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Autore: Generale Capo di Urano    15/04/2017    4 recensioni
[15 agosto 1799: battaglia di Novi] [BrOTP Italia/Polonia]
Italia Veneziano si girò, e ad accoglierlo trovò occhi verdi come la speranza e capelli biondi come i campi di grano colpiti dal sole. Era straniero e lo chiamava fratello, parlava una lingua aliena e bislacca e lo capiva molto di più di quanto non comprendesse i discorsi di gloria di chi fino a quel momento gli era stato più vicino.
Polonia, che era anch’egli stato vessato e schiacciato, che combatteva da più tempo e percepiva con falsa indolenza l’odore acre della battaglia, che conosceva la paura dello straniero più di chiunque altro al mondo, non rise dei suoi timori né tentò di tranquillizzarlo – con le parole non era mai stato bravo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Nord Italia/Feliciano Vargas, Polonia/Feliks Łukasiewicz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Son giunchi che piegano le spade vendute

Z ziemi włoskiej do Polski
 

“Memento mori.”
“Cotidie morimur.”
 

«Il colore della guerra è il rosso. Mi piace, in fondo, il rosso: il rosso è poesia. È il colore della passione che spinge i soldati a lottare per un ideale comune, è il colore del sangue caldo che brucia dal desiderio di essere liberi. È il colore dell’amore, l’amore per la libertà che stanno cercando; è il colore della forza che li sprona e della fierezza di un popolo oppresso. Il rosso è il fuoco vivo che incendia gli animi, il vino che inebria la mente, il papavero nei campi che copre le tombe degli uomini. Sia vita, sia morte: è perfetto, il rosso, non credi?»
«Stai mentendo.»
«Cosa te lo fa credere?»
«Tu odi la guerra, odi la morte; credi nella libertà ma hai paura di combattere. Tu odi il sangue, odi il rumore degli spari, odi le strida dei soldati agonizzanti. Stai piangendo, Italia… hai gli occhi rossi, come il colore che più disprezzi al mondo.»
 

Non c’era neanche una nuvola in cielo, quel 15 agosto, quasi persino loro avessero paura di assistere alle azioni truci e barbare dei soldati in divisa che ormai non potevano più guadagnarsi l’appellativo di uomini – l’avevano perso tanti mesi e litri di sangue prima, forse non ricordavano più cosa quel termine tanto sacro quanto empio significasse. Forse non sognavano più le mogli e i figli, durante la notte, e gli incubi che li facevano urlare mostravano solo volti sconosciuti e inespressivi e divise macchiate di vite altrui.
Poco lontano, circondata dalle colline su cui si trovavano, la città amica aveva dormito protetta dalle tenebre – o era forse già morta, e quell’atroce silenzio era il suono mesto delle anime che l’abbandonavano?
A proteggerla, pochi italiani e moltissimi francesi. Su ogni altura, schiere di stranieri – alleati o amici? Soci o compagni? – con le divise blu e rosse e le feluche in testa, le schiene dritte e i moschetti tra le mani. Solo una piccola parte, nell’ala destra, parlava la sua lingua e combatteva per i suoi stessi ideali; si mescolavano con altri barbari estranei, pallidi e sconosciuti, a seguito di un generale che proclamava grandezza e libertà, sogni e speranze.
«Wszystko w porządku?» *
Italia Veneziano si girò, e ad accoglierlo trovò occhi verdi come la speranza e capelli biondi come i campi di grano colpiti dal sole. Era straniero e lo chiamava fratello, parlava una lingua aliena e bislacca e lo capiva molto di più di quanto non comprendesse i discorsi di gloria di chi fino a quel momento gli era stato più vicino.
Sorrise come chi non si preoccupa di nulla, o come chi ha mille pensieri per la testa, ma talmente confusi da credere di aver perso completamente il senno.
«Ho paura.» Non aveva il tono di voce di chi si vergogna ad ammettere una debolezza, quanto quello di chi è stato, da sempre, talmente oppresso da riconoscere l’angoscia come una vecchia amica e capire che, oramai, tentare di allontanarla non aveva alcun senso. La accoglieva con un sorriso nevrotico e le mani tremanti e sudate, che tentava di tenere occupate tormentando i bottoni della divisa.
Polonia, che era anch’egli stato vessato e schiacciato, che combatteva da più tempo e percepiva con falsa indolenza l’odore acre della battaglia, che conosceva la paura dello straniero più di chiunque altro al mondo, non rise dei suoi timori né tentò di tranquillizzarlo – con le parole non era mai stato bravo: parlava spesso a vanvera ed esclamava al vento parole senza senso, per nascondere il nervosismo o la timidezza, per impedire al silenzio di aumentare la tensione. Riconosceva, però, quando era il momento di tacere.
Solo una mano pallida e smunta si fece strada nell’aria tersa di turbamento, trovando la compagna scossa da spasmi; e solo quando riuscì a stringere tra le sue le dita quelle di Veneziano questo parve, in qualche modo, tranquillizzarsi.
«Wszystko będzie dobrze… obiecuję ci, brat.» **
L’italiano deglutì, strinse a sua volta la mano del compagno e con quella libera cercò di allentare la stretta del colletto attorno al suo collo. Era appena l’alba, ma quella giornata già si preannunciava torrida e sfiancante.
Inspirò, cercando di recuperare il debole controllo che aveva di se stesso.
Il rumore improvviso dello sparo di un cannone gli mozzò nuovamente il fiato. Da quel momento in avanti, fu solo il caos.
 

Sentì l’erba morbida e fresca sotto di sé che gli solleticava le braccia, mentre il sole caldo gli colpiva la pelle e il volto, facendogli strizzare gli occhi affaticati. In contrasto al tepore del sole, le dita sottili del polacco erano sempre inspiegabilmente fredde, anche quando cercava di scaldarle tra le sue.
«Tu, tu per cosa stai combattendo?»
Un lieve soffio di vento scompigliò i capelli di entrambi, portando un po’ di tregua all’afa estiva. Il ragazzino si girò, puntando gli occhi in quelli del compagno; avevano lo stesso colore dei prati su cui si rotolava quando giocava con Romano e il nonno.
«Per essere di nuovo libero. Per riavere me stesso, la mia terra, la mia gente. Per riconquistare il diritto di esistere… e per ritrovare un vecchio amico.»
 Parlava con un accento strano e un italiano stentato, ma non gl’importava. Aveva faticato tanto per riuscire a farlo aprire, timido com’era, e sotto una scorza di frivolezza e timore aveva scoperto un animo profondo e ferito – Polonia era molto più simile a lui di quanto mai si fosse aspettato.
«E quando li avrai, sarai felice?»
«Tu sarai felice quando rivedrai tuo fratello?»
Italia – pretendeva di usare quel nome, di avere un’identità quando ancora non era nessuno – fece uno di quei sorrisi luminosi che erano in grado di far mancare i battiti a chiunque lo guardasse. Era sincero, come sempre, limpido e genuino come un bambino: «Sì, lo sarò. E mi farò chiamare Feliciano, così tutti lo sapranno.»
L’amico rise, come non faceva da tanto tempo, non tanto per l’ilarità quanto per liberazione; quel bizzarro italiano gli aveva detto, una volta, che ridere faceva stare bene. Aveva ragione.
«Allora io mi farò chiamare, tipo… Feliks. Così tutti sapranno che siamo felici e che siamo amici… e soprattutto che non dovranno mai mettersi contro di noi, che non servirà a nulla cercare di schiacciarci!» Alzò una mano contro il cielo, come per afferrare qualcosa che si trovava appena sopra le loro teste.
Prima ancora di potersene rendere conto, il futuro Italia “Feliciano” gli era saltato addosso stringendogli le braccia attorno al collo; rotolarono nell’erba, ridendo come se attorno a loro, a fare da contorno, ci fosse solo l’armonia della natura e null’altro.
 

Qualcuno lo colpì allo stomaco, non seppe se con un calcio o con un fucile, non seppe neppure se fosse stato un nemico o un alleato, in quella bolgia ch’erano diventate le dolci colline che circondavano Novi.
Si piegò in due, cadendo a terra in ginocchio, cercando di respirare; gli parve di tornar bambino, quando, sotto lo sguardo atterrito del nonno, dopo una forte botta gli mancava il respiro per qualche secondo. Ma quella volta non c’era il vecchio Roma a stringerlo tra le sue braccia dopo che aveva ripreso ad urlare, e rimase piegato sul terreno con le lacrime agli occhi che si mescolavano al sangue e al sudore.
Sarebbe stato molto più semplice se fosse morto lì, facendo finire tutto. Ma Veneziano aveva paura della morte, paura del dolore, paura di rimanere solo come in quel momento.
Le grida e le imprecazioni in francese, tedesco, russo gli arrivarono alle orecchie come attutite. Con gli occhi umidi di pianto, riusciva a distinguere solo movimenti confusi, figure indefinite – uomini? Non lo sembravano per nulla – e armi, il tutto coperto da un velo disgustosamente rosso: il sangue dei soldati che si mescolava al colore delle divise, la luce accecante del sole che lo faceva risaltare in maniera raccapricciante.
Capì quello che Francia intendeva, quando, lontano dalle orecchie del proprio generale, canticchiava sottovoce: “L'étendard sanglant est levé.” *
Aveva perso la cognizione del tempo, da ormai ore, forse, il sole aveva raggiunto e superato lo zenit e correva verso occidente; gli era parso di poter resistere agli attacchi incessanti degli austriaci e di quei mostri russi, che chissà come riuscivano a sopraffarli persino con il caldo torrido di quel ferragosto, ma l’afa, la stanchezza, la paura erano troppe non solo per lui, ma anche per i gagliardi alleati.
Prima di cadere a terra, stava correndo a rotta di collo verso le mura della città ormai assediata. Quando aveva girato lo sguardo, l’aveva vista già perduta, e senza pensare a nulla si era diretto in quella direzione – a nulla erano valse le urla, in polacco, di un Feliks spaventato quasi quanto lui che lo pregava di fermarsi.
L’aveva raggiunta, arrancando sulle gambe che sembravano rifiutarsi di trasportarlo ancora a lungo, ma sapeva che non ci sarebbe stato nulla da fare.
Attaccarono da ogni lato. La loro resistenza non poteva più reggere.
«Qu'est-ce que tu fais? Cours, cours!» **
Una mano bollente gli afferrò il polso, trascinandolo con sé verso la porta opposta a quella da cui erano entrati i nemici, in una fuga impacciata e scombinata. Sentì Francia pronunciare imprecazioni come non avrebbe mai immaginato potesse fare, maledire il borioso austriaco e il russo bastardo mentre gli tirava il braccio cercando di portarlo via.
Si lasciò trasportare, un po’ strascicando le gambe e un po’ tentando, senza successo, di correre. Si lasciarono la città alle spalle, ma con il volto offuscato dalle lacrime non riusciva neppure a capire dove si stessero dirigendo; l’altro urlava, ma le proprie orecchie avvertivano solo il rumore degli spari dell’artiglieria nemica e le strida degli uomini agonizzanti, che accanto a loro cadevano come mosche.
Cominciò ad avvertire il debole scroscio di un torrente accanto a loro e degli schizzi d’acqua che gli colpivano il viso. Si chiese se non stesse cominciando a delirare, ma davvero il Riasco scorreva lì vicino e gli andavano incontro, come unico modo per fuggire.
«Cours, mon petit frère… cours!» ***
«Włochy! Włochy! Feliciano! Brat!» ***
Un'altra mano, più piccola, pallida e fredda, gli strinse il polso libero cercando di tirarlo a sé. «Brat, nie zostawiaj mnie!» ****
Il tono di Polonia tradiva un certo panico, mentre correva assieme a loro con il fiato corto. Alzò lo sguardo, e vide i suoi capelli biondi attaccati al volto per il sudore, i bei tratti femminei deformati da una smorfia agitata e una ferita alla tempia; era agitato come chi aveva già passato una simile situazione, ed era terrorizzato dal perdere un’altra persona a cui teneva.
Rosso, era tutto rosso – anche l’acqua, che scorreva lenta, era stata lordata dal sangue; francese, italiano, polacco, non si distingueva, ma era solo un’unica macchia di un ripugnante carminio. Lo chiamò inferno e pregò, supplicò che finisse, prima di essere trascinato via di peso, lontano da quel raccapricciante scompiglio.
 

«Finisce così… deve finire tutto così?»
«Non dire stupidaggini, non ci arrenderemo in questo modo. Non lo faremo, capito? Abbiamo promesso che saremmo stati, tipo… felici. Te lo ricordi, Veneziano, te lo ricordi?»
Feliks sembrava sul punto di piangere, ma nascondeva lo sconforto gonfiando le guance, in un broncio infantile, cercando di far tornare l’amico al ragazzo gioioso che era sempre stato. L’italiano osservò quelle iridi smeraldine, il volto delicato e pallido coperto da ribelli ciocche bionde – si stupì del fatto che non le avesse spostate, come suo solito, agitando il capo o infilandole dietro l’orecchio.
«L’abbiamo promesso, Italia, te lo ricordi? Avremmo dimostrato di essere forti quanto loro.»
«Saremo felici, Polonia?»
«Saremo i più felici del mondo.»
Allungò debolmente le braccia, stringendolo in un abbraccio e crollando con il capo sulla sua spalla; il sentirsi ricambiato fu quasi una sorpresa, per lui che da tanto tempo non si sentiva più accolto, ma solo oppresso. Gli sfuggì solo una lacrima, prima di riuscire, finalmente, a sorridere di nuovo.
«Saremo salvi, Feliks.»
«Saremo liberi, Feliciano.»
 
 
 
 
 



* “Tutto bene?”
** “Andrà tutto bene… te lo prometto, fratello.”

* “La bandiera insanguinata si è innalzata”
** “Cosa fai? Corri, corri!”
*** “Corri, fratellino mio… corri!”

*** “Italia! Italia! Feliciano! Fratello!”
**** “Fratello, non lasciarmi!”
 



Note autore lungherrime
[sorvoliamo allegramente sul fatto che non sono minimamente in grado di scegliere i generi della storia]
Il titolo è un chiaro riferimento a entrambi gli inni nazionali, sia quello italiano che quello polacco (la frase di quest’ultimo, facente parte del ritornello, significa “dalla terra italiana alla Polonia”), in cui tra l’altro in ognuno è nominata la Nazione dell’altro. Nonostante nella fan fiction si racconti di una sconfitta, ho scelto un tale titolo perché volevo trasmettere un’idea di speranza che avrebbe portato entrambi i Paesi a liberarsi del giogo nemico – a quel verso particolare dell’inno ho sempre attribuito il significato di due Nazioni fragili, sempre sottomesse agli altri, che nonostante la loro debolezza riescono a farsi valere davanti a quelle più forti.
Per una volta ho preferito lasciare da parte le coppie e scrivere sulla mia amata BrOTP – il legame tra Italia e Polonia mi affascina, e ho deciso di approfittarne.
Le due frasi iniziali in latino significano “Ricordati che devi morire” e “Moriamo ogni giorno”. La prima è, come risaputo, la frase che veniva detta ai generali romani dopo essere tornati vittoriosi da una battaglia; la seconda viene da una delle Epistulae morales ad Lucilium di Seneca, in cui questi parla di come l'uomo corra naturalmente incontro alla morte e sia inutile, per così dire, "andarsela a cercare" - personalmente lo vedo come un invito a non preoccuparsi della morte e a vivere la propria vita senza essere condizionati da essa, ma forse vago troppo con la mente x"
Informazioni sulla battaglia di Novi migliori di quanto io potrei mai dare qui, qui e qui.

Questa fanfiction è stata un parto, devo dirlo, e non sono neanche soddisfatta al 100% del FIGLIO [citazione necessaria] che ne è venuto fuori, ma pazienza. Ringrazio chiunque abbia avuto il coraggio di arrivare fin qui <3
N.B. ogni riferimento alla LietPol è puramente casuale :3 (Arianna ti vedo)

 
   
 
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