la precisione ed è stato tanto gentile da condividerla con noi. Signori, presto saremo ricchi.» Una volta detto questo, Sherlock scese giù dalla ringhiera con un balzo fluido, incamminandosi quindi verso gli alloggi mentre l’equipaggio si lasciava inebriare dai fumi della festa e da bottiglie di rum. Il capitano passò oltre, ignorandoli. Gli fu sufficiente un cenno per attirare a sé Mastro Stamford e Lestrade, il quale venne seguito da Victor. Un Victor che, con già troppa confidenza, prese il braccio di John, portandoselo dietro forse in un invito a partecipare o a non rimanere isolato. Non era più abituato a interagire con le persone per così tanto tempo e se ne rese conto nell’attimo in cui sentì come un peso alla sola idea di dover sottostare a regole sociali.
«Stamford, salpiamo prima dell’alba» disse Sherlock con modi spicci. «Devo ancora capire dove diavolo si trova quell’isola.»
«Per dove faccio rotta?» chiese questi, titubante.
«Portaci ovunque tu voglia. Un luogo riparato, in cui possiamo nascondere la nave. Moriarty non ha dato segno di star cerando la Norbury, ma potrebbe volerci inseguire.»
«Sì, signore. Ho già in mente il luogo ideale» rispose Stamford, prima di scattare verso il cassero con una leggiadria che nessuno avrebbe ritenuto possibile su di un uomo di una tale mole. Subito dopo, Sherlock si dedicò a Lestrade.
«Che John abbia un alloggio separato dalla ciurma e che sia armato, dagli una pistola. Ah e occupati di Angelo! Fai in modo che non lo uccida subito e che gli dia da mangiare. Digli che… bah, digli che mi serve, il che è anche vero. Oppure digli che gli curerà quel dolore che ha alla schiena, se non si convince, non so inventa tu qualcosa.»
«Sarà fatto, capitano.»
«Ah e John» aggiunse capitan Holmes, appena dopo aver imboccato il corridoio che conduceva agli alloggi «domattina, appena ti sarà comodo, vieni nella mia cabina. Dobbiamo parlare.»
«Certamente» annuì lui, forse in maniera eccessivamente timida. La sua risposta, però, cadde nel vuoto. Il pirata bianco già li aveva lasciati, richiudendosi la porta alle spalle.
 


 
oOoOo



John doveva ammettere con una certa vergogna di non aver riflettuto sulla prospettiva di dormire con altre persone. Aveva accettato (con incredibile facilità, tra l’altro) di partire alla volta dell’avventura, ma non aveva pensato al quotidiano, né a che tipo di vita avrebbe condotto a bordo. Sapeva quanto spartano fosse il trascorrere dei mesi in mare aperto e il dover rinunciare alle comodità della terraferma, ma se all’avere poco o niente era sufficientemente abituato, l’idea di doversi spogliare di fronte ad altre persone lo aveva reso irrequieto. Per sua fortuna, Sherlock Holmes usava il cervello e molto più di quanto John stesso non si fosse ritrovato a fare di recente. Tutto ciò a cui pareva essere in grado di pensare era a quanto spaesato fosse, a come fuori luogo lo facessero sentire gli sguardi di quei pirati. Era indubbiamente a disagio e soltanto la curiosità per il veliero e il suo equipaggio era stata in grado di smorzare la sensazione di imbarazzo. Sensazione che parve svanire dopo che ebbe lasciato il ponte e sulla quale la sua mente non tornò più. Fu uno stranamente insistente Victor ad accompagnarlo di persona al nuovo alloggio, qualche istante più tardi l’aver spedito Lestrade dall’uomo che chiamavano “dita di ferro”. Da quel che aveva capito si trattava del tale con la benda sull’occhio, lo straniero di nome Angelo, il cui ruolo a bordo era solo e soltanto quello di cucinare. A detta di Lestrade, questo dita di ferro preparava zuppe che avrebbero fatto resuscitare un morto, ma aveva un carattere irascibile e passionale che era meglio sedare preventivamente. John accettò caldamente il consiglio di stargli lontano e, dopo aver oltrepassato la porta, curioso e in silenzio, seguì il prete.

Ciò che più di tutto contraddistingueva padre Trevor, oltre all’aspetto appariscente, era indubbiamente la parlantina. Victor era uno di quegli uomini che amavano proferir parola soltanto per il gusto di ascoltare il suono della propria voce. A vedersi vestito in calzoni e maniche di camicia arrotolate su sino al gomito e con una sola croce appesa al collo, non lo si sarebbe mai ritenuto un uomo di chiesa o forse perché aveva quel sorriso sornione e malizioso che stava a metà tra il santo e il figlio di buona donna. Nel breve tragitto che li aveva condotti giù lungo il corridoio e poi alle cabine degli ufficiali, aveva sentito uscire dalla sua bocca molte più parole di quante John ne avesse udite in tutti quei mesi trascorsi ad Antigua. Almeno tutto quel blaterare era stato di una qualche utilità, si disse. Tanto per cominciare aveva saputo diverse cose, tra cui il fatto che solo i più alti in grado a bordo de la Norbury potevano accedere a quelle stanze e che ognuna di esse aveva una chiave così che si potesse godere della propria intimità. Lo stretto passaggio che dal cassero conduceva fin dentro la pancia del vascello, era seguito da due scalinate. Una delle quali conduceva alle cucine e alla zona dedicata all’equipaggio mentre l’altra, di pochi gradini, si snodava fino a raggiungere un atrio ottimamente illuminato e sul quale s’affacciavano una decina di porte in raffinato legno chiaro. La cabina più grande era ovviamente quella del capitano, descritta come caotica ma stupenda. A suo fianco c’erano quelle di Stamford, il quartiermastro (il cui nome era Mike) e di Lestrade, il nostromo. Anche Archie, il ragazzino, aveva una stanza tutta per sé. Si trattava di una camera piccola nella quale il bambino veniva istruito, e che si trovava giusto a fianco dell’alloggio di Victor.
«Il bambino è figlio di Sh… voglio dire, è figlio del capitano?» domandò John a un certo momento, riferendosi ad Archie e al contempo maledicendo se stesso per la propria distrazione. Non poteva permettersi di chiamare il pirata bianco per nome, non ad alta voce, lui era un signor nessuno a bordo ed era abbastanza sicuro di sapere che non avrebbero tollerato così tanta confidenza.
«Figlio di chi? Di quel verginello? Sherlock non sa nemmeno com’è fatta una donna, figuriamoci se ha dei figli. Il giorno in cui gli sentirò dire che vuole copulare con un altro essere a questo mondo, riderò così forte che mi sentiranno su fino al paradiso e scommetto tutto quello che ho che Cristo stesso verrebbe giù a stringerli la mano e a dirgli che era ora che si decidesse a fornicare con qualcuno» disse, sinceramente divertito e prima di lasciarsi andare a una contagiosa risata sincera. «No, i genitori del bambino sono morti molto tempo fa. Non aveva nessuno e sarebbe morto di fame, dato che anima viva se ne sarebbe preso cura. Sua madre era una prostituta, Archie non l’ha mai neanche conosciuta. Lei non sapeva chi fosse il vero padre e così lo affidò al proprio fratello che non aveva moglie o figli, il quale qualche anno più tardi venne accusato di omicidio e condannato a morte. Non potendo far più nulla, Sherlock ha voluto prenderlo a bordo.»
«Tutto questo è… amorale» sputò fuori John, indignato. Non aveva mai sentito di un qualcosa del genere e se fino a qualche attimo prima la presenza del bambino gli aveva smosso unicamente domande curiose, ora i suoi sentimenti in proposito erano ben diversi. «Voglio dire, vi sembra giusto che un ragazzino partecipi ad atti di pirateria?»
«Archie non partecipa a un bel niente, caro il mio signor “medico che spunta dal nulla con una mappa del tesoro”» replicò il prete, con un fare mortalmente offeso che mise in chiaro fin da subito quanto delicata fosse la questione. Ecco un altro appunto mentale che doveva farsi: chiudere la bocca e parlare soltanto se necessario. Ormai era chiaro che di pirati non ne sapesse proprio un bel nulla e qualsiasi cosa pensasse, ora della fine si rivelava sbagliata. Tanto valeva star zitto, almeno avrebbe evitato di farne arrabbiare uno o due.
«Non è neanche in grado d’impugnare una pistola» riprese Victor «e nessuno di noi gli permetterebbe di farlo. Gli insegneremo a combattere, in futuro, ma solo e soltanto dopo che gli sarà spuntata la barba. Dolcezza, fidati di padre Victor, sarà meglio se ti cuci le labbra o che da oggi in avanti eviti proprio di parlare. A meno che tu non voglia che dita di ferro ti tagli la gola, potrebbe uccidere per molto meno» concluse in un soffio e appena prima di fermarsi di fronte a una porta chiusa. Sebbene tutto quello agli occhi di John sembrasse decisamente esagerato, non c’era traccia di divertimento nella voce di Victor e grazie all’illuminazione data dalle lampade agganciate alle pareti, riusciva anche a scorgerne la serietà delle espressioni. Forse solamente allora riuscì a capire quanto stupido fosse stato e fino a che punto i discorsi che faceva o le cose che pensava riguardo a Sherlock, fossero solamente delle sciocchezze. Timoroso, ma deciso a comprender qualcosa in più, John sollevò il viso e per la prima volta da che lo aveva incontrato, guardò nelle profondità degli occhi di Victor Trevor. C’era un’ombra scura che traspariva dalle sue intenzioni, un qualcosa di indefinito e che somigliava alla preoccupazione o alla paura, il tutto mescolato a una rabbia non troppo velata. Per quanto coraggioso si ritenesse o sapesse di trovarsi sicuro come tra due guanciali, almeno finché era il solo possessore della mappa, John si rese conto di star tremando. No, non avrebbe indagato oltre.
«Cosa fa il bambino a bordo? Presumo che si annoi!»
«Certi giorni aiuta Angelo in cucina» annuì Victor, con un gran sorriso forzato che da un attimo all’altro aveva preso possesso di quel volto da falso sant’uomo «oppure sta con Mastro Stamford che gli parla del cielo e di come orientarsi senza la bussola, ma accade di rado. Per la maggior parte del tempo sono io a occuparmi personalmente di lui e della sua istruzione, teniamo molto a che Archie sappia leggere e scrivere, che abbia un po’ di cultura ecco. Sherlock dice sempre che la conoscenza è il solo modo per poter vivere da uomini liberi in questo mondo infame e io non potrei essere più d’accordo.»
«Cultura, conoscenza… eppure fa il pirata. Anzi, fate tutti i pirati» osservò John, e questa volta non c’era traccia di malizia o cattiveria. Non riusciva a capire Sherlock Holmes, questa era la verità, né che cosa significasse per davvero tutto quel discorso. Come si poteva esser attratti dalla conoscenza, ma fare il pirata? Un amante della lettura o studioso che fosse lo si sarebbe trovato più facilmente in Inghilterra, circondato da carte e libri, ma non su di un gelone spagnolo battente bandiera nera.
«E fare il pirata esclude che si possa saper leggere o apprezzare della buona musica? Che sia impossibile sapere un qualcosa di latino e greco? O di scienza? Sei sulla nave sbagliata, John “ho una mappa” Watson se credi che questa ciurma sia composta da stolti e ignoranti. Abbiamo più libri che oro, a bordo e non ci dispiace affatto. Certo, rubiamo e deprediamo mercantili, ci facciamo beffe di quegli idioti del reggimento, beviamo rum e, Cristo, se ci piace andare a donne! Ma ciò non toglie che alcuni di noi abbiano un’insana sete di conoscenza, come ti ho già detto io ho studiato approfonditamente lingue greche e latine, Mike sa tutto degli astri nel cielo, Sherlock suona il violino e se vorrai sopravvivere su questa nave sarà bene che tu non faccia più certi discorsi. Potresti far seriamente infuriare il capitano con la tua idiozia.»
«D’accordo, d’accordo. Ho capito» si difese John, sollevando le mani in segno di resa, ridendo appena di un divertimento leggero. «Mi dispiace avervi sottovalutati, non era mia intenzione offendervi. Ma da quando sono qui nelle Indie ho incontrato parecchi pirati e nessuno aveva sete di conoscenza o amava i libri.»
«Ed è per questo che noi siamo i migliori in circolazione, dolcezza» gli disse, strizzandogli l’occhio prima di spalancare la porta con un gesto della mano e aprire la vista su di una stanza incredibilmente bella. «Buona notte, dottore e che Dio vegli sulla tua lingua lunga.» Pochi istanti più tardi, John si chiuse l’uscio alle spalle e dopo aver fatto scattare la chiave si stese sul letto e sprofondò in un sonno profondo.





Continua
 




*Filippo IV Re di Spagna, discendente degli Asburgo e di Giovanna la Pazza, che regnò fino al 1665. Il fatto che avesse o meno una nave preferita è una mia invenzione.

Glossario:
-Cassero: è una parte rialzata della nave che può trovarsi a poppa, a prua (castello di prua) o nella parte centrale. La ringhiera fa da divisorio e delimita quella che è la zona di comando con il ponte. Si estende per l’intera larghezza della nave mentre lunghezza varia, ma solitamente arriva fino all’albero di mezzana. Nei galeoni spagnoli spesso il cassero era molto ornato.
-Albero di trinchetto e Bompresso: il trinchetto è l’albero più alto, è quello che sta al centro e che ospita le vele quadre più grandi mentre il Bompresso è più basso ed è posizionato a prua.
-Rispetto alle altre imbarcazioni in dotazione alla marina spagnola dell’epoca, come la caracca, il galeone era più grande e meglio armato e aveva costi di produzione più bassi. Per questo venne adottato dall’esercito e armato pesantemente con molti cannoni.

Tutte le info le ho prese qui e qui
 
   
 
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