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Autore: Koa__    05/04/2017    12 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Quindici uomini sulla cassa del morto


 
 

 
Fifteen men on a dead man's chest
Yo ho ho and a bottle of rum
Drink and the devil had done for the rest
Yo ho ho and a bottle of rum.






Prendendo come verità oggettiva il fatto che Sherlock Holmes aveva una falcata ben più ampia della sua, John raggiunse il ponte relativamente in ritardo. Dopo esser rimasto fermo a osservare il luogo dove quella slanciata e imponente figura era sparita, svanendo tra le ombre del corridoio, era partito a passo svelto verso il sopra coperta. Sebbene si ritrovasse a esser ben deciso a non lasciare il capitano privato della sua compagnia (un po’ per la speranza di riuscire a vederlo al lavoro e in altrettanta parte per la curiosità di scoprire se aveva realmente scoperto un qualcosa riguardo l’isola del tesoro), si ritrovò però a frenare il passo sino a fermarsi del tutto. Aveva come un certo timore all’idea di salire lassù e non tanto perché non era abituato a destreggiarsi su una nave o per via della luce forte che gli avrebbe certamente ferito la vista, ma perché i pirati che aveva conosciuto la notte precedente gli incutevano timore. Come lo avrebbero accolto? Con calore oppure mostrando diffidenza? In fondo erano pur sempre dei bucanieri, dei criminali scampaforca. Quando qualche ora prima era salito a bordo in ben pochi avevano badato alla sua presenza, tuttavia preferiva non crogiolarsi in rosee speranze. C’era una valida motivazione alla poca attenzione che gli era stata dedicata, oltre all’essere molto tardi si doveva considerare il fatto che il ritorno di Sherlock aveva finito col catalizzare gli sguardi di tutti. Com’era giusto e naturale che fosse. La ciurma non si era concentrata poi molto sul nuovo arrivato dall’aspetto curato e preciso, avevano più che altro gioito per l’annuncio riguardo la mappa del tesoro e concessagli una qualche fugace occhiata, ma il buio non aveva favorito le interazioni con l’equipaggio e poco dopo era stato accompagnato in cabina. Ora però li avrebbe incontrati di persona e loro lo avrebbero visto. Non ricordava neanche quanto tempo fosse trascorso da che era stato costretto a vivere a stretto contatto con altre persone. Ad Antigua, per esempio, evitava il più possibile le persone, cercando di averci a che fare soltanto quando e se necessario. Probabilmente si doveva risalire fino all’epoca in cui era sotto le armi, ma era passata davvero una vita e oltretutto ai tempi non aveva un segreto da proteggere. Si chiese, in quei frangenti di severa titubanza, se mai sarebbe riuscito a nascondere il petto. E se lo avessero visto? Per quanto coraggioso potesse diventare alle volte, per quanto scapestrato e passionale, doveva ammettere che quel pizzico di timore che gli stava divorando lo stomaco non dava segno di volerlo abbandonare. Stava quasi pensando di tornare indietro e rinchiudersi in cabina quando delle grida provenienti dal ponte, gli stuzzicarono le attenzioni. Quasi senza rendersene conto si ritrovò ad accelerare il passo e a metter foga in intenzioni e gesti, correndo su per i gradini come se ne andasse della sua stessa vita. Poco più tardi, già sostava sulla soglia. Accadde esattamente in quel momento, con l’accecante luce del sole che gl'impediva di vedere in maniera adeguata, l’odore forte del mare e i canti marinari della ciurma. Sì, John Watson lo capì allora. Tutto era reale e lui stava davvero vivendo assieme a un branco di canaglie.

«Capitano sul ponte» urlò proprio in quell’istante la voce di Lestrade. Un Lestrade che se ne stava sull’attenti, ben ritto su se stesso, a spalle indietro e petto in fuori, fermo ai piedi delle scale che conducevano al cassero. Teneva le mani intrecciate dietro la schiena ed era vestito in un modo che John ritenne del tutto inappropriato per un pirata. Esibiva infatti una splendida divisa della marina britannica, una di quelle che aveva visto indossate dagli ufficiali dell’esercito. Morbidi pantaloni bianchi e una giacca dal colore blu scuro. * Dove diavolo era andato a recuperare un’uniforme come quella? Che fosse sua personale? Era possibile, considerato che ognuno a bordo doveva avere certamente una storia alle spalle, ma quello avrebbe dovuto significare che anche quel grigio, come lo chiamavano, era stato un militare. Aveva forse combattuto? Se così era, come aveva fatto a diventare un pirata a fianco di Sherlock Holmes? Fu esattamente quello a cui si ritrovò a pensare mentre si ripeteva che avrebbe tenuto da parte quelle riflessioni in attesa di tempi migliori in cui sedare la propria curiosità, pertanto decise di dedicarsi ad altro. Doveva ammettere che Greg stava decisamente bene in divisa. La giacca, ben chiusa da una doppia fila di alamari d’oro, era aperta sul collo che ricadeva stancamente da una parte. Sulle spalle v’erano i gradi, quelli di tenente di vascello, John li riconobbe nell’immediato così come capì che sopra la testa portava un cappello da ammiraglio. Era uno strano miscuglio non ben definito di pezzi di divisa, il che stava a indicare che quasi certamente quegli abiti erano stati rubati a più di una persona. Se da un lato il militare che dimorava dentro di lui si infastidì al sol pensarci, una ben più pressante parte di se stesso si ritrovò a ridere per quella che era, in fin dei conti, una beffa bella e buona.
«Yo-ho» cantarono in quel momento i pirati, in un evidente intento di saluto, permettendogli di distogliere lo sguardo che aveva posato sul primo ufficiale de la Norbury, in maniera piuttosto insistente. In risposta all’annuncio che riguardava la venuta di Sherlock, infatti, ogni filibustiere presente sul ponte, si esibì in grida festose. C’era un uomo in cima all’albero di trinchetto che, dalla vedetta, guardava verso il basso e gioiva. Poi altri due, arrampicati sul velaccio di maestra, che cantavano a squarciagola. Altri stavano a prua mentre alcuni, infilati in una processione numerosa, erano a cavalcioni sulla balaustra intenti a tirare una corda.
«Yo-ho, capitano» proseguirono, festosi. John, ancora nascosto nel corridoio che conduceva di sotto, si ritrasse appena nella penombra quasi sentisse il bisogno di nascondersi per non interromperli. Come avevano fatto a mettersi tutti quanti d’accordo? Si chiese a un certo momento. «Quindici uomini sulla cassa del morto» dissero alcuni, cantando come se possedessero un solo cuore o tutti le medesime intenzioni. **
«Yo ho ho e una bottiglia di rum!» gli risposero altri. Che bizzarre parole, pensò mentre stirava un accenno di sorriso. Certo che era incredibile, non aveva mai udito niente del genere e nemmeno sul veliero con cui aveva attraversato l’oceano; che fosse un’usanza? Che salutare a quel modo fosse la norma sulle navi piratesche? Oppure era una particolarità di quella gente, i cui costumi aveva intuito essere insoliti? Di certo erano abituati a intonare canzoni perché tutti loro canticchiavano quel coro, persino Lestrade o Sherlock stesso, il quale muoveva le labbra mimando le strofe pur tenendo lo sguardo fisso alla mappa. Per quanto volesse sapere anche della più piccola sciocchezza, evitò di aprir bocca e, messo un piede oltre la soglia, si ritrovò con gli occhi di tutti puntati addosso. Ecco ciò che più temeva, quello che la realtà di un gesto sconsiderato e impulsivo come donare la propria vita a un pirata, lo aveva portato. Ogni uomo, ogni filibustiere presente lì in quel primo pomeriggio distolse presto lo sguardo dal proprio lavoro, puntandolo diritto su John, ora più che sicuro del fatto che non tutti avevano intenzioni amichevoli. Avrebbe seriamente dovuto guardarsi le spalle da più di un uomo, lì a bordo. Che fare, quindi? Meglio tornare indietro od obbedire all’invito di Sherlock che non meno di una manciata di minuti prima lo aveva invitato a seguirlo? Roso dai dubbi e invece che proseguire oltre, restò fermo dove si trovava.

A salvarlo giunse Victor Trevor. Arrivò del tutto inaspettatamente a un certo momento di quei lunghi istanti, spuntando dalla sua sinistra. John sobbalzò appena, spaventato. Non aveva ancora ben capito chi fosse quel prete, se era o meno invischiato in una relazione romantica con Sherlock e aveva anche parecchie domande da fargli, tuttavia preferì evitare di aggredirlo o di scacciarlo come una parte di sé gli stava implorando di fare. La ragione era pura e semplice, oltre che relativamente banale. Con Victor si sentiva stranamente a proprio agio. Provava come una sorta di attrazione, non forte e potente come quella che nutriva per il capitano (per farla breve: non ne era innamorato perso), ma ugualmente lo affascinava. La sua storia. La sua intera vita fatta di croci al collo e imprecazioni, di donne e vita monastica, era come un controsenso i cui contorni divenivano sempre più interessanti. Si era già ripromesso di prenderlo da parte, una volta o l’altra, tuttavia non era quello il momento migliore. Ciò che si limitò a fare fu di osservarlo appena, di studiarne un poco le reazioni così come le espressioni che aveva in viso. Mentre Victor gli afferrava il braccio, tirandolo delicatamente quasi volesse passeggiare, John si perse in sua contemplazione. Aveva uno sguardo vivace e un sorriso furbo, in un portamento che ancora e nonostante il luogo in cui stavano, era solenne impostato e forse proprio malgrado. Le sue radici nobili erano perfettamente chiare dal mento alto e dai modi involontariamente altezzosi. Aveva caratteristiche simili a quelle di Sherlock, ma laddove il pirata bianco era una maschera di indifferenza e freddezza, Victor aveva passione da vendere e sguardo caldo. C’era sempre e costantemente un sentimento a dipingergli il viso, probabilmente delle volte mutava umore troppo repentinamente. Se non era la furia era della più semplice rabbia, o magari paura (come quella intravista quel mattino) o ancora stima e amore. In quel momento, al contrario e mentre lo conduceva delicatamente oltre la soglia, c’era puro e semplice divertimento.
«Rilassati, dolcezza» gli sussurrò a un orecchio. Già stavano percorrendo il ponte, diretti alla scalinata realizzò senza però fermarsi o tornare indietro come la ragione avrebbe imposto di fare. «Sono solo diffidenti» proseguì, riferendosi alla ciurma «ma ti posso assicurare che rimangono fedeli alla parola data al capitano. Sherlock sarà anche un bocconcino niente male che sbatte le ciglia e spezza cuori di tenere fanciulle, ma sa incutere timore. Se sei qui su suo invito, significa che sei speciale e loro dovranno rispettarti.» Fu sufficiente un’occhiata per capire che quel prete non stava affatto mentendo e per quanto ridicoli fossero alcuni passaggi del suo discorso, evitò di soffermarsi sui dettagli. Nessuno mai lo aveva chiamato “dolcezza” e da che conosceva quello strano uomo di chiesa, era stato appellato in quel modo fin troppe volte. Non rifletté neanche sul fatto che il temutissimo pirata bianco fosse stato definito un “bocconcino niente male”, qualunque cosa significasse. Più semplicemente si ritrovò ad annuire e a stringergli istintivamente, e con ancora maggior vigore, la mano. John arrossì appena quando si rese conto che Victor ora gli sorrideva di un bel ghigno furbo, era come se tanta intimità non gli facesse che piacere.
«Mi sento un idiota» ammise mentre si dirigevano verso la balaustra alla loro destra e imboccavano gli scalini.
«Oh, benedetto figliolo, non pensarci nemmeno» lo rassicurò, pacato. «E poi non devi temere, ci sono io con te. Vuoi che questa notte dormiamo assieme? Io e te, stretti stretti sotto le coperte. Così i pirati cattivi non ti toccano mentre dormi.»
«Argh, smettila di tormentarlo! Demonio di un monaco» intervenne Lestrade, con fare severo e risoluto e sputando fuori quelle parole con quello che pareva fastidio. In realtà già aveva intuito quanto Victor e Greg si piacessero e come amassero il loro battibeccare. In certe occasioni, la sera precedente, gli erano sembrati una coppia sposata e unita da tempo. In quel momento non fu poi molto diverso, sebbene Lestrade mantenesse una certa rigidità, forse per via del ruolo che stava ricoprendo, il suo sguardo rimaneva giocoso. Era chiaro che buona parte dei loro screzi nascessero da una sincera e reciproca stima.
«Non essere geloso, signor nostromo» ribatté Victor, mellifluo e appena un poco lascivo. Provocatore nei modi, quasi tentasse a tutti i costi di suscitare una qualsiasi reazione.
«Oh, ma no, nessun problema» intervenne invece John, ben deciso a non cadere in qualche equivoco. Non voleva che qualcuno si convincesse che tra lui e il prete ci fosse una qualche attrazione di tipo sentimentale o carnale, perché così non era. Non poteva negare che gli piacesse, e anche parecchio, ma questo non lo avrebbe mai portato a chiedergli di dividere il letto. Inoltre non voleva che sembrasse come eccessivamente serio o che desse l’impressione di essere il nuovo venuto che aveva scarso senso dell’umorismo. Già doveva combattere con la propensione alla diffidenza che nutriva verso le altre persone, un’indole che negli ultimi mesi lo aveva portato a isolarsi da tutto e da tutti. In fin dei conti aveva paura di tutti quei pirati, perché non era un idiota e aveva un segreto a cui badare più di tutto quanto il resto, tuttavia non voleva apparire come rigido e distante. Che tutto quello avesse anche a che fare con la leggerissima, e del tutto insignificante, cottarella che s’era preso per Sherlock non lo volle ammettere in quell’occasione e, riportato lo sguardo su Lestrade, riprese a parlare.
«Non temere, ho capito lo scherzo. Credo» concluse annuendo vistosamente, ma subito divenendo pensieroso. Lo aveva capito davvero? Victor aveva uno strano modo di divertirsi ed esprimersi, di certo poco convenzionale. Probabilmente gli era sfuggita una qualche cosa.
«Ehm, bellezza?» lo chiamò il diretto interessato, giusto poco più tardi. Aveva un vago fare interrogativo nella voce, un tono che lasciava a intendere pensieri maliziosi e che s’accompagnava perfettamente a un sorrisino appena accennato, ma sufficientemente ampio da far trapelare tutto il divertimento che provava. Un divertimento sfacciato e tanto sincero.
«Io ero serissimo, sai?» proseguì, prima di posare delicatamente le labbra sulla sua guancia, in un bacio lieve. Lo aveva baciato? Sì, lo aveva baciato.

John ne rimase alquanto stupito, evitò di arrossire come una fanciulla ma su questo aspetto non fu certo di essere riuscito in qualcosa. Aveva aperto la bocca e balbettato parole poco comprensibili mentre tentava di raffazzonare una sorta di discorso, ciononostante i pensieri sfuggirono al suo controllo; quanto tempo era che nessuno gli dedicava simili attenzioni? Victor era un uomo espansivo per carattere, aveva una natura molto aperta e farfallona, affatto rigida e chiusa come un qualsiasi rispettabile inglese. Tuttavia quel bacio gli era parso come un’esagerazione persino per lui. Non ricordava davvero chi fosse l’ultima persona a essersi interessata in quella maniera, probabilmente sua sorella Harrieth, un qualche giorno prima che partisse lo aveva baciato. Ma poteva dire che erano trascorsi degli anni da che non aveva una relazione con una donna. Da dopo la morte di Joe, il suo conseguente arrivo ad Antigua e con un segreto da proteggere, aveva evitato ogni sorta di attenzione femminile. Neanche si era premurato di badare alle prostitute della locanda, sebbene la loro procacità fosse deleteria per certi istinti. Aveva dimenticato cosa fossero i contatti umani e come fosse l’avere addosso le labbra di un’altra persona, ora però a che doveva pensare? Era stato un bacio fraterno o c’era di più? Magari voleva soltanto provocarlo, in fondo sembrava essere ciò che di più amava fare. Fortunatamente, Victor lo lasciò appena dopo averlo baciato, roteando su se stesso e dirigendosi verso il cassero senza più far caso a lui. Non aggiunse una parola, tuttavia John fu quasi sicuro di aver intravisto un sorrisino accennarsi sul suo viso. Non seppe davvero dire se si trattasse o meno di una sorta di fuga, anche se dubitava che fosse in imbarazzo, oppure se gli stesse realmente facendo un favore per evitare di metterlo in difficoltà. Certamente ci provò, a capire quel prete e a cogliere pensieri e intenzioni. Addirittura lo seguì con lo sguardo per tutto il tempo. Aveva avvicinato il capitano e ora gli carezzava la schiena con fare lento. Anche quello era un gesto intimo e sembrava essere un qualcosa a cui Sherlock era abituato, perché non mosse un muscolo, né distrasse le attenzioni da ciò che stava facendo. Non tentò di cacciarlo via o di dirgli di smetterla. Quindi quel loro toccarsi era un fatto abituale, ne dedusse e fu proprio su Sherlock che si concentrò negli attimi a venire. Capitan Holmes era chino su di una superficie piuttosto ampia dove aveva posato la bussola e il sestante, e sopra la quale aveva srotolato l’intera mappa da poco copiata. Dava segno di esser totalmente assorto dallo studio che stava facendo, da quel suo guardare con doverosa insistenza alle carte che lì giacevano, quasi il resto del mondo e Victor stesso non esistessero nemmeno. Alla loro sinistra v’era il timone, grande e imperioso, governato da un barbuto uomo con una gamba di legno e un sorriso sdentato. Un tale con una cicatrice sulla guancia che spuntava appena dalla peluria irsuta, con delle rugose mani e la cui pelle era fortemente abbronzata da sole. Un uomo che chiamavano Fortebraccio *** e il cui scopo nella vita doveva essere proprio quello di mettergli una paura del diavolo, pensò John mentre considerava il dato di fatto che questi non gli stesse levando gli occhi di dosso. Il suo guardarlo, ripetutamente e quasi stesse tentando di agguantargli l’anima, lo indussero a ignorare tante dedite attenzioni e a riportare lo sguardo verso il capitano e Victor Trevor. Ancora pensieroso, oltre che incuriosito dalla maniera scrupolosa con cui la schiena di Sherlock veniva accarezzata, rimase per molti minuti a fissare entrambi. Fu allora che si chiese se mai sarebbe riuscito a comprendere un qualcosa della loro relazione. Era vero che non c’era nulla di romantico? Che avevano solo un’amicizia? Il fatto era che, a guardarli insieme, proprio non sembrava.
 


 
oOoOo
 


Mike Stamford aveva circa l’età di John ed era chiaramente un uomo di un elevato spessore culturale, forse era per questo che gli uomini dovevano averlo eletto a quartiermastro, riconoscendone il valore. Non era sicuro di quali fossero le sue origini, nonostante sapesse che era inglese e che aveva conoscenza delle stelle nel cielo, ma non aveva bene l’idea di quali studi avesse fatto. Quel che era riuscito a comprendere, era che doveva conoscere approfonditamente il mare e in particolare la zona delle Indie Occidentali perché per quanto poco ne sapesse di marina, John aveva perfettamente chiaro il fatto quanto il ruolo del timoniere fosse tra i più delicati a bordo di una nave. Aveva una fisicità particolare che poco aveva a che fare con l’immagine che si era fatto dei pirati, era di statura non molto alta, con un monocolo agganciato a una corda d’oro a penzolare giù sulla camicia di pregiata fattura e che era portata slacciata all’altezza del collo, forse per via del caldo. Era imponente, non per altezza o muscolatura tanto per il peso che era a dir poco eccessivo e che era evidenziato dalla grossa pancia. Un sorriso bonario era impresso sul viso mentre lo sguardo, sereno e tranquillo, lo faceva somigliare più che altro a un monaco o a un uomo di lettere. Mastro Stamford, come lo chiamava Sherlock, gli si era avvicinato quasi senza farsi sentire, scendendo giù lungo la scalinata con un’andatura che aveva percepito a malapena, stordito com’era dal bacio di Victor e ottenebrato dagli ormai soliti pensieri che faceva riguardo a Sherlock. Quel timoniere, adesso era a suo fianco e gli volgeva uno sguardo quasi divertito.
«Sì, fa sempre così» mormorò, sedando una risata senza troppa convinzione «Victor, intendo. Non far troppo caso a lui, quel prete ama scherzare e soprattutto adora farlo in una maniera che non farebbe pensare a lui come a un uomo di chiesa.»
«Già, mi era parso di capirlo» annuì sorridendo e sfoderando quel poco di ironia che era in grado di mettere.
«Tu devi essere John, dico bene? Il medico. Questa mattina Lestrade non aveva che belle parole per te e per l’aiuto che hai dato al capitano.»
«John Watson, piacere e non credo di aver fatto poi molto» disse, imbarazzato. Non era falsa modestia, la sua, ma la verità. Al contrario di quanto stava sostenendo quell’uomo, si era convinto di esser stato più che altro un problema. Li aveva inseguiti, là alla piazza, cambiando radicalmente le loro azioni e probabilmente mettendoli in pericolo. Erano stati fortunati, questa era la realtà dei fatti e se quel “Mastro” lo avesse saputo non gli sarebbe stato tanto grato.
«Stamford, Mike Stamford» si presentò, interrompendo le sue riflessioni «e non sminuire ciò che hai fatto. Ero a conoscenza del piano del capitano e ti posso assicurare che temevo per le sue sorti, ma fortunatamente tu hai salvato la vita a lui e di conseguenza a tutti noi. Grazie, John Watson, grazie con tutto il cuore e se dovessi aver bisogno di un qualcosa, anzi di una qualsiasi cosa non esitare a domandare. Se hai la fiducia del pirata bianco, hai la mia fiducia.»
«Sì, beh» annuì, imbarazzato «diciamo che ci siamo aiutati vicendevolmente e che il nostro è stato un accordo equo. Avevo quella mappa da tempo e…»
«A questo proposito» lo interruppe, esaltato ed eccitato dal solo parlarne. C’era una sincera emozione in lui, una vena di trepidazione che fuoriusciva dallo sguardo acceso e vibrante. La sua felicità, dai tratti vagamente infantili, non era dissimile a quella che aveva notato sul volto di Sherlock non meno di qualche minuto prima e che lo fece per certi versi sprofondare in una tristezza leggera. C’era mai stata sul suo volto una gioia simile? Probabilmente no e, anzi, la sola e unica volta doveva esser stata nell’attimo in cui aveva deciso di correre appresso a Sherlock Holmes.
«Il capitano sostiene che ci hai portato una sfida interessante. Personalmente ne sono entusiasta, le ho già dato un’occhiata e ammetto che sarà piuttosto arduo scoprire dove si trovi quell’isola, ma sei fortunato.»
«Davvero?»
«Aye!» esclamò a viva voce. «Se c’è una cosa che ama il nostro capitano sono proprio le sfide, che Dio lo abbia in gloria. Delle volte penso che non abbia sangue nelle vene, ma puro spirito d’avventura e che resti tra noi» proseguì non prima di essersi fatto più vicino e aver abbassato i toni, come se volesse confessargli un segreto «sono quasi sicuro che dell’oro e dei tesori poco gli importi. Quello che ama è progettare piani che sembrano impossibili e non darsi pace pur di realizzarli. Vuole arrembare, risolvere misteri, sfidare il nemico a riuscire a catturarlo o la morte a prenderlo. Ciò non avviene mai, ovviamente perché il nostro capitano è l’uomo più intelligente al mondo, certamente il più furbo tra tutti i pirati. Aye! Sherlock Holmes è straordinario, quant’è vero che mi chiamo Mike Stamford.»

John rimase zitto a lungo, anche dopo che Mike lo ebbe invitato a seguirlo. Il suo breve ma accorato discorso si concluse con quelle parole, oltre che con l’idea di un capitano dal fine acume e le cui capacità erano fuori dall’ordinario. Quanto Mastro Stamford aveva detto gli diede da pensare, si era convinto che Sherlock fosse un uomo particolare e il suo amare musica e libri ne erano un segno inequivocabile, possedeva però anche una mente brillante, una vista acuta e incredibilmente attenta. Effettivamente, già aveva avuto l’impressione che ci fosse ben poco di banale e ordinario in lui. La facilità con cui aveva intuito fatti della sua vita personale o i sentimenti che nutriva per sua sorella Harrieth, gli avevano insinuato il dubbio che si trattasse di un uomo speciale. E ora quelle parole, pronunciate con in viso l’espressione di chi non sa mentire e che di certo mai lo farebbe riguardo al proprio capitano, lo convinsero una volta per tutte che fosse vero. A questo punto ogni leggenda, ogni storia e racconto che per mesi aveva sentito narrare e che avevano scatenato in lui un relativo numero di fantasie, non erano soltanto un mucchio di chiacchiere popolari di certo gonfiate, ma c’era un qualcosa di vero. Qualcuno avrebbe dovuto scrivere del terrore dei sette mari, del leggendario pirata bianco, si disse in un frangente mentre si figurava libri che raccontavano delle straordinarie imprese di Sherlock Holmes. Sarebbe stato un peccato che anche i posteri non ne avessero goduto. Quel vago pensiero tuttavia morì subito e proprio per mano di capitan Holmes, che già aveva preso parola.
«Deve trattarsi di un’isola piuttosto grande, non di un pezzetto di terra.» La voce di Sherlock lo riscosse brutalmente, risvegliando i suoi sensi intorpiditi. «Sono sicuro che sia disabitata o tutt’al più popolata da indigeni, nessun pirata che si definisca tale nasconderebbe un tesoro su un’isola piena di soldati inglesi o francesi.»
«Concordo» annuì Stamford, indicando proprio in quel momento un punto preciso sulla mappa. «Sembra ci sia un’insenatura naturale molto grande, direi sufficiente a farci entrare la Norbury. Questo non è comune e me ne vengono in mente ben poche di isole con una baia di queste dimensioni.»
«Avete idea di che cosa possa significare invece quel teschio tra le rocce?» chiese invece John, il quale per la prima volta si sentiva tanto rilassato da riuscire a intervenire in una discussione senza limitarsi ad ascoltare. Era molto interessato a ogni particolare riguardante la mappa, dato che per tanto tempo aveva provato a decifrarla, pur con scarsi risultati. Ognuno tra quei pirati pareva sapere il fatto proprio in quanto a carte, poiché tutti avevano lo sguardo serio e concentrato, caricato dell’intenzione di capire dove potesse collocarsi tra le tantissime isole che costellavano le Indie e infatti, in pochi minuti avevano compreso molte più cose di quante lui non ne avesse dedotte in settimane. Fu il capitano, naturalmente, a essere al centro dei suoi sguardi. Uno Sherlock che aveva preso a sorridere e che, a fronte di quella domanda, aveva sfoderato un’espressione mai vista. Pareva curiosità mista a un qualche strano tipo di divertimento. Cosa c’era di buffo nella domanda che aveva posto? Era un dubbio lecito e non capiva proprio perché ridesse, fu anche tentato di fargli presente che non era carino prenderlo in giro a quel modo, quando preceduto.
«Tu cosa credi possa essere, dottore?» Ancora lo guardava. Ancora teneva gli occhi puntati nei suoi, notò mentre faceva il possibile per sostenere il suo sguardo. Era dannatamente difficile non lasciarsi trasportare da illusioni e fantasie, o perdersi in contemplazione del viso dai tratti perfetti. John sorrise, lo fece di istinto, accennò appena uno stirarsi di labbra che poco aveva a che fare con il divertimento. Più che altro era come se non riuscisse a trattenere la felicità. Ormai era inutile negarlo, c’era un’intesa tra loro, una sorta di comunione intellettuale che gli sembrava di avere con lui e che mai aveva sperimentato con nessuno prima. Quando, poco dopo, Sherlock sorrise in rimando, una sorta di gioia gli esplose nello stomaco.
«Beh» esordì dopo essersi concesso un attimo di riflessione «ci ho pensato parecchio negli ultimi mesi, non posso negare di averlo fatto. Inizialmente ero convinto che fosse un modo per far capire che era un’isola di pirati, un luogo maledetto o sciocchezze del genere. Sapete, come le superstizioni per tenere lontani gli sciocchi. Poi però mi sono convinto che sia un indizio.»
«Cosa intendi per “indizio”?» intervenne invece Lestrade, con fare scettico mentre il sorriso del capitano si allargava, questa volta di compiacimento.
«Ma bene! Finalmente qualcuno che usa il cervello. Hai perfettamente ragione: quel teschio e le rocce così disegnate, sono un modo per farci capire dove si trova l’isola.»
«Dolcezza, non tenerci sulle spine. Dove dobbiamo andare?» chiese invece Victor. A malapena, però, riuscì a terminare la propria domanda perché Sherlock, tutto a d’un tratto, vorticò su se stesso con un plateale movimento.
«Mastro Stamford, quanto per il nascondiglio?» chiese mentre scendeva rapido le scale.
«Se il vento regge a questa forza, mezza giornata, capitano.»
«Perfetto. Mi occorrerà una profonda riflessione. Soltanto per merito di essa troveremo quell’isola. Lestrade, hai il comando. Dottore, puoi andare dove vuoi a bordo e sono certo che Victor sarà lieto di accompagnarti.» Detto questo, Sherlock sparì oltre la porta lasciando dietro di sé soltanto un coro di sguardi attoniti.
«Dove sta andando?» chiese John con una vaga innocenza.
«Nella propria cabina, a pensare. Dolcezza, sarà meglio se non lo disturbi perché potrebbe diventare vagamente irascibile. Vieni, ti faccio fare un giro.» Victor lo prese di nuovo sotto al braccio, stringendoglielo con un certo vigore e mentre lui aveva preso a parlare e a indicargli i nomi di ogni marinaio presente sul ponte in quel momento, già tutti quanti erano tornati alle proprie faccende. Stamford al timone e Lestrade a sbraitare ordini. L’ultima cosa a cui riuscì a pensare, prima di seguirlo giù di sotto, fu che la ciurma ancora cantava.


 
 
Continua
 

 
*Le informazioni a riguardo sono davvero poche, ma da quanto sono riuscita a capire, la divisa degli ufficiali di marina era blu e bianca.
**La canzone che cantano i marinai, titolo e citazione fanno parte della canzone: “Yo ho ho and a bottle of rum”. La canzone è forse la più famosa a tema piratesco, di certo una delle più usate e apparve per la prima volta nel romanzo di Stevenson: “L’isola del tesoro”. Qui troverete varie informazioni sulla canzone, e parte del testo tradotto. Qui il testo completo in inglese mentre qui il video.  
***Fortebraccio è un personaggio dell’Amleto di Shakespeare.
   
 
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