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Autore: Elizabeth_Keats    09/06/2009    2 recensioni
"Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato." Breve ff sugli ultimi giorni di Edward da umano, la sua malattia e la vita ritrovata dopo la trasformazione in vampiro grazie a Carlisle. Recensite!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7°

Newborn


«Carlisle… io… tu… cosa…?».

Avevo iniziato a balbettare e, anche se non ne ero del tutto sicuro, le probabilità che al balbettio si fosse unito anche un certo tremore delle membra erano alte. Mi sentivo inerme, frastornato e spaventato. Mi trovavo davanti a una situazione senza senso o, se mai ne aveva uno, non riuscivo in alcun modo a coglierlo. La testa iniziò a girarmi e per un attimo desiderai di svenire ancora e ripiombare nel buio indefinito di prima. Senza pensarci, allungai una mano dalle dita tremanti e sporche di sangue rappreso verso il mio amico, per poi posarla sulla sua spalla in un disperato gesto di smuoverlo e attirarne l’attenzione.

Ma appena la punta delle mie dita sfiorò la stoffa della camicia stropicciata che indossava lui scattò come una molla, tanto da far sobbalzare anche me per la sorpresa. Senza nemmeno capire come ci fosse arrivato o anche solo credendo impossibile una tale velocità di movimento, un secondo dopo lo ritrovai in piedi accanto al bracciolo del divano, a debita distanza da me. Il suo petto si alzava ed abbassava velocemente sotto il respiro affannato, le pupille erano dilatate e a chiunque sarebbe parso di avere davanti un pazzo. E ancora una volta provai una paura tremenda, temendo che se avessi fatto anche solo un gesto innocuo avrei potuto scatenare la sua ira. Passammo in silenzio quella che mi parve un’infinità di tempo, entrambi immobili come statue, e ogni secondo che passava più la mia confusione e il mio sconcerto aumentavano. E intanto il mostro dell’incubo iniziava sempre di più ad uscire dal suo nascondiglio tra i miei pensieri annebbiati.

«Hai paura del buio?».

La sua voce mi giunse alle orecchie all’improvviso come i cardini arrugginiti di una vecchia porta, stridendo fin quasi a farmi venire la pelle d’oca. Sobbalzai per l’ennesima volta nel sentirlo rompere quel silenzio di tomba senza alcun preavviso. Alzai lo sguardo su di lui e notai che non si era mosso di un millimetro, il che mi fece perfino dubitare che fosse stato lui a parlare.

«Ti ho chiesto… Hai paura del buio?».

Questa volta, vedendo le sue labbra articolare con precisione ogni singola parola, senza però guardarmi in faccia, bensì tenendo gli occhi fissamente attaccati al pavimento, ne ebbi la certezza. Ma che razza di domanda era mai quella? Mi trovavo in un luogo sconosciuto, coperto di sangue, in compagnia di una persona che credevo amica ma che al momento sembrava aver perso completamente il senno e perlopiù senza sapere cosa mi fosse mai capitato… e lui cosa mi veniva a chiedere?

«Io… cosa?». Avevo paura di rispondere.

«Rispondi».

«No. Io… non ho paura del buio». Almeno così era sempre stato, anche se in quel momento perfino l’aria che respiravo mi faceva rabbrividire. Quel luogo trasudava qualcosa di strano ed oscuro. Sbagliato.

«Bene. Andiamo…».

Mi voltò le spalle e si diresse con passo spedito ma rigido verso la porta in fondo alla stanza, che prima non avevo notato.

«Ehi, aspetta! Andiamo dove?» esclamai istintivamente.

Carlisle si fermò di botto, quasi fosse stato colpito alle spalle o congelato all’istante, e sempre con lo stesso stridio si voltò a guardarmi. La luce del lampadario lo colpì in pieno viso e ora più che mai potei notare il riflesso rossastro delle sue iridi, come due rubini incastonati in quel viso di marmo pieno di angoli e abbozzato rozzamente. Un tremito mi percorse da capo a piedi. In quel volto stravolto da non sapevo bene cosa non riuscivo a riconoscere niente che richiamasse la figura angelica che avevo conosciuto all’ospedale.

«A fare due passi». In un nanosecondo, come se fosse dotato della velocità del fulmine, fu accanto a me e mi strinse il polso in una morsa di ferro, tanto che mi sorpresi di non sentire le ossa scricchiolare sotto la sua stretta. Quindi, quasi fossi un bambino cocciuto che non vuole ubbidire, mi trascinò di peso verso la porta, capendo che lo stupore dovuto alla situazione aveva rallentato parecchio i miei movimenti.

«Non temere, ti spiegherò tutto» mi sussurrò all’orecchio mentre varcavamo la soglia. «Tranquillo».

Un sorriso sbilenco si contorse sul mio viso. In quel momento avrei potuto fare di tutto tranne che stare tranquillo, pensai mentre Carlisle mi trascinava nelle tenebre che avvolgevano il pianerottolo.

 

Appena la porta che dava sulla strada si aprì silenziosa mi ricredetti subito su quello che avevo affermato poco prima. Sì, avevo paura del buio, anzi più precisamente di ciò che vi avrei potuto trovare dentro. Delle risposte che vi avrei potuto trovare dentro. Eppure… mmm… non so, c’era qualcosa di strano in quel tipo di buio. Era di certo una delle nottate più scure che avessi mai visto, data la mancanza della luna e delle stelle coperte da uno sottile strato di nubi bigie. Però, nonostante tutto, riuscivo a scorgere fiammelle di luce in quel pozzo nero senza fondo. Più in là il palloncino aranciato di un lampione bagnava della sua luce artificiale un pezzo di marciapiede e un paio di cespugli di un’aiuola lì vicino. Mi stupii di riuscire a scorgere anche da quella distanza ogni singola foglia di ognuno dei cespugli, su cui scintillava una fresca e cristallina rugiada, che rifletteva la luce del lampione come tanti piccoli cristalli colorati. Attorno alla capocchia del lampione, che pareva prendere fuoco, danzavano tantissimi insetti, zanzare e falene, disegnando complesse trame nell’aria. E potevo distinguere i disegni neri in campo marrone sulle ali delle farfalle notturne, che ogni tanto parevano scomparire nel nulla appena si posavano ad esempio sul fusto del lampione. Ma io riuscivo comunque a scorgerle. Rimasi esterrefatto da una tale presa di coscienza, sicuro che doveva esserci per forza qualcosa che non andava: infatti in una situazione normale i miei occhi sarebbero stati ciechi davanti a quell’oscurità. Figurarsi intuire così tanti particolari di un oggetto che si trovava almeno a cento metri da noi! Mi doveva essere successo qualcosa di strano in quella stanza, questo era indubbio. Senza accorgermene ero rimasto fermo immobile appena fuori la porta del palazzo, imbambolato a guardarmi attorno usufruendo della mia nuova e potente vista. Abbassai lo sguardo sul selciato e notai una solitaria formica che si trascinava stancamente lungo il bordo del marciapiede, camminando parallela a un sottile rigagnolo d’acqua che moriva in un tombino. Inspirai a fondo e colsi l’odore caldo dell’asfalto sotto i miei piedi; potei perfino sentire il calore che aveva accumulato durante un’afosa giornata d’agosto esalare dalla terra in quelle ore più fresche. L’odore dell’acqua sporca e carica di polvere accompagnata dal gocciolio ritmico sul fondo del tombino: plic, plic. Un botto mi colse alle spalle facendomi sobbalzare, prima di capire che si trattava semplicemente dello sbattere di alcune imposte nel palazzo di fianco. Alte e rauche risa provenivano, invece, da un gruppo di ubriachi in fondo alla strada: un rantolo di vento me ne portò perfino l’aspro e stridente odore di alcol. Di fronte a me, dall’altro lato della strada, intercettai il ticchettio delle zampette unghiate di un ratto che sguazzava in un cumulo d’immondizia. Il suo musetto nero e ispido dai piccoli occhi scintillanti come stelle sopra una chiostra di dentini appuntiti e affamati faceva ogni tanto capolino tra i rifiuti, che costituivano un’ampissima gamma di odori e particolari su cui, però, preferii non indagare. Mi voltai dall’altra parte arricciando il naso e mi ritrovai a faccia a faccia con Carlisle.

«Vogliamo andare?» domandò leggermente scocciato e alzando un sopracciglio.

«Sì… scusa».

E senza aggiungere altro lo seguii come un cagnolino ubbidiente. Mentre camminavamo nessuno dei due osò parlare, Carlisle perché era troppo concentrato sulla strada da seguire, mentre io perché ero troppo meravigliato da tutto ciò che si proponeva ai miei nuovi sensi. Era come se fino a quel momento avessi vissuto bendato, anzi era come se non avessi vissuto affatto. Ora mi si presentava un mondo completamente nuovo e a ogni passo mi rammaricavo di quanto fossi stato miope nella mia vita precedente. Sicuramente nessun umano si sarebbe mai accorto del complesso intreccio dell’erba a stretto contatto con il terreno… Ma quindi cos’ero diventato? E come lo ero diventato? Perché di certo non ero più l’Edward che un paio di giorni prima (quanto tempo era passato?) stava inevitabilmente morendo in un letto d’ospedale. Preoccupato di lasciare una traccia del suo passaggio sul mondo… mah! Quell’Edward non sapeva neanche che cosa fosse davvero il mondo!

Anche Carlisle, analizzato con la mia nuova vista e il mio nuovo olfatto, sembrava diverso e per un attimo dubitai che fosse perfino la stessa persona che avevo conosciuto. I suoi capelli non erano semplicemente biondi, ma avevano una sfumatura più chiara che tendeva al platino e su cui la luce s’infrangeva, così che sembrava che la sua testa fosse coronata di stelle. La sua pelle era seta pura, senza la benché minima imperfezione, mentre le sopracciglia disegnavano un arco geometricamente perfetto sopra ogni occhio. Potevo distinguere la polvere attaccata a ogni singola ciglia, da cui si alzava ogni volta che sbatteva le palpebre. La sua pelle emanava un profumo indescrivibile, una fragranza che probabilmente era l’essenza della bellezza stessa, anche se in quel momento leggermente intaccata dall’odore ferroso del sangue rappreso sui suoi indumenti.

In breve (a dire la verità non avevo prestato molta attenzione ai miei passi o alla strada, limitandomi a seguire Carlisle) arrivammo di fronte a un grande cancello in ferro battuto, decorato con ghirigori e foglie d’acanto. Conoscevo quel luogo…  I miei passi avevano calcato quel selciato decine di volte, il mio sguardo si era soffermato a osservare le frasche degli alberi che spuntavano da sopra la cancellata decine di volte, i miei pensieri erano volati sopra quelle linee verdi e flessuose decine di volte in giornate assolate dove il caos della città era vinto dalla calma di quel parco. Dopo scuola, nelle tiepide giornate di aprile e maggio, ci passavo spesso e magari ci sostavo per un paio d’ore sdraiato sull’erba con in mano un buon libro. A volte in compagnia, molto più frequentemente da solo. Era un momento in cui potevo staccare la mente dal mondo reale e lasciarmi cullare dalle mie riflessioni fantasiose e a volte strampalate. Ricordai l’ultima volta a cui avevo pensato a quel posto paradisiaco: era stato quando ero ancora in ospedale. Certo, ricordavo: dalla finestra dell’ospedale si poteva godere di un’ottima vista del parco. Per questo non era un caso che Carlisle mi avesse condotto proprio lì… ma a quale scopo?

Per la seconda volta mi ero perso nei miei vagheggiamenti e quando il mio compagno riuscì finalmente a richiamare la mia attenzione lo vidi che mi chiamava dall’altra parte del cancello.

«Edward!» esclamò e ora pareva aver riacquistato un po’ di fredda razionalità. «Vieni!».

«Ma… come?» balbettai. Non l’avevo nemmeno visto scavalcare il cancello o passare attraverso qualche passaggio nascosto… E se a quell’ora di notte il parco era chiuso c’erano delle buone ragioni; era già tanto che non ci fossero guardie in giro, pensai.

«Non potremmo entrare! Non si può! È chiuso! Poi che cosa vorresti mai fare?» insistei.

Carlisle sbuffò. «Muoviti e lo capirai».

«Ma come faccio a…?». In effetti il cancello era troppo alto per scavalcarlo con facilità.

«Salta».

«Salta? Ma… ma ti sei bevuto il cervello per caso? È assolutamente impossibile!».

«Come fai a dire che è impossibile se non ci hai neanche provato?».

Inspirai a fondo e sondai il cancello per cercare qualche possibile appiglio, ma niente: era una fortezza.

«Fidati: salta e vedrai».

E se le mie nuove doti che avevo appena sperimentato fossero state estese anche a… be’, altro? Chiusi gli occhi e feci per spiccare un salto in direzione del cancello, già pronto a sentire il freddo metallo delle sbarre stamparsi contro la mia faccia con un tonfo metallico. Invece, con mia immensa sorpresa, mi ritrovai dall’altra parte, del tutto incolume nonché in piedi di fianco a Carlisle, che ora mi sorrideva. Era come se mi fossi teletrasportato dall’altra parte senza fare il benché minimo movimento, anche se lo spostamento d’aria che avevo sentito scostarmi i capelli dalla fronte era stato straordinariamente forte e breve. Ciò significava che ero diventato una specie di supereroe incredibilmente veloce e forte? Cercai gli occhi del mio amico in cerca di rispose, ma come al solito non ne trovai, visto che lui si stava già dirigendo a passo spedito verso la parte più buia del giardino. Scossi la testa e lo seguii: ero curioso di sapere dove mi avrebbe condotto quella strana avventura.

Mi sembrava così strano camminare ancora una volta in quel luogo, cosa che non credevo sarebbe mai stato possibile. L’aria della notte era tiepida e le cicale frinivano tra le erbe. In fondo al parco, in mezzo a folti cespugli, baluginava qua e là la luce intermittente di qualche lucciola. Non ero mai venuto in quel posto di notte, ma di certo, mi dissi, forse anche grazie ai miei nuovi sensi sviluppati, era il luogo più bello che avessi mai visto. E pensare che a due passi da lì avevo vissuto la più grande tragedia della mia vita. Chissà se la mamma era ancora là? Mi venne un’idea: magari sarei potuto andare a trovarla, per farle vedere che ora stavo bene e che non doveva più preoccuparsi per me, che l’avrei curata io d’ora in poi. M’avvicinai a Carlisle per comunicargli la mia idea, sicuro che avrebbe accettato visto che sapevo quanto anche lui avesse a cuore la salute della mamma. Però, appena feci per aprire bocca, lui mi zittì con un cenno e svoltò nel primo vialetto a destra. Anche se era buio pesto potevo scorgere la sua espressione concentrata, su cui però affiorava una forte dose d’ansia. Dopo che avemmo camminato per altri cinque minuti tra i vialetti bui del parco, illuminati qua è là da qualche sporadico lampione, la cui luce aranciata si univa al verde inteso degli alberi, iniziai a spazientirmi. Stavo per chiedergli dove accidenti fossimo diretti, quando lui mi zittì di nuovo. Alla fine arrivammo a un altro cancello, più piccolo del precedente, che però non ricordavo di aver mai visto. Fui sicuro di poterlo scavalcare facilmente, ma Carlisle invece si mise a trafficare con le catene che lo chiudevano e in breve le sciolse, sempre con mio grande stupore. Quando il piccolo cancello a un solo battente, che si mimetizzava benissimo tra due piccoli cipressi ingialliti dalla siccità, s’aprii con un rumore vellutato sui cardini ben oliati, lo riconobbi. Non avevo mai avuto occasione di varcarlo, per fortuna. Infatti, come già detto, l’ospedale dava sul parco e proprio in quell’angolo confinante con il giardino era situata la piccola cappella annessa all’obitorio, dove venivano allestite le camere ardenti. Negli ultimi anni, da quando l’epidemia si era diffusa in città e i cimiteri, come gli ospedali, trasbordavano di povera gente, si era deciso di adibire un pezzo del terreno della cappella a campo santo. Ma che c’entrava quel luogo con me?

«Mi dispiace dover essere così drastico con te. Davvero, mi sto odiando per quello che sto per fare… be’, e per quello che ho fatto. Ma credo che il modo migliore per prenderne atto sia vederlo con i tuoi stessi occhi. Perdonami se puoi» sussurrò Carlisle abbassando il capo, così che non potei scorgere il suo volto, mentre passavamo davanti all’entrata della cappella. Ma per me quelle parole non avevano nessunissimo senso. O forse l’avrebbero avuto da lì a breve. Non ci spingemmo più in là: giusto quanto bastava per incontrare le prime lapidi di quel piccolo cimitero improvvisato. Potevo percepire le irregolarità del terreno sotto i miei piedi e uno viscido odore di putrefazione che aleggiava nell’aria. Mi voltai verso il mio amico medico con sguardo interrogativo.

«Seconda fila terza da destra» mi rispose semplicemente. «Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui».

Detto ciò si sedette rannicchiandosi sui gradi della cappella, chiuse gli occhi ed intrecciò le mani sotto al mento: fui più che sicuro che aveva ricominciato a pregare. Ma non feci troppo caso a quelle stranezze (che erano troppe per essere prese in considerazione tutte in una notte), e mi avviai verso la lapide che mi aveva indicato, incuriosito. Di chi mai doveva essere? Perché doveva interessarmi? Perché Carlisle aveva preferito rimanere in disparte? La luce era pochissima, le lapidi semplici di pietra grigia senza nemmeno un fiore tutte uguali e fredde. Era proprio come all’ospedale: tante persone tutte accumunate dalla stessa terribile sorte. Il nome di ognuno era scolpito con magistrale attenzione e si potevano riconoscere senza difficoltà le tombe più recenti. E la fila che mi aveva indicato era molto recente: la terra era ancora smossa e le sepolture dovevano risalire a non più di qualche giorno addietro. Finalmente arrivai alla meta e lessi con viva curiosità.

ELIZABETH MASEN
? – 2-8-1918

«No…».

Rimasi senza fiato e sbattei le palpebre. Rilessi frettolosamente un paio di volte, certo di aver interpretato male la scritta. No, dovevo ricredermi, avevo letto benissimo. Dunque era morta? La notizia mi colpì in pieno con la potenza di un meteorite, devastandomi e facendomi tremare le ginocchia, che non ressero a lungo quel peso e mi abbandonarono ben presto a terra. Affondai le dita nella terra ancora umida e per un attimo mi passò per la testa il pensiero di mettermi a scavare e di ritrovarla ancora lì, sotto quella coltre di terriccio, ancora sorridente e pronta ad abbracciarmi ancora una volta. Ero sicuro che mi sarei messo a piangere, invece, malgrado mi sforzassi in tutti i modi, non riuscii a cavarne una lacrima da quei nuovi occhi. E pensare che solo poco prima, prima di varcare quella maledetta soglia, avevo immaginato quanto le avrebbe fatto piacere rivedermi. Già, rivedermi. Non l’avrei mai più rivista. Dovevo morire io, io, IO! Al suo posto… Perché a lei avevano permesso di andarsene così e a me no, e a me avevano assegnato quel destino, che non sapevo ancora bene in cosa consistesse. Ora che anche la mamma mi aveva abbandonato su che pilastro avrei poggiato la mia esistenza? Avevo solo diciassette anni: dove potevo andare? Cosa potevo fare? Gemetti e gemetti ancora come un cane in agonia, ma di piangere non se ne parlava neanche, non ci riuscivo. E così era questa la cosa che Carlisle non sapeva come dirmi, la cosa che con i miei occhi avrei potuto capire meglio: che mia madre era… No, non potevo dire quella parola, sarebbe stato come accettare che non c’erano altre possibilità, che quella era l’unica realtà e io non volevo in alcun modo crederci. Ero solo e smarrito e in quel frangente desiderai ardentemente di ritornare agonizzante in quel letto, per poi raggiungere mia madre in quel piccolo cimitero. Come tutti gli altri. Come era stato mio destino fin dall’inizio. E rimanere con lei per sempre. Via da questa vita immonda.

Un paio di mani forti m’afferrarono da sotto le ascelle e mi tirarono su di penso. Io non mi opposi e barcollai un poco prima di riuscire a reggermi in piedi. Avrei tanto voluto potermi sdraiare lì e rimanerci in eterno… Carlisle mi passo un braccio attorno alle spalle per farmi coraggio, ma non ci badai molto perché mi girava la testa e mi sentivo totalmente intontito dal dolore. Credo che mi avesse anche sussurrato qualcosa all’orecchio, che però non compresi. Ero improvvisamente ripiombato nel paradiso fluttuante di prima, che però non era più un paradiso ma solo una massa di ricordi appuntiti che galleggiavano attorno a me ferendomi ad uno ad uno. E tutto girava attorno a me come una giostra. Ma all’improvviso la giostra si fermò e qualcosa mi fece ripiombare bruscamente nella realtà.

Uno strano odore mi giunse alle narici, risvegliando in me qualcosa di nuovo e terribile. Era difficile da descrivere, anche perché non l’avevo mai sentito in vita mia, ma ai miei nuovi sensi suonò come qualcosa di gustoso e magnifico. Latte e miele. Questa fu la prima associazione abbastanza adatta che mi venne in mente. Quel profumo così invitante mi entrò nel naso, scese nella gola e mi riempì i polmoni, cullandomi e allo stesso tempo frastornandomi come una potente droga. Per un attimo, anche se sentivo Carlisle chiamarmi, non capii più nemmeno dove mi trovavo. Poi ripresi coscienza bruscamente e con uno sguardo febbrile ricercai la fonte di quel profumo paradisiaco. Un paio di uomini erano appena usciti dalla cappella, trasportando una pesante bara, che ora stava adagiando nella fossa a essa destinata. Sentivo i loro respiri affannati perdersi nell’aria, i loro muscoli contrarsi sotto il peso della cassa, il sudore colare sulle loro fronti e le vene ingrossarsi per il caldo. Le vene… Era da lì, mi resi conto con un brivido di piacere che mi stupì, che proveniva quel sapore che avevo iniziato a bramare così tanto. Era il loro sangue che chiamava la mia gola riarsa e che ormai pareva carta vetrata da tanto era assetata. In un’altra occasione oppure nella mia precedente vita sarei rimasto disgustato davanti alla prospettiva di bere sangue umano. Ora, invece, l’idea non mi ripugnava affatto, anzi agognavo a quel liquido rosso come alla fonte primaria di vita. Senza pensare, ormai dimentico del dolore e della tomba di mia madre e completamente impazzito da quell’odore, feci per fiondarmi sui due uomini, che non avevano per niente notato la nostra presenza.

«Edward, no!». Una voce m’ammonì alle spalle, ma non le diedi ascolto. Poi qualcosa mi afferrò bruscamente per un braccio, facendomi cadere a terra e sbattere la testa contro una lapide. Rimasi a terra inebetito per qualche secondo, che bastò all’aggressore alle mie spalle, che senza dubbio doveva essere Carlisle, per raccogliermi e portarmi via di voltata.

Lontano da quella tentazione.

Scusate tanto: avevo intenzione di aggiornare qualche giorno fa, ma purtroppo sono stata malata e non ne ho avuta l'occasione. Comunque... Ho deciso di dividere la presa di coscienza di Ed della sua nuova natura in due parti: una più legata alle sensazioni (questo chap) e un'altra in cui ci sarà una spiegazione più razionale (il prossimo chap). Come il precedente, anche questo è stato un capitolo abbastanza difficile da scrivere: come ci si sente a essere un vampiro? Eh, bella domanda... Be', spero che anche questo episodio sia stato di vostro gradimento! Ringrazio:

tess89: grazie mille per i complimenti, sono sempre ben graditi! ^^ Per quanto riguarda la domanda, mi dispiace ma non posso risponderti subito. Lo vedrai continuando a leggere! Quindi seguimi e recensisci!

Ale78: Kipling hai detto? Mmmm, fin ora non ho mai avuto occasione di leggere niente di lui, ma ti assicuro che appeno posso vedrò se riesco a reggere il paragone! Grazie anche a te!

Jadis96: nono, figurati! Anche se la frequenza degli aggiornamenti non è proprio il massimo la continuerò fino alla fine. Grazie e a presto!

Wind: un rigraziamento grande grande anche a te! Sono sempre contenta di sentirmi dire che mi so immedesimare bene nei miei personaggi, visto che per me è fondamentale!

Faby hale: addirittura il capitolo più bello? Ooooh ma così mi fai arrossire Xd Be' come al solito non mi lasci molto da commentare visto che hai già detto tutto tu. Anche questa volta sei riuscita a cogliere il significato di base dell'opera: brava! Non so se te l'ho già detto (probabilmente sì) ma credo che potresti essere un'ottima critica letteraria! Inoltre mi piace che tu abbia usato la parola visione, visto che quando scrivo mi capita proprio così: sono visioni, immagini di un film che "vomito" sulla carta... Un ultima cosa: ho deciso di inserire un'analessi di Bella e la radura anche per distaccarmi dalla versione della trasformazione data dalla Meyer. Grazie 1000 per i tuoi fantastici (come al solito) complimenti!

  
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