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Autore: Koa__    11/04/2017    9 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Viaggio al centro de la Norbury




Victor fu un accompagnatore preciso e attento, incredibilmente serio e affatto prolisso nel suo esporre il funzionamento delle differenti sezioni della nave, ma sufficientemente accurato da permettergli di comprendere questo o quello. Era evidente, dal modo che aveva di spiegare o anche solo da come evitava gli scherzi e le burle inopportune, quanto fosse importante che John avesse le idee chiare su come muoversi a bordo. Per quanto nessuno sapesse qualcosa circa il suo futuro su la Norbury (e in questo, lui stesso doveva ammettere di essere reticente nel prendere una decisione), dovevano aver ritenuto opportuno il fargli capire come avrebbe dovuto giostrarsi tra i vari ponti, anche soltanto per raggiungere la mensa senza aiuto. Come sapersi comportare in caso di pericolo pareva essere di vitale importanza per quella gente. Quando si prospettava un imprevisto, l’equipaggio veniva avvisato tramite una campana posizionata sul ponte principale che serviva a mettere tutti quanti in allarme. La si suonava se il timoniere notava l’approssimarsi di una tempesta o se minacciava mareggiata, così che le vele fossero ammainate preventivamente e la nave preparata ad affrontare calamità naturali; serviva però anche quando altri velieri comparivano all’orizzonte. Ricordava di averla anche intravista, era posizionata non molto lontana dalla porta che conduceva ai piani inferiori ed era di un bell’argento vivo. Si era persino domandato a che cosa servisse una campana su una nave di pirati, tanto che stupidamente aveva finito col convincersi che doveva aver a che fare con un qualche rito religioso, considerata la presenza di un prete, magari serviva per la messa. Fin quando non scoprì la verità, e allora John si sentì fondamentalmente un cretino.

Padre Trevor lo condusse ovunque, su e giù per piccoli scalini che parevano infiniti. Gli fece vedere addirittura le prigioni che consistevano in un paio di celle piuttosto grandi, dentro le quali delle lunghe e pesanti catene erano state agganciate alle pareti. Si trattava di una stanza che, seppur ampia, aveva la scarsa illuminazione di due soli oblò che non bastavano affatto a rischiarare un ambiente reso ancor più spaventoso dalle ombre. Non fu facile lasciarsi alle spalle l’immagine di un ipotetico se stesso rinchiuso lì dentro, magari appeso a testa in giù a una di quelle corde e fu costretto quasi a sedare un brivido e a scrollare il capo mentre si diceva che mai avrebbe messo piede lì dentro da solo. Per sua fortuna, la stiva non era altrettanto raccapricciante. Al contrario, John la trovò stupefacente. Immensa, infinita forse. Sebbene fosse scarsamente illuminata di luce naturale, alle pareti accanto l’ingresso erano state sistemate due lampade a olio, altre invece erano posizionate qua e là e creavano coni di un chiarore giallastro, che permettevano di scorgere i contorni di casse e barili. Di quelli ce n’erano a decine e decine, perlopiù si trattava di bauli e cassoni ammonticchiati uno sopra a quell’altro, alcune erano invece botti piene di quello che doveva essere rum o vino e che erano sistemate da un lato, tenute insieme da una corda piuttosto spessa. John si domandò che cosa ci fosse in molte di quelle casse e se nascondessero un tesoro da qualche parte; c’erano dei gioielli? Oro, magari? Argento e pietre preziose o forse dei dobloni? Questa volta non trattenne le parole e non evitò alcuna domanda, anche perché non gli pareva ci fosse un qualcosa di sbagliato nel sedare dei dubbi. Preso coraggio, qualche attimo dopo aver messo piede nella stiva, si azzardò a farsi avanti. Con suo sommo stupore, la risposta di Victor fu repentina. Innanzitutto rise, ma lo fece di un divertimento non sguaiato e provocatore, appariva invece come molto sincero e spontaneo. Sembrava quasi che John se ne fosse uscito a raccontare una storiella di quelle allegre.

«Sete dalla Cina» esordì il prete, prendendo a camminare tra le casse e a indicare ognuna di esse con un movimento distratto dell’indice. «Belle e preziose in egual misura, tanto che un principe venderebbe l'anima per donarle alla propria principessa. Spezie dall’oriente, dal valore inestimabile e sulle quali è stato versato del sangue: degli uomini hanno dato la vita per difenderle. Poi, pelli dalle terre di Russia. Zucchero e caffè. Rum e vino francese. Questo è il nostro tesoro, John, non i gioielli.»
«A cosa vi serve tanta roba?» domandò, in risposta, spezzando quel parlare con un vivo e sincero interesse nello sguardo. Era ammirato dall’ordine quasi militaresco con cui tutte quelle cose erano state riposte, c’era del metodo ed era evidente che nulla veniva lasciato al caso. Anche quella doveva essere opera di Sherlock? Oppure si trattava della precisione di qualcun altro, magari Lestrade? Non sapeva, ma a chiunque andasse il merito, quella stiva era quasi un capolavoro. Mai, nemmeno sotto le armi John aveva trovato un così serio rigore.
«La vendiamo, ovviamente» lo interruppe Victor, spezzando il fruire di quei pensieri sciocchi.
«Ma si tratta di oggetti rubati, quale mercante rispettabile comprerebbe da dei pirati?»
«Oh, John» mormorò questi, scrollando la testa. Sembrava sconfitto, deluso forse. «Sei così puro e innocente, ho ragione nel dire che sei una delizia e pensare che quel musone di Sherlock continua a fare muro di fronte ai miei commenti su quanto sei adorabile. Se fossi una donna ti avrei già fatto mia puoi starne certo, ma comunque... tu quindi dici che un bottegaio non comprerebbe mai da un pirata?»
«Perché dovrebbe? Se le guardie venissero a sapere di un mercante che fa affari con dei pirati, questo ipotetico gentiluomo finirebbe ai ceppi, per non dire impiccato.»
«Oh, dolcezza, se soltanto sapessi… Il demonio dimora nel cuore dell’uomo» gli disse, schiaffeggiandolo bonariamente su di una guancia, in un gesto affettuoso e quasi fraterno. «Tu non sai cosa farebbe un venditore per guadagnare qualche soldo in più. Sai come mai comprano da noi? Perché vendiamo senza i dazi dell’impero, ma soltanto per quello che è il reale valore della merce.»
«Quindi è questo che fate? Depredate le navi e portate via loro il carico che poi rivendete al miglior offerente? Non vi suona come di sbagliato?»
«Mio caro ragazzo, ma per quale ragione lo sarebbe?» replicò il prete immediatamente, con un passionale ardore che fuoriusciva dai gesti così come dalle espressioni ora accese di sentimento. Quel Trevor era così poco inglese nei modi fare! Aveva di tanto in tanto dei moti di passione che non frenava ma che invece alimentava, infervorando parole e atteggiamenti.
«Poiché non siamo benedetti dall’impero britannico allora non meritiamo di commerciare come chiunque altro?» proseguì Victor. «Lo sai che un corsaro non si comporta diversamente da noi altri, sì? E che mercantili olandesi, francesi e spagnoli vengono depredati ogni giorno da navi corsare inglesi? Loro neanche si fanno scrupoli nell’uccidere nemici o a farli prigionieri. Avere la lecita approvazione del Re rende la loro missione santa e ben accetta da Dio mentre noi, che mai facciamo del male a qualcuno (o almeno ci proviamo), siamo dei criminali soltanto perché non ne diamo una parte all’impero? Ma che imparzialità è mai questa? Quale giustizia? Di certo non quella divina: Dio non fa distinzioni. Rubare è rubare, peccare è peccare e un uomo è un uomo, seppur questo con una corona in testa.»
«Ecco, io non ci avevo mai pensato» ammise invece John, con una certa vergogna. «Mi dispiace non volevo giudicare quel che fate, è solo che…»
«Lo so, dolcezza, capisco ciò che intendi e ti prego di non smettere mai di seguire quello che è il tuo senso del giusto e dello sbagliato. Non vendere il tuo intelletto, neanche a un qualcuno dagli occhi azzurri e con un sedere stupefacente. D’altro canto, è anche per questo che gli piaci.» Victor Trevor non aggiunse altro a quello strampalato discorso, vorticò su se stesso imboccando poco più tardi un corridoio che lo condusse fuori, di nuovo su per quei gradini. Facendo tutto all’opposto di quanto avrebbe dovuto, John rimase lì fermo per un qualche altro istante. Lì nel mezzo di una stiva, mangiato appena dalle penombre e sotto il tacito testimonio di enormi bauli e barili di ogni dimensione. Lui piaceva al capitano? Si domandò, tentando di ricordare parole che già gli volteggiavano confusamente in testa. Perché per quanto non avesse direttamente fatto il suo nome, era a lui che si riferiva. Com’era possibile piacere a Sherlock? Ma poi, gliel’aveva forse riferito oppure il prete lo aveva capito da solo? Non volle dar adito all’idea di piacere al capitano e poi in che senso? Come amico? Fratello? Compagno d’avventure? Ogni soluzione o declinazione di un possibile rapporto già gli pareva impossibile, oltretutto quel suo dannato cuore stava cominciando a battere un po’ troppo forsennatamente, galoppando in maniera incontrollabile. Pertanto decise che era meglio non pensarci oltre e affrettato il passo, lasciò la stiva.

La visita proseguì ai piani più alti, il ponte dedicato all’equipaggio fu la meta successiva. Si trattava di un ampio stanzone, grande più del doppio del cassero e dove i marinai dormivano e si svagavano giocando a carte o cantando. John rimase impressionato dall’ordine e dalla pulizia di quel posto, da come le amache venivano arrotolate e sistemate da una parte, tutte in fila una accanto all’altra, messe a ridosso della parete, alla quale venivano assicurate. A ognuna di esse corrispondeva un uomo, i cui effetti personali erano chiusi dentro un sacco di iuta, sistemato accanto. La loro fiducia nei confronti dei propri compagni doveva essere grande se lasciavano le loro cose incustodite, perché chiunque sarebbe potuto entrare e prendere quel che voleva. Ad ogni modo, la Norbury era immensa si disse un John colmo di meraviglia. Grande forse quanto un’intera città e di certo più confortevole, molto più di quanto non lo fosse stata Antigua. Lo comprese realmente soltanto dopo che Victor gli mostrò uno dei due ponti che ospitava le bocche da fuoco e in cui ebbe modo di ammirare enormi cannoni, posizionati accanto ad aperture altrettanto ampie. Dovevano essere di un numero superiore agli ottanta, forse erano addirittura cento! Non riuscì a contarli tutti perché farlo gli avrebbe preso un tempo eccessivo, ma erano numerosissimi e con altrettante palle di cannone ben riposte. Chissà se era vero che mai li avevano utilizzati, su questo argomento Victor fu relativamente vago. Tuttavia non fece troppe domande e prese le scale, già se ne dimenticò.

La parte più interessante della sua esplorazione furono gli strani individui in cui spesso lui e Victor s'imbattevano. Alcuni avevano un aspetto terrificante, ma la loro storia era affascinante e degna di un racconto. Il primo che videro stava di ramazza due ponti sopra la stiva e si chiamava Bartolo “mano lesta” Diaz, madrileno di nascita, rimasto senza un braccio durante un arrembaggio ai danni di un mercantile olandese avvenuto tempo prima. Bartolo era un buffo ometto, già relativamente anziano, minuto e magrolino e il cui fisico appariva come poco adatto a un mestiere così sfibrante. Parlava uno spagnolo inglesizzato piuttosto strano a sentirsi, indubbiamente era castigliano ma contaminato da un gergo gallese che a John divertì moltissimo. Mano lesta era a bordo l’uomo dalle mille e più storie, ne aveva una per ogni occasione, una per qualsiasi avventura. Era, insomma, colui il quale si vorrebbe avere accanto durante le notti di veglia attorno al fuoco. Raccontava di marinai e sirene incantatrici, di polpi giganteschi e di uomini pesce che sbucavano dalle acque profonde, narrava di mulinelli che inghiottivano velieri, di principi e regine, di popoli lontani. Fu indubbiamente uno degli incontri più interessanti, secondo forse soltanto a Guillaume Roux, un giovane francese dalla bellezza pura e virginale e che riuscì a scatenare in John più di un turbamento. Questa volta non era niente di simile al raccapriccio per catene e sbarre di una prigione, ma c’entrava vagamente con l’eccitazione. Quella di un tipo carnale e appassionato. Questi somigliava vagamente a Sherlock per aspetto, fisico magro e slanciato e con la pelle lattea. A differenza sua, però, portava lunghi capelli biondi fermati in un codino, aveva labbra sottili e occhi piccoli dai toni castani. Guillaume aveva una storia del tutto particolare e avventurosa quanto drammatica, era orfano di entrambi i genitori e si era arruolato nell’esercito francese per evitare la fame. Una volta giunto nelle Indie Occidentali aveva avuto la fortuna d’incontrare Sherlock Holmes e si era unito alla sua causa. Probabilmente deluso dalla vita nell’esercito, così come molti altri pirati de la Norbury, anche il giovane Roux aveva preferito l’avventura a bordo di un galeone battente bandiera nera, invece che la milizia. Guillaume era indubbiamente molto giovane, John si disse che doveva avere ventidue o ventitré anni appena e non parlava altro che francese, era stato infatti Victor a raccontargli quei pochi dettagli riguardanti la sua vita, oltre che a fargli da traduttore nel breve dialogo che c’era stato fra loro. Questi si era limitato ad annuire e sorridere timidamente, accennando a qualche parola di commiato prima di riprendere il proprio lavoro. Indubbiamente era affascinante e fu costretto ad ammettere che quell’occhiata fin troppo generosa, gliel’aveva concessa per davvero. Che si trattasse della somiglianza con capitan Holmes o invece che fosse da addebitare alla lunga astinenza dalle attività amorose, non poté non fermarsi ad ammirarne il rotondo fondo schiena, fasciato perfettamente da un paio di brache chiare che permettevano di intravvedere più di quanto avrebbero dovuto.
«Sei decisamente interessato all’argomento» lo prese in giro Victor, sorridendo di malizia mentre ammiccava appena. Probabilmente per merito della sua buona stella, o magari perché un qualche santo del paradiso aveva seriamente deciso d’aiutarlo, il prete scelse di non tormentarlo. Non una parola di scherno gli uscì dalla bocca, si limitò soltanto a lanciargli un’occhiata o due e a sorridere con quella furbizia che oramai aveva compreso essere tipica di lui. Per un’ennesima volta da che lo conosceva, padre Trevor gli si era mostrato come del tutto incomprensibile.

Quel viaggio ebbe risvolti inaspettati, questo era da dire, ma per quanto un giovanotto guascone fosse già di per sé una sorpresa, fu un altro l’incontro che lo lasciò a bocca aperta. Mai si sarebbe aspettato di trovare una donna a bordo de la Norbury, dato che sapeva quanto i marinai fossero restii ad accettarne e che difficilmente ne tolleravano la presenza, non credeva potesse incontrarne una. Accidenti neanche le prostitute venivano accolte con facilità. Si trattava di superstizioni, più che altro. Alcuni credevano che le donne portassero sfortuna e che non favorissero una buona navigazione, altri invece erano convinti che fossero maledette e stregassero i venti a loro unico favore. Dal canto proprio, John non aveva mai creduto a nulla di tutto quello e non si stupiva che un uomo intelligente come Sherlock Holmes non badasse a certe dicerie. Ad ogni modo, lei, la donna, si chiamava Donovan e aveva pelle mulatta di un colore non perfettamente definito tra il bianco e lo scuro. Portava una folta chioma di capelli ricci, schiacciati da un cappellaccio portato alla moda dei bucanieri e vestiva in abiti maschili, con una giacca scura che le ricadeva lungo le cosce e una camicia molto abbondante all’altezza del petto. Alla cintola dei pantaloni, infine, un grosso coltello ricurvo dal manico d’argento mentre una pistola stava dall’altra parte.
«Hai un cognome inglese, ma il tuo colore dice tutt’altro» le disse John a un certo momento e dopo aver sbrigato le prime formalità. A fronte di quell’affermazione la vide tendersi e indurire le espressioni, che si corrucciarono giusto un poco. In effetti aveva atteggiamenti molto poco femminili e a cominciare dalla postura ricurva in avanti, sino alle braccia tenute incrociate all’altezza di quel seno appena accennato e che a stento si notava. Sul viso, Donovan teneva un grugno nervoso e mentre si martoriava le labbra coi denti, assottigliava lo sguardo. Ora, lei fissava entrambi e aveva quel fare nello sguardo, severo e implacabile, che gli fece tremare appena le ginocchia. C’era una severità che incuteva timore e al tempo stesso le concedeva un’autorità che era decisamente strana a intendersi su di una femmina, a malapena i capitani dell’esercito riuscivano ad avere quel cipiglio. Donovan sapeva il fatto proprio, questo era certo e dubitava si lasciasse spaventare con poco. Ma il fare rabbioso e i modi duri la rendevano molto simile a un uomo, probabilmente sarebbe stata in grado di ucciderlo lì dove stava, piantandogli una pallottola in fronte senza battere ciglio.
«Non credo nemmeno di avercelo un cognome» se ne uscì, sputando fuori quelle parole con stizza. «O almeno, agli occhi del nobile impero britannico» proseguì, dopo essersi esibita in profondo inchino che aveva un evidente sapore di scherno «non l’ho di certo. Vedi, John, Sherlock è l’uomo più strambo che io abbia mai conosciuto e Dio sa se capisco anche solo la metà delle cose che dice, non che quel che fa sia meno da insano perché è mezzo matto quello là, ma gli do ragione quando sostiene che si è ciò che ci si sente di essere. Io sono Donovan e ti basti sapere questo, straniero. La donna che mi ha cresciuto era ebrea e mi diede il nome di Sarah, ma dato che a me non è mai piaciuto… Sally è il mio nome.» *
«John Watson» annuì, stringendole la mano come avrebbe fatto con un qualsiasi altro uomo, ogni formalismo sembrava essere insensato con lei e magari nemmeno ne avrebbe accettati. Di certo una riverenza sarebbe sembrata fuori luogo e anche gli atteggiamenti tipici che un gentiluomo come lui avrebbe dovuto tenere, se fossero stati in Inghilterra o in società, in quel momento aveva l’impressione fossero inopportuni. Non che la ritenesse meno degna di un corteggiamento, è che aveva paura che gli piantasse quel pugnale in gola.
«Sembra» brontolò John a un certo momento «che tu abbia avuto una vita interessante, è raro trovare un inglese con il tuo colore di pelle.»
«Oh, interessante non lo è per niente» abbozzò Donovan, nervosamente. Quasi scocciata. «Mio padre era uno schiavo, non ho mai saputo da dove provenisse o come si chiamasse, ma presumo sia arrivato in Inghilterra a bordo di una qualche galera ** intorno agli anni ’20. Mia madre era una donna bianca, moglie di un tizio nobile, ricco e tutto quanto il resto. Viveva in un castello da qualche parte su nel nord, non conosco molto di loro se non che si innamorarono e che in seguito nacqui io. Il marito di lei pagò oro per liberarsi di me, dato che uccidermi sarebbe stato molto poco dignitoso per un nobiluomo, finsero che a restare incinta fosse stata Yasmina, una delle serve. Lei veniva da lontano, da sud, oltre il mare e aveva strane abitudini. Mi piaceva. Poi è morta e beh, il resto non è scontato, Sherlock e quel donnaiolo di un prete mi hanno trovata mezza morta e da allora sto con loro.»
«Donnaiolo?» replicò Victor, offeso e saltando su come se lo avessero schiaffeggiato. S’infervorò al tal punto che lasciò la presa con la quale stringeva il braccio di John, avvicinandosi quindi a Donovan con fare minaccioso. «Ma se non ti ho toccata neanche mai con un dito?»
«Questo perché sai che altrimenti ti taglierei le tue preziose perle prima di subito.»
«O forse sei tu che non mi attiri, Sally.»
«Ti dirò una cosa, John Watson» rispose invece lei dopo averlo ignorato. «Non ti fidare di questo qua e se fossi un uomo saggio te ne torneresti da dove sei venuto prima di subito. Io ci penserei due volte prima di dare il braccio a un impudico, villano, poco serio e porco omuncolo il cui unico scopo nella vita è usare quell’affare che ha tra le gambe. Si diverte, il fetente. A fare quello che fa, intendo. Gli scherzi e i giochi, le donne che conquista e il provocare le persone, per lui tutto è un divertimento. Sai che c’è, Victor “do un soprannome a tutti” Trevor?» chiese ora rivolgendosi direttamente a lui. «Un giorno ti troveremo morto o senza più le palle e sarà stata una di quelle tue puttane ad averti fatto fuori, un marito geloso o magari un padre furioso dalla rabbia, la cui figlia è stata profanata nel confessionale, presa alla maniera dei cani da quel “santo” monaco che avrebbe dovuto mostrarle la rettitudine. Tzé, non vedo l’ora di sentirti cantare come una madamigella. E adesso, col vostro permesso» aggiunse, facendo un profondo inchino «dottore, è stato un piacere conoscerti. Ma datti alla pesca, è meno faticoso e non devi avere a che fare con questo pazzo.» Detto questo, Sally Donovan scomparve nelle ombre, lasciando dietro di sé la prepotente risata di John Watson. Mai, mai da che era arrivato a bordo de la Norbury si era divertito tanto. Anzi, presumibilmente non una volta nella vita aveva riso a quel modo. Quasi si accasciò contro la parete, lasciandosi cadere appena indietro, soltanto allora notò che Victor stesso, e dopo un primo istante di corrucciato torpore, si era lasciato trasportare. Aveva una bella risata, quel padre Trevor. Proprio una bella risata.

L’ultimo luogo che andarono a visitare fu la cambusa ovvero quello stesso posto che gli era stato sconsigliato di andar a cercare e dove risiedeva Angelo, la cui nomea era straordinariamente terrificante. Angelo o dita di ferro che fosse, era spaventoso esattamente come John ricordava. Alla luce del giorno sembrava ancor più imponete e corpulento di quanto non gli fosse sembrato la notte precedente, dopo che lo aveva visto sul ponte de la Norbury. Era ancora alto, ancora massiccio e aveva sempre quella benda sull’occhio che lo rendeva inquietante. La barba invece era forse appena un poco più lunga e folta e gli conferiva un’indubbia imperiosità, facendolo apparire agli occhi di chi lo guardava come una vera e propria canaglia. John non si fidò troppo di se stesso e una volta raggiunta la porta che conduceva alle cucine, scelse coscientemente di restare un poco più indietro. Aveva sentito fin troppe storie su quell’individuo per potersi sentire perfettamente a proprio agio in sua compagnia, certamente non voleva farlo arrabbiare o provocarlo in qualche modo, peggio ancora senza rendersene conto. Gli era parso di aver intuito che fosse un uomo passionale e fumantino, la cui ira era facilmente scatenabile. Quindi restò nel corridoio mentre un cauto e serio Victor faceva capolino oltre la porta.
«Buon pomeriggio, signore» disse John in un sussurro, non prima di aver chinato la testa in un segno di riverenza. Aveva la sensazione di trovarsi al cospetto di una fiera e che la sua vita dipendesse da come decideva di comportarsi. Oh, ma quante sciocchezze! Si disse facendo un passo in avanti e fu proprio allora che gli occhi di dita di ferro, come lo chiamavano a bordo (e no, non voleva sapere da dove provenisse quel soprannome), si posarono su di lui. In quei frangenti gli parve quasi che tutto il coraggio che aveva dimostrato di possedere, tutta la forza di volontà che aveva, venisse meno e si perdesse di fronte al pirata più terribile che aveva mai incontrato. Nemmeno capitan Holmes, il terrificante pirata bianco gli aveva fatto così tanta paura. Probabilmente perché, di Sherlock, se n’era appena un poco invaghito. Giusto un pizzico innamorato, ecco. Quell’Angelo, però, era tutt’altra cosa e di certo non avrebbe potuto perdere la testa per lui. Dannazione! Ancora lo stava fissando, constatò mentre, imbarazzato e senza più parole, portava lo sguardo altrove. La cambusa era relativamente piccola e il suo essere stracolma di attrezzi, pentole e cibo non faceva che renderla più soffocante. Un tavolo non troppo grande era stato sistemato a ridosso di una delle pareti, sulla sinistra, appena dietro la porta. Due sedie soltanto, fatte di legno e paglia, una delle quali era occupata da quel ragazzino dalla chioma riccioluta che la notte precedente aveva visto sul ponte di comando. Archie doveva chiamarsi. Un bambino di non più di undici anni e che in quel momento lo fissava con disinteresse. Sembrava che la sua presenza a bordo non lo riguardasse, forse perché era abituato a veder persone andare e venire? O magari perché ancora non si fidava? Questo sarebbe stato del tutto naturale, in fondo era soltanto un bambino. Comunque fosse, non sembrava che la presenza di uno sconosciuto lo preoccupasse in modo eccessivo. Ed era anche molto educato, da che era lì non lo aveva visto una sola volta correre e fare scherzi, come un qualsiasi bambino avrebbe fatto. Che gli impartissero o meno una sorta di educazione, era chiaro che stessero facendo un buon lavoro e faceva quasi specie l’idea che fosse proprio Victor a occuparsi di lui.
«Cosa leggi, Archie?» gli chiese John, spezzando gli indugi e il silenzio, sceso a un certo momento.
«Me lo ha dato Mastro Stamford» annuì la sua voce flebile e acuta, ancora infantile «parla del cielo e delle stelle, ma non ci capisco niente di niente.»
«Uh, domattina vedremo di farti entrare un qualcosa in quella testa» rispose Victor, scompigliando la chioma del bambino in un gesto amorevole. «Adesso sono qui per altro. Angelo» disse rivolgendosi ora al corpulento uomo. «C’è qualcuno che devo presentarti.» Questi terminò soltanto allora di squadrare John da capo a piedi, accennando a un’occhiata a Victor, fugace quanto raccapricciante. Invece che replicare, questi rimase in silenzio. Aveva le labbra arricciate e sembrava arrabbiato, ma John si rese conto che non era quello il suo stato d’animo o almeno così credeva. Al contrario di quanto aveva ipotizzato in un primo momento, le sue espressioni erano difficili da interpretare. Avrebbe potuto essere arrabbiato o felice e non sarebbe mai riuscito a cogliere la differenza. Ciò che gli saltò immediatamente agli occhi e che attirò le sue attenzioni negli attimi a venire, erano le dita della mano destra strette attorno al manico di un grosso coltello. Cristo santo, voleva ucciderlo? Se era così lo avrebbe fatto di fronte al bambino oppure lo avrebbe fatto uscire prima? Per sicurezza diede un’occhiata a Victor, il quale stava controllando alcuni libri di Archie e non sembrava affatto agitato o nervoso. A peggiorare le cose c’era il fatto che Angelo ancora non parlava, né tanto meno accennava a volergli stringere la mano in segno di saluto. Si mosse da dove stava solamente dopo infiniti minuti di silenzio, terminati i quali vorticò su se stesso dirigendosi poco lontano. John lo vide chinarsi e frugare dentro a un armadietto dal quale estrasse una bottiglia, di rum forse. Bottiglia con la quale lo raggiunse subito e che gli porse, in un gesto brusco e non gentile.
«Bevi» ordinò e nonostante non ne avesse affatto voglia, John lo fece lo stesso. Senza esagerare, ma mandando giù uno o due sorsi appena, giusto per dare a vedere che aveva apprezzato l’offerta.
«Molto buono, sì. Mh, molto.»
«Lestrade dice che hai aiutato Sherlock ieri, al patibolo» se ne uscì Angelo, mandando giù anche lui un sorso o due di rum.
«Ecco, io sì li ho ospitati a casa mia.» Questi annuì, con un breve cenno fugace del mento e aggiungendo una qualche parola in una lingua che John non conosceva, né riconobbe. A dire il vero non avrebbe dovuto esserne spaventato, perché non pareva pericoloso. Solo minaccioso e brusco e infatti fu ciò che accadde subito dopo a sconvolgerlo. A un certo punto quel dita di ferro aveva preso a stringere con ancora più forza il manico del coltello che teneva in mano e dopo aver sollevato il braccio, lo conficcò nella parete a meno di un palmo dall’orecchio di John. Un John che aveva sgranato gli occhi e che senza alcuna vergogna aveva tremato, sconvolto.
«Da oggi sarà tuo» sibilò Angelo, indicando il coltello. «Se hai dato la tua lama per Sherlock Holmes allora avrai la mia lama, John Watson. Tu sei mio fratello adesso. Grazie per quanto hai fatto per noi.»
«Grazie, signor Watson» aggiunse invece Archie, ribassando però subito lo sguardo. Avrebbe desiderato davvero fare conversazione con loro, però proprio allora furono interrotti. Successe a quel punto, inaspettatamente e mentre John stava ancora cercando di capire se fosse o meno vivo. La campana, quella che stava sul ponte di comando e che serviva per mettere in allarme l’equipaggio, prese a suonare tutto a un tratto. In un attimo la nave intera parve risvegliarsi da una sorta di torpore e mentre lo scalpiccio di passi frettolosi invadeva i corridoi, cori di voci agitate arrivarono alle sue orecchie.
«Archie, nasconditi» ordinò Angelo con fare imperioso al bambino, il quale si affrettò a radunare tutti i libri prima di sparire nel corridoio. Lo faceva con la consapevolezza di chi sapeva già quel che doveva fare, chi era abituato ad agire in una certa maniera.
«Cosa succede?»
«Che siamo nei guai, dolcezza» replicò Victor Trevor, prima di correre su per le scale preso da un’agitazione crescente che gli divorava lo sguardo di preoccupazione.

Nessuno più cantava sul ponte sopra coperta, nessuno più rideva o badava a lui. Mastro Stamford, al timone a fianco di Fortebraccio, non sorrideva e i suoi occhi avevano smesso di essere sereni. Nemmeno Lestrade parve avere intenzione di dar retta a loro o di litigare con Victor, attività che aveva capito essere tra le sue preferite. La campana, quella d’argento, aveva già smesso di suonare, eppure John aveva la sensazione che i suoi tocchi riecheggiassero ancora, agitati dal vento. In tutto quello e sotto un cielo al tramonto, Sherlock Holmes se ne stava lì, in piedi all’estremità più lontana della poppa. In bilico sulla balaustra, si teneva a una corda attorno alla quale aveva avviluppato le dita. Con l’altra mano, invece, reggeva un cannocchiale con il quale scrutava l’orizzonte. John non seppe dire che cosa fosse di preciso, se il capello ricacciato sopra la testa o la lunga giacca, le cui code gli fasciavano i fianchi o magari se era il suo essere bellissimo e perfetto, ma ai piedi della scalinata del cassero, col naso rivoltò all’insù, intento a fissare il pirata bianco, ci rimase per dei minuti.
«Fantastico» mormorò, accennando a un sorriso che scomparve però qualche attimo più tardi, cacciato dalle ombre di una preoccupazione crescente.
«Ci ha trovati» gli disse Lestrade, prima di riprendere a sbraitare ordini. «Moriarty ci ha trovati.»
 


 
Continua
 
 


*Sally è un diminutivo inglesizzato del nome di origine ebraica, Sarah.
**La “Galea” o “Galera” è stata una delle navi più usate. Si stima che per circa tremila anni sia stata utilizzata dai popoli del mediterraneo. Nel corso del tempo ha subito diverse variazioni ed evoluzioni (le prime non avevano alberi e vele), ma la costante che le accomunava tutte erano i remi, grossi e molto pesanti che, di solito gli schiavi, azionavano manualmente.

Il capitolo arriva un giorno prima per un’eccezione, ma il prossimo sarà sempre di mercoledì. Ringrazio tutti coloro che stanno recensendo la storia: grazie per il sostegno. Ne approfitto anche per augurarvi una buona Pasqua.
Koa
   
 
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