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Autore: Jo_The Ripper    05/05/2017    2 recensioni
«E sai perché morirai? Perché mi devi una morte, Molly Hooper. Mi devi la morte di Sherlock Holmes.»
La caratteristica più profonda e universale di tutti gli psicopatici è l’assenza di rimorsi. Non hanno il concetto di colpa. Non hanno coscienza morale. Uno psicopatico intenzionato a uccidere si serve di qualsiasi mezzo per ingannare la vittima al fine di toglierle la vita.
E quando arrivi al livello finale del Grande Gioco non puoi tirarti indietro. Tutto quello che puoi fare è continuare la partita, ponendo sul piatto della bilancia sentimenti nascosti nell’angolo più buio di un Palazzo Mentale, un fantasma riemerso dalle profondità di un passato perduto nel tempo e l’ombra di una nemesi a lungo creduta sconfitta.
«Il grande Sherlock Holmes, che ha la capacità di esaminare il mondo sotto la potente lente del suo microscopio cerebrale, che individua schemi e tracce laddove gli altri vedono solo trame abbozzate, ora sta facendo i conti con gli effetti dell’essere umano.»
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eurus Holmes, Jim Moriarty, John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 5

Per un tempo che sembrò eterno, Sherlock rimase paralizzato e incapace di rendersi conto di cosa era accaduto. Fissò lo schermo talmente stravolto che si accorse di stare trattenendo il fiato. Si sentì invadere da un’ondata di gelido terrore.
Il timer aveva raggiunto lo zero.
La mano di Molly era scivolata lungo la guancia, inerte. Gli occhi si erano chiusi. Non riusciva a vedere il suo torace sollevarsi.
«Molly?» La richiamò avvicinandosi allo schermo. Cadde in ginocchio, poggiando le mani sulla superficie come se avesse voluto penetrare all’interno e raggiungerla. «Molly, ti prego…»
«Sei patetico.» Eurus prese il posto della patologa e gli rivolse uno sguardo sprezzante. «Ora implori affinché si svegli? Non sei nemmeno riuscito ad infondere un po’ di sincerità alla tua penosa dichiarazione.»
Sherlock guardò con odio profondo quegli occhi trasparenti. Non recavano nessuna traccia di rimorso o compatimento.
«Se solo fossi stato più svelto e intelligente, questo non sarebbe successo. D’altra parte cosa importa? Sarai scombussolato e ti dispiacerà per un po’- qualche settimana o mese – ma poi supererai la perdita. La vita va avanti, Sherlock. E lei non era così importante, no?»
Lui fissò dritto lo schermo, gli occhi ridotti a due schegge di vetro opaco.
«Lei ha sempre contato.»
Eurus lo gratificò di un’occhiata compassionevole.
«Guarda cosa hai fatto a lei, cosa hai fatto a te stesso… tutte queste piccole, complicate emozioni… Nessuno ti ha mai spinto a tanto, vero?»
Qualcosa, nel suo cervello, scattò. Quella parola – nessuno - che ricorreva frequente nella storia.
Focalizzò la mente e la vide, oltre il viso di Eurus bambina che lo scrutava mentre si allontanava verso la casa: la lapide di Nemo Holmes.
Nemo: nessuno in latino.
Tutto ebbe senso.
La testa disegnò un movimento lento e quando aprì gli occhi questi erano animati da una nuova determinazione che non sfuggì allo sguardo attento e indagatore di Eurus. Non c’era spazio per il bluff, in quegli occhi.
La partita non era ancora chiusa, aveva ancora una possibilità di salvare Molly.
«Ok, giochiamo.»
Riprese la torcia che aveva abbandonato in un angolo e si precipitò all’esterno, correndo a perdifiato verso il cimitero. Iniziò a cercare tra le lapidi quella che gli interessava.
«Sherlock, cosa diavolo è successo? Non riuscivo più a parlarti e poi il timer di Molly ha suonato!»
«Le date sbagliate. Ha usato le date sbagliate sulle lapidi, John, come chiave del messaggio cifrato, ovvero la canzone.»
«Ti sembra una cosa strettamente necessaria in questo momento?!»
«Sì, lo è. Torno da te tra un minuto.»
Il medico intese che l’amico era ormai lanciato a tutta velocità nel suo ragionamento. Forse era davvero vicino a risolvere l’enigma che li avrebbe salvati tutti. Tacque lasciandolo lavorare.
Sherlock posò la torcia davanti alla finta tomba di Nemo Holmes e iniziò a catalogare in sequenza tutte le date. Piazzò le strofe della canzone davanti a sé.
«Numeriamo le parole della canzone. Poi sistemiamo le parole numerate, per farle combaciare con la sequenza sulle lapidi.»
Si bloccò con gli occhi spalancati e il respiro ridotto ad un rumoroso ansito. Le parole non necessarie si sgretolarono. Iniziò fendere l’aria con movimenti rapidi, sistemandole in ordine.
«Se mi perdo aiutami, fratello. Soccorrimi prima della fine. Se mi perdo, senza il tuo amore, senza la mia anima… cerca la mia stanza.»
Rimase fermo un momento, consapevole di aver finalmente risolto l’enigma.
«Oddio…» Scattò di nuovo e corse verso l’interno della casa, urtando contro il cancelletto di ferro. Salì velocemente le scale e si fermò davanti alla porta. Poi la aprì con un gesto deciso.

Sua sorella stava seduta su una coperta logora, nel mezzo di una stanza dal tetto caduto dal quale filtravano i raggi lunari. Teneva le gambe raccolte contro il petto e gli occhi chiusi, ancora smarrita nel suo mondo. Lui posò con lentezza la torcia sulle assi instabili e allungò la mano nella sua direzione.
«Sono qui, Eurus.»
«Stai giocando con me, Sherlock. Stiamo giocando insieme.»
«Il gioco, sì, ora l’ho capito.» Annuì e cominciò ad avvicinarsi a passi misurati a lei. «La canzone non doveva darmi le indicazioni.»
«Sono su un aereo. Sto precipitando. E tu mi salverai.»
Si abbassò di più. La vide tremare impercettibilmente.
«Sei davvero intelligente, la tua mente ha creato la metafora perfetta. Sei al di sopra di tutti noi, tutta sola nel cielo e sai tutto, tranne come fare per atterrare. Io sono solo uno stupido.» Affermò e si sedette accanto a lei. «Ma sono a terra, ti posso portare a casa.»
Le poggiò la mano sulla sua e lei scosse il capo.
«No! No, no, no. È troppo tardi.»
«No, non è vero. Non è troppo tardi.» La contraddisse e si umettò le labbra per trovare ristoro da quella sensazione di gola secca.
«Ogni volta che chiudo gli occhi, mi ritrovo su quell’aereo. Sono perduta, perduta nel cielo e… nessuno può sentirmi.»
Sherlock fece vagare il suo sguardo sulla figura minuta di sua sorella, così vulnerabile e piena di una profonda sofferenza che stava esternando con un pianto leggero.
Strinse più forte la mano sulla sua per rassicurarla della sua presenza. Lui non l’avrebbe abbandonata.
«Apri gli occhi.» Sussurrò e lei sollevò le palpebre senza guardarlo. «Sono qui.»
Quando Eurus alzò lo sguardo appannato dalle lacrime e incontrò il suo, continuò. «Non sei perduta.»
Chiuse la distanza tra loro e la abbracciò forte. La tenne stretta mentre lei si lasciava andare ai singhiozzi con una mano artigliata al suo cappotto. Iniziò ad accarezzarle i capelli per calmarla.
«Hai solo scelto la strada sbagliata l’ultima volta. Tutto qui. Stavolta fa la scelta giusta. Dimmi come salvare la mia amica. Eurus…» Si allontanò e le prese il viso tra le mani. «Aiutami a salvare Molly Hooper.»
Le sue labbra tremarono, sembrava così smarrita. Sherlock continuò ad accarezzarle il capo.
«Jim Moriarty diceva che lei era solo uno strumento. Sapeva che l’avresti usata per il tuo piano, così come aveva fatto lui in passato per avvicinarsi a te. Aveva scelto di vendicarsi anche di lei, ne era disgustato. Sosteneva che di lei non ti importava. Era solo una signorina nessuno, coinvolta in un gioco più grande delle sue scarse capacità. Quello è stato un suo errore di valutazione. Io so qual è la verità.»
Sherlock seguì lo sguardo di Eurus: indicava una pala nell’angolo della stanza. Lei lo fissò rassegnata, convinta che di certo se ne sarebbe andato senza voltarsi indietro di nuovo. Ma non era così e Sherlock intendeva dimostrarglielo. Le sfiorò la fronte con le labbra.
«Torno preso, aspetta qui.»
Afferrò l’attrezzo e corse fuori.

Come aveva potuto non notarlo prima? Aveva calpestato quel suolo, ci era stato sopra senza accorgersi di nulla e lei era lì, sotto di lui. Quando arrivò alla tomba, prese a scavare. La vanga non rompeva la terra perché si trattava di un tappeto di erba sintetica, messo lì ad hoc per depistarlo. Trovò il punto di congiunzione e lo strappò. Da lontano poté sentire le sirene delle auto della polizia.
Scavò con quanta più forza aveva nelle braccia in preda ad una furia disperata, fino a sentire i muscoli tirarsi al limite, senza avvertire la stanchezza, animato solo dalla paura che fosse veramente troppo tardi.
La punta della vanga impattò contro qualcosa di duro. L’aveva trovata. Tolse altri cumuli di terra e finalmente la vide.
«Molly!» La chiamò a gran voce mentre il cortile si riempiva di volanti. Aprì il coperchio della bara e la prese tra le braccia. Era leggera, il suo corpo appariva fragile, il viso era pallido, gonfio di pianto e le labbra di una sfumatura bluastra. La distese al suolo e controllò: non respirava e il suo cuore non batteva. Vide Lestrade accorrere al suo fianco.
«John è caduto in un pozzo sul lato nord, mia sorella è all’interno e dov’è la maledetta ambulanza!?»
Il tempo era vitale in quella situazione. Greg abbandonò momentaneamente il posto per dare ordini agli uomini.
Sherlock sapeva cosa doveva fare fino all’arrivo dei soccorsi.
«La prolungata carenza di ossigeno può danneggiare tutti gli organi del corpo umano. Le attività cerebrali, e quindi l’encefalo, possono sopravvivere per 4-6 minuti all’assenza di ossigeno. Tempi superiori comportano danni irreversibili, fino al sopraggiungere della morte.»
Ossigeno, ossigeno, ossigeno. Rianimazione cardiopolmonare e compressioni toraciche esterne.
Estese il capo di Molly, le pinzettò il naso, trasse un respiro profondo e le insufflò aria nella bocca.
Due insufflazioni e trenta compressioni per cinque cicli. Totale 2 minuti.
Alla fine del quinto ciclo, Molly non mostrava alcun segno di ripresa.
Con la coda dell’occhio Sherlock vide John avvicinarsi zoppicando. Il medico si lasciò cadere sulle ginocchia e, ancora bagnato fradicio, si pose alla testa di Molly.
Insieme iniziarono il secondo ciclo di rianimazione.
Quando i paramedici arrivarono, Lestrade dovette afferrare Sherlock per le braccia e allontanarlo forzatamente. Il detective vide i due operatori porre le piastre del defibrillatore sul torace di Molly. Fecero partire la scarica e ripresero a massaggiare.

Intorno a lui tutto si era ridotto ad un profondo, inerte e assordante silenzio. I contorni delle figure dei paramedici assunsero forme indefinite e sfocate, mentre si muovevano attorno al corpo incosciente di Molly. Le loro voci sembravano provenire da un tunnel.
Sherlock era come stordito. Avvertì la forza nelle gambe scemare e fece un enorme sforzo di volontà per non cedere contro le spalle di Lestrade che ancora lo sorreggeva e John che lo strattonava dalla manica del cappotto.
Di colpo l’udito ritornò come se qualcuno avesse girato la manopola del volume. Qualcuno disse che era tornata. Il cuore aveva ripreso a battere.
Quando collegarono a Molly la maschera per l’ossigeno e la posero su una barella, le sue gambe si mossero in automatico. L’ispettore capo gli sbarrò la strada e un moto di rabbia lo invase. Doveva andare con lei.
«Togliti.»
«No. Saresti solo di intralcio. La caricheranno sull’elicottero diretto al Barts, il viaggio in linea d’aria è breve. Prendi la macchina e torna a Londra. John, va a farti dare una controllata.» Aggiunse rivolto poi verso Watson.
«Io sto bene, è solo una slogatura.» Fece il medico avvolgendosi meglio nella coperta che gli avevano dato.
Sherlock non sembrò prendere bene gli ordini di Lestrade ma non fiatò.
«Prima che te ne vada, ho parlato con tuo fratello.»
Lo sguardo del detective vagò sulla figura di Eurus. Uscì scortata da due poliziotti in uno stato di completa docilità, senza opporre alcuna resistenza. La fecero entrare all’interno di un blindato che partì immediatamente alla volta dell’eliporto.
«Come sta?» Domandò con una nota preoccupata nella voce.
«È un po’ scosso, tutto qui. Non gli ha fatto niente, l’ha solo rinchiuso nella sua vecchia cella.»
«Si raccoglie quello che si semina.» Aggiunse John.
«Ora andate ragazzi, io ho delle faccende da sbrigare.» Disse Lestrade superandoli.
«Assicurati che si prendano cura di Mycroft. Non è così forte come pensa lui.»
«E tu lo sei, Sherlock? Fino a pochi minuti fa credevo saresti morto di crepacuore assieme alla tua cara patologa. Ma forse, per lei, c’è ancora speranza.» La voce carica di scherno di Moriarty si prese gioco di lui nel suo palazzo mentale. Socchiuse gli occhi per scacciarla.
«Sì, sarà fatto.»
«Grazie, Greg.»
L’ispettore capo lo guardò genuinamente sorpreso dal fatto che avesse ricordato il suo nome.
«Andate, vi raggiungerò in ospedale.»

***

Sherlock teneva gli occhi fissi sulla strada e le mani ben ferme sul volante. John si era cambiato con una tuta fornitagli dai poliziotti e continuava a stringersi nella coperta. Quella notte eterna aveva messo Sherlock alla prova più di qualsiasi altro caso.
«Stai bene?» Gli chiese titubante.
«Ho fatto delle promesse e non le ho mantenute.» Il viso di Sherlock era pallido tanto da sembrare fatto di carta velina. «Ho detto a Eurus che l’avrei portata a casa, ma non posso, vero? Ho detto a Molly che l’avrei salvata e ho fallito anche in questo.»
John allungò la mano e gliela posò sulla spalla: era rigido e teso come un albero nodoso schiantato da un fulmine.
«Ascoltami, non devi assolutamente incolparti.» Disse perentorio, puntandogli contro l’indice. «Hai dato a tua sorella quello che cercava… un contesto.»
«E questa sarebbe una cosa buona?»
«Non è un bene, non è un male… è quello che è, le cose stanno così.» John si strinse nelle spalle.
«E dimmi, John, procurare un contesto a Eurus valeva la vita di Molly Hooper?»
«Lei non è morta, Sherlock. Non agire come se lo fosse.» Affermò duro.
«Questo dovrebbe confortarmi? Sei un medico e sai bene che anche se il cuore ha ripreso le sue normali funzioni, il cervello potrebbe essere gravemente compromesso. Se solo fossi arrivato prima ora non starei qui a pensare che potrei averla ridotta per sempre ad un vegetale o peggio!»
Sherlock era inferocito, pieno di rabbia rivolta contro se stesso. Stava sgretolando la speranza che la situazione potesse essere diversa e non sembrava convincersi altrimenti né era incline a lasciarsi rincuorare. Nella sua testa l’unico pensiero era rivolto a Molly, la cui vita continuava ad oscillare nel limbo tra la vita e la morte. Un luogo dove lui non poteva raggiungerla per riportarla indietro.

***

Quando arrivarono in ospedale, John si recò al pronto soccorso per una radiografia della caviglia. Sherlock invece venne indirizzato verso l’unità di terapia intensiva, dove gli fu proibito entrare. Dovette arrendersi e rimanere fuori nel corridoio ad attendere notizie, con un senso di panico crescente nello stomaco.
John arrivò su una sedia a rotelle, cosa che trovava ridicola ma che avevano insistito nel dargli. La caviglia era solo slogata e gonfia, gli era stato prescritto di rimanere il più a lungo possibile senza caricare il peso e applicare una pomata. Arrivò anche Lestrade e i tre rimasero seduti sulle scomode sedie di plastica nel corridoio per il resto della notte.
Quando fuori cominciò ad albeggiare, un rianimatore uscì dal reparto. Tutti e tre si alzarono contemporaneamente. Sherlock studiò l’espressione dell’uomo davanti sé e ciò che vide non gli piacque.
«La paziente è stabile, ora è in camera iperbarica.»
«Questa è una cosa buona, se la caverà, no?» Chiese Greg speranzoso.
Il medico abbassò lo sguardo sulle mani per un breve attimo e poi prese un respiro. Li guardò mortalmente serio.
«Le prospettive non sono favorevoli. La paziente è andata in arresto cardiorespiratorio e i livelli di carbossiemoglobina ematica erano superiori al 25%. Anche se abbiamo stabilizzato le sue condizioni, non sappiamo se riprenderà conoscenza né la rilevanza dei danni subiti dall’encefalo.»
John riversò il capo all’indietro, Lestrade sibilò un’imprecazione.
«Quindi cosa facciamo?» Domandò infine John.
Il dottore scosse il capo.
«Tutto quello che possiamo fare è aspettare.»
«Posso vederla?»
La domanda a bruciapelo di Sherlock fu inaspettata. Era rimasto in silenzio senza battere ciglio durante tutto il discorso.
Lo sapeva. Aveva dedotto fin dal primo momento la gravità della situazione.
Il dottore annuì.
«Solo per poco, mi segua.»
Con la chiave elettronica aprì la porta del reparto e si introdussero all’interno, lasciando John e Lestrade fuori.

La stanza era piccola, con le pareti verde acquamarina e le tende di carta bianca.
Molly era distesa sul letto coperta fino alla cintola, avvolta in un camice dell’ospedale. Da sotto quest’ultimo vedeva spuntare una serie di cavi che si connettevano ai macchinari di cui era circondata: uno per controllare le pulsazioni cardiache, uno per l’attività cerebrale, una flebo per i liquidi. Il suo torace si abbassava e sollevava ma la sua mente… quella vagava in luoghi inaccessibili.
«Oh, povera, povera Molly. Guarda cosa hai fatto, Sherlock. Meglio abbassare da subito le aspettative, non vorrai creare distorsioni sui risultati sperimentali, provocando una diminuzione della validità della ricerca mia e di Eurus. Non si riprenderà. Hai fallito. Fallito. Fallito. Accettalo. Lei morirà e sarà solo colpa tua.» Moriarty continuò a tormentarlo e lui strinse forte la mandibola, digrignando i denti in frustrazione e amarezza.
Quella sorta di creatura aliena dal volto cinereo, attorno alla cui fronte scorgeva il decorso tortuoso di vene azzurrognole, non poteva essere Molly.
In quel momento avrebbe voluto dirle tante cose, ma restò in silenzio. Tutti i discorsi che aveva immaginato avevano perso ogni valore, diventando un patetico ed inutile tentativo di giustificazione. Nulla poteva attenuare il profondo rimorso che si era impadronito di lui.
«Ti ricordi cosa ne fanno i nani di Biancaneve morta?»
Era riuscito a tirarla fuori da una bara solo per metterla in un’altra.
Poggiò una mano sulla superficie fredda del cilindro di vetro della camera iperbarica, proprio dove si trovava il capo di Molly.
«Non è così che doveva finire.» Disse tutto d’un fiato. «Non avrei dovuto permetterlo.» Mormorò sfinito, guardando il suo viso.
Il medico tamburellò con le dita contro la porta, a segnalare che il tempo era finito. Sherlock le rivolse un’ultima, lunga occhiata, ed uscì dalla stanza.

Fuori, John e Lestrade attendevano impazienti. Nessuno di loro osò però chiedergli di Molly. Il suo viso svelava da solo quale notizia fosse venuto a portare. Sherlock si rese conto di aver bisogno di stare da solo.
«Tornate a casa, resto io qui.»
«Ma…»
John posò una mano sulla spalla dell’ispettore e interruppe le sue obiezioni. Annuì a Sherlock, capendo il perché delle sue scelte: aveva bisogno di tempo per metabolizzare ed elaborare gli avvenimenti, così come lui aveva bisogno di tornare a casa a riabbracciare la sua bambina.
«Tienici aggiornati.»
Il detective fece un piccolo cenno del capo e i due lo lasciarono ai suoi pensieri.
Si andò ad appoggiare alla finestra e scorse il suo riflesso, un’immagine che a stento riconobbe. Gli occhi stanchi e l’aria vulnerabile e sconfitta. Solo una cosa era ben evidente: il bisogno.
Il desiderio fervente di una dose per mettere a tacere il dolore.

***

Per quattro giorni Sherlock non si mosse dal corridoio fuori dal reparto di terapia intensiva. Quando i medici trasferirono Molly dalla camera iperbarica ad una stanza privata, si rifiutò categoricamente di abbandonare la sua guardia, nonostante le insistenze dei suoi amici nel volergli dare il cambio. Creò uno scompiglio tale che si placò solo grazie all’intervento di Mike Stamford, il quale riuscì a patteggiare per lui un permesso che gli consentiva di rimanere all’interno, purché uscisse quando era in atto la visita quotidiana alla paziente.
Sherlock, inoltre, lasciava il capezzale di Molly anche quando arrivavano altre persone a farle visita. Sapeva che la mareggiata di colleghi, conoscenti, amici e persino studenti si sarebbe rientrata nel giro di qualche giorno.
Non voleva che questi estranei gli ponessero delle domande, non voleva sentire le rotelle del loro cervello muoversi e dar fiato alla bocca con parole vuote rivolte alla patologa.
Così utilizzava i momenti in cui non poteva rimanere nella camera per camminare nel corridoio come un animale braccato, studiando con attenzione ogni passo che i medici muovevano dentro e fuori la stanza o quando passavano nelle sue vicinanze.

John cercò di fare del suo meglio per convincerlo ad uscire solo per prendere un po’ d’aria, ma di fronte a quell’irremovibilità dovette arrendersi. Iniziò quindi a portargli dei ricambi puliti e qualcosa di preparato dalla signora Hudson; a volte rimaneva in camera con lui, cercava di dedurlo ma il detective non lasciava trasparire nulla. John poteva solo leggere gli effetti fisici di quella situazione: le occhiaie violacee, i lineamenti tirati, l’aria sempre più assente.
Sherlock si esprimeva a monosillabi, si stava rinchiudendo in se stesso senza dargli la possibilità di aiutarlo. Perché doveva comportarsi da ragazzino ostinato?
Ogni volta che John gli chiedeva come stesse, Sherlock rispondeva che stava bene. Il medico avrebbe voluto sentire una risposta diversa da quella bugia. Ma quante volte anche lui aveva mentito? La mente di Sherlock cercava di difendersi da cose con cui non era pronta a confrontarsi. Forse sperava che affermare di stare bene l’avrebbe reso in qualche modo reale, anche se non era così.

Un giorno si era presentato persino Mycroft in tutta la sua pretenziosa e tronfia gloria. Dopo aver espresso il suo sincero rammarico per la situazione terribile occorsa alla dottoressa Hooper, gli aveva chiesto di incontrare i loro genitori per discutere di Eurus. Lo sguardo ostile e duro che gli rivolse Sherlock sarebbe dovuto bastare a incenerirlo. Mycroft aveva quindi sospirato ed era andato via senza aggiungere altro.

Sherlock si sentiva schiacciato da tutta quella pressione. Cercava di scuotersi di dosso quel senso di disagio, senza mai riuscirci.
Ogni volta che gli capitava di cedere alla stanchezza, riviveva in loop continuo gli eventi di quella notte. Molly, che lasciava cadere il telefono e perdeva conoscenza. Molly, che aveva stretto tra le braccia e adagiato sull’erba per riavviarle il cuore. Molly, che aveva detto di amarlo.
Il corridoio del suo palazzo mentale era fatto di assi di legno scricchiolanti. Molly era lì, accompagnata al fantasma di Victor Trevor. Si tenevano per mano e gli sorridevano. Poi gli davano le spalle, iniziavano a camminare e, per quanto corresse, lui non riusciva a raggiungerli.
Così si svegliava, il cuore gli batteva nel petto in una maniera strana e un nodo gli serrava la gola. Si tirava all’in piedi e guardava con aria febbrile i monitor per assicurarsi che lei fosse ancora viva.
Poi si lasciava cadere di nuovo inerme nella poltrona, chinando la testa tra le ginocchia. Quelli erano i risultati che aveva ottenuto. Tutto perché aveva ceduto anche lui alle emozioni, rinnegando la solitudine come sola protezione contro il mondo.
John avrebbe sicuramente decantato l’importanza dei sentimenti.
Lui avrebbe risposto che non avevano il potere di salvare nessuno.

Note del caso
Per chi se lo stesse chiedendo, questa è una camera iperbarica.

***
Ehilà, bentrovati!
Dunque, con questo capitolo, sempre molto gioioso, si conclude l’arco narrativo della puntata 4x03. I prossimi saranno dedicati all “analisi delle conseguenze”, termine che, come avrete notato, ricorre molto spesso in questa storia. Purtroppo la serie non ci ha dato troppe soddisfazioni dal punto di vista introspettivo di Sherlock. Il finale sarebbe dovuto essere un po’ più approfondito, secondo me.
Per quanto riguarda il resto beh, è difficile capire cosa ne pensate… non fraintendetemi, sono felice che qualcuno perda cinque minuti a leggere, però qualche riscontro è sempre ben accetto. Almeno così non penso che questa storia non se la fili nessuno XD
Vi auguro un buon weekend e ci ritroviamo la settimana prossima.
  
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