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Autore: nikita82roma    19/03/2017    4 recensioni
Rick ha detto a Kate che non sarebbe stato a guardarla mentre buttava via la sua vita. È tornato a casa dopo la consegna del diploma di Alexis quando sente bussare alla porta del loft. Ma non è Kate, è Esposito che lo avvisa che Beckett è in ospedale gravemente ferita. Si parte da "Always" ma il percorso poi è completamente diverso.
FF nata da un'idea cristalskies e con il suo contributo.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Rick Castle, William Bracken | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione
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Kate si sciacquò il viso più volte. Era partita da quasi tre ore da Myrtle Beach e si era fermata in una stazione di servizio per fare il pieno di benzina. Non aveva con se molti dollari, se ne rese conto solo quando aveva pagato il carburante e sperava dannatamente che quello che gli rimaneva gli permettesse di arrivare a New York.

Non c’era nessun rumore in quel posto tranne lo scrosciare dell’acqua del lavandino aperto. L’uomo che doveva essere qualcosa tra un gestore ed un guardiano era chiuso a chiave nel suo gabbiotto con una piccola tv accesa ed un pacco di qualche cosa indefinita fritta. Lo aveva capito dalle mani unte, quando gli aveva bussato chiedendogli dove fosse il bagno e glielo aveva indicato con un gesto poco elegante dopo essersi leccato le dita. Poi le aveva infilate di nuovo nel pacco, portandosi una quantità spropositata di cibo alla bocca.

Era contenta in quel momento di avere una pistola, anche se in teoria non avrebbe potuto usarla, ma la faceva sentire sicura in quel posto dimenticato da Dio. Provò a bere un sorso d’acqua ma era semplicemente imbevibile, sapeva di ruggine e tubature, sputò nel lavandino e tornata in macchina posò la pistola di nuovo nel cruscotto, cercando qualcosa per togliersi quel sapore di bocca, un chewing-gum andava benissimo, masticare oltretutto l’avrebbe aiutata a rimanere sveglia.

Era partita subito, appena letto il messaggio di Lanie, non aveva nemmeno avuto il tempo di mettere in chiaro le idee, si era vestita, un paio di jeans una tshirt ed una felpa grigia con il cappuccio, ed era scesa facendo meno rumore possibile al piano inferiore. Nick teneva le chiavi dell’auto dentro la grande conchiglia che usava come recipiente sul mobile vicino l’ingresso. Le prese, afferrò la sua borsa ed uscì, mettendo in moto ed andando via il più velocemente possibile: se anche si fosse accorto, non l’avrebbe potuta fermare. Non sapeva se e quando aveva notato la sua assenza, se non si era svegliato, probabilmente ancora non lo aveva fatto. Aveva fatto già i suoi conti, se non trovava traffico sarebbe stata a New York poco dopo l’ora di pranzo.

Non si era nemmeno fatta troppe domande su quello che stava facendo. Perché era partita? Perché stava andando da lui? Perché Lanie sapeva del suo incidente? Quanto era grave? Aveva chiamato la sua amica non appena si era considerata abbastanza lontana ed aveva preso la strada principale a scorrimento veloce. Saltò tutti i convenevoli del caso, non come se fosse più di un mese dall’ultima volta che si erano sentite e lei era sparita dalla circolazione per tutti ma come se l’avesse sentita poco prima, uscendo da lavoro, come sempre. Così non l’aveva nemmeno salutata quando aveva risposto al telefono, ma le aveva posto solo una domanda: “Come sta Castle?” chiesto con tutta l’urgenza di chi aveva solo bisogno di una risposta positiva che Lanie le diede, almeno in parte. Sembrava nulla di grave, ma aveva sbattuto la testa e dovevano tenerlo sotto osservazione, e si era rotto un braccio. La domanda successiva che avrebbe voluto farle era perché lei sapeva tutte queste cose, ma fu più veloce lei a dirglielo che Kate a chiederlo: Martha e Alexis erano fuori città e Castle nella lista dei numeri di emergenza da chiamare aveva sempre quello di Javier che l’aveva avvertita subito ed erano andati in ospedale per vedere come stava. Evitò di dirle che il primo numero era sempre il suo perché questo l’avrebbe solo ferita di più.

Tutte le altre domande che da buona detective erano nella sua mente le lasciò da parte per un po’, avrebbe trovato le risposte in un secondo momento. Ora si sentiva solo più sollevata nel sapere che tutto sommato stava bene. Provò solo una fitta nell’immaginarlo solo e dolorante in una stanza di ospedale, lui che le odiava, perché le trovava sempre tanto tristi. Immaginava le sue espressioni esagerate, di chi cerca affetto e conforto che non ha, che faceva il simpatico e l’ironico con Lanie e Javier, che provava a sedurre le infermiere, ma che poi quando era solo diventava triste. Ora lo capiva perché era partita subito, senza pensare, senza sapere: il suo posto era vicino a lui, così come lui era stato vicino a lei quando glielo aveva permesso. Non c’erano altri motivi o spiegazioni complicate, era tutto molto semplice, lei doveva stargli vicino. 

Aveva visto il sole nascere e farsi alto e si era rimproverata più volte di non aver pensato a di prendere gli occhiali da sole perché adesso faceva una gran fatica a guidare ma, nonostante questo, non rallentava la sua corsa e si era fermata solo un’altra volta per bere un caffè, il primo dopo tanto, tanto tempo, ma era vitale per riuscire a rimanere sveglia e mettere gli ultimi dollari di benzina. Aveva maledetto quel traffico che l’aveva fatta rallentare, facendole perdere minuti preziosi e quando ad accoglierla trovò quello ben più caotico e fitto di New York non seppe se essere ancora più frustrata o felice perché la meta era vicina.

 

Lasciò l’auto nel parcheggio ed entrò di corsa in ospedale. Si guardava intorno furtiva, come per paura che qualcuno la vedesse o la riconoscesse e si dava da sola della stupida, era esattamente il modo migliore per attirare l’attenzione. Chiusa in ascensore in attesa di raggiungere il piano, si impose di fare dei respiri lunghi e lenti e di stare calma.

Percorse così il corridoio normalmente, cercando il numero della stanza, controllando sul display del cellulare le indicazioni che le aveva dato Lanie. Arrivata davanti la camera di Castle, tutta la sua baldanza e l’adrenalina che l’avevano condotta fino a lì sparirono e si sentì spaesata e terrorizzata all’idea di vederlo. Sentiva a malapena la sua voce dietro la porta, ma aveva riconosciuto la sua risata inconfondibile, stava bene quindi, almeno quello le era di conforto. Aveva pensato per tutto il viaggio a cosa gli avrebbe detto eppure non aveva trovato nessuna parola adatta e forse il suo primo pensiero “Ciao Castle, sono un’idiota e ti amo” era l’opzione migliore, che in poche parole semplificava tutto, ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di entrare e di dirglielo così, anche se forse avrebbe dovuto. Forse doveva scusarsi, come prima cosa o chiedergli come stava o invece solo entrare lì e dirgli quanto lo amava e quanto era importante per lei. Si torturava le mani nel pensarci e decise che la cosa migliore, intanto, poteva essere quella di non andare da lui a mani vuote. Un caffè. Portargli lei questa volta un caffè, quello poteva essere il giusto modo per iniziare. Perché lui avrebbe capito dietro quel caffè cosa c’era, che non era solo un caffè, era di più, era il suo modo per farlo sorridere, per dirgli ti amo, mi prendo cura di te, come aveva sempre fatto lui con lei. Sì, un caffè era decisamente la soluzione migliore. Si spostò da lì ed andò nella sala d’aspetto che aveva visto arrivando ed era proprio dietro il corridoio. Aveva ancora cinque dollari in tasca, tutto quello che le rimaneva, li investì nei loro caffè.

Tornò vicino alla sua stanza e questa volta la sua risata gli arrivò più chiara, più limpida. La porta era aperta e lo vide, riflesso nel vetro interno. Era in piedi ed il braccio sinistro era legato al suo collo, mentre con l’altra mano spostava i capelli biondi di Vanessa dal suo viso, facendoli passare dietro l’orecchio, in quel gesto che tante volte aveva fatto con lei. La guardava con il volto inclinato, con un sorriso dolce e rassicurante.

- Ehy piccola, non ti preoccupare - Cercò di tranquillizzare l’attrice.

- Non dovevi esagerare con l’alcool ieri sera! - Lo rimproverò senza nascondere il suo turbamento.

- Non ho esagerato, solo qualche drink, sai come vanno le feste. Ero solo un po’ più stanco del solito, tutto qui. - Si giustificò lui.

- Come stai Richard? - Sentì la voce sinceramente preoccupata della donna dopo qualche istante di silenzio.

- Sto bene, ora che sei qui, sto bene. - La vide abbracciarla con il braccio non ferito e lei appoggiarsi al suo petto mentre lui prima le aveva lasciato un bacio tra i capelli e poi l’aveva scostata per abbassarsi e baciarla sulle labbra. Kate era rimasta immobile, con i caffè in mano a guardare quella scena senza riuscire nemmeno a respirare. Stava bene. Stava bene perché c’era lei. Era lei che voleva, lei che lo avrebbe tirato su di morale, cancellato il suo broncio ed aiutato se ne aveva bisogno. Era Vanessa di cui aveva bisogno per stare bene, non di lei. Lei non lo faceva stare bene, lei lo aveva solo fatto soffrire. Lo vide abbracciarla ancora una volta e parlarle con voce bassa e dolce per tranquillizzarla. Sentì che aveva preso il primo aereo da Los Angeles per raggiungerlo e Kate sorrise, pensando che a tutte faceva lo stesso effetto, si preoccupavano e si precipitavano da lui, ovunque fossero con ogni mezzo. Poggiò i due bicchieri di caffè a terra appena riuscì a riprendere possesso del suo corpo e lanciò un ultimo sguardo allo specchio sulla porta solo per vederli baciarsi ancora. 

Corse via e si sentì tremendamente stupida e patetica. Urtò una coppia che camminava nel corridoio e si scusò con un gesto perché non aveva nemmeno la forza di parlare. Aspettò l’ascensore, impaziente, ma era troppo lento e corse giù per le scale più velocemente che potè perché doveva solo uscire da lì e respirare ancora. Ce l’aveva quasi fatta, era quasi fuori quando il suo respiro si bloccò ancora. Alexis era davanti a lei e le due si fissarono per qualche istante senza dirsi nulla, poi Beckett corse fuori e respirò di nuovo, lasciando la figlia di Castle immobile all’entrata.

- Tutto bene tesoro? Sembra che tu abbia visto un fantasma! - Esclamò Martha appena la raggiunse

- Sì, nonna, tutto bene. Solo sai, gli ospedali non mi fanno un bell’effetto - Si affrettò a giustificarsi senza dire nulla dell’incontro appena avuto

- Oh e a chi lo fanno! Andiamo a vedere come sta quel testone di tuo padre!

 

Kate seduta nell’abitacolo dell’auto si passò le mani tra i capelli. Cosa pensava di fare? Cosa pensava di ottenere? Che arrivando lì lui avrebbe cancellato quanto aveva fatto prima? Eppure lo sapeva di Vanessa, lo aveva visto felice, perché era andata fino a lì, scappando, guidando senza sosta per dieci ore? Perché il suo inconscio l’aveva naturalmente condotta lì prima che la sua ragione potesse opporsi in qualsiasi modo? Lo sapeva perché ed era la risposta più semplice, perché lei amava Richard Castle.

 

- Tieni ragazza, mangia questo.

Lanie seduta sulla panchina vicino a lei, le stava porgendo un pezzo di pizza che però Kate rifiutò scuotendo la testa. L’aveva chiedendole di raggiungerla ad un parco vicino il laboratorio e la sua amica non si era presentata a mani vuote.

- Tesoro, se ti conosco almeno un po’ so che da ieri non tocchi cibo, quindi adesso prendi questo pezzo di pizza lo mangi e zitta.

Glielo mise materialmente in mano guardandola con un’espressione severa e Kate non potè fare altro che mangiare in silenzio. Appena finito le diede una bevanda energetica per evitare che si strozzasse.

- Grazie Lanie - bisbigliò Beckett imbarazzata e grata all’amica.

- Non dirlo nemmeno per scherzo Kate! Penso che sarai nei guai adesso, vero?

- Sì, un po’, credo.

- Sapevi di lei? Li avevi visti insieme? - Le chiese Lanie e Kate annuì. - Scusami, non dovevo dirti nulla.

- No, hai fatto bene. Io… ho capito, oggi ho capito molte cose. - Prese la mano dell’amica facendole capire che veramente, non aveva nulla di cui scusarsi.

- Tieni, questi sono per la benzina per tornare da dovunque tu venga. Immagino che ripartirai subito, vero? - Lanie le aveva portato i soldi che le aveva chiesto. Kate odiava fare queste cose, ma ora non sapeva proprio come fare.

- Ti ridarò tutto Lanie, appena questa storia sarà finita io…

- Appena sarà tutto finito mi ridarai tutto invitandomi a cena tante volte fino a quando non avrai estinto il tuo debito, perché abbiamo un sacco di tempo da recuperare.

La abbracciò forte e Kate fece lo stesso.

- Ti voglio bene Lanie. - Le disse Kate commossa

- Anche io ragazza. Ci manchi così tanto! - Anche la dottoressa faticava a trattenere le lacrime.

Beckett si alzò dalla panchina, mise in tasca i soldi e corse verso l’auto parcheggiata sulla strada. Mise in moto e ripartì.

 

 

Poteva essere la stessa strada a distanza di poche ore così diversa? Kate se lo chiedeva mentre procedeva non più così veloce verso quel posto che continuava a rifiutarsi di chiamare casa. Era diversa la strada ed era diversa lei. La speranza si era trasformata in sconforto, l’euforia in disillusione e solo l’amore era sempre lì, sempre uguale solo che faceva più male perché ora non aveva una via d’uscita, non correva verso una luce in fondo al tunnel, non aveva la prospettiva della braccia di Castle pronte ad accoglierla e stringerla in un abbraccio rigenerante, di quelli che mettono apposto tutti i pezzi del cuore. Il suo amore, ora, era un animale in gabbia che sbatteva contro le pareti senza capire che non c’era una via di fuga da lì ma non si rassegnava a stare fermo in un angolo, si dimenava dentro di lei, sbatteva contro il petto, voleva uscire da quel cuore pieno di crepe che disperatamente cercava di tenere insieme.

Era sola in macchina, più sola di quando stava andando a New York, perché con lei non c’era più né la speranza né l’illusione di loro. Guidava sola nel silenzio totale dell’abitacolo, non voleva sentire parlare la radio, non voleva musica, perché ogni canzone gli parlava di lui, gli parlava di quel loro che era durato troppo poco e non ci sarebbe più stato. Glielo aveva detto lei tempo prima Castle, quando sei innamorato tutte le canzone hanno un senso, e per lei tutte le canzoni avevano un senso di lui.

Si era fermata, più volte, a bordo della strada, quando le lacrime e i singhiozzi le rendevano difficile anche guidare. Solo il tempo di riprendere fiato ed asciugarsi gli occhi e poi ripartiva, verso la sua non vita, il suo non futuro, la sua non casa.

La strada le sembrava scorrere troppo veloce per la sua voglia di arrivare e troppo lenta per la stanchezza che sentiva accumularsi sugli occhi e sulle spalle. Si fermò ancora una volta concedendosi una pausa più lunga, in una stazione di servizio dove fece anche il pieno, ringraziando ancora mentalmente Lanie per averla aiutata. Era già notte fonda ed erano poche le auto che passavano di lì. Il negozio che dal cartello doveva essere aperto H24 era invece chiuso e un distributore automatico era l’unica cosa che distribuisse qualcosa di caldo. La temperatura si era abbassata decisamente e l’umidità le entrava nelle ossa. Dopo aver fatto rifornimento di carburante si concesse il tempo di bere un caffè, per farsi ancora più male. Nelle ultime ventiquattro ore aveva solo bevuto un paio di caffè e mangiato quel pezzo di pizza che le aveva portato la sua amica ed il suo stomaco cominciava a risentire di quel trattamento. Non era solo la scarsa quantità e qualità del cibo a provocarle quei dolori che non la abbandonavano mai. Era qualcosa di più profondo, che non aveva una cura specifica e non sapeva nemmeno se voleva guarire. Sì, avrebbe voluto non sentire più niente, non provare più il dolore per quella situazione e quella mancanza che diventava totalizzante. Doveva ricordarsi di respirare quando ci pensava, perché si sentiva strozzare da qui ricordi e le mani di Rick che stringevano Vanessa gli sembrava di sentirle su di lei, strette intorno al suo collo come una morsa soffocante e la sua bocca che la baciava era come se le togliesse il fiato direttamente dai polmoni, in modo così rude da farle male.

Rick era felice, si ripeteva. Contava solo questo, in fondo. Era quello che aveva voluto quando aveva preso la decisione di lasciarlo. Saperlo al sicuro e possibilmente anche felice. Non doveva starci male, aveva fatto tutto quello solo per questo. Solo per lui. Se lo era ripetuta più volte, per Castle avrebbe rinunciato a tutto quello che più aveva di caro al mondo. Lui. Loro. Eppure adesso che era vero, che aveva visto i frutti concreti della sua rinuncia faceva male ed era un dolore che si rinnovava ogni volta che l’immagine di lui e Vanessa si palesava nella sua mente. 

Sorseggiava il caffè appoggiata al muro rovinato del negozio chiuso ed osservava senza prestare attenzione in realtà, qualche auto passare, fare rifornimento e andarsene di nuovo, qualcuno l’aveva guardata anche con sospetto ma non ci aveva fatto caso, immersa nei suoi pensieri e nei suoi tormenti. Pensava a quella donna bionda stretta al suo Rick e non riusciva a togliere quel aggettivo possessivo dai suoi pensieri. Aveva immaginato di provare rabbia per lei, di avere la tentazione di farle una scenata, magari anche uno scontro fisico nel quale senza dubbio avrebbe vinto, ma non c’era nulla di quello. Vanessa non era la sua rivale, non era qualcuno che le aveva portato via qualcosa di suo, come ancora sentiva Rick. Doveva esserle grata. Era quella che lo aveva raccolto dopo che lei lo aveva buttato via, era quella che lo aveva curato, che aveva evitato che si rovinasse con le sue stesse mai vittima dei suoi eccessi, che gli aveva regalato di nuovo il sorriso e che lo abbracciava per dargli quell’amore di cui aveva bisogno. Non doveva essere lei la destinataria delle sue ire o del suo biasimo, ma solo se stessa e se avesse potuto parlarle, solo una volta, le avrebbe solo detto di avere cura di lui, di farlo felice come lei non poteva fare, di amare il suo Rick come meritava di essere amato.

Se c’era un pregio di quel caffè del distributore automatico era il fare schifo, così non le avrebbe ricordato in nessun modo i caffè di Castle, ma più quelli del distretto, prima che arrivasse lui e la sua vita ormai la poteva dividere così, prima e dopo lui, prima e dopo Castle e così lui c’era comunque, anche quando non c’era, perché era prima che lui arrivasse e comunque scandiva il suo tempo ed i suoi ricordi. Stava diventando pazza, forse. Buttò quello che rimaneva di quell’orribile bevanda che aveva avuto il solo pregio di scaldarla un po’ e ridestarla con il suo sapore disgustoso. Pensò anche che forse il caffè non era così male ma ne era disgustata solo per quello che gli ricordava, lui ovviamente, ed il suo corpo lo stava rifiutando, come se fosse qualcosa di tossico. Sì, stava diventando pazza a fare da sola quei ragionamenti mentre andava verso il bagno per pulirsi gli occhi dal sonno e dalle lacrime solidificate.

 

- Lo sai che per una bella donna come te non è indicato andare in giro da sola, di notte, in questi posti pericolosi? Potresti incontrare gente poco raccomandabile, dolcezza.

Un uomo decisamente corpulento ed alto era apparso alle sue spalle, lo vedeva riflesso nello specchio scrostato davanti a se. Provò a voltarsi ma sentì la sua mano bloccarle la schiena contro il lavandino ed il suo corpo farsi sempre più vicino a lei. Fece un respiro profondo e nel mentre lui parlò di nuovo.

- Sì, sei decisamente bella - L’uomo avvicinò la testa ai suoi capelli respirando il suo profumo e lei potè sentire il suo alito che sapeva di alcool e tabacco entrambi scadenti. - Ci divertiremo un po’ adesso, rilassati.

La risata sghignazzante dell’uomo gli morì in gola, quando Beckett si girò di scatto, molto più velocemente e con molta più decisione di quanto lui si immaginasse e lo colpì più volte con una ginocchiata nelle parti basse prima togliendogli il respiro e calci dietro le ginocchia poi, per farlo cadere. L’energumeno perse l’equilibrio, ritrovandosi in ginocchio davanti a lei che ora lo guardava dall’alto in basso. Poteva andarsene, lasciarlo lì, aveva già ricevuto la sua lezione, ma lui sembrò ritrovare la baldanza e le sorrise provocandola.

- Mi piacciono le donne aggressive. Mi piace domarle. - La sfidò guardandola mentre si rialzava e Kate non distolse lo sguardo né sembrava impaurita. Così quando lui allungò una mano per afferrarla, lei fu ancora più veloce, e lo colpì ancora al fianco più volte con una rapida sequenza di calci e pugni e poi fece leva sul suo braccio per farlo cadere a terra ed il rumore del suo corpo che si schiantava sul pavimento rimbombò nel bagno vuoto. Ancora una volta avrebbe potuto andarsene e lasciarlo lì umiliato, ma sentì tutta la sua rabbia montare e lo colpì ancora e ancora, mentre lui a terra tossiva senza smettere di insultarla con epiteti pesanti ed umilianti, decisamente irritato di essere stato messo KO da quella che aveva considerato una facile preda per i suoi istinti animali. Nella foga però, l’uomo disse una parola di troppo, un’offesa che Beckett in quel momento non poteva sopportare nell’insultare oltre che lei anche sua madre, così tirò fuori la pistola che teneva dietro i pantaloni, per sicurezza, la caricò e la punt direttamente alla testa dell’uomo che ora non insultava più, ma la pregava come un bambino di lasciarlo in vita. Kate rise di lui e sempre tenendolo sotto tiro uscì velocemente da quel bagno chiudendolo dentro. Si preoccupò solo di segnarsi la targa del suo tir, parcheggiato poco lontano dalla sua auto dove rientrò riprendendo il suo viaggio verso Myrtle Beach.

 

Aveva avuto per un attimo paura di se stessa e della sua rabbia. Per qualche istante aveva pensato che avrebbe veramente potuto uccidere quell’uomo, continuare a picchiarlo anche quando era terra o sparargli un colpo con la pistola. La rabbia e la frustrazione avrebbero veramente potuto prendere il sopravvento su tutto quello che era e in cui credeva? Si stava sgretolando fino a quel punto? Non doveva nemmeno dirsi che sarebbe stata legittima difesa, sapeva che non era quello che l’aveva spinta a non andarsene né la prima né la seconda volta, ma solo la voglia di sfogarsi ancora, di far pagare a quella bestia colpe anche non sue e rigettargli addosso tutta la sua rabbia. E proprio quando aveva nominato sua madre e si era infervorata di più, un attimo dopo aveva capito che non poteva tradirla lei per prima, rinnegando con un gesto tutto quello che era, tutto quello che lei aveva fatto in modo che diventasse. Per quello se ne era andata quasi correndo chiudendolo lì dentro, perché non avesse la tentazione di cedere ancora alla sua rabbia, per quello era salita in auto ed era partita velocemente con ancora l’adrenalina in circolo. Per rimanere se stessa. Quell’uomo non valeva così tanto.

 

Quando arrivò alla casa sul mare vide subito le luci accese anche se era notte fonda. Parcheggiò dove era solito lasciare la macchina Nick e salì le scalette che la portavano all’ingresso. La porta era socchiusa e Nick era seduto al tavolo mentre faceva rigirare una tazza di caffè tra le mani. Alzò lo sguardo per guardarla mentre lei come se nulla fosse lasciò le chiavi da lì dove l’aveva prese.

- Beh? Non dici niente? - La rimproverò Price

- No. - Rispose Kate mentre stava per salire le scale.

- Beckett! - Urlò Nick - Dove cazzo sei stata eh? Cosa ti è saltato in mente? 

L’uomo si era alzato e gli era andato vicino sovrastandola con il suo fisico imponente.

- Ero a New York. Contento? - Disse per nulla intimorita dal suo tono e dalla sua presenza. Ma lui la prese per un braccio mentre stava salendo tenendola con forza.

- No! Non sono contento e non va bene. Non puoi scappare come vuoi tu, non farti sentire, senza che nessuno sappia nulla. Hai pensato alle conseguenze di quello che fai? Hai pensato a quello che potevo aver pensato io quando non ti ho trovato a casa? Per me potevano anche averti rapito o ucciso Kate, lo capisci? 

No, non ci aveva pensato a questo. Aveva solo pensato al fatto che lui si potesse arrabbiare non trovandola, ma non che avrebbe pensato a qualcosa di peggio. Dalla sua non risposta Nick capì che lei questo non lo aveva minimamente considerato.

- Castle ha avuto un incidente. Io… dovevo andare, capisci? - Provò a giustificarsi

- No. Non capisco. E non capisco come fai a saperlo.

Tirò fuori il telefono facendoglielo vedere.

- Grandioso. Eri tu quella che non si fidava di me eh? Io invece di te mi fidavo. Che coglione che sono, vero?

- Nick… 

- No, Kate, nessun Nick. Io sono qui, per proteggere te. Perché mi sono preso una responsabilità. Dirai che non me lo ha chiesto nessuno, è vero, ma non è questo il punto. Io non posso proteggerti se tu non vuoi. Non posso fare nulla per te se tu non ti fidi, prendi e te ne vai da Castle o da chiunque altro quando qualcuno ti avvisa che qualcosa non va. Vuoi andare? Vuoi la tua vita? Vai Kate, andiamocene via! Cosa facciamo qui? Vuoi il tuo scrittore? Non resisti? Vai da lui, finiamo questa scena. Ho dovuto avvisare anche la Gates e Bratton, ti stavano facendo cercare anche loro. Devi capire che le tue azioni hanno delle conseguenze Beckett. Che non puoi fare come vuoi pensando che gli altri siano invisibili.

Price uscì sbattendo la porta e Kate rimase immobile nel soggiorno. Lo sentì mentre sulle scale parlava al telefono con Bratton, aggiornandolo sulla situazione. Non si era preparata ad essere investita anche dalle parole di Nick. Non a quella violenza, non ad essere messa ancora una volta spalle al muro. Sapeva che aveva ragione e questo era quello che le faceva più male.

- Allora? Che vuoi fare? Torni a New York, vai da Castle? - Le chiese quando era rientrato.

- No. - Buttò il cellulare sul tavolo e salì in camera.

Nick prese il telefono e lo spense, mentre sentiva la porta della sua stanza chiudersi.

   
 
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