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Autore: Koa__    22/03/2017    10 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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L’amore di Victor Trevor
 
 



 
Respingiamo l'abominevole esortazione a rinunciare all'amicizia e all'amore per evitare la sventura.
Mescoliamo piuttosto le nostre anime come intrecciamo i nostri corpi.

[Nicolás Gómez Dávila] 
 
 
 


La prima delle risposte alle tante domande che John si era posto riguardo Sherlock Holmes, giunse il giorno seguente all’arrivo su la Norbury e fu un’inaspettata sorpresa. Che potesse considerarsi una piacevole scoperta, questo, nemmeno col passare dei giorni sarebbe poi stato in grado di capirlo, poiché il mistero che circondava il pirata bianco diveniva sempre un po’ più difficile da spiegare. Di certo era impossibile riuscire a decifrare con correttezza tutte le sfaccettature di quel carattere particolare, così come l’acciuffare ogni profondo pensiero che si nascondeva dietro le espressioni perennemente serie e corrucciate. A dispetto di ciò furono diverse le cose che in quel primo giorno arrivò a comprendere e fin dal primo risveglio quando, stordito dal sonno, balzò a sedere spaventato. Stava ancora sognando? Che posto era mai quello? Non poteva di certo essere il suo letto di Antigua. Il materasso nel quale era piacevolmente sprofondato era troppo morbido per somigliare alla branda a cui era abituato ed era quasi sicuro di ricordare di non aver mai posseduto un guanciale così soffice. Di certo una donna caraibica che viveva del fitto di qualche stanza, non si poteva permettere nulla di tanto pregiato. Dunque non era a casa, si disse. Anche perché quelle che vedeva alle pareti non erano di certo finestre, ma vetri di un tondeggiante oblò dal quale si intuiva che no, non c’era davvero la baia di Antigua là al di fuori. Soltanto allora, e dopo aver aperto bene gli occhi, feriti dall’intensa luce, ricordò ogni cosa: un prete donnaiolo, il pirata bianco impiccato e una gigantesca nave battente bandiera nera. Era tutto vero, reale quanto l’ondeggiare dello scafo o come il movimento delle onde che stranamente non gli dava fastidio. Sebbene fosse per nulla abituato alla vita in mare aperto, non si sentiva nauseato. Era invece piuttosto affamato, ma probabilmente perché erano quasi due giorni che non mangiava e la fame era così intensa che si ritrovò morso dai dubbi, oltre che dai crampi. Incerto sul da farsi iniziò a rimuginare su come dovesse agire per guadagnare un tozzo di pane, anche secco. Andare verso cucine che neanche aveva idea di dove si trovassero, rischiando di far arrabbiare quel tale Angelo a cui avevano consigliato di stare alla larga o attendere che qualcuno si ricordasse di lui e della sua presenza? Magari quei pirati avevano degli orari per il vitto e lui aveva già perso la propria occasione, in quel caso era da escludere che qualcuno gli avesse tenuto da parte qualcosa. Dopo una seria riflessione, anche se a malincuore, decisa per la seconda delle opzioni. Per quanta fame potesse avere, aveva un appuntamento con il capitano al quale era di certo già in ritardo e poi non voleva guai al suo primo giorno. Si tirò in piedi con un movimento leggero e agile, come se avesse ritrovato la sua allegria di ragazzo. Una felicità perduta da tempo e che non era mai stato capace di ritrovare, neppure nelle bellissime albe che Antigua gli aveva regalato in tutti quei mesi. Che fosse merito del brivido dell’avventura o anche per l’interesse, del tutto privo di malizia questo era ovvio, che aveva maturato nei confronti di capitan Holmes, John saltò ugualmente giù dal letto con vigore e canticchiando appena un motivetto. Fu allora che la mano del Signore venne a posarsi sulla sua testa e che vide un qualcosa che proprio non avrebbe dovuto esserci; come aveva fatto a non notarli prima? Che razza di idiota! Se avesse aperto appena un po’ di più gli occhi si sarebbe reso conto, posato sullo scrittoio, c’era del cibo. Niente di ricco e abbondante, ma almeno avrebbe messo qualcosa nello stomaco e del pane nero e una ciotola di quello che sembrava porridge d’avena, era esattamente quanto gli ci voleva. Non propriamente vettovaglie da gran duca, ma meglio di ciò che era stato costretto a mangiare ad Antigua nell’ultimo periodo, pensò mentre ripuliva la ciotola il cui contenuto era fortunatamente ancora tiepido. Soltanto a pancia piena realizzò che qualcosa non andava. Com’erano finite quelle cose nella sua stanza? Lo ricordava bene, la sera precedente aveva chiuso a chiave la porta. O almeno credeva d’averlo fatto. Che si fosse sbagliato? Era possibile, considerata la stanchezza e il suo essersi gettato sul letto senza spogliarsi degli abiti. Oltretutto, chi a bordo di una nave pirata avrebbe potuto pensare di fargli avere del porridge? O una tinozza d’acqua fresca che vedeva posata a terra assieme a una pezza di stoffa bianca, linda e pulita? Non solo non ne aveva la minima idea, ma per più di un attimo la sua mente iniziò a fantasticare e John si ritrovò a chiedersi se non fosse proprio Sherlock il responsabile. Subito, però, accantonò la stupida ipotesi. Il capitano di un grande galeone e con chissà quanti e quali problemi per la testa, non aveva lui tra i primi pensieri appena sveglio. Di certo l’igiene personale o i bisogni dello stomaco di un signor nessuno al pari di John Watson, erano l’ultima cosa a cui un leggendario uomo di mondo avrebbe potuto pensare. Pertanto, recuperato il fagotto di abiti che era stato sistemato alla bell’è meglio e con poca cura in un angolo, decise di concentrarsi su questioni pratiche. Vestirsi pareva essere un buon modo per cominciare la giornata.

Nonostante non avesse del tutto chiara la struttura del vascello su cui viaggiava, ricordava sufficientemente bene le spiegazioni di padre Trevor riguardo la posizione delle cabine appena sotto il cassero. Sapeva che appartenevano a coloro che Sherlock reputava di alto grado, i quali erano di numero grandemente inferiore rispetto ai marinai. Il timoniere e il primo ufficiale erano uomini di fiducia, persone con le quali non avrebbe corso il rischio di scontrarsi. Dubitava che tutti i pirati di quella nave fossero gentili e affabili come Lestrade o docili al pari di quel Mastro Stamford che, di terrificante, aveva ben poco. Quindi, pienamente sicuro di sé, procedette a passo deciso verso quella che gli era stata indicata come la cabina del capitano. Questa era situata sul fondo più estremo del corridoio, alla fine di un atrio illuminato a giorno da diversi oblò posti su entrambe le pareti. C’erano cinque finestrine per parte, tonde e di piccole dimensioni, ma abbastanza grandi da far filtrare la luce naturale proveniente dall’esterno. Osservando con maggior attenzione avrebbe potuto facilmente notare tante lampade a olio, ora spente, ma John non vi indugiò per un tempo eccesivo perché l’entrata alla camera di Sherlock Holmes gli si parò d’innanzi. Questa era riconoscibilissima anche e soprattutto per bellezza, aveva intarsi e lavorazioni che la rendevano differente rispetto alle altre, che erano relativamente più semplici. Ricavata da un legno molto scuro e anche piuttosto pregiata, il che lo si intuiva facilmente dalla maniglia fatta d’oro. Tuttavia non furono quei particolari a sorprenderlo o ad ammaliarlo in maniera particolare, quanto il fatto che la suddetta porta fosse socchiusa e non serrata a dovere. Dallo spiraglio lasciato aperto, una luce intensa filtrava con prepotenza accendendo un fascio di luce calda che andava a morire nelle penombre del corridoio. Dubitava che un uomo come capitan Holmes lasciasse aperto a quel modo, e volontariamente. Se lo immaginava riservato o un qualcuno che teneva alla propria intimità. Dopotutto era inglese, si disse facendosi vicino anche se evitando di palesare nell’immediato la propria presenza. Dopo che sentì delle voci provenire dall’interno, infatti, John fermò il passo, immobilizzandosi lì dove stava. Riconobbe Victor Trevor ancor prima che questi proferisse parola e nonostante non riuscisse a vederlo per bene, sapeva quasi figurarsene il sorriso furbo e lo sguardo smaliziato.

«Oh, caro, guarda cosa ti hanno fatto.» Fu proprio la voce del prete a scuotere il torpore di John, facendolo sussultare appena. Solamente allora si rese conto di aver ancora la mano stretta in un pugno, ferma a mezz’aria. Era stato sul punto di bussare. Non lo aveva fatto e per una qualche assurda ragione neanche sembrava intenzionato a spostarsi di lì, né a far sapere di star assistendo a quello che aveva tutta l’aria di essere uno scambio di effusioni. Era quello che stavano facendo? Non ci volle pensare e quando i due ripresero nel loro fitto dialogare, John, al contrario di quanto avrebbe dovuto, si lasciò cadere indietro addossandosi alla parete di modo da potersi nascondere con facilità. Gli angoli avvolti dalle ombre permettevano di celarsi dalla vista di chiunque mentre la vicinanza con la porta dischiusa, consentiva di sentire ciò che veniva detto. Sapeva quanto fosse sbagliato il suo comportamento e che non c’era una ragione valida nello spiare il capitano, d’altronde aveva giurato di fidarsi di lui. Ciononostante restò dove si trovava e una volta che ebbe chiuso gli occhi e sedato il respiro, prese ad ascoltare.

A pensar bene a quanto aveva appena sentito, una parola aveva attirato le sue attenzioni molto più di altre. Victor si era rivolto a Sherlock chiamandolo “caro” ovvero con un vezzeggiativo tipico degli amanti o degli innamorati. Non si poteva negare che fosse un uomo espansivo, forse persino troppo per essere britannico. Le maniere inglesi, le stesse che regolavano buona parte dei comportamenti  e delle convezioni sociali, erano sempre più riservate e compite rispetto a quelle d’uso in altre corti europee. In questo, però, Victor doveva esser stato influenzato dall’esser cresciuto in Francia e da un’educazione meno rigida. Non di certo dalla vita monastica, dalla quale aveva assimilato ben poco. Delle volte era plateale nella gestualità delle mani, che agitava e muoveva come se fossero indipendenti dal resto del corpo. In molte occasioni aveva esibito un linguaggio sboccato e aperto all’uso di taluni termini, appellando sia John che Lestrade con nomignoli stravaganti. Eppure, da che lo conosceva, mai lo aveva sentito parlare così. C’era una dolcezza evidente nel tono della voce e quella parola, caro, era stata pronunciata col cuore e in un modo così tipico di un qualcuno di sinceramente invaghito. Sherlock e Victor erano amanti? Si ritrovò a chiederselo in quei frangenti pur senza trovare una risposta che lo soddisfacesse a dovere. Era decisamente strano, considerato che più volte il prete aveva sottolineato del disinteresse del capitano verso le faccende sentimentali, sbandierando della presunta verginità di Sherlock come se la questione lo riguardasse in prima persona. Poteva aver mentito per sedare sul nascere qualche sospetto riguardo a una segreta relazione? Oppure lo aveva fatto per spegnere un ipotetico interesse di John nei confronti di Sherlock? E se così era, che Victor fosse geloso? Dubitava davvero. Sì, il pirata bianco gli piaceva e diavolo se lo trovava interessante, oltre che attraente, ma il suo esser infatuato non era nulla di più se non il frutto di fantasie maturate dopo i tanti racconti ascoltati riguardo imprese ai limiti dell’impossibile. Poteva quel suo sentimento essersi palesato tanto nitidamente? A stento era in grado di capire cosa stava succedendo alla propria vita o di definire con perfezione quale sentimento provava per Sherlock, com’era riuscito Trevor a comprendere tanto di lui? Che avesse una qualche abilità segreta del tutto simile a quella del capitano? E che anche lui fosse in grado di scorgere pensieri o fatti riguardanti il passato, a cui nessuno avrebbe badato? Era piuttosto probabile, tuttavia neanche poteva dirsene certo. Decise di non pensarci in quel momento e zittì i propri pensieri per un’ennesima volta.

«Oh, mio Dio, Sherly» riprese Victor qualche istante più tardi. Non aveva idea di che cosa stessero parlando, ma ipotizzò dovesse trattarsi di quel marchio a cui lo stesso Holmes aveva accennato, nel suo discorso all’equipaggio, la sera precedente. «Il tuo petto era la parte di te che preferivo, oltre al sedere s’intende e adesso la tua bella pelle bianca è rovinata da un marchio infame. Ti hanno trattato come una bestia, quei luridi vermi» tuonò, evidentemente arrabbiato «quando non avrebbero dovuto far altro che baciare la terra su cui cammini.»
«Non importa» replicò Holmes, immediatamente dopo. Anche il tono di Sherlock era strano, pensò John. La voce era profonda quanto la ricordava, bassa e calda nelle intonazioni, eppure anche lui aveva un qualcosa di differente. Come una timidezza di fondo, una ritrosia forse caratteriale che mai fino ad allora aveva permesso di scorgere. Lo Sherlock Holmes con il quale aveva avuto a che fare il giorno precedente, era un pirata leggendario. Un uomo il cui nome era noto nei sette mari e spaventava donne e bambini. Era un pirata temuto, rispettato, freddo e distaccato, ma anche eccitato dalle azioni criminali commesse o dalla prospettiva di frodare l’esercito britannico. Lo aveva visto furbo e agile, svelto e veloce come un pesce guizzante. Intelligente nella maniera straordinaria e più sorprendente ci fosse. Era un acuto osservatore, al punto che chiunque avrebbe sospettato che utilizzasse una qualche stregoneria. Eppure nei modi di questo celebre pirata, quello che segretamente sussurrava all’orecchio di Victor Trevor nell’intimità di una cabina, ciò che aveva notato di lui sembrava non esistere nemmeno. La ritrosia e la timidezza, il pudore eccessivo sfociarono, poco più tardi, in brevi e sussurrate parole.
«Tanto mai nessuno vedrà le mie nudità, a parte te ovviamente.»
«Dolcezza» gli rispose, con fare di rimprovero «non fare così, sai? Non sottintendere che il resto del mondo sia responsabile della tua solitudine, come se la colpa della chiusura che hai nei confronti dei sentimenti e dell’amare fisicamente, fosse colpa degli uomini e delle donne che popolano questo mondo. Lo so che per te le persone sono tutte stupide e che nessuno è degno della tua intelligenza, che tutti son noiosi e banali, ma sei tu che non hai mai voluto legarti a qualcuno. Non devi biasimare la gente per quello che è, caro mio e anzi, sai che ti dico? Fa specie che l’unica persona a cui tu abbia donato te stesso e a cui ti sei mostrato per quello che sei, sia un prete.»
«Victor, tu non sei un prete» ribatté Sherlock, prontamente e con una punta di divertimento. «Lo sei stato, ma da quello che ho potuto constatare (e tante volte, tra l’altro) non puoi più ritenerti un uomo di chiesa. I monaci sono puri e casti e tu non sei né l’uno, né tanto meno l’altro.»
«D’accordo, d’accordo» ne rise Victor, in maniera sguaiata e scoppiando in un divertimento sincero. «Non sono un prete, ma prego Dio e lo faccio ogni giorno affinché il tuo miracoloso fondoschiena rimanga sano e salvo.»
«Sei un idiota» replicò capitan Holmes, con sufficienza ma accennando a una risata leggera che si perse subito dopo, svanendo in un sospiro lieve.
«No, sono serio, capitano dei miei calzari» sputò Victor, con rabbia e facendo mutare il tono della discussione su ben altri sentimenti. Sì, un qualcosa era cambiato e John lo percepì immediatamente. La tensione la si poteva quasi sentir correre sulla pelle, mentre l’attrito che ora c’era fra i due era tanto palpabile da essere vivo. L’allegro uomo di chiesa aveva radicalmente cambiato maniera di parlare. Quel risentimento da dove veniva? Si domandò John, confuso. La rabbia e poi quelle parole, sputate con un dolore vivo e reale, da che cosa scaturivano? La risposta non si fece attendere a lungo perché, ancora più furioso, Victor riprese: «Tu non sai che paura ho avuto a vederti penzolare dalla forca, razza di stupido perché se lo sapessi non rideresti di me e delle preghiere che ho rivolto a Dio mentre t'impiccavano. Sì, ho pregato e proprio io che non lo facevo neanche quando stavo in convento. Ma tu, oh grand’uomo, non sai cos’è stato alzare il viso e vedere il terrore negli occhi di Greg, il non aver idea di che cosa fare o il non sapere se fossi morto davvero oppure no. Non sai quel che è stato dubitare che il cappio non fosse stato fatto scivolare nel modo corretto * o temere che Moriarty decidesse di infilzarti con una spada per finire il lavoro. Hai capito, dannatissimo idiota che non sei altro? Hai capito fino a che punto mi fido della tua intelligenza e delle tue parole? Hai capito quanto ti amo e quanto temo che tu mi muoia tra le braccia, per colpa del tuo ottuso volerti spingerti sempre e comunque oltre il limite? E non venirmi a dire che sono un idiota, perché se ce n’è uno, qui sei solo tu. Io non ho di proposito sfidato l’esercito britannico per dimostrare a James Moriarty o al tuo dannatissimo fratello, che sono il migliore. E bada che se mai ti verrà un’altra idea malsana come questa in futuro, giuro che sarà la volta buona che capirai realmente cosa significa amare quel cretino totale di Sherlock “figlio di un cane” Holmes.»

Aveva urlato, Victor Trevor. Aveva pianto di collera, gridato di dolore. Aveva sbattuto i piedi a terra con violenza e poi stretto con disperata forza i lembi della camicia di Sherlock, strattonati con malagrazia. Aveva inveito, riversandogli addosso quelli che parevano sentimenti repressi. Troppo a lungo doveva aver taciuto e adesso era esploso in un qualcosa di dirompente. Piangeva, Victor Trevor. Singhiozzava come un infante mentre ancora malediva il proprio capitano. Incessante, egli lo accusava d’essere uno stupido. Tuttavia, man a mano quell’ira latente andava svanendo, come e ne fosse un po’ meno convinto o avesse definitivamente perduto le forze. Sino a che punto il dolore trasfigurava le fattezze dell’uomo?John se lo domandò con tutta la sincerità di cui era capace mentre, rapito, osservava i contorni di quel volto, ora irriconoscibili. Dovette mandar giù a forza un groppo salitogli fin su nella gola che annodava le intenzioni di altrettante lacrime, quasi gli sembrava di star soffrendo con lui. Non avrebbe dovuto commuoversi, di pianti e drammi ne aveva visti fin troppi durante la guerra e a dire il vero neanche sarebbe dovuto saltar fuori dall’improvvisato nascondiglio che s’era trovato. Eppure lo aveva fatto e senza pensare affatto alle conseguenze del proprio gesto, era semplicemente uscito dall’ombra; forse perché dominato da quello stesso istinto che fin troppo stava imparando ad ascoltare. La porta si era aperta, non di molto, ma tanto bastava affinché venisse notato. Avrebbe dovuto preccuparsene, ma la verità era che voleva vedere e che sentiva di dover tastare con i propri occhi quel dolore lancinante, che anche adesso e dopo svariati istanti, deformava i tratti angelici di Victor Trevor. Ancora piangeva, constatò, anche se più sommessamente. Sherlock, al contrario, non aveva azzardato a nessuna parola. Anzi se ne stava impassibile e intanto si lasciava abbracciare e stringere con sempre meno forza e vigore. Pareva non avesse patito quello sfogo, che non si fosse offeso per i ripetuti insulti che gli erano stati lanciati e sembrava davvero che la violenza dei gesti di Victor non lo avesse riguardato in prima persona. Già e proprio Victor, che ancora sospirava. Victor che ancora lo stringeva e sebbene la rabbia ora la si vedesse soltanto pallidamente, avviluppata a quelle dita strette alla camicia, le lacrime erano ancora ben visibili poiché gli rigavano le guance.
«Io… Senti, io ti…» Il pirata bianco cominciò a quel modo un discorso che mai ebbe modo di finire, non in quei frangenti. Non ricambiava la stretta, ma era rigido e fermo con le braccia lungo i fianchi. Sguardo basso e che mai aveva lasciato la chioma biondiccia di Victor e dita che, frenetiche, tamburellavano contro la coscia. Ecco forse era quello l’unico sintomo di un animo altrimenti scosso.
Purtroppo per l’insana curiosità di John Watson, tutto quello finì subito. Successe, naturalmente, che venne visto. Holmes scattò indietro, allontanandosi di qualche passo mentre Trevor si sciacquò il viso con dell’acqua. John fu certo di aver notato un vago rossore colorare le guance del capitano e un sincero imbarazzo prender possesso dei suoi gesti, ma non volle indugiare nel pensiero. Occorreva una scusa a quell’affronto, parole che faticavano a uscirgli dalla bocca e che per qualche strana ragione andarono a morire di fronte a un ampio e felice sorriso, dipinto ora nelle intenzioni di Victor. Come poteva esser tanto sereno un uomo la cui disperazione era arrivata al punto di gridare per la rabbia? Il cambiamento era stato fin troppo radicale, che stesse forzando se stesso? Non sembrava affatto turbato o arrabbiato dal vederlo lì (così come Sherlock), bensì lo accolse con gioia.
«Perdonatemi, non volevo interrompere il vostro... La porta era aperta e… Beh, torno più tardi se devo» balbettò malamente John, il quale si fece proprio malgrado trascinare fin dentro la stanza, da uno stranamente felice padre Trevor. Era contento di vederlo? O era così oppure era dannatamente bravo a mentire.
«Non essere ridicolo, John, già sei in ritardo» notò Holmes, con fare di rimprovero e subito prima di indicargli con un cenno della mano, un sofà di gusto francese sul quale era stato invitato ad accomodarsi. Non lo guardava, notò John e al contrario aveva impettito la postura e anche gli occhi erano diversi, più freddi.
«Lo so, domando perdono.»
«Ah, non preoccuparti» intervenne invece Victor, levandolo dall’impaccio. «Spero tu abbia gradito il porridge. Non è stato facile strapparne una ciotola ad Angelo, ma per tua fortuna conosco i miei trucchi» concluse, ammiccando.
«Sì, sì era ottimo e grazie. Tutto perfetto, sì, grazie. Buonissimo, ecco.»
«Solo, domani fai in modo di esserci al rancio o non garantisco che tu riesca a mangiare, perché non è che mi piaccia l’entrare in cabine chiuse dall’interno o il vedere gente dormire. No, un momento» aggiunse dopo aver fatto una breve pausa durante la quale aveva addirittura finto di starci a pensare. «Io adoro guardare gente che dorm...»
«Vic, tu non avevi da altro fare?» intervenne invece Sherlock, con severità, interrompendo quello che sarebbe potuto diventare l’inizio di uno sproloquio. Stava ridendo quando successe o per meglio dire stava sorridendo appena, divertito dalla sfacciataggine del prete. Magari fu per questo che ne rimase tanto sconvolto, anche a pensarci non sapeva dirlo. Ad ogni modo fu allora che accadde, che ebbe tutte le necessarie conferme a quelli che erano i sospetti sulla relazione tra capitan Holmes e Victor Trevor. Più precisamente successe dopo che Victor ebbe annuito e mormorato un qualcosa sul dover andare dal ragazzino a fare chissà che, invece che prendere la porta, questi si avvicinò a Sherlock baciandolo delicatamente sulle labbra. Ed era un bacio vero. Su quelle belle e carnose labbra. Aveva ragione, i due erano amanti. Non che la cosa lo riguardasse da vicino o che c’entrasse con lui, John non era certo innamorato di Sherlock Holmes. Non avrebbe dovuto dargli così fastidio; perché non gli dava fastidio, vero?
«Au revoir, mon chere» sussurrò Victor Trevor prima di sparire oltre la porta. Proprio malgrado, John rimuginò su quel bacio per tutto il resto della giornata. Era possibile, anche se decisamente improbabile, che ne fosse appena un poco geloso. Sì, era proprio uno stupido.


 

Continua
 
 
 

*Nella puntata della terza stagione di Streghe: “La notte delle Halliwell”, Prue, Phoebe e Piper tornano indietro nel tempo e finisco proprio nel diciassettesimo secolo. Le tre, private dei rispettivi poteri magici, vengono comunque trovate in possesso di oggetti associati alla stregoneria e pertanto condannate a morte per impiccagione. Non muoiono soltanto perché un uomo del villaggio, segretamente loro complice, aveva fatto scivolare il nodo cappio di modo che non strozzasse. Una volta che le tre vengono salvate e fatte scendere dall’albero, molto tempo dopo l’impiccagione, il tizio dice che è un trucco che ha imparato dai francesi. Non ho trovato riferimenti storici a questo fatto, quindi è solo una citazione.

L'interpretazione del rapporto tra Victor e Sherlock è volutamente ambigua, per ora non avrete spiegazoni. Arriveranno a loro tempo.

Non so davvero come io abbia fatto a pubblicare questo capitolo oggi! Questa settimana me ne sono successe di ogni, tra cui la cervicale che anche adesso mi sta facendo impazzire.
Ringrazio tutti, oggi ancora più calorosamente, per il sostegno e per le recensioni.
Koa
   
 
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