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Autore: Hotaru_Tomoe    04/05/2017    5 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scritta per la H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di Maggio, utilizzando due prompt: un esperimento andato male (un incidente in questo caso) costringe i due a dormire in camera di John - e Sherlock che ha incubi dopo il suo ritorno tranne quando dorme con John.

Il titolo è il titolo di una canzone di John 5. Sembrava appropriato.

THE NIGHTMARE UNRAVELS

John si guarda nello specchio appeso sopra la mensola del camino e cerca per l’ennesima volta di aggiustarsi la cravatta.
“Sherlock, stasera ho un appuntamento, quindi ti prego di non chiamarmi a meno che non ci sia un’emergenza.”
“Ad esempio io che muoio di noia?”
Sherlock è allungato teatralmente sulla sua poltrona, come un’eroina vittoriana in deliquio, il viso coperto da un braccio.
“Questo è impossibile” ridacchia John.
“Come fai a dirlo?”
“Sono un medico, ricordi? È scientificamente impossibile morire di noia.”
“Non ne sono così sicuro.”
John ride ancora, poi schiocca le labbra infastidito: il nodo della cravatta è orrendo e non riesce a sistemarlo.
Senza dire una parola, Sherlock si alza, gli arriva alle spalle, scosta delicatamente le mani di John e sistema il nodo. John osserva affascinato il movimento delle sue lunghe dita e i loro occhi si incrociano nello specchio. Le mani di Sherlock si allontanano dal suo collo, ma indugiano sulle spalle in quella che potrebbe sembrare una carezza, e John non fa nulla per spezzare la strana atmosfera che si è creata.
È il claxon rabbioso di una macchina a riscuotere entrambi.
Sherlock si schiarisce la gola e torna a sedersi, mentre John sfiora la cravatta con le dita.
“Uh… grazie, ora è perfetta.”
“Di nulla.”
“Credevo che tu odiassi le cravatte.”
“Sono stato costretto a indossarle mio malgrado.”
“Quando… quando eri in missione?”
Sherlock annuisce silenziosamente, poi torna ad assumere una posa drammatica.
Sono passati tre mesi da quando Sherlock è ricomparso, dopo essersi finto morto per due anni.
All’inizio è stato orribile: ci sono stati pugni, insulti, urla e anche qualche lacrima, ma alla fine la rabbia di John si è acquietata; ha ascoltato la storia di Sherlock e le sue motivazioni, ha accettato le sue scuse e l’ha perdonato.
Alla fine, tornare a vivere con lui a Baker Street è stato quasi naturale.
Tuttavia ci sono momenti, come quello, in cui John intuisce che Sherlock non gli ha raccontato ogni cosa, che c’è qualcosa che lo turba, perché è restio a parlare. Questo non è da Sherlock: Sherlock è colui che si vanta di essere più intelligente di tutta l’organizzazione criminale di Moriarty, che vuole spiegargli nei dettagli come l’ha smantellata.
In parte lo ha fatto, ma c’è qualcosa che gli sta tacendo, e John non sa come affrontare l’argomento.
“Sherlock…”
“Il tuo appuntamento, farai tardi.”
“Giusto... ci vediamo domani mattina, allora.”
“Oh, sei così ottimista?” scherza Sherlock.
“Non sono Tre Continenti Watson per nulla - risponde lui - Ti farò un resoconto dettagliato.”
Sherlock si appallottola sulla poltrona con un mugugno infastidito: “Per favore, non farlo.”
Ma forse si sbaglia, si dice John mentre aspetta un taxi sul marciapiede sotto casa, perché il più delle volte Sherlock sembra lo stesso di sempre.

La serata non va esattamente secondo i suoi piani e John si ritrova sullo stesso marciapiede di Baker Street poco dopo la mezzanotte, decisamente irritato: Pamela, la donna con cui è uscito, si è rivelata essere una accanita sostenitrice del partito conservatore. John non è un uomo avvezzo a mescolare politica e appuntamenti romantici e all’inizio cerca di fare finta di niente, ma quando le sente dire che gay e lesbiche dovrebbero essere sottoposti a cure ormonali come negli anni ‘50, il dottore decreta che la serata finisce lì.
Dalla strada nota che le luci al primo piano sono spente, quindi sale le scale senza far rumore, convinto che Sherlock sia già a letto. Il cellulare ha batteria quasi scarica, quindi recupera il caricabatterie vicino alla sua poltrona, attacca il telefono, si rialza e sussulta: Sherlock è seduto sul davanzale della finestra, al buio, seminascosto dalla tenda.
Per la sorpresa, il cellulare quasi gli sfugge di mano.
“Gesù, mi hai fatto prendere un colpo! - protesta - Perché non hai detto niente?”
“Scusa John, stavo pensando” mormora piano, e la sua voce è così bassa che John fa fatica a sentirlo.
“Okay.”
John poggia il telefono sulla poltrona e scrolla le spalle: sa bene che quando Sherlock è nel suo Mind Palace a malapena è consapevole della realtà che lo circonda.
“Ne deduco che la serata non sia andata come volevi - dice Sherlock a voce un po’ più alta - Era idiota?”
“Sostenitrice dei Tories.”
“E io cosa ho detto?”
John ride e la sua rabbia per la pessima serata scivola via.
“Vuoi che ti accenda la luce?”
“No! - risponde Sherlock precipitosamente - No, grazie, non serve” aggiunge poi, più calmo. “Va… va tutto bene?”
“Sì, sì, come ti ho detto sto solo pensando.”
“Okay, buonanotte allora.”
È solo quando è nel letto e si sta addormentando che John si domanda su cosa debba riflettere Sherlock, visto che al momento non hanno casi.

Una notte John si sveglia con la gola secca: un paziente gli ha regalato una bottiglia di vino rosso italiano e l’hanno bevuta a cena. Eccellente, ma forse John ha bevuto un bicchiere di troppo e adesso ha una sete terribile. Sbuffa, scalcia via le coperte e si alza per andare a bere un bicchiere d’acqua.
Mentre scende le scale, sente che Sherlock sta suonando il violino, una melodia triste, lenta e malinconica, però il suono non è forte come al solito, tant’è che dalla sua camera non lo sentiva, è molto più attutito e non sembra nemmeno provenire dal salotto.
Un’occhiata veloce gli conferma che lì non c’è nessuno, allora bussa alla porta della camera di Sherlock e la apre, ma anche quella è vuota, e comunque il suono non proviene da lì.
Dimentico della sete, scende le scale e il suono dello strumento musicale diventa via via più forte e John si rende conto che proviene dal 221C. Perplesso, apre la porta del piccolo appartamento e scende i pochi gradini: Sherlock è in piedi al centro del salotto vuoto e sta suonando con gli occhi chiusi.
“Sherlock?” sussurra adagio John e la melodia si interrompe all’istante.
“John, cosa ci fai qui?”
“Avevo sete e sono sceso a bere un bicchier d’acqua.”
“Il vino. Te l’avevo detto che era molto forte.”
John non sarà un genio, ma lo capisce quando qualcuno sta cercando di cambiare argomento, ed è esattamente ciò che Sherlock sta facendo.
“Perché stai suonando qui?”
Sherlock si stringe nelle spalle, nervoso e sulla difensiva. “So che quando suono il violino in piena notte ti dà fastidio perché ti sveglio, quindi ho chiesto alla signora Hudson di darmi le chiavi del 221C, che al momento non è affittato a nessuno. Cercavo solo di essere educato.”
“Ah, grazie. Allora se è tutto a posto, io torno a dormire.”
“Lo è. Buonanotte John.”
“Anche a te.”
In realtà John non ne è del tutto convinto, e mentre si sdraia a letto e cerca di riprendere sonno, si rende conto di aver fatto la domanda sbagliata a Sherlock: non doveva chiedergli perché stesse suonando nel 221C, ma perché stesse suonando e basta, poiché Sherlock ricorre al violino solo quando qualche pensiero lo tormenta, ed è sempre più sicuro che ci sia qualcosa che il suo amico non gli sta dicendo.

Nei giorni seguenti l’ex soldato non ha molto tempo per riflettere sulle strane abitudini notturne Sherlock, perché finalmente arriva un caso molto interessante ed intricato a salvare il consulente investigativo dalla noia: si tratta di un brutale rapimento con delle vite in gioco che si conclude con un inseguimento nei vicoli di Londra e John che atterra e mette fuori combattimento due dei rapitori.
Mentre tornano a piedi verso Baker Street John si sente vibrante e pieno di energia a causa dell’adrenalina ancora in circolo nel suo sangue; Sherlock guarda dritto davanti a sé, ma ogni tanto gli lancia delle brevi occhiate e sorride, e John sa che anche lui sta condividendo la sua stessa euforia, probabilmente è l’unica persona al mondo in grado di capirlo.
“La gente comune mi bollerebbe come un pazzo, ma non che potrei mai rinunciare a tutto questo.”
Le indagini, i misteri, il rischio, gli azzardi: in una parola la loro vita.
“La gente comune è idiota - sentenzia Sherlock - Cena?”
“Sì, sto morendo di fame.”

Circa un mese dopo, però, la criminalità londinese sembra tornata tranquilla, e Sherlock si dedica ai suoi bizzarri esperimenti chimici, perché al momento non ci sono pericolosi malviventi a cui dare la caccia.
Una mattina che non è di turno in clinica, John ne approfitta per fare il bucato, perché deve stare via tra giorni per un convegno medico a Dublino e ha urgente bisogno di biancheria pulita.
“Sherlock, metto su la lavatrice, tu hai qualcosa da lavare?”
Il detective è chino sul microscopio, concentrato ad osservare quella che sembra una colonia di spore fungine e non dà segno di averlo udito.
“Sherlock!” tenta di nuovo, ma senza ottenere alcun risultato: come una novella Alice, Sherlock è perso nel suo mondo micotico, quindi John decide di entrare in camera sua per vedere se c’è qualcosa da lavare, ma ciò che vede gli fa corrugare la fronte: Sherlock non è un uomo ordinato, il salotto, con grande dispiacere della signora Hudson, è un caos costante e non arginabile, ma la sua camera da letto, normalmente, conserva un ordine quasi spartano. Invece ora le coperte sono aggrovigliate in fondo al letto, il lenzuolo è sollevato, tanto da lasciare scoperta una porzione del materasso, il cuscino è a terra vicino al pigiama appallottolato; quando John lo tocca, scopre che è intriso di sudore.
Sa benissimo cosa sta osservando, perché la stessa cosa è successa a lui innumerevoli volte, non appena tornato dall’Afghanistan: Sherlock ha avuto un incubo, un incubo terrificante, stando allo stato del letto, e probabilmente non è la prima volta che gli capita.
Gli incubi spiegherebbero il suo nervosismo e perché sia sveglio nel cuore della notte anche se non ha un caso su cui riflettere: Sherlock non gli ha mai raccontato nei dettagli cosa gli sia accaduto nei due anni lontano da Londra, John non sa esattamente cosa ha fatto (cosa ha dovuto fare) o se ha subito dei traumi. Ma forse dovrebbe chiederglielo: sa quanto possono essere orribili gli incubi e non vuole che Sherlock debba passare ciò che ha passato lui.
Torna in cucina e si siede davanti a Sherlock e sposta con delicatezza il microscopio finché non cattura l’attenzione del suo amico, il cui viso si acciglia in una espressione infastidita.
“John, il tempo è una componente essenziale di questo esperimento e-”
“Stai avendo incubi, Sherlock?” lo interrompe.
“No” risponde lui in tono distaccato e neutrale, ma John non gli crede.
“Ho visto il tuo letto: anch’io lo riducevo così, quando ero assalito dagli incubi.”
“Ho avuto un solo brutto sogno, nel quale non riuscivo a completare questo esperimento, e ora sta per diventare realtà - puntualizza Sherlock, riavvicinando il microscopio - Davvero, non c’è nulla di cui tu debba preoccuparti.”
“Mossa sbagliata, Watson” si rimprovera John: affrontando l’argomento in modo così diretto, Sherlock ha alzato le sue difese, si è chiuso in se stesso e i suoi occhi sono sfuggenti; John non se la sente di biasimarlo: in fondo lui faceva esattamente la stessa cosa con la sua terapeuta. Deve trovare un’altra strada e per ora non è il caso di insistere, non otterrebbe nulla.
“Va bene, ma in caso volessi parlarne, con me puoi farlo.”
“Lo so, ma davvero non c’è nulla di cui parlare.”

John non è entusiasta di andare a Dublino sapendo che Sherlock soffre di incubi, specialmente perché la signora Hudson è via dalla sorella, ma alla fine non può fare altro che ricordargli di mangiare regolarmente e non mettersi nei guai, e poi partire.
La conferenza non è per niente interessante e John passa più tempo a scambiarsi messaggi con Sherlock che ad ascoltare i relatori. Sherlock risponde sempre prontamente ai suoi messaggi, anche quando John li scrive la sera tardi, segno che l’amico è sveglio, ma in fondo lo è anche lui, e forse si sta davvero preoccupando per nulla.
Comunque è con un certo sollievo che torna a Londra la mattina del quarto giorno.
Paga il tassista, apre il portone di Baker Street e si rende conto immediatamente che qualcosa non va, perché nell’aria aleggia un forte odore di bruciato. Vero è che a volte Sherlock si diletta con esperimenti scientifici che prevedono l’utilizzo del fuoco, ma l’odore è davvero troppo forte. John abbandona la valigia nel pianerottolo, sale di corsa i gradini e si allarma ancora di più quando vede dei sottili baffi di fumo azzurrognolo che si allungano sotto la porta.
La spalanca ed è costretto a coprirsi il viso con la manica del giubbotto, a causa di una densa nuvola di fumo e di un forte calore che lo investono.
“Sherlock!”
Incurante del pericolo si fa strada in salotto e il suo cuore perde un battito alla vista di Sherlock sdraiato sul divano, immobile. Senza pensare ad altro lo carica su una spalla e abbandona precipitosamente l’appartamento; una volta in strada chiama l’ambulanza e i vigili del fuoco, poi si china su Sherlock : sta respirando, ma è privo di sensi, probabilmente a causa del fumo inalato. I soccorsi arrivano nel giro di pochi minuti, ma al dottore sembrano una eternità: l’ambulanza carica Sherlock e lo porta in ospedale e John va con lui; durante il tragitto informa Lestrade dell’accaduto e lo prega di fare un salto a casa e indagare se si tratti di un atto doloso.
Per fortuna Sherlock si riprende poco dopo l’arrivo in ospedale e sembra stare bene. John attende impaziente in corridoio che i dottori facciano tutti i controlli del caso e cammina avanti e indietro, e dopo qualche ora Lestrade lo chiama.
“Ehi, come sta Sherlock?”
“Lo stanno visitando ora, ma a un primo esame sembra non abbia avuto conseguenze. Tu cosa mi dici?”
“I pompieri hanno spento l’incendio, per fortuna era solo all’inizio e non ha danneggiato la struttura dello stabile, ma sono bruciati il letto e alcuni mobili in camera di Sherlock: pare che tutto sia partito da un cortocircuito nella lampada sul comodino di fianco al letto, nessun atto doloso. Comunque - il detective sospira pesantemente - è strano che Sherlock non se ne sia accorto: gli hanno dato una botta in testa o l’hanno narcotizzato?”
“I medici lo escludono.”
“Allora… sai…”
Sì, John sa perfettamente a cosa stia alludendo Greg: droga. Spiegherebbe perché Sherlock non si sia reso conto che la casa stava andando a fuoco, ma Cristo, sperava che quel capitolo della sua vita fosse finito.
“Chiederò di vedere i risultati degli esami del sangue e delle urine e ti farò sapere.”
“Grazie. Chiamami, se ti occorre altro.”
Tuttavia, contrariamente alle fosche previsioni dei due amici, gli esami di Sherlock sono assolutamente puliti, non c’è la benché minima traccia di sostanze stupefacenti nel suo corpo. La notizia dovrebbe solo rincuorarlo, ma non è così; certo, è felice che non si sia drogato e si sente anche leggermente in colpa per aver sospettato di lui, ma allora cosa può essere accaduto?
Entra nella stanza, dove una infermiera sta battagliando con Sherlock per fargli tenere la maschera ad ossigeno, e le chiede di lasciarli soli. Non appena la donna esce dalla porta, Sherlock si toglie la maschera e fa per alzarsi, ma John lo inchioda sul letto con l’indice puntato e con lo sguardo.
“No, uscirai di qui solo quando i dottori ti daranno il permesso. E tieni su la maschera, hai rischiato di morire soffocato!”
“Stai esagerando.”
“Io sto… Sherlock, cosa sarebbe accaduto se non fossi arrivato?”
“Prima o poi mi sarei svegliato.”
“Prima o poi - John stringe i pugni e li picchia sulle cosce - E se fosse stato troppo tardi?”
“Oh, ti sei spaventato” osserva Sherlock abbassando gli occhi, mentre riporta diligentemente la mascherina sul viso.
“Ovvio, idiota! - sbraita John, poi prende alcuni profondi respiri per calmarsi e si siede di fianco al letto - Le tue analisi sono pulite.”
“Lo so” lo interrompe Sherlock in tono brusco, che fa sussultare John.
“E allora mi spieghi come non hai fatto ad accorgerti che l’appartamento stava bruciando?”
“Mi sono addormentato.”
“Così profondamente?”
È vero, quando segue un caso Sherlock è capace di stare sveglio per giorni di fila, alla fine crolla in stato catatonico sul letto ed è capace di dormire per quattordici ore filate, ma Sherlock non sta seguendo nessun caso. Sono forse stati gli incubi a tenerlo sveglio mentre John era via?
“Hai avuto problemi a dormire nei giorni scorsi?” azzarda.
Sherlock si stringe nelle spalle, ma alla fine lo ammette. “Sì, un po’.”
“Non mi hai scritto niente in proposito.”
“Non era importante.”
John si morde il labbro inferiore: in questi tre giorni si sono scambiati messaggi su qualunque cosa, anche sulle idee per il regalo di compleanno della signora Hudson, che dista ancora diversi mesi, ma Sherlock non ritiene importante che gli incubi non lo facciano dormire.
“Ti sbagli - obietta John - Lo è.”
“Non volevo disturbarti.”
“Sherlock, ciò che riguarda la tua salute non è mai un disturbo, non pensarlo nemmeno, siamo intesi?”
John appoggia la mano sinistra sulla sua e Sherlock abbassa gli occhi stupito sulla coperta. “John?”
“Mh?”
“Grazie per avermi portato fuori di casa.”
“Non dirlo nemmeno.”

Sherlock viene rilasciato in serata e John promette ai medici di controllarlo per vedere che non subentrino delle difficoltà respiratorie.
I pompieri non hanno certo lesinato con l’acqua per spegnere l’incendio: la camera da letto di Sherlock è inagibile e lo rimarrà per giorni, ma anche in salotto ogni cosa è zuppa d’acqua, compresi il divano e le poltrone, i due tappeti sembrano delle enormi spugne e i muri emanano uno sgradevole odore di tappezzeria bagnata.
“Che macello” borbotta John.
“Mh, sembra che per qualche giorno dovrò usare il 221C non solo per suonare, ma anche per dormire.”
“Cosa? No - protesta John - Sherlock, quel seminterrato è addirittura più umido e insalubre di questo appartamento, e poi dove dormirai? Non c’è un letto né un divano laggiù.”
Sherlock si stringe nelle spalle. “Per terra. Quando ero in missione ho dormito in posti ben peggiori.”
“Non mi interessa, ora non siamo nella steppa o in una foresta.”
“E allora cosa suggerisci?”
“Dormi con me” risponde prontamente John.
Sherlock si blocca, come un cervo accecato dai fari di un’automobile e si morde le labbra. “John, non penso sia una buona idea.”
“Perché? Non è la prima volta che ci capita.”
Prima che Sherlock fingesse la sua morte, è capitato loro di dover dormire fuori Londra per un caso e avevano dovuto dividere il letto per un disguido nella prenotazione (la gente ha la bizzarra abitudine di considerarli una coppia), quindi non capisce perché ora Sherlock sia restio a farlo.
“Non voglio svegliarti.”
Con uno dei suoi incubi, è il sottinteso. Quelli che Sherlock fa finta di non avere.
“Sherlock, non c’è problema.” Anzi, potrebbe essere la volta buona per affrontare l’argomento.
“Ma…”
“Credimi, va tutto bene. E poi così posso controllarti come ho promesso ai medici dell’ospedale.”
John sa essere irremovibile quando vuole e questo è uno di quei casi, non deve nemmeno alzare la voce per farsi obbedire, gli basta lo sguardo e la postura: Sherlock dormirà nel suo letto e non ci sono altre opzioni, così alla fine il consulente investigativo deve arrendersi.
Sherlock dovrà rinnovare tutto il suo guardaroba, bruciato nell’incendio, quindi John gli presta uno dei suoi pigiami per dormire, ma l’effetto su di lui è incredibilmente comico: il pigiama gli è largo di vita e di spalle, ma maniche e gambe sono troppo corte.
“Non una parola” borbotta Sherlock, evidentemente in imbarazzo. John è tentato di prendere il cellulare e scattargli una foto per ricattarlo e minacciarlo di mandarla a Mycroft o Lestrade, quando lascia i suoi esperimenti sul tavolo della cucina o resti umani nel frigorifero, ma il rossore sul suo viso lo fa desistere: non è così crudele.
“Hai un lato preferito dove dormire?”
“No, come ti ho detto ho dormito ovunque, per me è indifferente.”
“Va bene, l’importante è che non rubi le coperte.”
Dopo avergli augurato la buonanotte, Sherlock si sdraia sul bordo del materasso e gli volta le spalle, mentre John decide di restare sveglio ancora un po’ a leggere un romanzo che gli ha consigliato Mike. Seduto con la schiena appoggiata al muro, può vedere le ciglia di Sherlock che sfarfallano: o ha difficoltà ad addormentarsi oppure l’idiota sta pensando di restare sveglio tutta la notte per evitare gli incubi.
“Ci ho provato anch’io - confessa John, facendo un’orecchia alla pagina del libro - Ma non funziona: alla fine il sonno vince sempre.”
Sherlock si irrigidisce e poi sospira infastidito. “Non sopporto non avere il controllo del mio mezzo di trasporto.”
“Capisco.”
“Davvero?”
“Sì, meglio di chiunque altro.”
“Forse sì” concede.
John appoggia il libro sul comodino e prova di nuovo ad affrontare l’argomento. “Mentre eri in missione ti è successo qualcosa? Qualcosa di traumatico?”
“No, non è ciò che pensi.”
“Allora cos’è?”
Questa volta Sherlock non risponde e chiude ostinatamente gli occhi, quindi alla fine John spegne la luce e si sdraia a sua volta.

Sente caldo, ma non è il caldo opprimente e vischioso dell’Afghanistan, carico di ricordi di morte, è un calore piacevole e accogliente, come quello del camino, di una coperta posata sulle spalle o del sole sulla pelle. John emerge dalle spire del sonno lentamente, apre gli occhi e si ritrova a fissare da vicino la trama del pigiama azzurro di cotone che ha prestato a Sherlock. Durante la notte si sono mossi e in qualche modo John è finito sepolto nell’abbraccio ursino di Sherlock, che ora lo tiene schiacciato contro il suo petto. È una situazione nuova e strana per John, tutte le altre volte che ha dormito con una partner, è sempre stato lui ad abbracciare e ad avere un ruolo dominante, ma quella posizione non gli dispiace affatto. È… piuttosto piacevole a dire il vero.
Nel sonno, Sherlock si gira sulla schiena e John ne approfitta per alzarsi; è solo quando è sotto la doccia che si rende conto che Sherlock non ha avuto incubi: John ha il sonno molto leggero (un retaggio del suo passato militare) e basta il minimo rumore o movimento sul materasso per farlo svegliare, ma sembra proprio che Sherlock abbia avuto una tranquilla notte di sonno ininterrotto. E lui non può che esserne contento.

Gli operai che arrivano a fare un sopralluogo quella mattina dicono che ci vorrà qualche giorno di lavoro perché tutto torni come prima: possono portare via subito i mobili bruciati, ma per quel che riguarda i muri, devono asciugare per bene e solo dopo potranno sostituire la tappezzeria.
Sembra dunque che la forzata condivisione del letto di John proseguirà ancora.
“Se per te è un problema, posso andare a dormire in un motel finché non sarà tutto sistemato” propone Sherlock mentre prepara il tè per entrambi.
“Ti ho detto che non è un problema.”
“Ma non sapevamo che i lavori si sarebbero protratti così a lungo.”
“Sherlock, una, dieci o cento notti non fanno differenza: è tutto okay.”
Sherlock lo guarda ad occhi sgranati e John si rende conto che la sua dichiarazione è senza dubbio molto audace; l’ha detta senza pensarci, ma gli è venuta dal cuore ed è la verità: da quando Sherlock è tornato a Londra, John si sente rinato, ha visto realizzato il suo desiderio più grande, quello di riavere la sua vecchia vita: lui e Sherlock che vivono insieme a Baker Street e risolvono crimini. Francamente, non vede altri orizzonti davanti a sé al momento e dubita che in futuro le cose cambieranno.
Sherlock abbassa gli occhi sulla sua tazza di tè e annuisce appena in un mutuo ringraziamento.

La seconda sera insieme inizia come la prima, con Sherlock sdraiato su un fianco cercando di restare cocciutamente sveglio, ma John con la coda dell’occhio, vede le sue palpebre diventare sempre più pesanti finché non si chiudono del tutto, è uno spettacolo molto più interessante del romanzo che sta leggendo e John resta a guardarlo a lungo, prima di spegnere la luce e sdraiarsi lentamente, cercando di non disurbarlo.
La mattina successiva John si sveglia nuovamente con Sherlock abbarbicato a sé, quasi fosse la variante umana di una piovra o di una pianta rampicante.
Anche questa notte è trascorsa indenne e senza incubi.
È presto e non ha bisogno urgentemente del bagno, quindi chiude gli occhi e ascolta il battito del cuore di Sherlock finché non si riaddormenta.
Nei giorni seguenti lo scenario si ripete, con la sola differenza che Sherlock è sempre meno restio ad addormentarsi e sempre più rilassato nel piccolo letto di John, quasi abbia dormito lì da una vita.
Al mattino John lo ritrova sempre drappeggiato su di sé, a volte la sua schiena contro il suo petto, a volte sono faccia a faccia, a volte la testa riccioluta è appoggiata sulla sua schiena o sul suo stomaco, e spesso John deve resistere alla tentazione di accarezzargli i capelli, perché lo sveglierebbe, e pensa che sarebbe bello se i lavori di ristrutturazione al piano di sotto non finissero mai.
E gli incubi di Sherlock non sono più tornati.

La loro routine si interrompe il giorno in cui gli operai finiscono di sistemare il salotto e la camera di Sherlock.
“Stasera torno nella mia stanza” annuncia Sherlock durante la colazione.
“Sei sicuro? A me pare che l’odore della colla della carta da parati sia ancora molto forte.”
È una scusa ridicola e lo sa bene, le finestre al piano di sotto sono rimaste aperte per due giorni e l’odore è appena percettibile, ma si era abituato alla presenza di Sherlock nel suo letto e una parte di lui scopre, senza troppa sorpresa, che quella sistemazione gli mancherà. “È sopportabile, e poi ho approfittato fin troppo a lungo della tua ospitalità.”
John stringe le labbra e annuisce: ogni cosa è tornata come prima, quindi non c’è più un motivo (o una scusa) per dormire insieme. Alza lo sguardo su Sherlock e la prima cosa che nota sono le sue labbra piegate all’ingiù in una espressione contrariata: nemmeno lui è felice di tornare nella sua camera.
Si guardano, Sherlock apre la bocca e la richiude di scatto, e John crede che abbia trovato una scusa per continuare a dormire insieme, ma all’ultimo Sherlock si alza dal tavolo.
“Devo andare a ritirare gli abiti che ho ordinato.”
“Ah… certo. E io devo andare al lavoro” risponde John con un sorriso tirato che non fa nulla per nascondere il suo disappunto.
“John?” Sherlock si ferma quando è già sulla porta.
“Sì?”
“Cena da Angelo stasera?”
Non ci sono casi risolti né altre ricorrenze da festeggiare, ma forse è un modo per dire qualcosa a John, che con le parole non riesce a dirgli.
“Sì, volentieri.”
Anche lui non è molto bravo con le parole.

La cena è piacevole: non parlano moltissimo, perché non c’è nulla di eclatante e nessuna novità di cui parlare, semplicemente si godono del buon cibo e la reciproca compagnia ed è perfetto così, tanto che, mentre salgono i gradini del 221B John vorrebbe davvero avere una scusa per prolungare la serata, ma alla fine le parole gli sfuggono di nuovo e si limita ad augurargli la buonanotte. Tuttavia quella notte il sonno tarda ad arrivare: cerca di finire il romanzo che ha sul comodino, ma non riesce che a leggere troppe pagine, troppo distratto dal lato vuoto del letto; spegne la luce, ma si rigira più volte alla ricerca di una posizione comoda, e anche quando si addormenta, è più un dormiveglia molto leggero.
A un certo punto della notte si sveglia di soprassalto e si tira a sedere, all’erta, come se percepisse un pericolo. Tende le orecchie nel buio e poco dopo sente un lungo lamento, attutito dalla porta chiusa, ma capisce immediatamente che si tratta di Sherlock, ed è così penoso e disperato che John non ha alcuna esitazione a scendere al piano di sotto ed entrare nella sua stanza.
Sherlock è ancora addormentato, ma si sta agitando, scalciando e muovendo le braccia sotto le lenzuola, la fronte è imperlata di sudore e un’espressione sofferente ne contrae i lineamenti.
“Ti prego - biascica con voce incerta - non andartene. Farò tutto ciò che vuoi, ma resta, RESTA!” Il lamento diventa un grido, ma Sherlock non si sveglia ancora, continuando ad agitarsi invano, prigioniero dell’incubo.
John lo raggiunge, appoggia un ginocchio sul materasso e gli afferra i polsi per calmarlo, poi inizia a chiamarlo con voce sommessa, per non scioccarlo ulteriormente.
“Sherlock, Sherlock svegliati.”
Dopo qualche secondo Sherlock spalanca gli occhi, anche se impiega qualche secondo a mettere a fuoco la stanza.
“Va tutto bene, sei sveglio adesso.”
Sherlock prende qualche respiro profondo, poi sorride imbarazzato.
“Scusami per averti disturbato. Probabilmente è stata colpa del materasso nuovo, non sono abituato.”
John gli lascia andare i polsi, poi si siede sul bordo del letto e stringe le labbra.
“Ora potrei fare finta di crederti, potrei cercare una scusa, dirti che ho bisogno di guardare qualcosa sul tuo portatile e restare in camera con te finché non ti riaddormenti, oppure potremmo parlare del perché hai questi incubi.”
“John, sono solo alcuni brutti sogni, non c’è motivo di farne un caso di Stato.”
“Non è vero: sono incubi così spaventosi che fai di tutto per non dormire ed evitare di averli. Se tu mi raccontassi cosa ti è successo quando eri via…”
Sherlock si passa una mano tra i ricci fradici di sudore.
“Ti ho detto che non è quello.”
“Non hai mai avuto incubi, prima, allora cos’è che ti terrorizza a tal punto?”
Joh non se ne andrà finché non avrà una risposta, lo guarda con calma implacabile, e alla fine Sherlock sussurra una sola sillaba: “Tu.”
John sussulta come se l’avessero schiaffeggiato e fa per alzarsi immediatamente, ma Sherlock lo trattiene per la manica del pigiama.
“Non è ciò che stai pensando - sospira e chiude gli occhi - Da quando sono tornato continuo ad avere incubi in cui tu te ne vai.”
“Vado? Dove?”
“Ovunque, lontano da qui, e non torni.”
“Oh.”
“A volte ti sposi, a volte ti crei una famiglia con tanto di bambini, a volte vai semplicemente a vivere altrove, ma la costante dei miei incubi è che non vuoi più avere niente a che fare con me.”
John è piuttosto scioccato dalla rivelazione, perché i suoi incubi erano molto più cruenti: ferite sanguinanti, mutilazioni, soldati lasciati morti sotto il sole alla mercé di cani randagi. L’idea che la sua assenza possa sconvolgere Sherlock al punto da provocargli incubi lo lascia senza parole; è vero, all’inizio, quando ha scoperto che Sherlock era vivo, John si è infuriato, ma non ha mai pensato per davvero di andarsene per sempre, Sherlock è troppo importante e John credeva che lo sapesse.
“E come, idiota? Non è che avete mai affrontato chiaramente l’argomento, non gli hai mai detto di voler restare.”
Se non altro, ora John si spiega alcuni comportamenti di Sherlock dell’ultimo periodo: Sherlock che resta alzato quando lui ha un appuntamento galante, che va a suonare al 221C per non disturbarlo, che era restio a dormire insieme perché temeva che a lui desse fastidio, che lo invita a cena quando le vede scontento. Tutti gesti per non farlo arrabbiare e non farlo andare via.
Un’altra cosa è ben chiara a John: per tutto il tempo in cui lui e Sherlock hanno dormito insieme, Sherlock non ha avuto incubi, e invece si sono ripresentati puntuali quando è tornato nella sua camera da letto.
“Per quello - mormora Sherlock, che ha intuito i pensieri di John - credo che il mio subconscio percepisca la tua presenza fisica nel sonno e si calmi.”
“Sì, lo penso anch’io. Quindi io che me ne vado è la tua paura più grande?” domanda di nuovo, per essere certo di aver capito bene: non è mai stato importante a tal punto nella vita di qualcuno.
“Fin da quando mi sono buttato dal Barts. Mi dispiace.”
“Cosa? Non hai nulla di cui scusarti. E, Sherlock, io non vado da nessuna parte, questo lo sai?”
“Per ora” mormora Sherlock abbassando lo sguardo.
“Be’, ti posso assicurare che il mio ‘ora’ si spinge parecchio in là nel tempo, quindi anche se ogni tanto essere invitato fuori è bello, e non sentire il violino alle tre di notte lo è ancora di più, non devi arrovellarti il cervello per inventarti sistemi per farmi restare: Io resto qui perché voglio restare.”
Lo sguardo di Sherlock resta dubbioso, quindi John gli appoggia una mano sulla spalla e spinge.
“Dai, spostati.”
“Ma…”
“Andiamo!”
Solleva il piumone e si sdraia accanto a lui, ma Sherlock ancora non smette di protestare.
“John, non devi sentirti obbligarti a fare qualcosa solo perché ho gli incubi, col tempo imparerò a gestirli, te lo prometto.”
È la volta di John ad avvolgere completamente Sherlock nel suo abbraccio, anche se è più piccolo di lui; la testa del detective si incastra perfettamente sotto il suo collo, e quando John appoggia il mento sui riccioli scuri e soffici, esala un sospiro soddisfatto.
“Ti sembra che mi senta obbligato in qualche modo?”
Sherlock respira adagio sul suo pigiama, poi scuote lentamente la testa.
“Questa mattina cercavo disperatamente una scusa, una scusa qualsiasi per continuare a dormire insieme, e ho sperato che fossi tu a dire qualcosa.”
“Ci ho pensato, ma mi sembrava inappropriato e non avevo idea di come avresti reagito.”
“Così.”
John abbassa il capo e lo bacia sulla fronte.
“John…”
Sherlock solleva il viso verso di lui e per lunghi istanti restano vicinissimi, a baciarsi con i respiri che si mescolano, il calore dei loro visi e le ciglia che si sfiorano, finché John si muove di qualche altro millimetro e strofina delicatamente le labbra contro quelle di Sherlock, prima di tornare ad appoggiare il mento tra i suoi capelli.
Per il momento va bene così, avranno tempo per parlare e per baciarsi seriamente.
“Dormi Sherlock, dormi senza timore, perché io sarò sempre qui a proteggerti dagli incubi.”

   
 
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