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Autore: HarleyHearts    22/04/2017    0 recensioni
Chiara Mirosi è una giovane ragazza che vive, insieme alla sorella maggiore Lavinia, in un piccolo trilocale a Milano.
Ha due migliori amici: Enrico, con cui condivide la passione per i fumetti e i videogiochi, ed Elisa, omosessuale dichiarata dall'età di 15 anni e "Grillo Parlante" del trio.
Steven Giliberts è un ragazzo italo-canadese che, caso vuole, vive nella stessa palazzina della ragazza, con un'esperienza traumatica alla spalle che l'ha spinto a trasferirsi nella città Natale della madre.
Un'esperienza traumatica che ha visto il padre del ragazzo togliersi la vita con un colpo di pistola, e la sorella minore di appena 11 anni bloccata su una sedia a rotelle.
Tra i due nascerà subito una splendida amicizia, avendo numerosissime passioni e gusti in comune, e chissà... Forse, da una semplice amicizia potrebbe nascere qualcosa di più.
- Prima storia della serie "Love is in the air"-
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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capitolo 3
|!| AVVISO: Per farmi perdonare della lunga assenza pubblicherò i capitoli 3-4-5 insieme |!|
Capitolo 3

La prima cosa che sentì non appena mi svegliai, con incredibile lentezza, fu il consueto rumore del traffico cittadino; come ogni giorno, da quando abitavo a Milano.
Mi addormentavo con il suono frenetico delle autovetture, che andavano avanti e indietro senza sosta, e quando riaprivo gli occhi era ancora lì, a farmi una perenne e non richiesta compagnia.
Una perenne presenza che, in qualche strano modo, riusciva a suo modo a tranquillizzarmi numerose volte.
La domenica era il giorno che più odiavo della settimana, e il motivo era uno solo: il tradizionale pranzo della domenica a casa Mirosi.
La perfetta e fedele rappresentazione dell'Inferno cristiano, in terra.
Il ritrovo di tutte quelle sgradevoli creature, presenti in ogni famiglia, che noi tutti vorremmo evitare come la peste e non vedere mai: i parenti.
Ai miei genitori non bastavano le classiche vacanze festive per poter rivedere i volti di gente, con il Demonio in corpo, e la falsità di una banconota da 3 euro; volevano di più!
Per questo nacque la tradizione del pranzo della domenica, e sia io che mia sorella eravamo fortemente tentate di inventare qualche scusa per non andarci.
Anche una delle più assurde, se fosse stato necessario.
"Scusa, mamma. Oggi non possiamo venire perchè... Lavinia è stata rapita da un Dio sociopatico, con manie di grandezza e un buffo elmo con delle corna dorate(1). Ci dispiace"
"Scusa mamma, ma non possiamo proprio venire oggi... è il 5 novembre e dobbiamo aiutare V a far saltare in aria il Parlamento(2)"
"Mamma perdonami, ma... Io sono Batman! Shhhhh(3)"
Sarebbero andate tutte bene, come scuse, se l'ultima non l'avessi già usata una settimana prima, e non avessi ricevuto in risposta un delizioso "Ma non sta' a spara' cazzate" dalla mia dolce genitrice.
Erano da poco le sette del mattino, quando decisi di alzarmi finalmente dal letto, scalciando via il piumone insieme al lenzuolo.
La sera prima Enrico si era fermato a dormire a casa nostra, ed infatti lo trovai ancora appisolato sul divano del soggiorno, con un braccio a penzoloni che toccava il pavimento, e l'altro sotto al guanciale.
Presi due tazza di ceramica dalla credenza, e le posizionai sotto il getto della macchinetta del caffè.
Non appena l'azionai, lei iniziò a produrre un rumore prolungato e fastidioso, che fece mugugnare infastidito Rico ed imprecare un insulto sottovoce. Se fosse diretto a me o alla macchinetta non lo capì mai.
- Sveglia, Bell'Addormentato! Il sole è alto, i piccioni cinguettano, e il caffè è pronto - lo informai, prendendo una delle tazza ed appoggiandola sul tavolino del salotto, perfettamente davanti alla sua faccia.
- Sembri uno di quei post che condividono le vecchie su Facebook - brontolò il corvino, stropicciandosi gli occhi verdi ancora assonnati - Mi metti l'ansia -
Mi feci scappare un risolino divertito.
- Ora che me l'hai fatto notare, passerò tutta la giornata a taggarti in post simili e a mandarti un milione di messaggini su Whattsapp - risi, mentre andavo a prendere la bottiglia del latte nel frigo.
Nonostante odiassi macchiare il caffè con il latte freddo, e preferissi di gran lunga quello caldo, decisi di fare un'eccezione quella mattina.
Ero troppo pigra per andare a riscaldarlo nel microonde, come ero solita fare quasi sempre prima di allora.
- Ti prego no, Chiara - pigolò quasi, disperato.
Se facesse finta o meno, non lo capì.
Mi sentivo particolarmente sadica quel giorno; sicuramente la colpa era del pranzo.
- Di che parlate, voi due? - chiese, un'assonnata Lavinia, facendo la sua comparsa.
Si era appena svegliata anche lei, si vedeva dagli occhi ancora impastati dal sonno e, dettaglio più importante, portava gli occhiali da vista.
Più della birra, mia sorella odiava un'altra cosa: gli occhiali da vista.
Affermava quasi sempre che le stavano male, che le erano scomodi e che preferiva di gran lunga mettersi le lenti a contatto.
Persino in casa preferiva mettersele, ed era un evento assai raro vederla con un paio indosso, appoggiati sul naso. Un qualcosa che aveva dell'incredibile.
- Del fatto che tua sorella è una personcina sadica e senza cuore -
- E dove sarebbe la novità? - chiese confusa, inarcando un sopracciglio.
Le lanciai una lieve occhiataccia, prima a lei poi a Rico.
- Non sono senza cuore - borbottai, gonfiando le guance.
- Ma sadica sì, tesoro -
- Quello mica l'ho messo in dubbio - sorrisi, prendendo un sorso di caffè.
- Ho una voglia pari a zero di andare a quello stupido pranzo - bofonchiai poi, indispettita come una bimba piccola.
- Non dirlo a me - Lavinia mi si avvicinò, e prese dalla credenza un'altra tazza in ceramica - Non possiamo fingere un malore improvviso? -
Scossi la testa, afflitta - La scusa della malattia l'abbiamo già usata due settimane fa - le ricordai.
La sentì borbottare un "Accidenti", che venne lievemente mascherato dal rumore della macchinetta che macinava i chicchi di caffè.
Finita la mia rapida colazione, mi spostai in camera mia per cambiarmi e poter accompagnare il povero Rico a casa.
Presi le chiavi della Polo, che condividevo con mia sorella, dalla sua borsa e mi vestì con un paio di jeans slabbrati in alcuni punti e una felpa di una taglia in più.
Il classico abbigliamento alla "Cazzo mene", usato principalmente da studenti, studentesse e dal 90% della popolazione mondiale.
Enrico viveva con la sua famiglia non poco lontano da Porta Garibaldi, in un appartamento al sesto piano di una deliziosa palazzina.
Fortunatamente grazie all'ora e alla quasi assente presenza di traffico, evento più unico che raro nella città, non impiegai un tempo eccessivo per accompagnare il mio amico e ritornare indietro per riprendere mia sorella.
I nostri genitori abitavano in una bella villetta con giardino, in un paesino sperduto e dimenticato da Dio.
Uno di quei paesini in cui la maggior parte degli abitanti era composta da anziani e bambini molto piccoli. Uno spasso continuo per chiunque andasse dai quindici ai trentacinque anni, insomma.
Impiegammo all'incirca quarantacinque minuti abbondanti, quasi quindici in più rispetto al normale, per arrivare a destinazione.
Parcheggiare, ed osservare dal finestrino la casa dei nostri genitori, mi fece provare una grossa nostalgia, che mi colpì in pieno lo stomaco.
Ero letteralmente cresciuta in quella casa, e lì conservavo sia dei bellissimi ricordi, legati principalmente all'infanzia trascorsa, sia quelli più brutti.
La prima cosa che notai, non appena scesi dalla vettura, fu l'incredibile quiete.
Un silenzio che non sentivo da tempo, e che pensavo di essermi dimenticata.
Quel silenzio che sapeva di casa.
Ad accoglierci per prima fu la nostra vecchia cagnolina Mirajane; un border collie a pelo medio, nero e bianco, che sembrava non subire mai il passare degli anni.
Era schizzata nella nostra direzione ad una velocità da far invidia alla fusione di Bolt e Sonic, ed aveva preso ad abbaiare e scodinzolare come una forsennata.
Per ovvie ragioni, quali coccole e complimenti smielati, impiegammo altri venti minuti prima di varcare la porta d'ingresso.
Ho sempre ritenuto di avere un problema con i cani.
Quando ne vedevo uno, era più forte di me, dovevo coccolarlo e riempirlo di complimenti smielati.
Lo stesso mi capitava, molto spesso, anche con i gatti; specialmente quelli ciccioni.
Inoltre, ritornando al discorso dei cani, se il cane in questione era quello di famiglia, che avevi visto crescere da quando era un piccolo e tenero batuffolo di pelo spelacchiato, la situazione diventa davvero tragica; per tutti.
Venne ad aprirci nostro padre dalla porta-finestra del soggiorno, e ci stritolò in un abbraccio spacca-ossa.
Essendo sempre stato un uomo burbero e serio, nostro padre era restio a grandi manifestazioni d'affetto. Questo però non aveva mai influenzato i sentimenti che provava per noi.
L'amore di un genitore è qualcosa di inquantificabile, ma lui non era mai stato bravo a dimostrarlo a parole e gesti.
Ci amava, e noi lo avevamo sempre saputo.
La situazione era notevolmente cambiata quando sia io che mia sorella uscimmo di casa, per andare a vivere a Milano.
Io ero appena ventenne quando successe e, vedere entrambe le figlie lontane dal nido familiare, doveva avergli fatto scattare qualcosa dentro.
- Ciao, papà - lo salutammo entrambe, ricambiando la stretta - Come stai? -
- Bene, ragazze. Voi, invece? Vi fate sentire così di rado... Dovreste chiamare me e vostra madre più spesso! Come va a Milano? - chiese, mentre si sistemava il colletto della camicia, coperta da un maglioncino dalla maglia piccola.
A rispondere ci pensò Lavinia, che prese la parola per entrambe, raccontando più o meno la solita solfa che si propina per far veloce.
" Tutto bene, niente di che. Il lavoro stressa molto, il tempo è terribile..." e cose di questo genere.
Nostra madre, invece, era già nella sala da pranzo insieme a buona parte dei parenti. Era intenta a parlocchiare con alcuni nostri zii che, non appena notarono la nostra presenza, fecero scattare rapide le teste da rapaci verso di noi, in un movimento rapido e meccanico; quasi inquietante per certi versi.
Sia io che Lavinia deglutimmo a vuoto, mentre gli occhi per lo più scuri dei presenti ci osservavano e studiavano nel dettaglio.
Era troppo tardi per fuggire?
Purtroppo sì.
Che l'Inferno abbia inizio.

Affermare con assoluta risolutezza che il pranzo a casa Mirosi fosse stato un vero Inferno, sarebbe stato il Re degli eufemismi. Sia io che mia sorella eravamo state tartassate dalle continue domande inopportune da parte di zie fin troppo impiccione.
Mancava giusto una lampada bianca puntata in mezzo agli occhi, e sarebbe stato il classico interrogatorio da film.
Gli unici momenti di sollievo erano dati dagli arrivi di nostra madre con le portate da servire.
Solo lì si riusciva a stare tranquilli e, stranamente, in un pacifico silenzio, visto che tutti erano troppo presi ad ingerire cibo per fare altro.
Tornammo a Milano che era quasi ora di cena.
Io avevo un martello pneumatico in testa, mentre mia sorella aveva la classica espressione di chi sarebbe svenuto molto volentieri su una qualsiasi superficie piana da un momento all'altro.
Morbida o meno non faceva molta differenza al momento.
Speravo con tutto il cuore che almeno il giorno seguente sarebbe stato migliore, ma avevo dimenticato una cosa importantissima.
Il giorno seguente si chiamava lunedì.



NOTE:
(1): Loki Laufeyson dall'Universo Marvel.
(2): V for Vendetta.
(3): semi-citazione di Sheldon Cooper da "The Big Bang Theory"



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