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Autore: Adeia Di Elferas    04/04/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bernardi stava un po' curvo sul bancale della proprietaria del lupanare, mentre spiegava per la ventesima volta che si trattava di un affare riservato e che preferiva spiegare i dettagli solo al ragazzo.

Ella insistette un po', morsa dalla curiosità, sporgendosi forse più del dovuto verso il pudico barbiere, che appariva abbastanza sconcertato dagli abiti succinti della donna ormai non più troppo giovane.

“Come comandate, signore...” concluse alla fine la prosseneta, che, malgrado l'ingenta somma sborsata – troppo ingente per un semplice barbiere – cominciava a credere che il cliente misterioso fosse l'inflessibile Novacula in persona: “Scegliete quello che preferite. Quei due sono i migliori che posso offrirvi.” disse, indicando con un cenno del capo due giovani che aspettavano, assieme ad alcune colleghe e un paio di schiavette con in mano calici di vino da offrire ai clenti, in mezzo ai divanetti rosso veneziano dell'ingresso.

Bernardi li guardò entrambi e pensò che non vi fosse uno migliore dell'altro, per quanto poteva valutare lui, così scelse quello più alto, che, inoltre, a una prima occhiata gli parve il più intelligente, nella speranza che lo fosse abbastanza da comprendere perché fosse strettamente necessario mantenere il riserbo su quella serata.

Lo indicò con un breve cenno alla provocante proprietaria e così pensò lei a vedersela con il suo dipendente.

Il giovane sparì nei meandri delle stanze del postribolo e a Bernardi non restò che attendere. Si mise in un angolo, un po' nascosto, lontano dai candelabri e osservò la varia umanità che andava affollando il palazzo man mano che la notte avanzava.

Quello era di certo uno dei lupanari più puliti della città e la sua padrona pareva tenere molto al buon nome delle sue ragazze e anche a quello dei suoi ragazzi. Aveva la licenza da molti anni, si vantava, anzi, di averla da quando ancora in città governavano gli Ordelaffi, e mai una volta c'era stata una rissa tra i suoi clienti.

Dopo un po', però, l'attesa parve farsi lunga, così il barbiere, che non ne poteva più di vedersi squadrare da tutti i clienti che si avvicendavano nell'ingresso, tornò dalla prosseneta e le disse che avrebbe aspettato giù.

“Avete chiesto voi un servizio di lusso – disse la donna, allargando le molli labbra imbellettate in un sorriso sghembo, facendo tintinnare il sacchetto di monete portate da Bernardi – e in questi casi la preparazione è molto importante, sapete?”

Quando finalmente il ragazzo si presentò dal Novacula, che lo attendeva sul marciapiede appena fuori dal lupanare, il barbiere gli fece segno in modo burbero di seguirlo. Preferiva parlargli con calma per strada, in un punto riparato, piuttosto che davanti a quel portone dove potevano esserci orecchie indiscrete a ogni angolo.

“Si tratta di andare alla rocca di Ravaldino.” spiegò Bernardi, quando infine si risolse a parlare.

Il giovane, dai placidi occhi azzurri, annuì con calma, sistemandosi gli abiti sgargianti che la sua padrona aveva scelto per lui per quella comanda particolare e cominciò a chiedersi chi potesse essere il suo cliente.

Il suo pensiero corse, con una certa perplessità, al Conte Ottaviano. Poteva anche darsi, però ricordava troppo bene di aver visto il giovane Riario correre dietro a tutte le sottane del bordello, ma mai, nemmeno per scherzo, l'aveva visto fare altrettanto con un paio di pantaloni, dunque era quasi certo che non fosse per lui. Anche perché, se quel che si diceva in città era vero, il povero Conte languiva in isolamento, in una stanza fredda e buia della rocca, da quando sua madre lo aveva fatto arrestare.

“Vi accompagnerò fin là – continuò il Novacula, ricominciando a camminare, senza guardare più colui che lo seguiva a ruota con un passo così baldanzoso da denunciarne la giovane età – e poi fino alle sue stanze.” concluse il barbiere, pensando che se la Contessa voleva davvero sperare di mantenere il segreto, avrebbe fatto sì che le guardie gli permettessero di raggiungerla direttamente nei suoi alloggi, senza altri intermediari.

Il modo reverente con cui il Novacula aveva detto 'sue stanze' aveva fatto intuire al ragazzo chi potesse essere il suo – o meglio, la sua – cliente per quella notte. Sarebbe stato davvero un bel colpo. La Tigre era una donna bellissima e sarebbe stato un bel salto di qualità servire lei, rispetto a quelli che di solito era costretto ad accontentare.

Tuttavia non voleva delusioni, perciò si sforzò di restare coi piedi per terra.

 

Caterina stava aspettando in una delle camere di solito usate per gli ospiti. Quando era tornata alla rocca si era resa conto di non voler ricevere un altro uomo nella stanza che era stata quella che aveva accolto per la prima volta l'amore tra lei e Giacomo.

Probabilmente era una cosa stupida, ma sentiva che in quel modo sarebbe stato tutto più semplice.

Aveva acceso solo un paio di candele e nel camino restavano unicamente le braci. La finestra era ben chiusa, per lasciare fuori il freddo della notte, e il letto era stato rifatto di fresco dai suoi servi su suo preciso ordine. Sul tavolino che stava contro al muro era stata sistemata una brocca di vino e un paio di calici. Un ciuffo di lavanda secca appesa a un gancio del muro profumava lievemente l'ambiente.

Quando qualcuno bussò alla porta, la Contessa smise di misurare a grandi passi la camera e andò ad aprire. Si trovò difronte Bernardi, che disse in fretta di aver pagato la proprietaria del postribolo e di aver preso chiari accordi con il ragazzo e poi se ne andò, rosso in volto, vergognandosi come un ladro, senza aspettare nemmeno un ringraziamento.

Il giovane che era arrivato con lui indossava abiti dai colori accesi, pretenziosi, ma chiaramente di bassa foggia. Tuttavia la sua figura slanciata e il suo viso armonioso, quasi efebico per quanto era di lineamenti delicati, lo rendevano una visione più che gradevole.

Caterina lo fece entrare in stanza e chiuse subito la porta a due mandate. Si sentiva così agitata che nemmeno notò l'espressione del ragazzo, tanto accesa da farlo sembrare il vincitore di qualche premio inatteso.

Passandogli accanto, la Contessa sentì le note di miele e fiori che arrivavano dalla sua pelle. Si permise di dargli un'occhiata più attenta, notandone il fisico ben strutturato, e ragionò sul fatto che, prima di arrivare lì, doveva essersi fatto un bagno con olii profumati. In tutta sincerità, Caterina apprezzò molto quella delicatezza.

“Ti hanno già detto che sei stato pagato bene per il tuo silenzio?” chiese la donna, parlando per prima.

Il giovane chinò il capo, facendo ondeggiare piano i chiari capelli che arrivavano più o meno al collo: “Certo, ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Sono molto discreto nel mio lavoro.”

Caterina annuì e cominciò a tormentarsi le mani l'una con l'altra, accorgendosi di quanto fosse difficile mettere in pratica quello che aveva pianificato. Sentiva il cuore correre nel petto e i crampi allo stomaco non volevano lasciarla.

“Come ti chiami?” chiese, tanto per togliersi un po' dell'imbarazzo che l'aveva presa.

Tuttavia, appena il ragazzo schiuse le labbra per rispondere, la donna alzò una mano imperiosa e lo fermò: “No. Non mi importa. Non lo voglio sapere. Non mi interessa.”

L'altro trattenne una risata, davanti a tanta gravità. Aveva già avuto clienti che sembravano sentirsi in colpa e in forte imbarazzo per quello che stavano facendo, ma nella recalcitrante ritrosia della Contessa nel voler stabilire con lui un minimo contatto umano c'era qualcosa di davvero insolito.

Per quanto lo riguardava, comunque, quel suo impacciato tentennare non era spiacevole, anzi.

Era di buon umore per aver scoperto che una delle donne più desiderate d'Italia aveva scelto di passare la notte proprio con lui, quindi non aveva fretta di portare a termine il suo compito, come invece gli capitava coi clienti meno desiderabili. Voleva godersi ogni istante.

Caterina non accennava a sciogliersi, ma anzi, proseguì nel suo mezzo interrogatorio, con la voce tanto incerta da tradire il suo stato d'animo penitente: “Di solito lavori solo per uomini o anche per donne?”

“Per chiunque mi paghi.” rispose il giovane con semplicità.

“Ho capito.” fece la Contessa, puntando gli occhi verso le braci del camino e poi, senza badarvi, si lasciò scappare: “Sembra una vita abbastanza squallida.”

A quelle parole il sorriso del ragazzo si spense un po', ma, sistemandosi il giustacuore verde foglia con entrambe le mani, si difese: “È l'unica vita che conosco. E almeno mi dà da mangiare tutti i giorni.”

Caterina si scusò e mosse un passo verso l'uomo che Bernardi aveva scelto per lei.

Non poteva avere più di vent'anni. Era ben rasato, pettinato a dovere e ordinato. Se lo avesse trovato in giro per la città, magari con indosso abiti più sobri, mai avrebbe immaginato quale fosse in realtà il suo mestiere.

“Perdonami, davvero – disse la donna, fermandosi appena prima di trovarsi a portata di tocco dell'uomo – tutto questo deve sembrarti molto strano...”

“Sono nato nella bettola in cui il vostro amico è venuto a cercarmi – mise in chiaro il giovane, i cui occhi celesti mostravano per la prima volta un velo di mestizia – vi assicuro che ho passato notti molto più strane di questa.”

Ancora una volta, la Contessa si sentì colta in errore, ma il ragazzo che aveva dinnanzi, addestrato da anni d'esperienza, sapeva il fatto suo e riuscì a recuperare in fretta il filo del discorso, passando a cose molto più pratiche: “Volete che sia io a spogliarvi, o...?” le chiese.

Nel sentire che l'uomo le si stava avvicinando, per un istante Caterina ebbe paura. Per quanto il desiderio pulsasse vorace in lei, quella situazione le stava risvegliando antichi timori e vecchi fantasmi. All'inizio era successo anche con Giacomo, ma lui era riuscito a farla sentire al sicuro.

La donna guardò un momento il giovane e lui, con quell'unica occhiata, parve comprendere anche ciò che non poteva sapere.

“Non abbiate paura di me.” la rassicurò: “Sono ai vostri ordini. Non farò nulla che voi non vogliate. Ditemi quello che volete che faccia e io lo farò. Sono a vostra completa disposizione.”

La Contessa deglutì e le parve all'improvviso che nella stanza ci fosse troppa luce: “Spegni tutte le candele.” ordinò, per prima cosa.

Egli eseguì e quando il buio – che prese una sfumatura cremisi per via delle ceneri morenti nel caminetto – fu pressoché totale, Caterina si sentì più tranquilla. Con quella luce fioca, poteva immaginare che l'uomo che le stava accanto fosse chiunque.

“Che altro desiderate, mia signora?” chiese il ragazzo, in un sussurro.

“Che stanotte tu mi amassi come se mi desiderassi davvero.” fu la risposta un po' strozzata che uscì involontariamente dalle labbra della Contessa.

Il giovane sorrise nel buio e si disse che una volta tanto esaudire in pieno i desideri di chi lo pagava sarebbe stato un vero piacere.

Da quel momento in poi, Caterina, dopo essersi docilmente lasciata spogliare, si fece guidare nel vortice informe della passione, per quanto le paresse a tratti illusoria, e, in alcuni momenti, riuscì a dimenticarsi perfino di se stessa.

Per tutta la notte, cercò Giacomo negli abbracci e negli assalti di quel ragazzo di cui non conosceva nemmeno il nome.

E ovviamente non lo trovò.

Alla fine, quando il sole pallido dell'alba stava per prendere il suo posto nel cielo, Caterina sentì la fame del suo corpo saziata, anche se la sua anima rimase riarsa dalla sete, incapace di trovare una fonte a cui abbeverarsi. Quella era un genere di sete che solo l'unico uomo che aveva amato davvero avrebbe saputo spegnere.

Tuttavia, la pace della carne era già un traguardo notevole, e la Contessa fece di tutto per trattenere a sé la sensazione di momentaneo benessere che la pervadeva.

Il giovane, che giaceva al suo fianco, sembrava stanco, ma Caterina non voleva permettergli di riposare in quel letto. Aveva paura di addormentarsi a sua volta e sapeva che, se lo avesse fatto, avrebbe sognato e, se avesse sognato, i suoi incubi sarebbero tornati a tormentarla e non voleva che quello sconosciuto la sentisse invocare il nome delle persone che erano morte per mano sua.

“Ora puoi andartene.” disse solo, girandosi sul fianco, coprendosi fino al collo col lenzuolo e dandogli le spalle.

Il ragazzo sospirò. Era avvezzo a quel genere di freddezza, quando il suo dovere era finito.

Si mise a sedere, si passò una mano tra i capelli biondi arruffati, e poi si alzò. Raccattò i suoi abiti sparsi in giro per la camera e si rivestì in fretta.

Prima di andarsene, però, cedette a una tentazione che mai l'aveva sfiorato prima d'allora.

Aggirando il letto, illuminato dai primi raggi del sole che filtravano timidi dalla finestra, si inginocchiò davanti alla Contessa e le diede un lento bacio sulla fronte.

Quello slancio inatteso di tenerezza fece quasi sobbalzare Caterina, che spalancò gli occhi e non riuscì a dire nulla, nemmeno quando il giovane si rialzò e dichiarò, andando alla porta: “Se avrete ancora bisogno di me, sapete dove mandarmi a cercare.”

 

Giovanni Sforza tentava di evitare il più possibile le ampie sale dorate del Vaticano, da quando era tornato a Roma, eppure non riusciva a sottrarsi quanto avrebbe voluto al suocero Rodrigo e al cognato Cesare.

Quel giorno, in particolare, Alessandro VI sembrava essere ovunque. Si aggirava come un cane rabbioso ed era intrattabile per via di alcune lettere giunte da Firenze, con cui veniva messo in guardia dalle sue spie più fidate in merito alle tensioni che si erano create nella Signoria.

Gli strani movimenti degli Orsini – in particolare di Virginio, che era stato scaricato dai Baglioni, che lo tacciavano di essere ormai vecchio, inaffidabile e incapace di fare la guerra – stavano impensierendo non poco i Piagnoni e i Popolani e questo andava solo a rafforzare l'immagine di Savonarola.

I seguaci del domenicano e i cugini di Piero Medici, infatti, sembravano temere che i parenti romani del Fatuo fossero pronti a far quadrato attorno al congiunto, sfruttando le proprie influenze e i propri fondi economici al fine di riportarlo in città, scacciando contemporaneamente lo scomodo frate dal naso adunco e i Popolani.

Per contrastare questa coalizione – la cui reale forza non era chiara a nessuno – che per il momento si nascondeva per le colline toscane, i Popolani e i Piagnoni si erano scagliati con ardore contro la decisione del papa di tacitare Savonarola, nella speranza di poter ottenere per il frate un nuovo permesso alla predicazione.

Rodrigo Borja sapeva meglio di tutti come dietro a quella volontà non ci fosse nulla di religioso, ma fingeva di incaponirsi sulle questioni più strettamente ecclesiastiche, nella sua apologia della sua decisione, dimodoché metterlo in discussione fosse ancor più complicato per dei laici come i membti della Signoria.

Si fingeva oltraggiato dalla malafede dei fiorentini e ribadiva a ogni Cardinale o Vescovo che volesse ascoltarlo che lui stava agendo solo per il bene della fede e di Firenze.

Gli era chiara, invece, come nella testa di Lorenzo e Giovanni Medici ci fosse l'idea lineare e semplice di usare Savonarola come distrazione per le masse e ostacolo per il Fatuo.

Lucrecia, da quando il marito l'aveva raggiunta a Roma, passava molto tempo nella casa della madre Vannozza e quando Giovanni provava ad avvicinarsi a lei, immancabilmente compariva Cesare, sempre pronto e cacciare il naso e a trattare il cognato come una pezza da piedi.

Il signore di Pesaro, però, non osava contrastare in nessun modo il Cardinale, tanto meno il papa, che pareva insofferente almeno quanto il figlio nel sapere Giovanni vicino a Lucrecia, e il povero Sforza finiva quasi sempre a passare le giornate e le notti in completa solitudine.

Non osava parlare di una partenza verso Pesaro, soprattutto pensando che sarebbe stato in tal caso necessario assicurarsi che la moglie lo seguisse, se non altro per non perdere del tutto la faccia dinnanzi a coloro che già lo dileggiavano per il suo strano matrimonio. Perciò si limitava ad attendere tempi migliori, scrutando i palazzi appariscenti del Vaticano e godendosi i banchetti che i Borja non smettevano di offrirgli, quasi a infinitesimo indennizzo per l'ostracismo silente a cui veniva sottoposto.

In tutto questo, Alessandro VI lo osservava di continuo, e osservava anche sua figlia Lucrecia e non passava giorno senza che nella sua mente si facesse largo sempre di più la convinzione che i tempi fossero maturi per fare la prossima mossa.

Se solo il clima politico della penisola fosse stato appena più stabile... Era un vero tormento, dover attendere i comodi di questo e quello Stato, prima di poter sistemare gli affari di famiglia.

 

L'8 novembre, prima che sorgesse l'alba, l'esercito si mosse da Forlì, sotto la guida di Achille Tiberti, Paolo Bezzi e Cicognano Cicognani.

Caterina, dopo aver passato in rassegna i ranghi dei soldati e aver dedicato a ogni manipolo un incoraggiamento e la promessa di una grande ricompensa al ritorno in patria, si era ritirata un momento coi generali e aveva ribadito i punti più importanti di quel piano.

Avrebbe voluto con tutta se stessa partire assieme a loro e riscoprire le sensazioni estreme che stare su un campo di battaglia le aveva dato, ma era fin troppo cosciente della fragilità del suo governo, per lasciare il suo scranno anche solo per un giorno. Sarebbe stato sufficiente lasciare per mezza giornata la città e di sicuro qualcuno avrebbe tentato un colpo di Stato. Non poteva permetterselo, per nessun motivo.

Poteva solo consolarsi, pensando che ci sarebbero state molte altre battaglie e che, per allora, il suo Stato sarebbe stato più solido e il suo erede designato sarebbe stato circondato da persone fidate, e quindi avrebbe potuto prendere scudo e spada e guidare la carica, come in gioventù aveva fatto molto volte suo nonno.

“Prendete tutto che trovate.” concluse, appena prima del congedo coi comandanti: “Dalle bestie al grano. Il sacco di Castelnuovo dovrà servire per riprenderci da questi mesi di crisi.”

E così, dopo poco, i soldati si erano messi in marcia e la Contessa, fiancheggiata da alcuni membri del suo Consiglio, era accorsa alle porte della città e li aveva guardati allontanarsi.

Tornò alla rocca quando anche l'ultima colonnina di polvere sollevata dal passo svelto e deciso delle sue truppe fu troppo lontana per essere vista da occhio umano.

“Perché l'hai fatto, figlia mia?” chiese Lucrezia, che le andò incontro sul ponte, stretta nel suo scialle per contrastare l'aria fredda e umida di quell'ora antelucana.

“Guido Guerra ha preso una cosa non sua, quando ha occupato Castelnuovo.” spiegò la Contessa, continuando a camminare tanto rapidamente che sua madre faticò parecchio a starle dietro: “Quelle terre erano degli Ordelaffi, un tempo. Dunque è più logico che diventino nostre. Sisto IV aveva dato lo stato degli Ordelaffi a noi, dunque quest'annessione è necessaria.”

Lucrezia inseguì Caterina fino allo studiolo del castellano: “E vuoi rivendicare quei territori proprio adesso?” chiese, esasperata: “Non è un buon motivo per fare una guerra!”

A quel punto, sotto gli occhi di Cesare Feo, che stava ricontrollando l'inventario dell'armeria, Caterina si voltò di scatto, fronteggiando la madre con ardire: “Guido Guerra ha ucciso Gaspare Biondo, un mio suddito, e non sono mai riuscita a punirlo per il suo reato. Ora posso. E comunque hai avuto parecchio tempo per provare a fermarmi. Avanzi le tue rimostranze solo ora? Non ti sembra un po' tardi? I miei soldati sono già partiti, se non te ne sei accorta. Ma forse tu ti accorgi delle cose che ti contrariano solo quando è troppo tardi.”

Lucrezia sollevò il mento, che si era fatto sottile, e parve indignata da quella risposta tanto pungente. Nelle ultime frasi, infatti, risuonava ancora l'accusa che sua figlia non avrebbe mai smesso di farle finché fosse rimasta in vita.

Tuttavia, quando riprese a parlare, Lucrezia tentò di suonare conciliante: “Ma una guerra è davvero necessaria? Non c'è un modo meno...”

“No, non c'è.” la bloccò all'istante la figlia, prendendola con decisione per un braccio e invogliandola a lasciare subito lo studiolo con una lieve spinta: “Ora, scusa, ma ho delle cose importanti da discutere con il mio castellano.”

Con un sospiro spezzato, Lucrezia si morse il labbro e se ne andò, diretta alla stanza dei bambini dove l'attendevano Livio, che fortunatamente sembrava in remissione, e Bernardino, che in quei giorni dipendeva in tutto e per tutto da sua nonna.

Caterina si andò a sedere con pesantezza sulla poltroncina vicino alla finestra, quella che tante volte Giacomo aveva occupato quando sfuggiva ai suoi doveri quotidiani rifugiandosi nello studiolo dello zio.

“Volevate parlare di qualcosa in particolare?” domandò Cesare Feo, che era riuscito ad assistere al breve battibecco tra madre e figlia senza dare a vedere quali fossero i suoi veri pensieri a riguardo.

La Contessa scosse il capo: “No. Continuate a fare quello che stavate facendo. Ora possiamo solo aspettare notizie da Castelnuovo.”

Il castellano sollevò l'angolo della bocca, in segno di assenso e si rituffò nei suoi calcoli, tenendo il segno con l'indice che scorreva fluido sulla ruvida carta del registro delle armi.

Caterina accarezzò con distrazione il bracciolo della poltrona, gli occhi fissi alla finestra appannata, e ricordò tutte le volte in cui aveva trovato suo marito seduto proprio in quel punto. Chiuse un momento le palpebre e le parve di risentirne l'odore, il calore, la voce.

Poi il castellano tossicchiò, voltando pagina al suo registro, e il sentore di Giacomo svanì di nuovo.

Stava diventando sempre più impalpabile, anche se il suo ricordo la prendeva all'improvviso, anche nei momenti più inattesi, e si imponeva su qualunque altra cosa.

Malgrado ciò, in linea di massima bastava poco – un rumore, un movimento, una voce – e l'immagine di lui rispariva di nuovo. Da quanto Caterina aveva accettato un altro uomo nel suo letto, poi, ripensare a Giacomo portava sempre un retrogusto amaro, qualcosa di difficile da decifrare.

Sentiva di averlo tradito, ma si giustificava dicendosi che non avrebbe potuto fare altrimenti.

Da quella notte non era più andata nelle segrete a riversare il suo odio sui prigionieri ed era riuscita a limitarsi con il vino e le droghe.

Se da quel lato, quindi stava meglio, però, aver riprovato certe sensazioni, per quanto in parte svuotate del significato profondo che avevano avuto quando le aveva provate stretta tra le braccia di Giacomo, l'avevano portata a volere di più.

Anche quel giorno, quando il suo unico pensiero avrebbe dovuto essere la guerra, mentre passava in rassegna i soldati pronti a partire, non era riuscita a non notare le mani affusolate di uno, lo sguardo fermo e le spalle larghe di un altro, le labbra gentili di un terzo, il fisico atletico e snello di un quarto...

La sua mente l'aveva messa allora davanti a due immagini contrapposte. Da un lato vedeva quei giovani uomini come sue possibili prede, dall'altro li poteva già figurare morti o morenti sul campo di battaglia, le carni straziate ora dalla passione ora dalla lancia del nemico.

E così le parole di Marziale le tornavano alla mente, vivide come la prima volta in cui le aveva lette, ma con un senso molto diverso da quello che vi aveva dato in passato: cuius vulturis hoc erit cadaver?

Si passò una mano sulla fronte, premendo sulle tempie con decisione, come a voler cancellare fisicamente quei pensieri e il castellano si sentì in dovere di chiedere: “State bene, mia signora?”

La Contessa sospirò e, lasciandosi scivolare un po' contro lo schienale morbido della poltrona, annuì in modo quasi impercettibile e rispose: “Per quanto si possa stare bene finché si è in questa vita...”

 
   
 
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