Capitolo
7°
Newborn
«Carlisle…
io… tu… cosa…?».
Avevo
iniziato a balbettare e, anche se non ne ero del tutto sicuro, le
probabilità
che al balbettio si fosse unito anche un certo tremore delle membra
erano alte.
Mi sentivo inerme, frastornato e spaventato. Mi trovavo davanti a una
situazione senza senso o, se mai ne aveva uno, non riuscivo in alcun
modo a
coglierlo. La testa iniziò a girarmi e per un attimo
desiderai di svenire
ancora e ripiombare nel buio indefinito di prima. Senza pensarci,
allungai una
mano dalle dita tremanti e sporche di sangue rappreso verso il mio
amico, per
poi posarla sulla sua spalla in un disperato gesto di smuoverlo e
attirarne
l’attenzione.
Ma
appena la punta delle mie dita sfiorò la stoffa della
camicia stropicciata che
indossava lui scattò come una molla, tanto da far sobbalzare
anche me per la
sorpresa. Senza nemmeno capire come ci fosse arrivato o anche solo
credendo impossibile
una tale velocità di movimento, un secondo dopo lo ritrovai
in piedi accanto al
bracciolo del divano, a debita distanza da me. Il suo petto si alzava
ed
abbassava velocemente sotto il respiro affannato, le pupille erano
dilatate e a
chiunque sarebbe parso di avere davanti un pazzo. E ancora una volta
provai una
paura tremenda, temendo che se avessi fatto anche solo un gesto innocuo
avrei
potuto scatenare la sua ira. Passammo in silenzio quella che mi parve
un’infinità di tempo, entrambi immobili come
statue, e ogni secondo che passava
più la mia confusione e il mio sconcerto aumentavano. E
intanto il mostro
dell’incubo iniziava sempre di più ad uscire dal
suo nascondiglio tra i miei
pensieri annebbiati.
«Hai paura del buio?».
La
sua voce mi giunse alle orecchie all’improvviso come i
cardini arrugginiti di
una vecchia porta, stridendo fin quasi a farmi venire la pelle
d’oca. Sobbalzai
per l’ennesima volta nel sentirlo rompere quel silenzio di
tomba senza alcun
preavviso. Alzai lo sguardo su di lui e notai che non si era mosso di
un
millimetro, il che mi fece perfino dubitare che fosse stato lui a
parlare.
«Ti
ho chiesto… Hai paura del buio?».
Questa
volta, vedendo le sue labbra articolare con precisione ogni singola
parola,
senza però guardarmi in faccia, bensì tenendo gli
occhi fissamente attaccati al
pavimento, ne ebbi la certezza. Ma che razza di domanda era mai quella?
Mi
trovavo in un luogo sconosciuto, coperto di sangue, in compagnia di una
persona
che credevo amica ma che al momento sembrava aver perso completamente
il senno
e perlopiù senza sapere cosa mi fosse mai
capitato… e lui cosa mi veniva a
chiedere?
«Io…
cosa?». Avevo paura di rispondere.
«Rispondi».
«No.
Io… non ho paura del buio». Almeno così
era sempre stato, anche se in quel
momento perfino l’aria che respiravo mi faceva rabbrividire.
Quel luogo
trasudava qualcosa di strano ed oscuro. Sbagliato.
«Bene.
Andiamo…».
Mi
voltò le spalle e si diresse con passo spedito ma rigido
verso la porta in
fondo alla stanza, che prima non avevo notato.
«Ehi,
aspetta! Andiamo dove?» esclamai istintivamente.
Carlisle
si fermò di botto, quasi fosse stato colpito alle spalle o
congelato
all’istante, e sempre con lo stesso stridio si
voltò a guardarmi. La luce del
lampadario lo colpì in pieno viso e ora più che
mai potei notare il riflesso
rossastro delle sue iridi, come due rubini incastonati in quel viso di
marmo
pieno di angoli e abbozzato rozzamente. Un tremito mi percorse da capo
a piedi.
In quel volto stravolto da non sapevo bene cosa non riuscivo a
riconoscere
niente che richiamasse la figura angelica che avevo conosciuto
all’ospedale.
«A
fare due passi». In un nanosecondo, come se fosse dotato
della velocità del
fulmine, fu accanto a me e mi strinse il polso in una morsa di ferro,
tanto che
mi sorpresi di non sentire le ossa scricchiolare sotto la sua stretta.
Quindi,
quasi fossi un bambino cocciuto che non vuole ubbidire, mi
trascinò di peso
verso la porta, capendo che lo stupore dovuto alla situazione aveva
rallentato
parecchio i miei movimenti.
«Non
temere, ti spiegherò tutto» mi sussurrò
all’orecchio mentre varcavamo la
soglia. «Tranquillo».
Un
sorriso sbilenco si contorse sul mio viso. In quel momento avrei potuto
fare di
tutto tranne che stare tranquillo, pensai mentre Carlisle mi trascinava
nelle
tenebre che avvolgevano il pianerottolo.
Appena
la porta che dava sulla strada si aprì silenziosa mi
ricredetti subito su
quello che avevo affermato poco prima. Sì, avevo paura del
buio, anzi più
precisamente di ciò che vi avrei potuto trovare dentro.
Delle risposte che vi avrei potuto
trovare
dentro. Eppure… mmm… non so, c’era
qualcosa di strano in quel tipo di buio. Era
di certo una delle nottate più scure che avessi mai visto,
data la mancanza
della luna e delle stelle coperte da uno sottile strato di nubi bigie.
Però,
nonostante tutto, riuscivo a scorgere fiammelle di luce in quel pozzo
nero
senza fondo. Più in là il palloncino aranciato di
un lampione bagnava della sua
luce artificiale un pezzo di marciapiede e un paio di cespugli di
un’aiuola lì
vicino. Mi stupii di riuscire a scorgere anche da quella distanza ogni
singola
foglia di ognuno dei cespugli, su cui scintillava una fresca e
cristallina
rugiada, che rifletteva la luce del lampione come tanti piccoli
cristalli
colorati. Attorno alla capocchia del lampione, che pareva prendere
fuoco,
danzavano tantissimi insetti, zanzare e falene, disegnando complesse
trame
nell’aria. E potevo distinguere i disegni neri in campo
marrone sulle ali delle
farfalle notturne, che ogni tanto parevano scomparire nel nulla appena
si
posavano ad esempio sul fusto del lampione. Ma io riuscivo comunque a
scorgerle. Rimasi esterrefatto da una tale presa di coscienza, sicuro
che
doveva esserci per forza qualcosa che non andava: infatti in una
situazione
normale i miei occhi sarebbero stati ciechi davanti a
quell’oscurità. Figurarsi
intuire così tanti particolari di un oggetto che si trovava
almeno a cento
metri da noi! Mi doveva essere successo qualcosa di strano in quella
stanza,
questo era indubbio. Senza accorgermene ero rimasto fermo immobile
appena fuori
la porta del palazzo, imbambolato a guardarmi attorno usufruendo della
mia
nuova e potente vista. Abbassai lo sguardo sul selciato e notai una
solitaria
formica che si trascinava stancamente lungo il bordo del marciapiede,
camminando parallela a un sottile rigagnolo d’acqua che
moriva in un tombino.
Inspirai a fondo e colsi l’odore caldo dell’asfalto
sotto i miei piedi; potei
perfino sentire il calore che aveva accumulato durante
un’afosa giornata
d’agosto esalare dalla terra in quelle ore più
fresche. L’odore dell’acqua sporca
e carica di polvere accompagnata dal gocciolio ritmico sul fondo del
tombino: plic, plic. Un botto mi
colse alle
spalle facendomi sobbalzare, prima di capire che si trattava
semplicemente
dello sbattere di alcune imposte nel palazzo di fianco. Alte e rauche
risa
provenivano, invece, da un gruppo di ubriachi in fondo alla strada: un
rantolo
di vento me ne portò perfino l’aspro e stridente
odore di alcol. Di fronte a
me, dall’altro lato della strada, intercettai il ticchettio
delle zampette
unghiate di un ratto che sguazzava in un cumulo d’immondizia.
Il suo musetto
nero e ispido dai piccoli occhi scintillanti come stelle sopra una
chiostra di
dentini appuntiti e affamati faceva ogni tanto capolino tra i rifiuti,
che
costituivano un’ampissima gamma di odori e particolari su
cui, però, preferii
non indagare. Mi voltai dall’altra parte arricciando il naso
e mi ritrovai a
faccia a faccia con Carlisle.
«Vogliamo
andare?» domandò leggermente scocciato e alzando
un sopracciglio.
«Sì…
scusa».
E
senza aggiungere altro lo seguii come un cagnolino ubbidiente. Mentre
camminavamo nessuno dei due osò parlare, Carlisle
perché era troppo concentrato
sulla strada da seguire, mentre io perché ero troppo
meravigliato da tutto ciò
che si proponeva ai miei nuovi sensi. Era come se fino a quel momento
avessi
vissuto bendato, anzi era come se non avessi vissuto affatto. Ora mi si
presentava un mondo completamente nuovo e a ogni passo mi rammaricavo
di quanto
fossi stato miope nella mia vita precedente. Sicuramente nessun umano
si sarebbe
mai accorto del complesso intreccio dell’erba a stretto
contatto con il
terreno… Ma quindi cos’ero diventato? E come lo
ero diventato? Perché di certo
non ero più l’Edward che un paio di giorni prima
(quanto tempo era passato?)
stava inevitabilmente morendo in un letto d’ospedale.
Preoccupato di lasciare
una traccia del suo passaggio sul mondo… mah!
Quell’Edward non sapeva neanche
che cosa fosse davvero il mondo!
Anche
Carlisle, analizzato con la mia nuova vista e il mio nuovo olfatto,
sembrava
diverso e per un attimo dubitai che fosse perfino la stessa persona che
avevo
conosciuto. I suoi capelli non erano semplicemente biondi, ma avevano
una
sfumatura più chiara che tendeva al platino e su cui la luce
s’infrangeva, così
che sembrava che la sua testa fosse coronata di stelle. La sua pelle
era seta
pura, senza la benché minima imperfezione, mentre le
sopracciglia disegnavano
un arco geometricamente perfetto sopra ogni occhio. Potevo distinguere
la
polvere attaccata a ogni singola ciglia, da cui si alzava ogni volta
che
sbatteva le palpebre. La sua pelle emanava un profumo indescrivibile,
una
fragranza che probabilmente era l’essenza della bellezza
stessa, anche se in
quel momento leggermente intaccata dall’odore ferroso del
sangue rappreso sui
suoi indumenti.
In
breve (a dire la verità non avevo prestato molta attenzione
ai miei passi o
alla strada, limitandomi a seguire Carlisle) arrivammo di fronte a un
grande
cancello in ferro battuto, decorato con ghirigori e foglie
d’acanto. Conoscevo
quel luogo… I
miei passi avevano calcato
quel selciato decine di volte, il mio sguardo si era soffermato a
osservare le
frasche degli alberi che spuntavano da sopra la cancellata decine di
volte, i
miei pensieri erano volati sopra quelle linee verdi e flessuose decine
di volte
in giornate assolate dove il caos della città era vinto
dalla calma di quel
parco. Dopo scuola, nelle tiepide giornate di aprile e maggio, ci
passavo
spesso e magari ci sostavo per un paio d’ore sdraiato
sull’erba con in mano un
buon libro. A volte in compagnia, molto più frequentemente
da solo. Era un
momento in cui potevo staccare la mente dal mondo reale e lasciarmi
cullare
dalle mie riflessioni fantasiose e a volte strampalate. Ricordai
l’ultima volta
a cui avevo pensato a quel posto paradisiaco: era stato quando ero
ancora in
ospedale. Certo, ricordavo: dalla finestra dell’ospedale si
poteva godere di
un’ottima vista del parco. Per questo non era un caso che
Carlisle mi avesse
condotto proprio lì… ma a quale scopo?
Per
la seconda volta mi ero perso nei miei vagheggiamenti e quando il mio
compagno
riuscì finalmente a richiamare la mia attenzione lo vidi che
mi chiamava dall’altra
parte del cancello.
«Edward!»
esclamò e ora pareva aver riacquistato un po’ di
fredda razionalità. «Vieni!».
«Ma…
come?» balbettai. Non l’avevo nemmeno visto
scavalcare il cancello o passare
attraverso qualche passaggio nascosto… E se a
quell’ora di notte il parco era
chiuso c’erano delle buone ragioni; era già tanto
che non ci fossero guardie in
giro, pensai.
«Non
potremmo entrare! Non si può! È chiuso! Poi che
cosa vorresti mai fare?»
insistei.
Carlisle
sbuffò. «Muoviti e lo capirai».
«Ma
come faccio a…?». In effetti il cancello era
troppo alto per scavalcarlo con
facilità.
«Salta».
«Salta?
Ma… ma ti sei bevuto il cervello per caso? È
assolutamente impossibile!».
«Come
fai a dire che è impossibile se non ci hai neanche
provato?».
Inspirai
a fondo e sondai il cancello per cercare qualche possibile appiglio, ma
niente:
era una fortezza.
«Fidati:
salta e vedrai».
E
se le mie nuove doti che avevo appena sperimentato fossero state estese
anche
a… be’, altro? Chiusi gli occhi e feci per
spiccare un salto in direzione del
cancello, già pronto a sentire il freddo metallo delle
sbarre stamparsi contro
la mia faccia con un tonfo metallico. Invece, con mia immensa sorpresa,
mi
ritrovai dall’altra parte, del tutto incolume
nonché in piedi di fianco a
Carlisle, che ora mi sorrideva. Era come se mi fossi teletrasportato
dall’altra
parte senza fare il benché minimo movimento, anche se lo
spostamento d’aria che
avevo sentito scostarmi i capelli dalla fronte era stato
straordinariamente
forte e breve. Ciò significava che ero diventato una specie
di supereroe
incredibilmente veloce e forte? Cercai gli occhi del mio amico in cerca
di
rispose, ma come al solito non ne trovai, visto che lui si stava
già dirigendo
a passo spedito verso la parte più buia del giardino. Scossi
la testa e lo
seguii: ero curioso di sapere dove mi avrebbe condotto quella strana
avventura.
Mi
sembrava così strano camminare ancora una volta in quel
luogo, cosa che non
credevo sarebbe mai stato possibile. L’aria della notte era
tiepida e le cicale
frinivano tra le erbe. In fondo al parco, in mezzo a folti cespugli,
baluginava
qua e là la luce intermittente di qualche lucciola. Non ero
mai venuto in quel
posto di notte, ma di certo, mi dissi, forse anche grazie ai miei nuovi
sensi
sviluppati, era il luogo più bello che avessi mai visto. E
pensare che a due
passi da lì avevo vissuto la più grande tragedia
della mia vita. Chissà se la
mamma era ancora là? Mi venne un’idea: magari
sarei potuto andare a trovarla,
per farle vedere che ora stavo bene e che non doveva più
preoccuparsi per me,
che l’avrei curata io d’ora in poi.
M’avvicinai a Carlisle per comunicargli la
mia idea, sicuro che avrebbe accettato visto che sapevo quanto anche
lui avesse
a cuore la salute della mamma. Però, appena feci per aprire
bocca, lui mi zittì
con un cenno e svoltò nel primo vialetto a destra. Anche se
era buio pesto
potevo scorgere la sua espressione concentrata, su cui però
affiorava una forte
dose d’ansia. Dopo che avemmo camminato per altri cinque
minuti tra i vialetti
bui del parco, illuminati qua è là da qualche
sporadico lampione, la cui luce
aranciata si univa al verde inteso degli alberi, iniziai a
spazientirmi. Stavo
per chiedergli dove accidenti fossimo diretti, quando lui mi
zittì di nuovo.
Alla fine arrivammo a un altro cancello, più piccolo del
precedente, che però
non ricordavo di aver mai visto. Fui sicuro di poterlo scavalcare
facilmente,
ma Carlisle invece si mise a trafficare con le catene che lo chiudevano
e in
breve le sciolse, sempre con mio grande stupore. Quando il piccolo
cancello a
un solo battente, che si mimetizzava benissimo tra due piccoli cipressi
ingialliti dalla siccità, s’aprii con un rumore
vellutato sui cardini ben
oliati, lo riconobbi. Non avevo mai avuto occasione di varcarlo, per
fortuna.
Infatti, come già detto, l’ospedale dava sul parco
e proprio in quell’angolo
confinante con il giardino era situata la piccola cappella annessa
all’obitorio, dove venivano allestite le camere ardenti.
Negli ultimi anni, da
quando l’epidemia si era diffusa in città e i
cimiteri, come gli ospedali,
trasbordavano di povera gente, si era deciso di adibire un pezzo del
terreno
della cappella a campo santo. Ma che c’entrava quel luogo con
me?
«Mi
dispiace dover essere così drastico con te. Davvero, mi sto
odiando per quello
che sto per fare… be’, e per quello che ho fatto.
Ma credo che il modo migliore
per prenderne atto sia vederlo con i tuoi stessi occhi. Perdonami se
puoi»
sussurrò Carlisle abbassando il capo, così che
non potei scorgere il suo volto,
mentre passavamo davanti all’entrata della cappella. Ma per
me quelle parole
non avevano nessunissimo senso. O forse l’avrebbero avuto da
lì a breve. Non ci
spingemmo più in là: giusto quanto bastava per
incontrare le prime lapidi di
quel piccolo cimitero improvvisato. Potevo percepire le
irregolarità del
terreno sotto i miei piedi e uno viscido odore di putrefazione che
aleggiava
nell’aria. Mi voltai verso il mio amico medico con sguardo
interrogativo.
«Seconda
fila terza da destra» mi rispose semplicemente.
«Vai da solo. È meglio che ti
aspetti qui».
Detto ciò si sedette rannicchiandosi sui gradi della cappella, chiuse gli occhi ed intrecciò le mani sotto al mento: fui più che sicuro che aveva ricominciato a pregare. Ma non feci troppo caso a quelle stranezze (che erano troppe per essere prese in considerazione tutte in una notte), e mi avviai verso la lapide che mi aveva indicato, incuriosito. Di chi mai doveva essere? Perché doveva interessarmi? Perché Carlisle aveva preferito rimanere in disparte? La luce era pochissima, le lapidi semplici di pietra grigia senza nemmeno un fiore tutte uguali e fredde. Era proprio come all’ospedale: tante persone tutte accumunate dalla stessa terribile sorte. Il nome di ognuno era scolpito con magistrale attenzione e si potevano riconoscere senza difficoltà le tombe più recenti. E la fila che mi aveva indicato era molto recente: la terra era ancora smossa e le sepolture dovevano risalire a non più di qualche giorno addietro. Finalmente arrivai alla meta e lessi con viva curiosità.
? – 2-8-1918
«No…».
Rimasi
senza fiato e sbattei le palpebre. Rilessi frettolosamente un paio di
volte,
certo di aver interpretato male la scritta. No, dovevo ricredermi,
avevo letto
benissimo. Dunque era morta? La notizia mi colpì in pieno
con la potenza di un
meteorite, devastandomi e facendomi tremare le ginocchia, che non
ressero a
lungo quel peso e mi abbandonarono ben presto a terra. Affondai le dita
nella
terra ancora umida e per un attimo mi passò per la testa il
pensiero di
mettermi a scavare e di ritrovarla ancora lì, sotto quella
coltre di terriccio,
ancora sorridente e pronta ad abbracciarmi ancora una volta. Ero sicuro
che mi
sarei messo a piangere, invece, malgrado mi sforzassi in tutti i modi,
non
riuscii a cavarne una lacrima da quei nuovi occhi. E pensare che solo
poco
prima, prima di varcare quella maledetta soglia, avevo immaginato
quanto le
avrebbe fatto piacere rivedermi. Già, rivedermi. Non
l’avrei mai più rivista.
Dovevo morire io, io, IO! Al suo posto… Perché a
lei avevano permesso di
andarsene così e a me no, e a me avevano assegnato quel
destino, che non sapevo
ancora bene in cosa consistesse. Ora che anche la mamma mi aveva
abbandonato su
che pilastro avrei poggiato la mia esistenza? Avevo solo diciassette
anni: dove
potevo andare? Cosa potevo fare? Gemetti e gemetti ancora come un cane
in
agonia, ma di piangere non se ne parlava neanche, non ci riuscivo. E
così era
questa la cosa che Carlisle non sapeva come dirmi, la cosa che con i
miei occhi
avrei potuto capire meglio: che mia madre era… No, non
potevo dire quella
parola, sarebbe stato come accettare che non c’erano altre
possibilità, che quella
era l’unica realtà e io non volevo in alcun modo
crederci. Ero solo e smarrito
e in quel frangente desiderai ardentemente di ritornare agonizzante in
quel
letto, per poi raggiungere mia madre in quel piccolo cimitero. Come
tutti gli
altri. Come era stato mio destino fin dall’inizio. E rimanere
con lei per
sempre. Via da questa vita immonda.
Un
paio di mani forti m’afferrarono da sotto le ascelle e mi
tirarono su di penso.
Io non mi opposi e barcollai un poco prima di riuscire a reggermi in
piedi.
Avrei tanto voluto potermi sdraiare lì e rimanerci in
eterno… Carlisle mi passo
un braccio attorno alle spalle per farmi coraggio, ma non ci badai
molto perché
mi girava la testa e mi sentivo totalmente intontito dal dolore. Credo
che mi
avesse anche sussurrato qualcosa all’orecchio, che
però non compresi. Ero
improvvisamente ripiombato nel paradiso fluttuante di prima, che
però non era
più un paradiso ma solo una massa di ricordi appuntiti che
galleggiavano
attorno a me ferendomi ad uno ad uno. E tutto girava attorno a me come
una
giostra. Ma all’improvviso la giostra si fermò e
qualcosa mi fece ripiombare
bruscamente nella realtà.
Uno
strano odore mi giunse alle narici, risvegliando in me qualcosa di
nuovo e
terribile. Era difficile da descrivere, anche perché non
l’avevo mai sentito in
vita mia, ma ai miei nuovi sensi suonò come qualcosa di
gustoso e magnifico. Latte
e miele. Questa fu la prima associazione abbastanza adatta che mi venne
in
mente. Quel profumo così invitante mi entrò nel
naso, scese nella gola e mi
riempì i polmoni, cullandomi e allo stesso tempo
frastornandomi come una
potente droga. Per un attimo, anche se sentivo Carlisle chiamarmi, non
capii
più nemmeno dove mi trovavo. Poi ripresi coscienza
bruscamente e con uno
sguardo febbrile ricercai la fonte di quel profumo paradisiaco. Un paio
di
uomini erano appena usciti dalla cappella, trasportando una pesante
bara, che
ora stava adagiando nella fossa a essa destinata. Sentivo i loro
respiri
affannati perdersi nell’aria, i loro muscoli contrarsi sotto
il peso della
cassa, il sudore colare sulle loro fronti e le vene ingrossarsi per il
caldo. Le
vene… Era da lì, mi resi conto con un brivido di
piacere che mi stupì, che
proveniva quel sapore che avevo iniziato a bramare così
tanto. Era il loro
sangue che chiamava la mia gola riarsa e che ormai pareva carta vetrata
da
tanto era assetata. In un’altra occasione oppure nella mia
precedente vita
sarei rimasto disgustato davanti alla prospettiva di bere sangue umano.
Ora,
invece, l’idea non mi ripugnava affatto, anzi agognavo a quel
liquido rosso
come alla fonte primaria di vita. Senza pensare, ormai dimentico del
dolore e
della tomba di mia madre e completamente impazzito da
quell’odore, feci per
fiondarmi sui due uomini, che non avevano per niente notato la nostra
presenza.
«Edward,
no!». Una voce
m’ammonì alle spalle,
ma non le diedi ascolto. Poi qualcosa mi afferrò bruscamente
per un braccio,
facendomi cadere a terra e sbattere la testa contro una lapide. Rimasi
a terra
inebetito per qualche secondo, che bastò
all’aggressore alle mie spalle, che
senza dubbio doveva essere Carlisle, per raccogliermi e portarmi via di
voltata.
Lontano da quella tentazione.
Scusate tanto: avevo intenzione di aggiornare qualche giorno fa, ma purtroppo sono stata malata e non ne ho avuta l'occasione. Comunque... Ho deciso di dividere la presa di coscienza di Ed della sua nuova natura in due parti: una più legata alle sensazioni (questo chap) e un'altra in cui ci sarà una spiegazione più razionale (il prossimo chap). Come il precedente, anche questo è stato un capitolo abbastanza difficile da scrivere: come ci si sente a essere un vampiro? Eh, bella domanda... Be', spero che anche questo episodio sia stato di vostro gradimento! Ringrazio:
tess89: grazie mille per i complimenti, sono sempre ben graditi! ^^ Per quanto riguarda la domanda, mi dispiace ma non posso risponderti subito. Lo vedrai continuando a leggere! Quindi seguimi e recensisci!
Ale78: Kipling hai detto? Mmmm, fin ora non ho mai avuto occasione di leggere niente di lui, ma ti assicuro che appeno posso vedrò se riesco a reggere il paragone! Grazie anche a te!
Jadis96: nono, figurati! Anche se la frequenza degli aggiornamenti non è proprio il massimo la continuerò fino alla fine. Grazie e a presto!
Wind: un rigraziamento grande grande anche a te! Sono sempre contenta di sentirmi dire che mi so immedesimare bene nei miei personaggi, visto che per me è fondamentale!
Faby hale:
addirittura il capitolo più bello? Ooooh ma così
mi fai arrossire Xd Be' come al solito non mi lasci molto da commentare
visto che hai già detto tutto tu. Anche questa volta sei
riuscita a cogliere il significato di base dell'opera: brava! Non so se
te l'ho già detto (probabilmente sì) ma credo che
potresti essere un'ottima critica letteraria! Inoltre mi piace che tu
abbia usato la parola visione, visto che quando scrivo mi capita
proprio così: sono visioni, immagini di un film che "vomito"
sulla carta... Un ultima cosa: ho deciso di inserire un'analessi di
Bella e la radura anche per distaccarmi dalla versione della
trasformazione data dalla Meyer. Grazie 1000 per i tuoi fantastici
(come al solito) complimenti!