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Autore: Adeia Di Elferas    06/04/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Achille Tiberti organizzò le truppe in modo che setacciassero Castelnuovo palmo a palmo: “Senza attaccare nessuno, se non verrete attaccati!” andava ribadendo, man mano che instradava a destra o a sinistra una colonna di soldati.

Gli abitanti della città, colti nel mezzo di una giornata qualunque, non avevano avuto nessun moto di ribellione, nel vedersi piombare addosso tutti quegli uomini armati.

Bezzi aveva provato a suggerire di prendere d'attacco le mura, ma Cicognani aveva fatto notare che nemmeno erano state chiuse le porte e che le sentinelle sui camminamenti si erano limitate a fissarli mentre sfilavano sotto i loro occhi, dunque non avrebbe avuto senso danneggiare mura che poi sarebbero servite a loro stessi una volta presa la città.

Così Tiberti aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di seguire pedissequamente il piano stilato dalla Contessa. Prima di tutto, quindi, andavano cercate le provviste alimentari. Dopodiché bisognava prendere possesso della rocca.

La fortezza era in mano a Nicolò Bonucci e Achille era certo che proprio in quel momento il castellano stesse già facendo i suoi conti. Se le informazioni su cui si era basata la Contessa erano corrette, a Castelnuovo potevano esserci al massimo poche decine di guardie e probabilmente nemmeno una bocca da fuoco decente. Che poteva fare Bonucci, contro lo schieramento compatto e ben armato or ora giunto da Forlì?

Appena i soldati tornarono dai comandanti dichiarando di aver trovato fossi interi colmi di grano nascosto e di aver già requisito tutto il bestiame presente in città, Tiberti ordinò che si marciasse fin sotto alla rocca.

Nicolò Bonucci, risvegliato di soprassalto nel mezzo di un pisolino – Castelnuovo si era fatta tanto tranquilla, dalla partenza dei francesi, che spesso il castellano restava nelle sue stanze fino al mezzogiorno – aveva infilato in fretta e furia i primi vestiti che gli erano capitati a tiro ed era corso sulle merlature.

Quando vide che le parole del suo attendente erano corrette e che la città era letteralmente invasa da soldati che portavano lo stemma degli Sforza Riario, si fece il segno della croce.

“Bonucci!” gridò Tiberti, facendo andare il proprio cavallo avanti e indietro proprio sotto ai camminamenti della rocca, non temendo nemmeno un colpo di freccia: “Bonucci! Dobbiamo parlare!”

Sistemandosi il colletto con una mano e i capelli con l'altra, il castellano si mise in mostra e urlò di rimando: “Che volete? Perché siete qui?”

“Lasciaci entrare a discutere e non attaccheremo la popolazione!” spiegò Tiberti, puntando gli occhi verso il castellano e poi indicando i soldati alle sue spalle: “Altrimenti, se preferisci, difenditi.”

Bonucci si passò la lingua sulle labbra, lanciò uno sguardo atterrito alle sue spalle e vide l'unico malconcio cannone che era rimasto alla rocca dopo l'ultima requisizione di Guido Guerra, che aveva voluto tutti i pezzi d'artiglieria migliori a Cesena, e si vide costretto ad accettare: “Entrate e parliamone!”

Al che Tiberti fece cenno a Cicognani e Bezzi di smontare di sella come lui e i tre entrarono già con passo da vincitori nella rocca di Castelnuovo.

 

Giovanni il Popolano appoggiò con delicatezza la mano sulla spalla di Semiramide, china sul capezzale del figlio, e poi lasciò un momento la stanza, dedicando uno sguardo alla serva e al medico, come a raccomandare a loro sua cognata.

Fermò uno dei servi che si affaccendava in silenzio fuori dalla porta e gli disse, a voce bassa, ma concitata: “Correte da mio fratello, al palazzo della Signoria. Ditegli che Averardo è peggiorato di colpo. Fate sì che venga subito qui.”

Mentre il domestico si allontanava come una scheggia, Giovanni fece un paio di respiri profondi.

Suo nipote si era aggravato all'improvviso. Quello che sembrava un semplice malanno da bambini si era trasformato in una sorta di agonia nell'arco di mezza giornata.

Il Medici fece per rientrare in camera, ma alla fine gli mancò il coraggio e sentì il bisogno di prendersi un momento per ragionare. Era un uomo abbastanza realista per capire che probabilmente Averardo non si sarebbe ripreso. Aveva bisogno di rimettere in quadro i suoi pensieri, prima dell'arrivo di suo fratello Lorenzo, o sarebbe risultato più d'intralcio che non d'aiuto.

Lo sollevava pensare che Pierfrancesco, di tre anni più grande di Averardo, era stato allontanato per tempo dal fratellino minore. Anche se forse avrebbe voluto stargli accanto, il rischio che anche lui subisse il contagio sarebbe stato impossibile da accettare.

Giovanni camminò lentamente, senza badare a dove i suoi piedi lo stessero portando, e alla fine si trovò nella saletta in cui era stato accantonato il quadro di Botticelli, quello che raffigurava la Primavera.

Quella vista, come sempre, lasciò senza fiato Giovanni per qualche istante. Pensare che il loro subdolo cugino l'avesse commissionato per le nozze tra Lorenzo e Semiramide sembrava quasi una presa in giro, ormai.

Non era mai stato di loro proprietà, finché il Magnifico era stato in vita. Un regalo, di solito, dovrebbe restare al suo destinatario e non al mittente.

Giovanni sospirò e guardò le figure eterne del dipinto, illuminate dalla luce chiara del sole del primo pomeriggio. Riconobbe il profilo del defunto cugino Giuliano e anche quello di Simonetta Vespucci. Quanti anni erano passati...

E poi i suoi occhi si puntarono su una delle Grazie, quella più a destra.

L'aveva sempre trovata di una bellezza rara. Anzi, non solo bella, ma interessante, il che era molto più importante a suo avviso. C'era qualcosa, nel tratto tracciato da Botticelli, che rendeva il suo sguardo vivo e imperscrutabile. La curva definita del suo profilo era severa e dolce allo stesso tempo. Giovanni allungò le dita verso l'effige di quella Grazia e si chiese se esistesse sulla Terra davvero una donna del genere.

“Messer Medici...” la voce del medico lo fece sobbalzare: “Vostra cognata chiede di voi...”

“Arrivo.” disse subito Giovanni e, lasciando indietro i suoi pensieri astratti, si preparò a rituffarsi nella realtà.

Quando tornò nella stanza di Averardo, gli parve trasfigurato. Respirava malissimo, la bocca spalancata e le labbra bluastre.

Semiramide piangeva, aggrappata al bambino, e chiedeva di continuo dove fosse Lorenzo.

Giovanni le arrivò alle spalle e si chinò accanto a lei. Averardo al momento sembrava del tutto incosciente. La sua pelle era tesa, scottava, il suo collo era rigido e i suoi muscoli erano pervasi da spasmi e tremiti.

Il medico scuoteva lentamente il capo, ma non osò più avvicinarsi al piccolo, dopo che, per impedirgli di infastidire il povero Averardo con le sue pedanti e irriguardose indagini alle sclere e alle mucose, Semiramide gli ebbe assestato un sonoro schiaffo sulle mani.

La serva, che era stata raggiunta da una sguattera di cucina e da uno degli stallieri, piangeva a dirotto.

Il bambino si inarcò un momento nel letto, il respiro strozzato a metà inspirazione e poi ricadde sulle lenzuola senza dare più cenno di vita.

Il singulto profondo di Semiramide riempì l'aria, resa irrespirabile dall'incenso sparso dal prete qualche ora prima, mentre tutti capivano che l'irreparabile era alla fine capitato.

Giovanni, istintivamente, si ritrasse, lasciando che gli altri si avvicinassero alla cognata e al corpicino di Averardo.

La sensazione di estraneità che il Popolano provò in quei momenti lo portò a uscire di nuovo dalla camera, cercando rifugio dalla crudeltà di quella visione.

Perché un bambino innocente doveva prima scottare di febbre, poi rifiutare il cibo e l'acqua e infine morire tra atroci sofferenze? Era quello il Dio misericordioso di cui parlavano tutti?

Senza accorgersene, un ginocchio, quello che più spesso gli doleva, era ceduto a Giovanni e così egli si era accasciato contro il muro, fino a restare seduto per terra, le mani intrecciate sopra la testa.

“Dov'è?!” la voce di Lorenzo, potente e impaziente, rimbombò per tutto il palazzo, assieme all'eco dei suoi passi svelti.

Guidato dal servo che lo era andato a chiamare, il Popolano più vecchio arrivò fin davanti alla stanza di Averardo e quando vide suo fratello prostrato dal dolore contro la parete capì all'istante quello che era successo.

Spalancando la porta, Lorenzo si tuffò verso il letto di morte del figlio di sette anni e, prima che qualcuno riuscisse a trattenerlo in qualche modo, si buttò sul bambino e provò a scuoterlo con violenza, come sperando di poterlo svegliare.

Da fuori, Giovanni sentiva sua cognata gemere e suo fratello maledire prima Dio e tutti i santi, poi il medico, e infine la malasorte.

A un certo punto, la confusione si acquietò e non si sentì più altro se non il sommesso piangere del servidorame.

Il dottore uscì ed evitò di guardare Giovanni, come temendo di ricevere degli insulti anche da lui.

Pure le cameriere e lo stalliere, poi, uscirono mesti, come fossero già un corteo funebre.

Il Popolano più giovane, asciugandosi le guance con la manica della camicia, si fece forza e si rimise in piedi. Guardò nella camera, approfittando della porta rimasta socchiusa, e quello che vide lo convinse a non entrare.

Lorenzo e Semiramide erano abbracciati l'uno all'altra, tanto stretti da faticare a capire dove iniziasse l'uno e finisse l'altra. Si stavano dicendo qualcosa, in un sussurro destinato solo a loro due e tenevano gli occhi serrati.

Giovanni intravide dietro di loro il corpo senza vita di Averardo e si fece il segno della croce.

Lo raccomandò a Dio, chiedendosi che disegno potesse mai essere quello. Cosa poteva esserci di divino, in tanto dolore?

Avrebbe voluto unirsi al fratello e alla cognata, condividere con loro il proprio cordoglio, ma i due restavano l'uno tra le braccia dell'altra e Giovanni si sentì di troppo. La loro intimità era tanto profonda che chiunque si sarebbe sentito un intruso anche solo a guardarli.

Tornò nella stanza in cui era stata sistemata la Primavera e, dopo aver cercato con scarso successo il conforto nella preghiera, lo cercò nell'arte.

 

Caterina stava osservando i soldati della rocca di Ravaldino che si addestravano. Anche lei aveva fatto un po' di esercizio, ma era troppo tesa per riuscire a prestare l'attenzione necessaria durante uno scontro, seppur combattuto con spade da allenamento.

Il cielo si stava ingrigendo e presto sarebbe scesa la sera. Le prime torce illuminavano già il cortile e ancora non c'erano notizie da Castelnuovo.

La Contessa era abbastanza certa della buona riuscita di quel primo punto della sua campagna, ma sapeva anche che era da stupidi essere troppo rilassati in certi casi. Se Castelnuovo avesse provato a resistere all'attacco o se, per qualche motivo ignoto, Guerra fosse riuscito a contrattaccare subito, allora le cose si sarebbero messe male...

“Sì, va bene.” concordò Caterina con un sospiro, quando suo figlio Galeazzo le chiese per la terza volta se poteva provare a tirar di spada coi soldati: “Ma stai attento a non farti troppo male.”

Il ragazzino non aveva ancora dieci anni, ma nelle ultime settimane si era mostrato desideroso di fare e imparare. E così Caterina cercava di assecondarlo, pur tentando di non metterlo troppo in pericolo.

Mentre Galeazzo indossava le bardature aiutato da un paio di soldati, sua madre si perdeva nei ragionamenti sul suo futuro.

Il papa non aveva ancora osato dire o fare nulla contro di lei, ma prima o poi sarebbe stato inevitabile un confronto diretto con lui. Rodrigo Borja era il padrino di Ottaviano e Caterina non lo dimenticava, ma difficilmente avrebbe potuto farle pressioni per far sì che il titolo restasse proprio al colpevole di un tradimento.

Dopotutto Sisto IV aveva lasciato quelle terre ai discendenti di Girolamo. Non c'era scritto da nessuna parte che dovesse trattarsi proprio del primogenito.

Galeazzo aveva impugnato una spada spuntata e senza filo e uno degli uomini l'aveva preso sotto la sua ala e gli stava facendo provare qualche assalto.

Caterina ragionò sul fatto che, tolti per ovvi motivi Ottaviano e Cesare dalla linea di successione, e accantonata Bianca perché femmina, restavano Livio, Galeazzo e Sforzino.

Per la prima volta, sentì che aver avuto ben cinque maschi da Girolamo era stata una grande fortuna.

Tuttavia, Livio era da scartare, perché la sua salute cagionevole ne avrebbe sempre fatto un signore di scarso potere. E Sforzino, che per il momento dava mostra di amare solo il cibo, era ancora piccolo per sapere come sarebbe diventato da adulto.

Galeazzo, che era appena riuscito a eludere abbastanza bene la difesa del soldato che si stava allenando con lui, pareva l'unica scelta possibile.

'E che ne sarà di Bernardino?' si domandò in silenzio Caterina, appoggiandosi al palo per i cavalli, in modo da star più comoda mentre osservava Galeazzo che veniva disarmato per la seconda volta.

Uno dei soldati nuovi, uno di quelli appena giunti alla rocca per l'addestramento, prese da terra la spada di Galeazzo e gliela porse.

La Contessa ne intravide il naso dritto e il profilo deciso e poi non poté fare a meno di notarne la schiena ampia e muscolosa e lasciar scorrere lo sguardo anche più in basso e lungo i fianchi stretti, mentre egli si allontanava per tornare al suo esercizio.

Quando la mente di Caterina stava cominciando a vagare per altri lidi, anche per colpa dell'aria serale d'autunno inoltrato che spirava con una certa decisione, andando anche a scompigliare le fiamme delle torce, un grido giunse alle sue spalle: “Messaggio da Castelnuovo!” e una staffetta fece capolino nel cortile.

La donna gli fu davanti in un istante e chiese: “Allora? Com'è andata?” e nel frattempo tutti i soldati le si fecero attorno, Galeazzo compreso, per sentire le novità.

“Castelnuovo è caduta senza combattere – disse il messaggero, tutto d'un fiato – il castellano Bonucci ha lasciato la rocca, cedendola ai nostri. Abbiamo requisito tutto il grano, le provviste e gli armenti.”

La Contessa si sentì così sollevata che avrebbe abbracciato la staffetta, se ne avesse avuto il tempo, e invece chiamò subito a gran voce il castellano Cesare Feo, che era appena arrivato nel cortile e gli ordinò: “Andate a cercarmi Battista Veggiani, Francesco Numai e Tonone Russi! Devo subito istruirli sul da farsi e mandarli a Castelnuovo!”

Lucrezia Landriani, che, sentendo il trambusto nel cortile, si era affacciata da una delle finestre, lasciando momentaneamente la camera dei ragazzi, in cui Bianca stava leggendo e Sforzino e Bernardino stavano giocando, si era messa in ascolto.

Vedendo l'entusiasmo tingere il volto di Caterina alla notizia di quella facile vittoria, la donna ebbe paura. Aveva quasi sperato che sua figlia subisse una sconfitta o che quanto meno trovasse fin da subito dei problemi. Almeno si sarebbe fermata.

Con un colpo di tosse che infrangeva un sospiro, Lucrezia si fece il segno della croce e si affidò a Dio, nella speranza che almeno lui avesse le idee chiare su quello che sarebbe accaduto.

 

Lorenzo Medici aveva lo sguardo vitreo e teneva le labbra sporte in fuori. Stava curvo, seduto a gambe raghe, i gomiti sulle ginocchia e le mani strette, quasi fosse in preghiera.

Semiramide non aveva voluto lasciare il corpo del loro bambino nemmeno un momento e lo stava vegliando anche in quel momento, mentre i frati gli cambiavano l'abito e lo lavavano.

Giovanni era l'unico che potesse stare nella stessa stanza in cui era il fratello senza scatenarne l'ira e così gli era rimasto accanto, per dargli la parvenza di un sostegno che fosse non solo spirituale, ma anche fisico.

La sala in cui i due Popolani si erano ritirati era in una zona riparata del palazzo, abbastanza lontana dalla strada da difendere le loro orecchie dal chiacchiericcio insistente del popolo che si accozzava nelle vie caotiche di Firenze.

La luce stava sfumando rapidamente nella sera, ma non si parlava di cena. Giovanni era quasi certo che avrebbero digiunato e per lui non sarebbe stato un problema. Già di suo spesso mangiava molto poco, riuscendo così a ridurre gli attacchi di gotta, quindi la cena restava l'ultimo dei suoi pensieri.

Il silenzio si era protratto così a lungo che il fratello più giovane, tanto per far qualcosa, si era risolto ad alzarsi, passando davanti ai quadri e alle statue raccolte nella camera e scrutandoli distratto, con un distacco che raramente aveva avuto dinnanzi a certe opere.

“Mio figlio è morto.” la voce di Lorenzo era arrochita e spenta, molto diversa da quella con cui di solito prendeva bonariamente in giro il fratello o esponeva tesi al palazzo della Signoria.

Giovanni gli fu subito accanto e provò a dire: “Lo so, è una cosa terribile e noi dobbiamo...”

Tuttavia Lorenzo parve non sentirlo e continuò: “Ma non era il mio unico figlio.” sollevò gli occhi tondi verso quelli chiari del fratello e dichiarò, con una vena di disperazione: “Non voglio lasciare una Firenze come questa a quelli che mi seguiranno. Non voglio lasciare una Firenze in cui l'arte è peccato, la poesia una blasfemia e la cultura un sigillo del demonio. Dobbiamo lasciare loro una Firenze migliore, Giovanni, una Firenze accesa di vita, non cupa come una tomba, una Firenze che sia di nuovo la grande città che hanno conosciuto i nostri nonni.”

Il Popolano più giovane restò tanto attonito nel sentire l'altro parlare di affari di Stato in un momento simile, che per poco non esplose di rabbia. Ma poi, quando percepì l'esatta sfumatura delle parole e dello sguardo di Lorenzo, comprese cosa gli stesse in realtà dicendo.

Non era uno sterile pensiero politico, ma un'accorata richiesta d'aiuto. Uno slancio d'amore per chi avrebbe preso il loro posto, quando loro fossero morti. La dipartita di Averardo doveva aver squarciato un velo prima impenetrabile nella mente di Lorenzo e ora anche Giovanni poteva vedervi oltre.

“Faremo tornare grande Firenze.” assicurò il Popolano più giovane: “A tutti i costi.”

Lorenzo finalmente lasciò la poltrona in cui si era incuneato e allargò le braccia.

Accolse il fratello minore in una stretta poderosa e lo ringraziò, promettendogli che ce l'avrebbero fatta: “Per i miei figli e per quelli che un giorno avrai tu.”

 

“Resterete lì di stanza.” spiegò Caterina, consegnando i documenti necessari a Numai, Veggiani e Russi: “Un Governatore, il suo vice e il nuovo castellano.” elencò, indicandoli uno per volta.

Francesco Numai prese il malloppo di documenti e chiese: “E quanto soldati avete detto che possiamo tenere con noi a Castelnuovo?”

La Contessa si abbandonò contro lo schianale dello scranno del castellano e allargò un po' le braccia: “Con il dispaccio che ho scritto, ho ribadito a Tiberti e agli altri di lasciarvi prendere tutti i soldati che riterrete necessari, ma confido che ve ne basti un numero ragionevole.”

Veggiani annuì e così fece anche Numai, mentre Russi avanzò una perplessità: “E se dovessero attaccarci?”

Quello era un punto che la stessa Caterina aveva più volte rivalutato, ma tentò di suonare molto sicura di sé: “Guido Guerra non ha né gli uomini né gli aiuti necessari per mettersi contro di noi adesso. Non abbiate paura. Siate prudenti, ma non sopravvalutate il nostro nemico.”

Dopo un paio di altre rassicurazioni, la Contessa lasciò andar via i tre uomini, che sarebbero partiti all'alba alla volta di Castelnuovo per prendere de facto le loro nuove cariche.

Rimasta sola, la donna si mise a rimuginare sulla guerra che aveva appena cominciato e sperò che le voci che stava facendo mettere in giro dalle sue spie facessero presto il loro corso. Assistita da un po' di fortuna, nessuno avrebbe osato contrastarla per un bel po'. Quello che voleva, era convincere ogni potenza d'Italia che dietro alle sue mosse ci fosse qualcuno di importante. Voleva che Roma credesse che lei fosse pilotata da Firenze. Che Firenze la immaginasse una pedina di Milano. E che Milano la considerasse mossa da Roma.

Il castellano Feo bussò alla porta e Caterina gli disse di entrare pure. Gli lasciò libero lo studiolo, in modo tale che lui potesse risistemare le stime delle provviste di Forlì, e si avviò alle sue stanze.

Prima di ritirarsi per la notte, però, le tornò in mente la givane recluta che aveva visto nel cortile d'addestramento. Senza pensarci troppo su, per evitarsi ripensamenti e sensi di colpa, si avviò a passo svelto fino agli alloggi dei soldati.

Si intrattenne a chiacchierare con un paio di loro, partecipò per qualche minuto a una partita a dadi e infine riconobbe l'uomo che aveva attratto la sua attenzione qualche ora prima.

Lo avvicinò e gli chiese: “Siete una delle nuove reclute?”

Il soldato sollevò lo sguardo e i suoi occhi scuri le sorrisero: “Sì. Il Capitano Mongardini ha mandato me e una decina d'altri alla rocca per imparare a usare l'artiglieria.”

“Partirete presto?” chiese Caterina, ricordandosi come lei stessa avesse chiesto a Mongardini di istruire velocemente qualche nuovo soldato all'uso dei cannoni, in modo da poterli mandare di supporto al fronte nella seconda fase della guerra.

“A quanto pare sì. Tra meno di una settimana, a sentire il Capitano.” rispose il giovane.

Nessuno stava badando alla Contessa e alla recluta, dato che la donna si era intrattenuta a parlare con ben più di un soldato, così Caterina ne approfittò e chiese, a voce più bassa: “Siete sposato?”

L'uomo parve divertito da quella domanda e rispose: “Nemmeno fidanzato. Sono libero come l'aria, mia signora. Se morirò in battaglia, nessuno mi piangerà.”

La Contessa lo squadrò ancora un momento, alla luce delle torce, come per sincerarsi che la sua prima impressione di quel pomeriggio fosse corretta e lo trovò decisamente prestante e attraente.

Fingendo di avvicinarsi a lui per controllare la foggia della spilla che gli teneva fermo il mantello all'altezza della gola, Caterina gli sussurrò: “Vi andrebbe di venire nelle mie stanze, stanotte?”

La recluta restò a bocca mezza aperta, forse chiedendosi se fosse uno scherzo. Nessuno aveva sentito nulla, ma l'uomo si guardò attorno come un bambino colto sul fatto mentre rubava del miele.

La Contessa si allontanò di nuovo e aggiunse: “Se la risposta è sì, sappiate che vi aspetto. L'ultima porta nel corridoio qui sopra.”

Il soldato ancora non riusciva a parlare, quando Caterina, con un ultima occhiata abbastanza eloquente, lasciò i baraccamenti, salutando molti degli altri soldati con motteggi volgari o camerateschi, accolti dalle risate della truppa, com'era solita fare da sempre.

La Contessa era arrivata nella sua nuova stanza – non era più riuscita a occupare la camera da letto che aveva condiviso con Giacomo, dopo la prima notte passata con il ragazzo del postribolo – da pochi minuti quando udì una tentennante bussatina alla porta.

Quando andò ad aprire, come da attese, si trovò davanti la fascinosa recluta che aveva puntato come un cane da caccia punta una preda.

L'uomo sembrava un po' imbarazzato, ma ormai Caterina non si lasciava più spaventare da certe cose. Avrebbe preso quel che voleva e non avrebbe più lasciato che le sue remore e le sue paure la frenassero, tanto meno che lo facessero quelle degli altri.

Lo agguantò per il colletto del giaccotto e lo tirò nella camera, chiudendosi la porta alla spalle a tre mandate.

Forse altri trovavano conforto nella preghiera o nella contemplazione, si facevano scudo con un segno della croce o con un rosario stretto in mano, ma alla Contessa importava molto poco.

Mentre cominciava a svestire il giovane soldato, che era ancora parecchio stordito per la piega che stava prendendo la serata, Caterina si disse che anche quello che stava per fare – con un po' di elasticità mentale – poteva essere considerato una modo di pregare.

 
   
 
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