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Autore: Sharkie    22/03/2017    6 recensioni
(CLEXA Sci-fi!AU) E' una bella giornata quando l'ingegnere Reyes ed il Rettor Jaha entrano in un localino affollato per proporre alla neo dottorata in psico-criminologia Clarke Griffin di partecipare ad un progetto a dir poco singolare: studiare la reazione psicologica di un'agente delle Forze Speciali ad un particolare "dispositivo" impiegato per il suo addestramento. 
Non passerà molto tempo perchè Clarke capisca che la situazione è un tantinello più complicata di così.
Che cos'è questo dispositivo?
Chi è davvero la sua paziente e in cosa consiste l'addestramento?
E sopratutto, perchè, lei che è sempre stata così brava a leggere le persone, tutto a un tratto trova quella ragazza così dannatamente indecifrabile?
.................................
"Lei la ricordava bene quella sensazione.
Era stato doloroso, qualcuno avrebbe detto “come morire” ma è chiaro che nessuno al mondo ancora in grado di parlare ha davvero cognizione di quello che significa questa frase.
Forse solo lei avrebbe potuto dire qualcosa al riguardo, se solo avesse ricordato.. ricordato del prima.. 
Ma all'epoca non sapeva nemmeno di doversi sentire qualcuno.
All'epoca non sapeva niente."
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Becca, Clarke Griffin, Lexa, Raven Reyes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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[Angolo dell'Autrice]: vi prometto, prometto, giuro che fra poco avrete il vostro zucchero. Più o meno.
Ma per ora fidatevi di me...
__________________________



Un conto alla rovescia.
150…149…148…
La ragazza sente il pavimento duro contro di lei. La stanza in cui si trova è buia, grande, vuota.
Sente il suo stesso respiro nelle orecchie. In lontananza una voce contare.
138…137…136…
Si alza. Si guarda intorno. Non ha niente addosso.
Lo spazio è desolato, grande, ci sono oggetti abbandonati in ogni dove. Un divano rosso grande, le posate a terra, un tavolaccio lungo. Del cibo nei piatti. Marcio.
Eppure non vola nemmeno una mosca.
Il posto sembra essere stato lasciato in fretta e furia.
Si dirige verso la voce.
105…104…103…
Arriva in un ambiente scarsamente illuminato. Le luci sfarfallano e un lampadario manda scintille.
93…92…91...
È una sala monitor, piena zeppa di computer. Qualcuno è ancora acceso, ma non c’è niente sullo schermo. Non un solo segno di attività.
87…86…85…
I piedi sono nudi, il pavimento è impietosamente gelido. Decide di andare avanti, tra le scrivanie. Deve trovare un modo per uscire, pensa.
Che cos’è quel posto?
Una cartina. È là, sul muro, dietro quella scrivania.
76…77…76…77…
Il conto s’inceppa. Poi ricomincia.
77…76…75…
La ragazza si guarda intorno. Da dove viene quella voce?
La cartina. Deve prenderla.
Arriva al muro, la stacca con le mani.
Il disegno è un labirinto tracciato di nero. I segni sulla carta sono pesanti, sporchi.
La traccia arriva fino ad un estremo del foglio. Pare che continui dall’altro lato. Lo gira.
Le mura del tracciato diventano delle dita. Una mano nera dal palmo a spirale prende tutto lo spazio del foglio.
41…40…39…
Sente delle risate cristalline. Sembrano quelle di bambini.
Scruta tra le scrivanie ma non vede niente.
In lontananza un computer dallo schermo luminoso. Si avvicina, il foglio ancora in mano.
Tocca il mouse e lo screensaver sparisce, mostrando sul desktop la foto della terra scattata dallo spazio. In orbita, due missili.
20…19…18…
Sulla barra delle applicazioni, una finestrella lampeggia. La ragazza ci clicca sopra.
Si apre un terminal nero. Il cursore bianco appare e scompare.
I numeri appaiono stampati non appena la voce li scandisce.
11…10…9…
La ragazza guarda ipnotizzata i numeri andare a zero, aspettando che succeda qualcosa.
3…2…1…
1
1

Il numero uno rimane fisso, la voce smette di contare. La ragazza si guarda intorno.
Non succede niente.
Le cade di nuovo lo sguardo sul monitor.
“Who art thou?”
È scritto a chiare lettere di bianco pallido.
Chi è lei? Non lo sa.
“Nobody” digita. Preme invio.
Il cursore lampeggia per alcuni secondi.
“Why are thou here?” esce dopo poco.
Perché è lì?
“IDK”
Non lo sa.
Il cursore lampeggia altri secondi.
“Liar” digita il computer lentamente dopo poco. Bugiarda.
La ragazza guarda il prompt dei comandi. Non capisce.
Il cursore riprende a digitare.

Un boato squassa il silenzio. Proviene da fuori la stanza, da dove era venuta lei.
Rumori pesanti di un corpo enorme che avanza nel corridoio troppo stretto. La ragazza è terrorizzata, scappa sotto una scrivania.
Un lamento grottesco, come un muggito, risuona negli infiniti spazi vacui. La ragazza sbircia da sotto al tavolo, tra le fessure delle lastre di legno. In controluce, la figura di una bestia enorme che cammina dondolandosi su due braccia lunghe, grosse come tronchi.
Lei lo sente. Lui la sta fiutando.
Scaraventa le scrivanie all’aria.
Lui è vicino, sempre più vicino.
Il monitor brilla. È apparso qualcosa.

“Abandon all hope, ye who enter here”

Un ruggito. Lui spacca la scrivania sopra la sua testa con una mano enorme, la prende, la stritola e la sfracella sul muro. Lei urla, cerca di scappare. Lui la prende, la trascina, le afferra la testa.
I suoi denti si chiudono sulla sua faccia.



«…aaaaAAAAAAAAHHH » Si sveglia con le sue stesse urla nelle orecchie.
Ha gli occhi spalancati, il battito del cuore che le riempie il cervello, il sangue a mille.
Nell’oscurità, due occhi brillano. Ha paura. Quel “qualcuno” la afferra.
Annaspa, le mani brancolano nel buio artigliando alla cieca il tavolino, le lenzuola, la spalliera.
Afferra qualcosa. Lo stringe così forte che sente le unghie penetrarle nel palmo della mano, poi mira in direzione del bianco degli occhi. Una penna si pianta dritto nel collo dell’uomo che le stava davanti.
Che urla di dolore. Un urlo bestiale.
Lei sente il suo sangue pompare, il respiro così affannoso da sembrare un animale.
Le pupille sono enormi. Le orecchie captano il minimo movimento.

È lì, sul lettino, tutta raggomitolata su sé stessa. Sente le voci provenire dalla porta semiaperta. Un secondo, poi si spalanca. Entrano altri uomini.
Si gettano su di lei.

Lei non vuole essere toccata. Allora attacca.
Si getta sul primo, gli morde un orecchio. Sente il sapore del sangue riempirle la bocca e altre urla devastarle le orecchie.
Sono così sensibili. Le fanno male.
Un dolore alla testa. Qualcuno l’ha afferrata per i capelli. Lascia l’uomo, sputa a terra il pezzo di orecchio e si torce su sé stessa per afferrare le gambe di quell’altro.
Lui cade, lei gli è sopra, fa passare le braccia attorno al suo collo e le gambe attorno al suo torace. E stringe. Stringe, finché lo sente ancora dibattersi, stringe, fino a quando non lo sente succhiare l’aria disperatamente.

Un dolore lancinante. Le hanno sbattuto in testa un vassoio di acciaio. Lei sente un rivolo di sangue scenderle dietro la nuca e la vista che si offusca.
Non ricorda come, ma adesso è a cavalcioni sull’altro uomo e lo colpisce. Ha le nocche sbucciate, lui non ha più i denti davanti, la faccia è tumefatta.
Il sangue che gli esce da bocca e naso lo sta affogando.

Le persone continuano ad entrare a fiotti.
Sente qualcuno tirarla per le spalle, urlando.
Si gira di scatto, e si getta sulla figura, pronta a colpirla, le mani ad artiglio.
Altre braccia, troppe, le bloccano il torace, la spingono a terra. Sente il loro peso sulla schiena mozzarle il fiato. Qualcuno le infila prima una, poi due siringhe nel collo.
Lei continua a ringhiare, a tremare, a urlare. Non vuole che la tocchino.
Una terza siringa nella coscia.
Finalmente i battiti rallentano. Sente solo i suoi respiri, sempre più lenti, sempre più profondi.
Alza lo sguardo sulla figura che le stava davanti, quella che l’aveva tirata.
Prima di perdere i sensi, riconosce nei suoi occhi l’orrore...
...due occhi a mandorla.

 
****


[12.11] “Sicura che non hai problemi a venirmi a prendere, principessa?”
[12.11] “Finn, stai tranquillo, davvero :D “
[12.11] “Ok... allora ci vediamo vicino le fermate degli autobus? Così puoi anche accostare con la macchina”
[12.11] “Ma quanto sei bravo… Pensi proprio a tutto!”
[12.12] “ :) Mi raccomando non ti scordare di me in questi giorni”
[12.12] “Beh… nel caso, sono sicura che un sacco di gente si fermerebbe davanti al tuo bel
faccino che fa l’autostop”
[12.12] “Clarke!”
[12.12] “Sto scherzando. Giuro solennemente che non dimenticherò il mio ragazzo all’aeroporto”
[12.12] “Meno male”
[12.12] “Ora devo andare. Mamma mi guarda male”
[12.12] “Ok… io fra poco spengo il cellulare per il decollo. Ci sentiamo quando atterriamo”
[12.13] “Va bene ragazzone.”
[12.13] “Ti amo”


Clarke guardò il cellulare interdetta. Glielo aveva detto un milione di volte che lei non si sentiva ancora pronta per quella frase… eppure lui continuava a ripeterglielo.
Non è che lei non gli volesse bene o che non ne fosse innamorata. Solo che… “ti amo” le sembrava una dichiarazione un po’ troppo grande da fare.
Lo associava ad una sensazione quasi romanzesca, impossibile da provare nella realtà.

[12.13] “Finn…”
[12.13] “Si, si, lo so. Ma dovevo dirtelo, sai, nel caso in cui l’aereo…”
[12.13] “Cretino. Non succederà niente. Ci sentiamo stasera”
[12.13] “A stasera”


« Clarke. Quante volte ti devo dire che non mi piace che tu abbia quell’affare in mano quando vieni a trovarci?» sbottò Abby, la madre di Clarke, entrando in salone mentre si asciugava le mani.
« Scusa mamma. Mi stavo mettendo d’accordo con Finn per quando tornerà in America. » disse la ragazza mettendo da parte lo smartphone e sedendosi sul divano.
La donna le sorrise dolcemente e la raggiunse.
«Come vanno le cose tra voi? »
Clarke le si accoccolò addosso e la donna la strinse forte.
«Tutto ok, credo. Facciamo vita di coppia da un anno ormai ed è il miglior compagno di appartamento che potessi sperare di avere.»
Risero entrambe.
« Ti fa la lavatrice?»
« Oh, non solo! Cucina, pulisce, fa tutto lui.»
« Clarke… » iniziò la madre con un tono falsamente severo « dovresti vergognarti. Pover’uomo, praticamente gli fai fare il servo! »
Clarke la guardò un po’ offesa
« Hey! È lui che mi dice di non toccare niente! Giuro che io ci provo a fare qualcosa…» si lagnò lei.
« Probabilmente ha solo paura che tu gli distrugga la casa.» la canzonò la madre con un sorriso sarcastico.
Prima che Clarke potesse ribattere, dalla cucina sbucò un uomo sulla quarantina di bell’aspetto, mentre reggeva una teglia enorme di lasagne.
« Questa meraviglia finalmente è pronta! » disse, evidentemente soddisfatto.
« Grande Marcus! Qui si moriva di fame » rispose la ragazza sorridendo. Si alzarono dal divano e si accomodarono al grande tavolo di noce al centro della stanza.

Clarke non aveva mai superato la morte del padre e vedere un altro uomo nella vita di sua madre all’inizio non le aveva fatto di certo piacere, soprattutto se quell’uomo era stato amico intimo dei suoi genitori per anni e anni.
Poi era successa la tragedia al lavoro. Erano morti in parecchi, tra cui anche la compagna di Marcus.
La solitudine, la forte amicizia ed il dolore condiviso avevano fatto il loro corso, avvicinandoli e legandoli definitivamente l’uno all’altro.
Aveva impiegato tempo ad accettarlo, ma coi mesi l’uomo era riuscito a conquistare anche lei con i suoi modi gentili, la sua forza d’animo, il suo modo di prendersi cura di Abby.
Così, si, alla fine Marcus le era piaciuto e anche tanto, anche se non avrebbe mai sostituito il padre nel suo cuore.

« Allora, che si dice al lavoro? » le disse l’uomo, iniziando a distribuire le porzioni di pasta.
« Avevi promesso di raccontarci qualcosa » insistette la madre.
Clarke si trovò improvvisamente a disagio.
« Io in realtà…» farfugliò. Mentire a sua madre non le era mai piaciuto ma non poteva raccontarle niente. Anche se non fosse stata vincolata dal contratto, dubitava fortemente che Abby, alla notizia di sua figlia scaraventata in orbita e quasi morta per colpa di strani marchingegni, se ne sarebbe stata buona.
No. Decisamente non sarebbe stata una buona idea.
« …sto lavorando su un agente in recupero post-traumatico. È una ragazza molto giovane, perciò hanno chiesto a me. » disse frettolosamente, guardando nel piatto.
« Oh. » Marcus era sorpreso. Lanciò un’occhiata nervosa alla compagna.
« Non è strano che una ragazzina sia un operatore? » chiese.
« Ero sorpresa anche io… ma poi l’ho vista ed effettivamente sembra tutt’altro che indifesa.» commentò la ragazza ridacchiando.
« Intendo dire che mi sembra assurdo buttare in situazioni così pericolose qualcuno che abbia la tua età. O è più piccola ancora? Non mi stupisco che soffra di un qualche trauma.»
« Non lo so. » realizzò lei, per la prima volta. Quelle informazioni rientravano nella cartella Top Secret, per il momento. « Non so quanti anni abbia. Forse qualche anno più di me. Ma ti assicuro che al giorno d’oggi questa è quasi la prassi. Più gli operatori sono giovani, più sono capaci, svegli, pronti ad apprendere. Nessuno li forza, il loro è un desiderio che nasce da dentro…»

“Nessuno li forza”. Beh forse non era proprio il caso di Lexa…

« Anzi, ti dirò di più. Spesso e volentieri sono ragazzi tolti dalle strade a cui viene data un’alternativa. Piuttosto che trovarli a spacciare droga qualche anno più tardi, suppongo sia preferibile metterli dietro le file a “combattere il crimine”. Non è il caso della mia assistita, sto solo dicendo l’altra faccia della medaglia…»
L’uomo la guardò poco convinto, poi tacque, continuando a mangiare.
« Che le è successo? » chiese Abby.

“Ed eccoci arrivati alla parte in cui devo inventare di sana pianta”

« Nella sua ultima operazione sono morti dei bambini. Lei se ne considera la causa… ma ci stiamo lavorando. »
« Ma è una cosa terribile. Come è potuto succedere? » disse sconvolto Marcus.
« Ahm… » deglutì Clarke « A quanto pare questa… setta li costringeva a combattersi e ad uccidersi a vicenda. Erano bambini strappati alle loro case e allevati praticamente con le armi al posto dei giocattoli. Lei era un’infiltrata…» concluse, maledicendo la sua troppa fantasia «…ne ha visti morire sette davanti ai suoi occhi senza poter fare niente. »
Era una storia assurda.
« Povera ragazza. Ci credo che è sconvolta…» disse Abby.
« Sarà un caso particolarmente delicato… e per niente facile, giusto?» chiese Marcus.
Aveva funzionato, incredibilmente. Forse la sua fantasia non era tanto male.
Clarke annuì con decisione. « È molto restia ad avere una conversazione, quindi mi sono dovuta inventare un metodo alternativo » sogghignò « per ora tutte le nostre sedute si sono svolte con me che le correvo dietro. Letteralmente! » disse soddisfatta guardando negli occhi la madre.
« Non deve essere una bella sensazione parlare al sedere di qualcuno… » commentò la donna sarcastica.
« Per niente, mamma. Però ieri è successo qualcosa… » “…stavo per spaccarmi la noce del collo…” «…e finalmente sembra che le cose stiano iniziando ad ingranare. Ovviamente è ancora presto per parlare… ma ho una buona sensazione. » gongolò Clarke, con un pizzico di soddisfazione.
« Che tipo è? » le chiese Abby, inforcando una polpettina.
Clarke sorrise. In realtà non sapeva davvero cosa dire. Cercò di raccogliere le idee, ricordandosi i momenti salienti di quella settimana stressante.
« Testarda, sicuramente. » riassunse, prima di dedicarsi alla sua abbondante fetta di lasagne.
« Testarda? Tutto qui? » insistette Marcus.
« Beh. È orgogliosa, tenace, forte. Ci sono mille altri modi per dirlo. » Clarke ripensò all’espressione dura dei suoi occhi la prima volta « Ho l’impressione che sia molto, molto intelligente. Credo che abbia un ottimo sesto senso…» Rivide davanti agli occhi il sorrisetto sarcastico del giorno prima «…e credo anche che ci goda a prendermi in giro. » concluse, tagliando l’ultimo pezzo in tre quadrettoni.
« Sembra un tipino interessante. » sorrise la madre, pulendosi le labbra col tovagliolo.
« Lo è… » rispose la ragazza abbozzando anch’essa un sorriso « ...Lo è.»
« E com’è? Fisicamente, dico.» chiese l’uomo sorridendo, guadagnandosi un sopracciglio alzato da parte della compagna « …è una domanda innocente! » rise « È solo che è strano pensare ad una giovane donna alle prese con un addestramento militare… quando ci hanno fatto fare l’anno di leva obbligatoria eravamo solo noi ragazzi. Non sono contrario alle donne nelle forze armate! » si affrettò a dire, prima di sollevare le lamentele di madre e figlia « Lo sai che non sono il tipo…sono solo curioso. »
I tre ridacchiarono.
« Non è un mostro tutto muscoli, Marcus. » disse Clarke sorseggiando il suo bicchiere di vino.
Davanti ai suoi occhi, eccola che entrava per la prima volta nella tenuta, asciugandosi il collo madido di sudore. « È una bella ragazza, allenata, tonica, questo si. Una cosa te la concedo però…» disse guardando il vino ruotare nel suo calice. Ricordò le prime volte che Lexa le era sfuggita come un felino, correndo agilmente in salita tra gli alberi e le foglie scivolose, instancabile. Le era sembrata tanto impietosa, tanto crudele in quelle occasioni.
Poi però pensò a quando la ragazza era stata lì, a controllare che stesse bene, dopo che… beh, dopo che miracolosamente aveva smesso di rotolare.
«…effettivamente può ricordare un animale. Un predatore, agile, letale. E ha questi occhi verdi… » tacque un secondo prima di vuotare il bicchiere. Si trasportò di nuovo col pensiero ai piedi di quella scalinata, quando li aveva visti scintillare nel buio.
« …indecifrabili. »
Ci fu qualche secondo di silenzio.
« Affascinante. » commentò Marcus, abbandonandosi sullo schienale. « Se non fosse contro l’etica professionale ti chiederemmo di portarla qui a pranzo una di queste domeniche. »
Clarke sorrise.
Il grande cucù appeso al muro rintoccò, si erano fatte le due del pomeriggio.
« Ragazzi, mi sa che devo andare » annunciò, alzandosi e prendendo la borsa sul divano.
« Sul serio? Di solito ci riservi almeno altre due ore.» si lamentò Abby, che si era alzata per sparecchiare, seguita a ruota da Marcus.
« Le settimane scorse non avevo un lavoro! » commentò allegra la bionda. « Devo scrivere il mio rapporto e stilare altre noiose liste… Sta tranquilla mamma » disse Clarke schioccandole un bacio sulla guancia « Non sarà sempre così. Ora devo abituarmi a questi nuovi ritmi ma presto riuscirò a riorganizzarmi. Te lo prometto. »
La donna la guardò radiosa.
« Sei diventata una donna. » le disse emozionata, stringendole le spalle.
« Ogni tanto capita » le rispose la figlia, ricambiandole il sorriso.
Marcus si schiarì la voce, imbarazzato. Clarke si riscosse ed andò ad abbracciarlo, salutando affettuosamente anche lui.

Gli voleva bene. Si volevano bene, sinceramente.
Quelle scenette di vita familiare la scaldavano dentro, mettevano a posto un po’ i frammenti del suo cuore che non potevano più essere incollati dopo i disastri che le avevano sconvolto la vita, anni prima.
Prima suo padre, poi Wells, i problemi economici, i litigi con Abby, il suo allontanamento durante il periodo del College.
Era tutto passato, è vero, ma determinate cose fai fatica a cancellarle. Puoi coprirle con strati e strati di tanto altro, nuovi amori, amicizie, soddisfazioni professionali, ma le crepe rimarranno per sempre lì.
Quegli attimi la aiutavano a dimenticare. Per pochi minuti, la sua vita era sempre stata quella, ovattata, morbida e bella.
Solo pochi minuti.
Poi tornava ad essere la Clarke Griffin col suo bagaglio di disastri sulle spalle.

La ragazza indossò il cappotto di panno e si avviò alla porta, seguita dai due. Si diedero appuntamento alla domenica successiva, si diedero altri baci e abbracci, poi la porta aperta fece tintinnare il campanello appeso al soffitto.
Prima di chiuderla Clarke si ricordò di una cosa.
« Marcus » chiamò.

L’uomo si affacciò di nuovo, seguito a ruota dalla compagna.
« Chi ha cucinato oggi? » chiese la ragazza, con aria disinteressata. Abby alzò un sopracciglio.
L’uomo la guardò incuriosito
« Io, come sempre. Perché, non ti è piaciuto? » le chiese sorridendo.
Clarke lanciò uno sguardo complice alla madre, che assunse l’aria colpevole di un bambino colto con le mani nella marmellata.
« Ci avrei giurato. Era tutto buonissimo! Grazie mille, ci vediamo » disse ridacchiando lanciando un’ultima occhiata alla donna, prima di voltarsi e di andarsene.

Pochi secondi di silenzio, poi Clarke sentì Abby sussurrarle un « Impertinente.» e la porta chiudersi alle sue spalle.


 
****

Voleva alzarsi. Le prudeva il naso.
Provò a muoversi ma non appena tirò su le gambe sentì qualcosa bloccarle le caviglie. Sgranò gli occhi.
Provò a tirarsi su a sedere, ma i polsi erano trattenuti da una forza invisibile, spinti a stretto contatto col materasso. Girò la faccia ma il mento rimase intrappolato in un collare che le avvolgeva tutto il viso. Era completamente immobilizzata.
Emise un lamento debole.

Silenzio.

Spinse gli occhi a guardare verso la finestra finché non sentì i muscoli delle orbite farle male.
Fuori la giornata era splendida, dal piccolo spiraglio che riusciva a raggiungere con lo sguardo vedeva il cielo di un azzurro intenso e gli uccellini cinguettare.

Inarcò la schiena e sentì delle cinghie impedire al suo torace di espandersi. Si torse su sé stessa, strisciando come un serpente ma dovunque flettesse il suo corpo trovava opposizione.
Era bloccata là. Il cuore si mise a pompare più forte.
Non riusciva a respirare bene.
Cacciò un gemito rabbioso.

Iniziò a divincolarsi con rabbia, tirando i legacci, mordendo il collare dove poteva, scalciando, graffiando il materasso. L’immobilità forzata la stava gettando in uno stato di panico atroce, l’ansia la divorava. Sentì le cinghie quasi cedere ed il letto tremare, sbattendo contro il tavolino di acciaio.
Una porta aperta. Del vociare concitato.

« Hey! Hey! Ferma! »
Riconobbe quella voce. Le bastò per immobilizzarla all’istante.
« Se fai così è peggio. » le spiegò l’infermiera, comparendo nel suo campo visivo e afferrandola per gli avanbracci.

La ragazza nel camice bianco la guardò per pochi secondi, assicurandosi che la paziente avesse smesso di divincolarsi.
La prigioniera cercò il suo sguardo insistentemente, ma l’altra rifuggiva il contatto visivo diretto come se fosse stato doloroso.

« Si è svegliata? » disse un’altra voce fuori campo. Era la donna.
La ragazza legata sentì le dita dell’infermiera scivolare via lentamente.
« Si. E non le piacciono le cinghie. È… è proprio necessario? » sentì dire la ragazza.
« Chiedilo a Bastian, Costia. E a Silvester. Lo stava ammazzando. » rispose l’altra con voce dura.

Costia. Costia.

L’infermiera tacque guardando a terra, imbarazzata.
« Non metterò nessun altro in pericolo per un mio sbaglio. » continuò l’altra.
« …Che è successo? Non l’avevo mai vista così…» chiese la ragazza.
La donna sembrò ammorbidirsi un poco alla vista di un’espressione così sconsolata.
« Non lo so. Sto cercando di capire… ma per il momento è meglio tenerla così. Ho bisogno di chiederti alcune cose. »
« Si. »

La ragazza tentò di seguirle con lo sguardo, mentre si spostavano vicino la finestra.
Piegò il collo in maniera innaturale, fino a sentire dolore.

« Non.. non dovremmo metterci fuori? » sentì Costia dire. Stava guardando al suo indirizzo, con aria preoccupata.

Costia. Aveva un nome.

« Qui va benissimo. » tagliò corto la donna, senza degnarla nemmeno di uno sguardo
« Ascolta, tu sei certa che non ha mai avuto dei comportamenti violenti finora, vero? Nemmeno uno sguardo, un’espressione, niente? »
« No. Mai. » rispose semplicemente la giovane.

Rumore della matita che gratta sul foglio.

« Ha dormito… quanto? Tre giorni? »
Tre giorni??
« Si. »
« E si è svegliata ogni tanto, mi dicono. »
« Si. Era stordita, probabilmente non ricorda niente. Ha solo aperto gli occhi per qualche minuto, poi è tornata a dormire. »

La matita continuava a gracchiare sulla carta.

« Quante volte? »
« Cinque… »
« E non era aggressiva. » concluse
« No…»

Si era svegliata? Davvero?

La dottoressa continuò a scrivere per qualche minuto, senza aggiungere altre domande.
« Può avere una qualche forma di disturbo della personalità? » Costia ruppe il silenzio. Era visibilmente in ansia.
La donna continuò a scrivere per qualche secondo, prima di tacere e di riflettere a lungo.
« No. » disse lapidaria, senza aggiungere altro.
« Dottoressa, la prego, mi ascolti. Lei… lei non è così. Non è mai stata così, non può esserlo. Non è un animale sanguinario, io lo so. »
Il tono di Costia era veemente, lamentoso. Disperato.
« Lo so. »

Ci fu ancora qualche secondo di silenzio.
La paziente scrutava il soffitto. Il sole rifletteva sulle enormi mattonelle bianche, asettiche, malate, grottesche.

« Per te non è un problema continuare a prendertene cura, quindi. » disse la donna.
Sentì Costia inspirare, sorpresa.
« … No. No, stavo per chiederglielo io… » balbettò.
« Lo sai che se le succede di nuovo, potresti esserci tu sotto le sue mani stavolta. L’ultima volta è stato solo un caso che non sei entrata in stanza per prima. Lo sai che se Bastian non fosse stato un giocatore di rugby al liceo quella matita lo avrebbe ucciso? » chiese duramente la donna.
Costia rimase in silenzio.
« Tieni legate strette quelle dannate corde. Non mi importa quanto tu credi che lei sia un tenero agnellino. Sono stata chiara? E non voglio vedere nessun oggetto, nessuno, nel raggio di tre metri da lei. »
L’infermiera annuì.
« Ora vai fuori. » ordinò la donna. « Chiudi la porta e non far entrare nessuno. »

La paziente sentì l’altra esitare. Il collo le faceva malissimo e per quanto si sforzasse di torcerlo nella loro direzione, il collare le impediva la visuale.
Se avesse saputo come imprecare, avrebbe bestemmiato pesantemente.

« Costia. Ho detto vai. » ripeté duramente la donna.

Passi. L’infermiera si avviò riluttante alla porta.
La paziente la sentì fermarsi e girarsi per chiedere qualcosa.

« Non le succederà niente, te lo prometto. » la precedette la dottoressa. « Ma ho bisogno che tu vada fuori e che sorvegli la porta. »

Rumore di una testa scossa in segno di assenso poco convinto. Porta che si chiude.
Altri passi. La paziente sente i suoi respiri farsi più veloci.
Nel suo campo visivo finalmente entra lei. La dottoressa.
Altera, fredda, sospettosa, dai lineamenti duri, i lunghi capelli legati in una stretta coda. Le labbra strette, gli occhi quasi chiusi in fessure scintillanti.

« Lo so che hai capito tutto. So che puoi. » disse lapidaria.
La paziente sentì il respiro bloccarsi. Gli occhi sgranati come quelli di un cavallo di fronte ad un fuoco.
« Non è un problema, lo sarebbe stato il contrario. » continuò avvicinandosi.
Silenzio.
« E so anche che quello spettacolo di quattro giorni fa non è colpa tua. Nel caso, sarebbe solo colpa mia, piuttosto. »
La donna si chinò a sfiorarle il viso.
La ragazza si sentì nervosissima tutto ad un tratto.
« Lo sai che succederà di nuovo se non ne capisco la causa? »
La donna la guardò fisso negli occhi.
Per un secondo si rivelò per quello che era: profondamente pentita.
Un secondo. Poi il suo sguardo si velò di una patina opaca.

« Ti devo rimandare là. »

Non c’era più traccia di pietà in quegli occhi.
La ragazza sentì di nuovo il rumore sordo della bestia nelle orecchie. Sentì il suo alito fetido sulla faccia, la sua mano enorme avvolgerla e stritolarla.

No. No. No.

Scosse la testa freneticamente. No!

« Devi solo varcare la soglia. Ti porterò fuori prima che sia troppo tardi. » continuò la donna mettendosi di nuovo dritta. Si avvicinò alla flebo, tirò fuori una siringa e iniettò il contenuto nella soluzione salina.

La ragazza si divincolò disperatamente, come un pesce fuori d’acqua, ringhiando.
Sentiva il cuore batterle forte nelle orecchie, il respiro farsi pesante, la testa pulsarle incessantemente.
« Avanti, ragazzina. Giochiamo. » disse la donna guardandola senza un briciolo di empatia.

La ragazza sentì il mondo farsi freddo, la stanza riempirsi di vento gelido, le pareti cristallizzarsi, il pavimento trasudare neve.
Prima di perdere i sensi, tornò a guardare la donna.

Era un pezzo di ghiaccio, vestita di pellicce. Una corona in testa.
Poi il buio.


 
  
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