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Autore: _Frame_    07/05/2017    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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124. Quota 731 e Ultima possibilità

 

 

9 marzo 1941,

Val Desnizza, Albania

 

Il soldato italiano resse il fucile con un braccio solo, premendoselo al fianco, schiacciò la mano sul suo elmetto imprimendo una sbavatura di sangue, chinò la testa, spalle basse, e voltò il viso sporco di fango e di nerofumo verso il resto del battaglione che stava risalendo il colle. Continuò a correre. Inspirò a pieni polmoni fino a sentire la gola e il petto bruciare per i fumi che evaporavano dal terreno esploso, e indirizzò l’urlo verso i soldati dietro di lui. “Fianco destro, avanzate a passo rapido!”

Una raffica di mitragliate brillò fra le rocce del monte e si scaricò lungo le pendici. Una scia di proiettili perforò il banco di fumo soffiato dai crateri nel terreno, scavò una linea di spari che arrestò la corsa dei soldati, facendoli saltare indietro. Uno degli uomini scavalcò uno dei crateri aperti dalle esplosioni precedenti, cadde sulle ginocchia, e strisciò al riparo dietro una roccia. Si strinse un braccio dietro la nuca che perdeva sangue all’attaccatura dei capelli, il fucile sotto il gomito, e si girò anche lui per gridare in direzione dei compagni. “Via dal fumo, testa bassa!”

Un’altra raffica di spari schizzò in mezzo alle rocce che componevano il terreno di montagna, scoppi bianchi le fecero esplodere, frammenti di pietre fumanti partirono come altri proiettili e sfrecciarono addosso ai soldati in corsa.

Gli uomini si gettarono a terra, sotto il muro di fumo, due di loro rotolarono via dalle mitragliate, altri tre si tuffarono per proteggersi dietro i cespugli, cinque di loro abbassarono le teste e continuarono a correre, uno di loro evitò una mitragliata in mezzo ai piedi, un altro schivò un frammento di roccia piovuto dal cielo, e tutti proseguirono la risalita della quota.

Il soldato in cima al battaglione si portò la mano bendata e sporca di sangue sull’elmetto, strinse i denti, dalla fronte aggrottata colarono rivoletti di sudore e fango, e gettò lo sguardo all’indietro da sopra la spalla china, urlò con voce inasprita dal fumo e dalla fatica della corsa. “Avanzate, avanzate, non perdete terreno!”

“Granata in arrivo!”

Un secondo soldato buttò gli occhi al cielo, oltre il fumo sbriciolato dalle rocce saltate in aria, e i suoi occhi spalancati riflessero il grigio delle nuvole alimentate dalle cappe odoranti di zolfo. Un fischio discese il monte, superò gli spari delle mitragliatrici, e precipitò verso terra, diventando più forte e acuto.

L’uomo si lanciò in un tuffo, aprì una mano di fianco alla bocca, e il suo grido superò le mitragliate. “Tutti giù!” Cadde sui gomiti, abbracciato al fucile, batté il viso a terra, in mezzo al tanfo umido e ferroso della terra, e strizzò gli occhi.

Qualcun altro gridò. “Tutti al riparo!” E il fischio terminò.

L’esplosione fece tremare il terreno sotto il corpo del soldato che si era buttato per primo, il colpo improvviso assorbito dalla cassa toracica gli strappò il fiato, aprì un vuoto allo stomaco che lo fece gemere. Il boato si ritirò come il borbottio di un temporale che si allontana, il suono di detriti che si sbriciolavano rotolò lungo il fianco del pendio, si unì ai gemiti di qualche fante colpito e all’incessante fracasso delle mitragliatrici in azione.

Il soldato tossì contro le rocce, snodando il groppo di fiato che gli era rimasto incastrato nei polmoni. Sciolse il braccio dalla presa attorno al fucile e raccolse la mano attorno al viso, si passò la mano sulle guance, sulla fronte, e sotto l’elmetto, asciugandosi dal sudore e dai grumi di terra che si erano appiccicati alla pelle. Tossì di nuovo e sputacchiò terriccio e sassolini che sapevano di ghiaccio e neve.

Qualcos’altro esplose, il botto scosse di nuovo il terreno, qualcuno gridò in greco, un clangore metallico stridette, fu sostituito da uno scoppio di fucile, e il suono di una corsa si arrampicò lungo la parete scoscesa del monte.

Il soldato italiano staccò la mano sporca di fango e sudore dalla faccia, si aggrappò alla roccia dietro cui si era nascosto, e fece strisciare le ginocchia a terra per sollevare le spalle. Restrinse le palpebre rosse e brucianti per il fumo e buttò lo sguardo in cima al monte nascosto dalle nuvole. Soldati italiani corsero verso l’alto a testa bassa, i fucili imbracciati sui fianchi, gli stivali che ribaltavano le zolle di terra fatte esplodere dalle cannonate e dalle mitragliate del nemico. L’uomo tirò lo sguardo ancora più in alto, abbassò la visiera dell’elmetto per ripararsi dalla luce del cielo sporco di nuvole, e mirò alle macchie di cespugli che crescevano fra le rocce della montagna. Rigagnoli di vapore strisciarono fra i rami degli arbusti, scesero lungo le rocce, un gracchio metallico accompagnò il movimento di una bocca di fuoco che si accorciò in mezzo a un gruppo di soldati greci chini, nascosti dietro le macchie di arbusti.

Il soldato italiano spalancò gli occhi, tornò a mancargli il fiato.

Un mortaio!

Accostò di nuovo la mano alla bocca e girò di colpo le spalle per gridare verso il fondo della montagna. “Un altro!” Tornò a gettarsi al riparo, e una seconda voce gli fece da eco. “Fermi!” gridò. “Giù di nuovo!”

Un altro fischio, un altro scoppio, l’esplosione si dilatò in un boato che ruggì sulla montagna e che scosse il terreno. Il cratere esplose e un rigetto di fumo e calore travolse il battaglione, i soldati tornarono a buttarsi a pancia a terra, le mani dietro la testa e le gambe raccolte contro il busto. Finirono travolti da un’ondata di rocce fumanti e detriti saltati in aria dallo scoppio, uno di loro precipitò sul fianco, si resse la gamba mollando il fucile e strozzò un lamento a denti stretti. Rivoli di sangue gli colarono fra le dita, sgorgarono dal lacero lasciato dal passaggio di una roccia aguzza che gli era schizzata addosso. Un altro soldato strisciò sui gomiti, in mezzo al fumo e al suono delle mitragliatrici che erano tornate a trapassare l’aria con i loro spari, e si avvicinò al compagno gridando sopra il boato delle esplosioni. “Fermo, fermo! Non ti muovere, resta dove sei!” Lo prese per le braccia e lo portò dietro uno dei cespugli. L’altro girò la testa e soffocò un altro lamento contro la spalla. 

Il suono di una corsa tornò a risalire il fianco della montagna.

Una gamba saltò una delle rocce, sbucò fuori dal fumo e premette il piede a terra schiacciando i riccioli di vapore nero sotto la suola dello stivale. L’altro piede si tese, completò la falcata, e la sagoma nera si ingrandì fino a spaccare due ali di vapore grigio che si spalancarono attorno al suo corpo. Romano sollevò la testa, la scosse per liberarsi dei frammenti di roccia che gli erano arrivati addosso bruciandogli il viso già sporco di terra e fumo, e girò lo sguardo verso la seconda sagoma che stava correndo alle sue spalle.

Anche Italia emerse dal fumo, si coprì la bocca e si piegò in avanti per tossire, “Caugh, caugh!”, scosse a sua volta il capo tenendosi fermo l’elmetto e raccolse il fucile che gli stava scivolando dai gomiti. Allungò una falcata più rapida, boccheggiò rauchi respiri che gli graffiavano la gola grattata dal fumo, e sollevò gli occhi larghi e cerchiati di nero, lucidi dei riflessi delle esplosioni, in cerca dello sguardo di Romano.

Romano ruotò una spalla senza smettere di correre, tese il braccio verso Italia, spalancò la mano nera di terra. “Corri!” Non riuscì a raggiungere la sua presa.

Un’altra raffica di mitragliate perforò il fumo, piovve al suolo e fece esplodere zolle di terra che schizzarono fra le gambe dei soldati che continuavano ad arrampicarsi lungo il monte.

Italia scattò per evitare la scia di proiettili, “Ah!”, incrociò i piedi tenendosi aggrappato al suo fucile, inciampò sulla punta di una roccia, e sbatté la spalla addosso a Romano.   

Romano barcollò e si aggrappò alle sue spalle. “Who!” Lo tirò più indietro ed entrambi schivarono la scia di proiettili.

Un’altra esplosione scoppiò dietro la coltre di fumo, tutti abbassarono le teste, fermarono la corsa finendo investiti dall’onda di polveri e detriti, e qualcuno urlò. “Continuate a correre!” Sagome nere di soldati in corsa continuarono ad avanzare, i loro passi fecero tremare il terreno, spari di fucile si intrecciarono dietro la nebbia che scendeva dalla montagna, e lampi bianchi scoppiarono coprendo le loro grida di incitamento.

Romano strinse forte le dita sulle spalle di Italia che gli era finito addosso, lo fece sollevare dal suo fianco, senza mollarlo, e gli tastò i fianchi e le braccia, squadrandolo con occhi allarmati. “Tutto intero?” gridò.

Italia sbatacchiò le palpebre sporche di terra sbriciolata e appannate dal fumo. “Uh.” Scosse il capo, scrollandosi via quella sensazione di smarrimento che roteava attorno alla testa come un cerchio, e si grattò sotto l’elmetto. “S-sì, sto bene.”

Romano sospirò. “Bene.” Uno scoppio lo fece saltare sul posto, catturò la sua attenzione verso la cima del monte. Romano restrinse lo sguardo, diede una spintarella al fucile, si aggrappò alla manica di Italia e gli diede uno strattone per spingerlo a seguirlo. “Vieni!” Ricominciò a correre, impugnò il Carcano con entrambe le braccia, abbassò la testa per non sbattere la faccia contro il fumo, e puntò una delle rocce più alte per poterci saltare dietro.

Italia gli corse dietro, tossì di nuovo sentendo il fumo entrare nel naso e bruciargli le narici, e girò lo sguardo verso le sagome dei soldati rimasti alle loro spalle. Gli occhi luccicarono di spavento, un violento brivido di freddo e paura gli attraversò il corpo. “Si saranno fatti male?” Schivò un mucchio di rocce, saltò oltre una zolla di terra ribaltata, e si aggrappò al braccio di Romano.

Romano gettò una rapida occhiata all’indietro senza girare il viso. Emise uno sbuffo aspro. “E che ne...” Due secchi colpi di cannone esplosero sopra le loro teste, e due lampi bianchi abbagliarono il muro di fumo. Romano sgranò gli occhi, ancora a bocca aperta, e visualizzò i due schianti del cannone piombargli davanti ai piedi e ribaltarlo fino in fondo alla montagna. Agguantò Italia per un braccio e per un fianco, corse trascinandolo dietro alla roccia più alta, e si tuffò a terra. “Giù!” Gli schiacciò una mano sotto la testa e gli avvolse il braccio attorno al collo.

Italia sbatté la testa, strizzò gli occhi e contenne un gemito fra i denti che sapevano di nuovo di terra e di sangue. Chiuse anche lui le braccia sopra quello di suo fratello che lo teneva riparato, e trattenne il respiro.

L’esplosione fece saltare il terreno, ne seguì un’altra che aumentò il boato e soppresse la voce di qualcuno che urlò in mezzo al fumo.

Romano strinse di più il braccio attorno a Italia, il contraccolpo centrò entrambi sulla pancia e nel petto, come un forte pugno scaricato fra le costole, facendo ingoiare loro il fiato. “Ghn ~!” La ventata di detriti e terra scivolò sopra la roccia che li riparava, rovente come il getto di adrenalina che gli aveva infiammato i muscoli e la testa. Sassi e pezzi di terriccio piovvero sulle loro schiene e dietro il collo, brividi di paura e calore punsero la pelle di entrambi, si portarono dietro il forte e acre tanfo dello zolfo e delle rocce carbonizzate.

Qualcun altro gridò, Italia non capì le sue parole ma quella voce gli diede una scossa alla mente paralizzata dalle due esplosioni. Tirò su la faccia dal suolo, rimanendo con il collo schiacciato dal braccio di Romano, scrollò la testa, sbatacchiò le ciglia sporche, e trascinò un braccio dietro la nuca per strofinarsi dove sentiva bruciare le briciole di roccia che gli erano grandinate addosso.

Romano fece scivolare la guancia fra la terra, sputò un grumo di sassi ed erba rinsecchita, e sollevò la visiera dell’elmetto puntando lo sguardo dietro di sé. Un nuvolone di polvere e fumo si era gonfiato fra le rocce e i cespugli che rivestivano la montagna, raggiungeva il cielo e celava i corpi dei soldati di cui si sentiva solo il rumore dei passi in corsa e le voci mescolate al clangore delle artiglierie trascinate lungo le pendici.

Romano strinse i denti e strizzò una manciata di terra fra le dita, un fiotto di rabbia gli inacidì la gola, fece stridere la voce fra i denti. “Ma che cazzo stanno facendo quegli idioti?”

Italia tossì di nuovo, fece leva sul gomito resistendo alla pressione del braccio di Romano, e si passò la manica dell’uniforme sporca sul viso bagnato di sudore. Si toccò la testa sotto l’elmetto, non gli fece male e passò alla spalla – si spolverò la mostrina bianca e verde della Divisione Puglie –, all’avambraccio, al fianco, si girò a tastare la schiena fino all’anca. Ritirò la mano tremante, la aprì davanti al volto. Tagli rossi, sporchi di terra e sassolini, gli macchiavano la pelle. Piccoli rivoletti di sangue rotolarono fra le dita e piovvero fra i fili di erba ingiallita. Italia scrollò la mano bruciante, la infilò sotto il bavero dell’uniforme, incontrò la croce di ferro, la strinse, e premette le nocche sopra la parte di maglia che copriva la cicatrice sul petto. Inspirò e trasse un breve sospiro di sollievo. Tutto in ordine. 

Altre raffiche di spari lo fecero sussultare. Romano tornò a stringere il braccio attorno alle sue spalle, si aggrappò alla roccia e sollevò lo sguardo oltre il loro nascondiglio.

Italia gli afferrò la manica all’altezza del gomito, lo tirò indietro. “Romano, non riusciamo a salire,” esclamò. “Abbiamo l’artiglieria bloccata le mitragliate dei greci sono troppo pesanti!”

Romano tirò su il braccio e schiacciò il suo fucile al fianco. I denti stretti, gli occhi increspati dalla fronte corrugata, l’espressione feroce sporcata di nero e illuminata dal bianco delle esplosioni dietro il fumo. “Pesanti un corno, non possiamo lasciarci seppellire nel fango!” Guardò indietro, raccolse Italia da terra premendoselo contro, e si alzò per primo. “Tirati su, forza.” Una scarica di dolore gli frustò la schiena, le gambe molli e appesantite cedettero, gli fecero tremare le ginocchia, ma lui incrociò un passo e rimase in equilibrio. Gracchiò un lamento fra le labbra morsicate, scosse la testa per scacciare le vertigini, e indicò a Italia la cima della montagna. “Dobbiamo prendere il comando del reggimento di artiglieria.”

Italia annuì. Imbracciò anche lui il fucile, si diede un’altra strofinata al viso lasciando sulle guance una sbavatura di sangue, e lasciò il braccio di Romano per corrergli dietro.

Sotto i loro piedi, il terreno riprese a tremare, a scuotersi sotto le fucilate che si intrecciavano all’interno delle nuvole di fumo che toccavano le rocce. Un gruppo di soldati gli corse affianco, i quattro uomini si immersero nel fumo, partirono altre mitragliate dall’alto, qualcuno dietro di loro gridò, sagome nere li superarono e corsero in mezzo ai riccioli di vapore grigio che scendevano come tentacoli, srotolandosi dalle buche scavate dalle cannonate.

Le esplosioni rimbombarono nelle sue orecchie fino a diventare un lungo fischio. I colori del campo di battaglia si fusero come tempera sciolta. L’odore di fumo e le zaffate di calore gli diedero un forte capogiro che sparse il senso di vertigini lungo tutto il suo corpo, facendogli tremare le gambe e salire i brividi dietro la schiena. Italia annaspò, colto da un conato di vomito, “Urgh”, strinse il fucile fra le mani sempre più doloranti e deboli, e allungò una falcata più lunga per stare dietro a Romano.

Romano tirò su lo sguardo, cercò fra le nuvole che tappavano il cielo, e i suoi occhi tornarono a infiammarsi di rabbia. “Ma dove cazzo sono i bombardieri che avevo richiesto?”

Italia deglutì, ma aveva la gola secca come carta. “Uh.” Diede un colpetto di braccia al fucile per non farlo cadere, alzò anche lui gli occhi verso il cielo, ma un altro colpo di vertigini lo fece barcollare. “N-non lo...”

Un’ennesima cannonata esplose dalle pareti di roccia, attraversò l’aria, disegnò una parabola sopra le loro teste, e si schiantò sul terreno, sollevando una spessa e scura colonna di terra e fumo verso il cielo.

L’ondata travolse le gambe dei soldati in corsa, qualcuno urlò, la spinta di calore e detriti finì addosso a Italia e lo sbalzò in avanti sollevandogli i piedi da terra. “Ah!” Romano gettò le braccia in avanti lasciando ciondolare il fucile sul gomito e lo acchiappò al volo. Lo strinse a sé, inciampò di mezzo passo di lato, e un’altra cannonata precipitò nel cratere scavato dalla prima. Una seconda ondata di aria e terra travolse il battaglione in avanzata. Un soldato finì sbalzato di lato, cadde sul braccio, rotolò sul fianco, e sbatté la schiena contro una delle rocce; un altro di loro venne colpito alla schiena e cadde di pancia, si contrasse dal dolore e piegò un ginocchio verso il ventre, mollò il fucile e raggiunse il piede carbonizzato e già gocciolante di sangue; un terzo di loro precipitò supino, sbatté la tempia, l’elmetto rotolò via, ribaltò la guancia di lato, contro la terra, e non si mosse più.

Italia sobbalzò fra le braccia di Romano, spalancò gli occhi, rimanendo senza fiato, e un lampo di dolore e paura gli attraversò lo sguardo. “Oh, no!”

Romano strinse i denti, girò Italia sotto il suo braccio, ricominciò a correre, e scaricò la rabbia che sentiva aggrovigliata nel petto per tornare a far accelerare le gambe. Riprese a correre. “Maledetti,” ringhiò.

Dai fumi delle esplosioni sbucarono altre sagome che correvano in direzione opposta al battaglione di italiani. Uomini in uniforme greca color terra scaricarono colpi di fucili addosso agli italiani, creando una barriera di lampi fra i due eserciti. Alcuni di loro impennarono i fucili davanti alla spalla, inclinarono la baionetta, affondarono il colpo attraverso l’aria, e trafissero il petto o la pancia degli italiani che gli arrivavano contro. I soldati italiani contrassero i torsi già bucati dai proiettili, i greci estrassero le baionette insanguinate e saltarono sopra i loro corpi caduti al suolo.

Romano vide rosso, una rimonta d’ira gonfiata dal cuore gli infiammò il viso, bruciò fino alle mani che impugnavano il fucile. Si sporse a dare una piccola spallata fra le scapole di Italia, lo fece avanzare tenendolo riparato dal suo fianco. “Stammi dietro!” gli urlò. Imbracciò il Carcano 91 correndo di lato, agguantò il tubetto del percussore, lo spinse verso destra, il dente metallico sbatté sul cilindro e mise l’arma in carica. Romano ficcò l’indice nel grilletto, socchiuse un occhio per prendere la mira, e fece partire il colpo. Centrò la spalla di uno dei greci, l’uomo si torse di lato, il suo urlo si confuse con lo scrosciare degli altri spari e della corsa degli altri soldati.

Romano tirò indietro la leva dell’otturatore, fece saltare il bossolo vuoto che scintillò svanendo nel fumo, e riarmò il fucile.

Inclinò la canna, mirò alla gamba di un altro dei greci appena usciti dal fumo, e sparò un secondo colpo. L’uomo cadde in avanti, finì per sbattere addosso a un altro soldato, ed entrambi precipitarono in mezzo alla nebbia.

Romano ripeté l’operazione, tirò indietro l’otturatore, espulse il bossolo, e sollevò il fucile per prendere di nuovo la mira. Schiacciò il grilletto, il proiettile passò di fianco a un soldato greco appena uscito dalla foschia, sbatté su una roccia facendo esplodere uno schizzo di scintille bianche.

Il soldato greco gettò un rapido sguardo al suo fianco, dove era appena caduto il colpo, e tornò anche lui con il fucile imbracciato. Sollevò l’arma, la puntò addosso a uno degli italiani che stavano risalendo la montagna, e la cima della baionetta scintillò.

Romano scaricò il bossolo vuoto, tornò a mirare, spremette l’indice sul grilletto, e il colpo esplose un’altra volta, lo accecò con un lampo e finì addosso al soldato greco, trafiggendogli la schiena. L’uomo si torse di lato, gridò sopra gli scrosci degli altri spari, e il fucile cadde assieme a lui, non toccò l’italiano al quale stava mirando.

Romano abbassò il Carcano, gettò lo sguardo verso l’alto, dove il battaglione italiano si stava disperdendo in mezzo alla nebbia grigia che rivestiva le rocce. Si gonfiò i polmoni di quell’aria bruciante, il suo grido tuonò fra le pareti di montagna. “Non correte nel fumo, stupidi bastardi! Non vedete che lo fanno apposta per farci disperdere?” Tirò un’ultima volta la leva dell’otturatore, il fucile sputò il bossolo vuoto, e riprese a correre tenendo al sicuro Italia dietro il suo fianco. “Mettetevi al riparo dietro le rocce e mirate ai cannonieri,” urlò di nuovo ai suoi soldati. “Date le coordinate degli obici e dei mortai ai mitraglieri e mettiamo fuori uso la loro artiglieria!”

Le voci dei suoi uomini lo raggiunsero, potenti e scattanti. “Sissignore!”

Sia Romano che Italia sentirono le gambe più pesanti e dure da muovere, le falcate più lente e faticose, il respiro più rauco e il fiato accumulato nel petto che sembrava trascinarli verso il basso, come se avessero avuto le costole riempite di sassi.

Italia girò lo sguardo verso il fondo della montagna e verso le sagome dei soldati che si stavano rimpicciolendo, si passò una manica sulla fronte per raschiare via il sudore e il fango sciolto che colava lungo le guance, e inspirò forte quell’aria di fuoco per gridare verso Romano. “Quanto siamo riusciti ad avanzare?”

Romano fece schioccare la lingua fra i denti. “Poco, merda,” sbottò. “Se solo...”

Il fumo davanti a loro si schiuse, le ombre dei soldati nemici in corsa si ingrandirono, divennero più scure e alte, le scintille provenienti dalle punte delle loro baionette brillarono nella nebbia grigia.

Una saetta di panico risalì la schiena di Romano, gli esplose in testa in uno schiocco elettrico che riaccese un lampo di lucidità. Il sangue salì a bruciare nel petto e nelle guance, schizzò l’adrenalina al cervello.

Romano spinse Italia di lato, lo gettò via dall’ombra più grande che stava per investirli. “Sta’ giù!” Riagguantò il suo fucile, sparò due colpi, centrò il soldato sulla spalla – lo fece torcere – e sul petto, schizzando un fiotto di sangue che gli arrivò fino al viso, macchiandogli la guancia. Il soldato greco precipitò ai suoi piedi, si resse il petto con entrambe le mani, perse il fucile, e il suo viso insanguinato e sporco di terra si contrasse in una profonda espressione di sofferenza.

Romano riprese fiato a grandi boccate, gli occhi ancora stretti e brucianti sotto l’ombra della fronte aggrottata, e le gocce di sangue nemico si sciolsero in rivoli che gli rigarono la faccia fino al mento. Riprese Italia per mano e ricominciò a correre. Espulse il bossolo dell’ultimo proiettile della cartuccia, tenne indice e pollice premuti sul caricatore, disimpegnò l’anello del blocco di gancio, scoperchiò l’otturatore, e il caricatore saltò fuori dalla culatta. Senza smettere di correre, estrasse la cartuccia esaurita, la gettò a terra, ficcò la mano in una delle tasche allacciate alla cinta, ne prese una nuova, la infilò nel caricatore, chiuse l’otturatore, tirò la leva, innescò il primo proiettile, e si rimise il fucile in spalla. Girò lo sguardo e cercò quello di Italia. “Dov’è il battaglione genio?” gli gridò. “Dobbiamo dire ai telegrafisti di chiamare il Quartier Generale e farci inviare i bombardieri.”

Anche Italia riprese una boccata di fiato. “E i carri?” Schivò una roccia, fece un balzo di paura sotto il suono di un’altra cannonata lontana, e accelerò per star dietro a Romano. “Facciamo entrare la Centauro.”

Romano scosse il capo. “Anche i greci hanno i carri, ma non è ancora il caso di farla diventare una battaglia di –”

L’esplosione scoppiò dietro le loro orecchie, travolse le gambe a entrambi, l’ondata sbatté Italia in avanti facendolo cadere sulle ginocchia e su un gomito. Romano si chinò ad agguantargli le braccia, rimase piegato dietro di lui fino a che l’eco dello scoppio non si ritirò, sentendo il collo e la schiena bruciare per il forte calore, e resistette a denti stretti.

Il suono della frana assorbì l’esplosione, Romano scrollò la testa, gettò un’occhiata al cratere appena aperto alle sue spalle e soppresse un ringhio. “Cazzo.” Tirò su le braccia a Italia. Italia sollevò un ginocchio, poggiò il piede, la gamba cedette. Provò anche con l’altra e riuscì a reggersi. Romano gli diede un piccolo colpo e lo fece correre prima di lui. “Vai!” lo incitò. “Cerchiamo i telegrafisti!”

Italia avanzò di due falcate di corsa barcollanti, si strofinò la testa sotto l’elmetto per sciogliere il senso di vertigine che gli dava l’impressione di marciare fra le scosse di terremoto, e annuì debolmente. Rimboccò la bretella del fucile sulla spalla, si strofinò le guance, e puntò la cima della montagna lasciandosi guidare da Romano.

 

.

 

Il marconista strinse le mani attorno alla forma del binocolo premuto sul suo viso, tirò in avanti i gomiti piegati sulla roccia, e sollevò il mento, puntò la vista fra i riccioli di fumo che strisciavano in mezzo gli arbusti arrampicati fra le rocce. Qualche esplosione scoppiò in lontananza, l’inquadratura del binocolo si scosse, il fumo si dissolse, le due linee perpendicolari suddivise dalle tacche numerate si fermarono dove i cespugli si facevano più fitti. Il soldato spinse l’indice sulla rotellina e restrinse la vista, catturato da una scintilla metallica. Sagome di soldati greci si mossero dietro la forma del cannone nascosto dai rami degli arbusti, altre esplosioni lampeggiarono attorno a loro, al ritmo delle mitragliate che piovevano lungo le pendici della montagna.

Il marconista fece scivolare il binocolo lungo il profilo della montagna, le due righe perpendicolari seguirono la corsa di cinque soldati greci che si nascosero dietro il fumo sollevato dalle esplosioni. Uno di loro si girò, chiamò con il braccio gli altri quattro, e continuò a correre verso gli italiani che stavano salendo.

Il marconista abbassò il binocolo dalla faccia, il suo campo visivo tornò fra i cespugli dietro i quali era nascosto assieme ai quattro compagni. Le gambe di uno dei soldati accovacciati attorno al mortaio gli passarono davanti, l’uomo abbassò le spalle e infilò le mani nella bocca di fuoco del cannone, passò uno straccio unto per ripulire il tubo di lancio. Altri due erano chini attorno alle casse delle munizioni, abbracciarono un’estremità ciascuno di una delle bombe. La sollevarono, uno di loro vi passò la mano sopra per esaminarla, e l’altro assicurò la carica di lancio alla sua base.

Lontano da loro, spari a raffica coprirono le urla di incitamento del battaglione italiano che si era lanciato alla carica contro le posizioni di difesa greche. Altre esplosioni soffiarono ondate di aria rovente attraverso il campo, fecero inclinare gli arbusti e gettarono spazzate di detriti fra le rocce che emergevano dal terreno.

Il marconista abbassò la fronte, tirò i gomiti all’indietro facendoli strisciare sulla roccia, e gettò lo sguardo al compagno chino sulla mappa del campo, la pancia schiacciata a terra e le gambe distese a toccare l’apparecchio radio.

“Bersaglieri e granatieri in prima linea,” gli gridò, “avanzata a passo di corsa, nessuna ritirata concessa!”

Arrivò un’altra esplosione, e il soldato alla radio si strinse nelle spalle per resistere alla vibrazione scoppiata sotto di lui. Resse le cuffie attorno alla testa avvolgendole con i palmi, aspettò che l’eco si ritirasse, tornò con gli occhi sulla cartina davanti a lui, e vi fece correre l’indice sopra. Agguantò il ricevitore della radio. “Inviata richiesta per fuoco di copertura,” esclamò, “avanzamento della Centauro, allertato il battaglione degli artiglieri di tenersi pronti nel caso che i greci escano con i mezzi corazzati.”

Uno dei soldati attorno al mortaio avvitò la spoletta, controllò la posizione della piastra d’appoggio premendoci il piede sopra, e si mise una mano attorno alla bocca per amplificare la voce e farsi sentire sopra il fracasso del campo di battaglia. “Caricate!”

Anche il soldato che impugnava il binocolo si buttò pancia a terra e strinse le mani dietro la nuca, strizzando gli occhi e trattenendo il respiro.

I due soldati attorno al mortaio issarono la bomba reggendola con entrambe le braccia, la infilarono nel tubo di lancio e si spostarono in disparte. La bomba scivolò, la cartuccia sbatté sul percussore, i gas di caricamento soffiarono fuori dalla base con un fischio. Il Mortaio 81 esplose, la bomba schizzò in aria e volò via lasciandosi dietro una scia bianca in linea retta.

Il tuono dell’esplosione scoppiò in un fragoroso boato che fece tremare le pareti delle montagne, il terreno sotto le gambe e le pance dei soldati acquattati dietro i cespugli si scosse, l’eco scrosciante di rocce che franavano interruppe il suono degli uomini che correvano per raggiungere la cima del monte.

Il marconista riaprì gli occhi tenendo il mento schiacciato a terra e le braccia intrecciate dietro la testa, sollevò la fronte, girò lo sguardo oltre i cespugli, e si ritrovò davanti a una gonfia nube grigia che si stava espandendo come un banco di nebbia. Altri spari a ripetizione scoppiarono dietro il fumo. Due ombre nere apparvero fra i riccioli color fuliggine, divennero più grandi e nere, si avvicinarono accompagnate da un forte rumore di passi in corsa.

Il soldato sentì un guizzo di paura stringergli il cuore. Avanzò con i gomiti, il binocolo a ciondolare dal collo, e raggiunse il suo fucile appoggiato dietro le casse delle munizioni per il mortaio. Lo strinse per la cinghia, pronto a imbracciarlo e a sparare al nemico.

Le due sagome in corsa saltarono oltre i cespugli, i loro corpi ancora avvolti dal fumo atterrarono fra le rocce, si piegarono per tenersi riparati dall’ondata dell’esplosione.

I due soldati chini si tirarono indietro, irrigidirono, quello che aveva raggiunto il suo fucile chiuse il pugno attorno alla cinghia, ma subito un soffio di sollievo gli passò attraverso il petto e gli fece rilassare i muscoli.

Il soldato chino sulla mappa si sfilò le cuffie e le lasciò ciondolare dal collo. “Signori!” esclamò.

Romano gettò le spalle all’indietro, addosso a una delle rocce, reclinò il collo stringendo il suo fucile al petto e riprese fiato a pesanti boccheggi arrochiti da tutto il fumo che aveva inalato. Italia si buttò con i gomiti a terra, spinse la fronte contro la spalla del fratello, e anche lui riprese a respirare a boccate pesanti che lo facevano tremare come una foglia.

Il soldato che si era spinto indietro tornò a scivolare in avanti, si riparò con la testa sotto gli arbusti, tirò su la visiera dell’elmetto e cercò lo sguardo a entrambi. “State bene?” chiese. “Siete feriti?”

Romano continuò a riprendere fiato a viso alto, le guance rosse ancora sbavate di sangue e sporche del fango che colava mescolandosi al sudore, e le braccia tremanti avvolte attorno al suo fucile schiacciato fra le ginocchia e sul petto. Non riuscì a rispondere. Italia si tappò la bocca con entrambe le mani e tossì per tre volte di seguito, a occhi strizzati. Scosse il capo, si strofinò la manica della giacca sotto il naso, sulle labbra e su ogni guancia. I suoi occhi larghi, lucidi e cerchiati di nerofumo, si posarono sullo sguardo del soldato con il binocolo. “In che settore sta lavorando il battaglione sanità?” gridò. “C’è bisogno di recuperare i feriti nel –”

“Caricate!”

Romano scattò alla voce di uno dei soldati che manovravano il mortaio. Allacciò un braccio attorno al collo di Italia e lo fece abbassare, tenendolo schiacciato a lui.

Il fischio dei gas si interruppe, il colpo partì, l’eco della bomba tuonò in lontananza, terminò con lo scroscio delle pietre sbriciolate che franavano fra i cespugli.

L’ondata si ritirò. Romano allentò la stretta del braccio attorno al collo di Italia, lo lasciò sollevare con le spalle e anche lui riaprì gli occhi, si sfregò un orecchio dove sentiva ancora il fischio della cannonata, e girò lo sguardo verso il soldato chino sulla mappa. “Cosa state facendo qua?” dovette urlare per farsi sentire sopra l’eco.

Il soldato piegato sulla mappa raccolse un’estremità della cartina, aggiustò le cuffie che si erano storte attorno al collo, e chiamò entrambi con un gesto della mano bendata e sporca di nero. “Venite.”

Romano diede uno strattone alla manica di Italia, si accovacciò aspettando che lo seguisse, ed entrambi passarono dietro al secondo soldato che era tornato a scrutare il campo attraverso le lenti del binocolo. Strisciarono vicino al soldato accanto alla radio e sporsero gli sguardi verso la mappa sporca di terra su cui era posato l’indice dell’uomo. Dalla benda attorno al palmo era rigato del sangue che ora si era incrostato attorno all’unghia schiacciata sulla porzione di mappa.

“I greci ora hanno schierato il Quinto Battaglione della Prima Fanteria, stiamo impegnando quest’area,” seguì il bordo di una zona cerchiata di blu racchiusa fra due spesse linee rosse tratteggiate, “e seguendo questa direttrice,” percorse le frecce rosse che penetravano fra i rettangolini blu contrassegnati dai numeri delle divisioni greche, “per salire fino a Quota Settecentotrentuno e provare a espugnare Monastir.” Il soldato sollevò lo sguardo sporco di nero verso Italia e Romano, i suoi occhi rabbuiati dall’ombra dell’elmetto furono attraversati da un lampo di panico. Scosse il capo. “Ma la difesa non cede,” si passò la mano bendata sulle guance, “stiamo sfinendo tutto l’Ottavo Corpo d’Armata ma potrebbe rendersi necessario il richiamo dei battaglioni di riserva. Se continuassero a tenerci testa in questa maniera, saremmo costretti a sostituire la Divisione Puglie con la Bari addirittura entro domani stesso.”

Romano e Italia si scambiarono un rapido sguardo d’allarme. Romano si strofinò d’istinto la sua mostrina della Divisione Puglie cucita sulla spalla, tornò a gettare gli occhi sulla mappa – briciole di terra e sassolini si raccoglievano fra le pieghe della cartina – e li levò al cielo, fra le nuvole ingrossate dalle cappe di fumo che evaporavano dal terreno. Strinse i denti. “Dove sono i bombardieri?” Lanciò quell’occhiataccia al soldato e puntò un indice oltre i cespugli senza aspettare risposta. “Contattate il Quartier Generale e fate richiesta di un attacco a ondata, dobbiamo spianare la loro offensiva dall’alto.”

Il soldato contrasse le sopracciglia in un’espressione di conflitto, una riga di sudore rotolò lungo la fronte, gli bagnò un taglio di sangue che gli sfregiava il viso. “Signore, le piste sono ancora poco agibili. I bombardieri stanno facendo più fatica del previsto a decollare e lo stesso vale per i carri della Centauro.”

Il soldato che reggeva il binocolo abbassò le lenti dagli occhi e girò una spalla per indirizzare la voce verso di loro. “I greci ci stanno spingendo nel fango, signore. Tutta la fanteria è incastrata, per di più stanno continuando a sollevare colonne di fumo e ne approfittano per rimanere nascosti e colpirci con le baionette.”

Italia deglutì, sciolse il groppo di paura che gli si era formato in gola, facendogli sbiancare le guance, e strinse le ginocchia contro il petto tenendo il fucile raccolto fra i gomiti.

Romano emise un secco sbuffo di frustrazione, squadrò il fumo che scivolava giù dalle pendici del monte e stritolò un pugno a terra fino a sentire i sassi scavargli nelle unghie. “Stupidi reparti di montagna, fate il vostro cazzo di lavoro.”

Italia gli lanciò un’occhiataccia di rimprovero. “Roma –” Un’ennesima esplosione gli strappò le parole di bocca.

Tutti si gettarono con le spalle in avanti, una raffica di detriti si ribaltò sopra le loro teste, sbatté sopra armi, elmetti e munizioni, sollevando un clangore metallico simile a un servizio di posate che si schianta sul pavimento. Italia scrollò la testa, si spazzolò via i sassi dalle spalle e dalla schiena, e gattonò più vicino al soldato accucciato accanto alla radio e con la mappa raccolta fra i gomiti. 

“Quanto siamo avanzati?” gli chiese.

Anche il soldato si scrollò i sassi e la terra di dosso, piegò la cartina per far scivolare via lo sporco che si era accumulato fra le pieghe, e tornò ad aggiustare le cuffie attorno al collo che si erano ribaltate. “Più che avanzati, signore, i greci ci stanno facendo arretrare ulteriormente.” Si resse l’elmetto fra pollice e indice, rivolse al campo di battaglia uno sguardo afflitto. “Sarà dura continuare l’offensiva.”

Italia si aggrappò al suo fucile, fece stridere le unghie sul metallo, il suo sguardo vitreo si perse nel vuoto, gli occhi tremarono, e un nodo di paura si strinse attorno al suo cuore. Il sangue ghiacciò, le parole del soldato gli rimbombarono nella testa facendo salire di nuovo il senso di vertigine attorno alla testa. Sarà dura continuare l’offensiva...

Il tocco di Romano gli strinse l’avambraccio sotto il gomito. “Veneziano.” Lo fece sobbalzare.

Gli strinse le spalle, lo fece arretrare stando accovacciato accanto a lui, e si abbassarono entrambi per stare lontani dai fumi del campo e dalle occhiate dei soldati che lavoravano al mortaio. Romano tenne la voce bassa, lo sguardo serio e buio, ancora sporco del sangue del soldato a cui aveva sparato, e gli occhi brucianti di tensione. “Veneziano, non vedi che i battaglioni sono già esausti? Non dovevamo cominciare un’offensiva, non in queste condizioni, non dopo tutto quello che abbiamo passato durante l’inverno.”

Altri spari a raffica mitragliarono il terreno alle loro spalle. Italia girò lo sguardo di scatto, ancora stretto fra le mani del fratello che gli premevano sulle spalle, e boccheggiò per riprendersi dalla morsa allacciata attorno al cuore che gli appesantiva il respiro. I muscoli tremavano, pesanti e rigidi come macigni, le ossa pulsavano di dolore, le mani bruciavano, la testa era chiusa in un anello di confusione e stanchezza. Il fiato sempre più rauco e faticoso da spingere fino in fondo ai polmoni sembrava risucchiargli l’anima a ogni boccheggio.

Anche lui era esausto.

Romano lo fronteggiò, chinò le spalle per guardarlo dritto negli occhi. “Ritiriamoci finché siamo in tempo e fino a che siamo ancora in grado di salvare uomini e materiale.”

Italia tornò a spostare gli occhi a terra, respirò a labbra socchiuse, il petto che fremeva e la schiena che tremava contro la roccia dietro la quale erano nascosti. Il senso di smarrimento continuava a ronzargli nelle orecchie come il fischio di una delle esplosioni, ma una scintilla di lucidità gli schioccò nella testa, gli fece sgranare le palpebre. “No.” Si sporse verso Romano, anche lui gli strinse una spalla, e scosse il capo. “No, dobbiamo insistere, non può essere di nuovo un tentativo vano.” Lo guardò con occhi imploranti. “Possiamo ancora farcela.”

Romano tornò a scuotere la testa con più vigore. “Veneziano, ormai è inutile.” Tese la mano oltre la roccia, oltre i cespugli, e si gonfiò il petto per alzare la voce. “È dalle sei di mattina che combattiamo come animali e non ci siamo smossi di un centimetro. Se un’offensiva non ingrana entro due o tre ore non riesce più, accettalo! Questa è già la quarta volta che tentiamo un assalto, oggi, e non abbiamo ancora ottenuto niente, solo morti e materiale saltato in aria!”

Italia gli si aggrappò alla giacca con entrambe le mani. “Ma io devo –”

“A terra!”

Il loro mortaio fischiò, l’odore acre dei gas si sparse nell’aria, i tre soldati chinarono le spalle e si allontanarono dall’affusto di caricamento. Il mortaio esplose, il colpo partì, si schiantò subito contro la parete della montagna, staccò una scaglia di roccia che franò sbriciolandosi a terra, gonfiò un’ondata di polvere e detriti che travolse l’intero fianco del monte e inghiottì le sagome di greci e italiani che si stavano scontrando sul campo.

Italia si aggrappò alla roccia che li riparava, tirò su le spalle che schioccarono in una fitta di dolore, e si sporse a tendere lo sguardo verso il fumo che si era gonfiato sulla parete della montagna. La nebbia si sciolse, sagome nere la attraversarono risalendo il fianco del monte. Il fumo finì schiacciato dalla corsa del battaglione, rivelò il gruppo di bersaglieri italiani che si stavano muovendo fra le rocce ancora rotolanti.

Qualcuno gridò in mezzo al gruppo. “Salite, salite, puntate la cima, via dal fumo!”

“Avanzare, voi!” fece da eco una seconda voce. “Avanzare, alla carica verso la cima! Avanzate sul fianco destro!”

Anche Romano si sporse a guardare, premette la spalla contro quella di Italia.

Uno dei tre soldati attorno al mortaio tornò a ungere il tubo di lancio, pulendo per bene attorno alla bocca di fuoco, gli altri due si chinarono a scoperchiare un’altra cassa di munizioni, raccolsero un’estremità ciascuno di una delle bombe, contarono fino a tre e la issarono insieme. Il marconista con il binocolo riacchiappò lo strumento dal petto e si gettò con i gomiti sulla roccia, puntò le lenti verso la porzione di parete che si era staccata. Il soldato accanto alla radio si rimise le cuffie sulle orecchie, le premette bene sui padiglioni, e raggiunse il ricevitore, ruotò due manopole e gridò dentro i fori. “Richiesta di copertura per la Ventiseiesima Legione di Fanteria! Richiesta di entrata di divisioni di riserva Piemonte e Centauro!”

Romano acchiappò il braccio di Italia, si alzò prima di lui e se lo trascinò dietro. “Andiamocene da qui!” Gli strinse la mano, abbassò la testa, ed entrambi si tuffarono a correre in mezzo al fumo e agli altri soldati che avanzavano verso la cima.

Romano impennò lo sguardo, restrinse le palpebre, scrutò fra le rocce con gli occhi che gli bruciavano per l’aria pungente e carica del fumo delle esplosioni che continuavano a lampeggiare dietro le nuvole scoppiate dalla montagna. Strinse i denti. “Dannati bastardi.” Un fischio. Un altro scoppio, e Romano intercettò con la coda dell’occhio un gruppo di uomini che si gettavano a terra alle loro spalle. Saltò di una falcata addosso a Italia, gli strinse le spalle e lo spinse a terra. “Giù!”

Caddero assieme addosso a una delle macchie di sterpaglia ancora incrostata del ghiaccio della notte. Il loro peso sfondò alcuni rami che si sbriciolarono come paglia, accogliendoli nella bocca dell’arbusto. L’onda d’urto passò sopra le loro schiene, spazzò una gettata d’aria che bruciò sotto i loro vestiti, e si ritirò con il borbottante suono di un tuono che si spegne.

Italia sollevò un braccio di Romano che gli stava ancora tenendo attorno alle spalle, si strappò via uno dei rametti che era rimasto incollato alla giacca, e gli cercò lo sguardo. “Romano.” Riprese fiato, le mani bruciarono, erano tornate a sanguinare, e non riusciva più a sentirsi le gambe di nuovo schiacciate a terra.

Romano sollevò la testa, tenne lo sguardo riparato dietro la sterpaglia, e gettò gli occhi ancora stretti di rabbia e tensione a Italia.

Italia non cedette. “Io devo tornare da Grecia.” Anche i suoi occhi brillarono di una luce più forte e determinata. “Devo assolutamente parlare con lui, altrimenti tutta l’offensiva sarà stata inutile!”

Romano tirò su le spalle, si strofinò il viso in un punto dove si era tagliato, lasciandosi la guancia sbavata di sangue e terra, e tornò a fulminare Italia con un’occhiataccia. “Tu sei pazzo se credi che io ti lascerò andare,” scosse il capo, “non dopo quello che ti ha fatto l’ultima volta!”

“Non ti sto chiedendo di farmi andare da solo,” ribatté Italia, “ti sto chiedendo di fidarti di me!”

“Io non...”

Uno scoppio fece di nuovo tremare la montagna.

Italia e Romano strizzarono gli occhi e tornarono ad abbassarsi, aspettarono che i tremori passassero fino a udire al loro posto il suono del battaglione in corsa. Italia inspirò una lunga boccata di fiato, tossì tenendosi la mano davanti alla bocca e la testa riparata, e ruotò gli occhi rossi di bruciore e stanchezza verso Romano. “Romano.” Tossì ancora, aspettò che Romano si girasse a guardarlo, che i loro occhi scuri come il cielo si incrociassero, e indurì il volto circondato dalla nebbiolina di polvere di rocce. “Io sono sicuro che Grecia non mi farà del male,” disse, “e nemmeno io voglio fargliene.” Si posò una mano sporca e insanguinata sul petto, macchiando la stoffa della giacca. “Ma ho bisogno di parlargli.” Nei suoi occhi tornò quella lucida scintilla di supplica. “Di parlargli un’ultima volta prima che sia troppo tardi.”

Romano sbuffò, si aggiustò l’orlo dell’elmetto che stava scivolando verso il naso. “Se non vuoi ammazzarlo, allora mi spieghi il senso di tutto questo?”

“Fidati di me.” Italia tese il braccio, strinse le dita attorno alla manica di Romano, gli trasmise una scossa di coraggio. “Fidati e lo scoprirai.”

Romano si morse il labbro, rimuginò a denti stretti, e un grumo di rabbia, di indecisione e di paura gli si aggrovigliò nel petto, formicolando nel sangue e attorno al cuore. Guardò il petto di Italia, il luccicare della croce di ferro che pendeva dal suo collo fra i bottoni della giacca. I bracci neri e argentati sporchi di terra e sangue come la mostrina della Divisione Puglie e come la mano di Italia stretta al suo fucile. Spostò lo sguardo dove sapeva che la cicatrice restava ad attraversargli il cuore, e cercò di non evocarne il ricordo. Romano deglutì. Riportò gli occhi su quelli di Italia che, anche se circondati dalla nebbia del campo di battaglia e oscurati dall’ombra dell’elmetto, avevano ripreso a splendere e a bruciare di determinazione. Italia aggrottò la fronte, increspò le sopracciglia, le palpebre si strinsero e sfumature dorate cerchiarono l’iride nocciola, brillarono all’interno delle pupille.

Romano abbassò lo sguardo e tremò, continuando a morsicarsi il labbro, sperando di riuscire a trattenere la voglia di dargli retta. Tornò a sentire il tocco di Italia sul suo braccio, schiacciò il pugno, e si abbandonò a quel profondo e caldo sentimento di fiducia che gli era penetrato nel petto. Annuì. “D’accordo.”

Il chiasso delle mitragliate tornò a schiantarsi in mezzo a loro, fece esplodere una linea di terra, alcuni soldati si gettarono di lato per schivare gli spari e il loro movimento catturò lo sguardo di Romano fuori dal riparo. Romano si sporse, gli spari cessarono, le ombre dietro il velo di fumo ricominciarono ad avanzare, scoppi più lontani continuarono a scuotere il terreno.

Romano tornò a rivolgere lo sguardo a Italia, raccolse il suo fucile e se lo allacciò attorno alla spalla. “Però sbrighiamoci, prima che arrivi la Centauro a far piazza pulita con i carri.”

Italia annuì, mostrò un piccolo sorriso di sollievo. “Sì.” Si sporse, un ginocchio già fuori dall’arbusto sfondato, e anche lui rimboccò la cinghia del Carcano attorno al braccio.

Romano tese di scatto il braccio, gli strinse la cinta dell’uniforme e lo tirò indietro. “Fermo, aspetta!” Italia gli cadde sul petto, Romano gli allacciò il braccio attorno al torso, e un’esplosione scoppiò nel punto che Italia aveva toccato con la gamba, scavò un cratere di fumo che gettò una spazzata di terra addosso all’arbusto che li riparava. Una linguata di vento ululò sul campo, inclinò il fumo, scoprì la via libera formata dalla terra nera appena ribaltata.

Romano slacciò il braccio dal busto di Italia, tirò su un ginocchio premendoglielo sulla schiena e gli diede una spinta fra le scapole. “Ora! Corri!”

Italia si lanciò fuori dal nascondiglio, saltò oltre un grumo di terra che ancora fumava, e scattò correndo verso la salita del fianco della montagna. Allungò una falcata, inspirò, trattenne il fiato, socchiuse gli occhi per sopprimere il bruciore del fumo negli occhi, e isolò i rumori attorno a lui, concentrandosi solo sul battito del suo cuore accelerato che gli rimbombava nelle orecchie. Soffiò l’aria dalle labbra, allungò un altro passo di corsa, schiacciò il piede frantumando la terra ancora incrostata di ghiaccio, e gettò subito un’altra falcata in avanti. Inspirò, espirò. In bocca gli entrò il sapore del sangue, del sudore e della terra. Il fumo pregno dell’odore di zolfo si aprì attorno a lui come una ragnatela squarciata dalla sua corsa, creò un vortice di vuoto attorno al suo corpo che gli diede l’impressione di correre all’interno di una spirale.

Italia strinse forte la presa attorno al fucile. Le mani bruciarono, le gambe tornarono ad appesantirsi, il respiro gli schiacciò le costole, ma lui serrò i denti, aggrottò la fronte, e continuò a correre frantumando il terreno sotto i suoi piedi.

Devo trovarlo.

Altri spari illuminarono il fumo, graffiarono scie nere che trapassarono le ombre in corsa dei soldati. Le sagome caddero, altre si abbassarono e continuarono la salita, altre imbracciarono le loro armi e spararono lampi di luce a loro volta.

Italia prese un altro profondo respiro, lanciò lo sguardo alle sue spalle, in cerca di Romano.

Devo trovare Grecia, non posso permettere che l’offensiva finisca in questo modo. Ho già sacrificato abbastanza uomini, sono già morte troppe persone per i miei errori.

Romano era ancora dietro di lui, circondato dai riccioli di fumo, dalle nuvolette di terra sollevate dalla sua corsa.

Italia tornò a guardare davanti a sé.

E non permetterò che anche questo attacco sia vano.

Staccò una mano dal fucile, la tuffò nella tasca della giacca ed estrasse una pezza bianca. La arrotolò attorno al palmo, lasciò che le due estremità sventolassero come piccole ali, come i lembi di una bandiera, e la avvicinò al viso.

Grecia deve sapere.

Un’altra falcata, un altro respiro, un altro battito del cuore.

Deve sapere a cosa tutti e due andremo incontro se l’offensiva non cederà definitivamente. Un guizzo di paura gli arroventò il sangue, accelerò il respiro e fece aumentare la sua corsa. Deve sapere cosa potrebbe accadergli una volta che Germania sarà qui.

Una gettata di fumo gli soffiò in faccia, Italia strizzò gli occhi, affogò nel grigio, nell’odore di esplosivo e di terra, e ritornò indietro.

 

♦♦♦

 

3 marzo 1941,

Valona, Albania

 

Il comandante si strinse nelle spalle, aggrottò un sopracciglio increspando un’espressione dubbiosa, e si strofinò il capo massaggiandosi il collo irrigidito dalla tensione. “Una nuova offensiva, signore?” Un brivido di timore attraversò la sua voce e la incrinò in un tono preoccupato.

Italia annuì. Un gesto secco e deciso. “Sì.” Rivolse lo sguardo anche al secondo comandante che serbava la stessa espressione del primo: gli occhi dubbiosi, le labbra socchiuse, e un pallore grigiastro a macchiargli le guance. “Definitiva, questa volta,” confermò Italia. “Un’ultima offensiva di primavera prima dell’arrivo dei rinforzi tedeschi.” Un fischio di vento scivolò fra le pareti di tela della tenda da campo, trasportò un soffio di gelo nell’aria che rese l’atmosfera ancora più fredda e stagnante.

I due comandanti si scambiarono due rapidi sguardi, uno di loro inarcò anche l’altro sopracciglio, tenne la mano stretta alla nuca, e l’altro buttò l’occhio dietro di sé, verso Romano. Romano intercettò il suo sguardo e voltò di colpo il viso, strinse le braccia annodate al petto e si spostò di un passetto più indietro, premendo le spalle alla parete scossa dal vento. Tenne il broncio, l’espressione di chi sa già tutto e che ne ha abbastanza di discutere, e tamburellò le dita sugli avambracci.

Il comandante emise un lieve sospiro di sconforto, compì un passetto più vicino a Italia e ammorbidì lo sguardo, anche la voce si fece più cauta. “Signore, ci ha pensato a fondo?” domandò. “Ha considerato tutto quello che potrebbe comportare un nuovo attacco così concentrato da parte nostra?”

“Per di più...” Il secondo comandante diede un’altra massaggiata al collo, e il suo viso si stropicciò in un’espressione di conflitto. “Proprio prima dell’arrivo dei rinforzi.” Si strinse nelle spalle ed emise un profondo sospiro. “Non dico che dovremmo limitarci a starcene a braccia conserte, ma un nuovo attacco è sicuramente controproducente in vista di quello che ci aspetta ora che i tedeschi sono in arrivo.”

Italia chiuse i pugni sui fianchi, schiacciando quel piccolo germe di paura che si era piantato nel suo petto. “Proprio perché tra non molto saremo raggiunti dai tedeschi, voglio tentare il tutto e per tutto prima del loro arrivo.” Raccolse il coraggio nel cuore, sciacquò via quella nebbia di dubbio che gli galleggiava attorno alla testa appannandogli i pensieri, e si posò le nocche di un pugno sul petto. “So che avremo una possibilità di vittoria concreta solo dopo l’arrivo dei nostri alleati, ma questo non farebbe altro che rafforzare l’idea che la nostra nazione non è mai in grado di affrontare una guerra solo con le sue capacità.” Scosse il capo, ma senza perdere quella fiammella di speranza che gli teneva gli occhi accesi e determinati. “Mi rendo conto che non potremo fare molto, ma almeno un po’...” Lo sguardo gli cadde inconsciamente sul mucchio di carte geografiche scarabocchiate che avevano lasciato aperte sul tavolo al centro della tenda. Italia irrigidì. “Se almeno riuscissimo a riconquistare un nodo stradale o una città come Klisura o come Gianina, anche...” Si strinse nelle spalle, scostò gli occhi dalle mappe, e volse i palmi al soffitto. “Anche per risollevare l’animo alle truppe, per fare loro un po’ di sicurezza prima che ricominci la battaglia vera e propria.”

Altre occhiate vaghe fra i due comandanti volarono attraverso l’abitacolo della tenda, il soffio del vento fuori dalle pareti rimaneva l’unico suono a riempire quel pesante silenzio che si era condensato come una nebbia umida e appiccicosa.

Italia si accorse del dubbio che stagnava fra i due comandanti. Si fece avanti di un passetto, a testa alta. “Roma non è contenta della nostra condotta.” Un’ombra di delusione e rammarico gli passò attraverso gli occhi, gli fece chinare la fronte su cui ricadde la frangia sfoltita. “E l’opinione nazionale sul nostro esercito e sul nostro governo non cambierà, anche se dovessimo vincere. È per questo che dobbiamo dare al popolo una nuova possibilità di avere fiducia in noi.” Sciolse il pugno posato sul petto e fece scivolare la mano aperta accanto alle mostrine dell’uniforme. “Dobbiamo essere in grado di mandare a casa dei soldati fieri di aver combattuto e di essersi sacrificati per la loro nazione.”

Romano fece roteare lo sguardo, si tenne stretto nelle spalle, chiuso nel suo angolino, le braccia ben annodate al petto, come a proteggersi, e accavallò le gambe spostando lo sguardo ancora più in disparte. La costante ruga di disapprovazione a tenergli la fronte contratta.

Il comandante si sfilò la mano da dietro la nuca e giunse le braccia dietro la schiena. “La capiamo, signore,” disse con tono comprensivo. “Ma...” Guardò l’altro ufficiale e flesse le punte delle sopracciglia come aspettandosi che continuasse lui.

Il secondo comandante spostò gli occhi ai suoi piedi e sospirò, l’espressione più impotente e sconfitta rispetto al collega. “Se vuole,” disse a Italia, “potremmo tentare un’offensiva per riconquistare Klisura, in modo da avere un buon controllo del settore ovest albanese in attesa che i tedeschi occupino l’est.”

Lo sguardo di Italia tornò ad animarsi di una scintilla di speranza. Lui giunse le mani davanti al petto e annuì con vigore. “Sì, vi prego.” Le guance riacquistarono un sano colorito roseo.

I due comandanti annuirono e si radunarono attorno al tavolo con le cartine, sollevarono quella più grande aperta sopra i documenti, e rigirarono un paio di mappe più piccole.

Italia gettò lo sguardo in mezzo ai piedi, sciolse le dita intrecciate davanti al petto e si rosicchiò la punta dell’indice, mentre un primo sentimento di colpevolezza gli formicolò nello stomaco. Lui sollevò la punta dello stivale e si grattò dietro la caviglia, continuando a passare gli incisivi sull’unghia.

Detesto mentire ai miei ufficiali.

Tenne la fronte bassa ma spostò lo sguardo sul tavolo delle cartine. Le punte delle sopracciglia sollevate donarono ai suoi occhi un’aria più triste e colpevole.

Guadagnare tempo in attesa che arrivi Germania e risollevare gli animi. Anche se questa non è una completa bugia, sento che è come se stessi mentendo. Scosse il capo senza farsi notare. Ma non posso dirgli che il vero motivo per il quale sto facendo tutto questo è per rincontrare Grecia un’ultima volta, non mi lascerebbero mai avanzare.

Anche Romano si avvicinò di un passetto, staccandosi dalla parete e tendendo il viso verso il tavolo con le mappe geografiche. Italia gli lanciò un’occhiata distratta.

E lo stesso vale per Romano. Inspirò, tornò a stringere i pugni. Nemmeno lui deve saperlo.

Il comandante distese una delle cartine che aveva appena estratto e tossicchiò. “Dunque...” Posò la mano sulla mappa, distese l’indice, risalì il profilo dell’Albania, e seguì una traiettoria invisibile con gli occhi. “Se il nostro scopo è riappropriarci dei punti nevralgici, in modo da facilitare il lavoro ai tedeschi, direi che le opzioni a nostra disposizione sono due.” Sollevò l’indice e lo mostrò a Italia. “La prima è di tentare un’azione profonda su Pogradec,” tornò ad abbassare il dito e lo posò sulla città ‘Pogradec’ affacciata sul Lago d’Ocrida, “su questo lato orientale. Creiamo un assalto in modo da portare le truppe del Decimo Corpo d’Armata ad avanzare e a comporre il braccio di una tenaglia che poi si collegherà con il braccio tedesco e schiaccerà i greci in una sorta di sforbiciata.”

Un’altra frecciata di delusione e sconforto trapassò e appesantì il cuore di Italia, gli ammosciò il piccolo sorriso che era sorto fra le labbra. “Ma quindi dobbiamo sempre aspettare i tedeschi,” si lamentò.

Romano alzò lo sguardo al soffitto e sbuffò. “Se non ci sono altre alternative...”

“E non c’è qualcosa che possiamo fare da soli?” insistette Italia. “Completamente da soli?”

I due comandanti si guardarono, e uno di loro – quello che aveva la mano posata sulla carta – restrinse le labbra, come per trattenersi dal dire qualcosa. Il secondo ufficiale tornò a strofinarsi il collo, tese due dita e si allargò il bavero dell’uniforme. “Ci sarebbe, signore, anche la possibilità...” Chiuse un pugno davanti alla bocca e si schiarì la voce. “Di un attacco in Val Desnizza.”

Sia Italia che Romano aguzzarono gli sguardi, le orecchie tese e attente. Italia trattenne il fiato per non interferire nemmeno con il suono del suo stesso respiro.

Il comandante si fece spazio mettendosi accanto al secondo ufficiale, e posò l’indice su un altro punto della mappa. “Qui a Quota Settecentotrentuno.” Picchiettò il dito. “Il grosso dell’esercito greco staziona proprio lì, dato che è una zona che permette di mantenere una buona difesa su Klisura. Sarebbe un attacco isolato, è vero,” i suoi occhi seri e profondi, cerchiati di stanchezza, incontrarono quelli di Italia, “ma anche molto rischioso, dato che ci impedirebbe di agire con una manovra a lungo raggio. Sarebbe solo una battaglia locale, nulla di più.”

Italia annuì. “È quello che voglio.” Un fischio di vento attirò la sua attenzione verso una delle pareti della tenda che si era gonfiata e poi subito appiattita. Italia si rimboccò il bavero della giacca, ignorò i soffi di freddo che lo facevano rabbrividire come se avesse avuto gli stivali colmi di neve. “Poi ora le nevi si stanno sciogliendo, no? Sarà più facile.”

“C’è però molto fango, signore,” ribatté il comandante, “e la nostra attrezzatura da montagna scarseggia, dato che la guerra di questo inverno ci ha devastato.”

Romano strinse le dita sulle braccia incrociate, scosso anche lui da un viscido e gelido brivido di ammonimento. Sollevò gli occhi incontro allo sguardo di Italia, restrinse le sopracciglia con uno scatto e inclinò un piccolo gesto con il capo verso il comandante. Dagli retta, scemo.

Italia aggrottò la fronte a sua volta e rispose scuotendo lievemente il capo. Tornò a guardare la mappa. So che è più rischioso, disse a se stesso. Ma comunque quest’azione mi porterà davanti a Grecia. Forse. Posò una mano sulla cartina, chiuse il pugno come a raccogliere le scritte delle città e dei monti e dei fiumi, come a catturare la presenza stessa di Grecia. Ed è questo che voglio.

Italia annuì. “D’accordo.” Raddrizzò le spalle, rivolse quel segno d’assenso a entrambi i comandanti. “D’accordo, scelgo questa direttiva.”

Romano strabuzzò gli occhi, rimase a bocca socchiusa, la lingua congelata, incapace di parlare e di fermarlo.

Italia sollevò la mano dalla cartina, sgranchì le dita irrigidite dal freddo, scorse un’ultima volta con gli occhi i monti che si ingrossavano al centro della valle, rendendo i colori più scuri e le scritte più concentrate. Inspirò, raccolse una sorsata di coraggio, e rafforzò l’intensità dello sguardo. “Diamo inizio all’attacco il nove. Attaccheremo per primi, muovendoci all’alba, ore zero-sei-zero-zero.” Si strinse nella giacca, sfilò accanto ai due comandanti, puntando l’uscita della tenda senza guardarli in volto. “Suddividiamo l’offensiva a ondate in modo da alternare i battaglioni.”

Uno dei due comandanti schiuse la bocca per primo, gli occhi in allarme come quelli di Romano, ma anche lui non disse nulla. L’altro chinò il capo, annuì debolmente, la sua voce uscì stanca e sconfortata. “Sissignore.”

Romano scosse la testa per riprendersi. Anche lui passò davanti ai due ufficiali, accelerò il passo per stare dietro a Italia, il senso di rabbia e incomprensione tornò ad aggrovigliarsi nello stomaco come un gomitolo di fuoco. “Veneziano...” Tese il braccio, la mano gli sfiorò il gomito, Italia accelerò, e le dita di Romano strinsero il vuoto.

Italia strizzò le palpebre, come per non immaginare la sua stessa espressione e per non fronteggiare quella di Romano, e uscì dalla tenda, finì investito da un’ondata di freddo che gli morse la pelle e che arrivò come un masso di granito nei polmoni. Continuò a scappare ignorando la voce di Romano che continuava a inseguirlo.

“Veneziano, torna qua, ascoltami!”

Italia scosse il capo. Perdonami, Romano. Strinse i pugni sui fianchi, continuando a tenere gli occhi chiusi. Romano, Germania... non so se questo significa tradirvi di nuovo...

Accostò un pugno al petto, dove sentiva la tensione premere contro il cuore.

Ma ho bisogno di questo, ho bisogno di parlare con Grecia, ho bisogno di affrontarlo un’ultima volta.

I suoi pensieri tornarono indietro, e scavarono nei ricordi delle battaglie di quell’inverno.

Italia si rivide caduto sulle ginocchia davanti a Grecia, ferito e sconfitto, annaffiato dalla pioggia e sommerso dal fango, schiacciato dal senso di umiliazione che gravava sulle sue spalle e che gli teneva la testa china. Dietro di lui percepì l’ombra di Germania che si ingrandiva, che lo proteggeva, e che andava a inghiottire anche Grecia nel suo baratro nero: lo stesso che sentì dilatarsi attorno al suo cuore.

So bene che la guerra contro Grecia finirà solamente quando arriverà Germania. Ma so anche che Grecia subirà una sconfitta ingiusta. Scosse il capo, scacciò via quel pensiero. Non posso permettere che subisca questo, perché lui non se lo merita. E nemmeno io sarò in grado di fermare Germania, una volta che sarà arrivato qui o nel momento in cui si ritroverà davanti a Grecia.

Tornò a vedere Grecia bagnato di pioggia e sporco di fango, in piedi e alto davanti a lui, circondato dal cielo nero di nuvole, i capelli incollati al viso che continuava a gocciolare acqua piovana, gli occhi verdi che lo squadravano in mezzo al buio, senza paura, e quella sua dura espressione di ammonimento e di disapprovazione che non aveva mai ceduto durante quei mesi.

Grecia ha mostrato molto più valore di me, eppure perderà.

Il senso di colpa gli gonfiò il cuore dolorante, gli scottò le guance, punse in mezzo alle palpebre facendo salire la voglia di piangere.

Italia strinse i denti.

E tutto per colpa mia.

Tornare davanti a Grecia, fronteggiarlo ad armi basse, convincerlo a ritirarsi, metterlo in salvo.

Devo impedire almeno che venga ucciso da Germania, devo salvarlo...

Di nuovo a terra, steso nel fango, picchiato dal nevischio che cadeva sulle ferite sanguinanti. Il sapore del sangue e della pioggia a sciogliersi fra le labbra, il respiro debole, la testa appannata dal dolore, il corpo mitragliato dagli spari, e la pesante giacca di Grecia a coprirgli la schiena. “Richiedi un armistizio,” gli mormorò il suo ricordo. “Richiedi un armistizio e io lo accetterò.”

Italia riaprì gli occhi, mostrò lo stesso sguardo duro e inflessibile che avrebbe svelato davanti a Grecia. Esattamente come lui ha cercato di fare con me.

 

♦♦♦

 

Il bozzolo di fumo nato dall’esplosione si ritirò, si risucchiò nel vuoto d’aria aperto dal cratere che aveva forato il terreno. Grecia tuffò le spalle in avanti, saltò attraverso il nuvolone, atterrò sul fianco, si rotolò tenendosi abbracciato al suo fucile, e cadde carponi. Scrollò la testa e si grattò i capelli – non indossava l’elmetto – per riprendersi dallo stordimento dello scoppio, sbatacchiò gli occhi per gettare via la terra dalle palpebre, e gattonò sui gomiti fino alla roccia che stava riparando i suoi soldati. Due di loro erano sdraiati sulla pancia, i gomiti sopra la pietra, e sparavano verso il fondo della montagna. Un altro di loro stava ricaricando la sua arma. Dietro la sua schiena si riparava il soldato con le cuffie al collo e le mani impegnate a pigiare i bottoni accanto al ricevitore della scatola della radio raccolta fra le sue gambe.

Grecia diede un’ultima strisciata di ginocchia e si appoggiò accanto ai fucilieri, premette anche lui i gomiti sulla roccia, allineò la sua arma e chinò la fronte per inquadrare la vista nel mirino. Strizzò l’occhio esterno, accostò le palpebre aperte al cannocchiale.

Le due sottili linee perpendicolari sfilarono lungo il terreno avvolto nella nebbia di fumo che continuava a esplodere a ritmo degli spari, scivolarono fra i soldati che correvano risalendo il monte. Grecia si bloccò, restrinse l’occhio soffermandosi sui volti degli uomini nascosti dagli elmetti, cercò quello familiare di Italia, e spostò il quadrante continuando a spiare.

Che cosa stai facendo, Italia? si domandò, punto da una scossa di irritazione. Un’altra offensiva proprio prima dell’arrivo di Germania. Sbuffò seccato. Dubito che sia stato lui a dirti di fare una mossa così stupida, quindi hai di nuovo agito da solo.

Sollevò gli occhi dal fucile, tenne aggrottate le punte delle sopracciglia, gli occhi ancora ristretti, e si riabituò alla vista non filtrata dalla lente del mirino.

A cosa punti realmente?

Girò lo sguardo verso i soldati sdraiati accanto a lui – uno di loro si chinò per sostituire la cartuccia scarica –, sbatté lentamente le palpebre tenendo il viso disteso in quell’aria calma e rilassata. “Come procede?”

Uno dei soldati sparò un colpo, il lampo si ritirò lasciando uno sbuffo di fumo attorno alla canna, e l’uomo sollevò il capo. Strinse i denti, scosse la testa, si asciugò la fronte sporca e sudata. “Non cedono, signore.” Scaricò il bossolo vuoto che volò via, e caricò un altro colpo. “Già la quarta ondata, da questa mattina. Noi abbiamo artiglieria migliore, e i loro mezzi da montagna scarseggiano, ma anche i nostri soldati stanno raggiungendo il limite.”

Il soldato accovacciato accanto all’apparecchio radio si tolse il binocolo dal viso e alzò la voce per farsi sentire da Grecia. “Avvistati primi M13/40 degli italiani, signore!”

Grecia sgranò gli occhi, tornò a poggiarsi sul gomito piegato sulla roccia, e tese lo sguardo verso il fondo del monte, dove il fumo si addensava.

Stanno già usando i carri della Centauro?

Assottigliò lo sguardo ma non vide nulla. Tornò a tirarsi indietro, le spalle nascoste e il capo riparato, e anche lui rafforzò la voce per rivolgersi al soldato accovacciato accanto alla radio. “Richiedete artiglieria anticarro, svelti.”

L’uomo si resse il padiglione di una cuffia contro l’orecchio e annuì. “Sissignore.” Premette un paio di pulsanti, sollevò il ricevitore schiacciandolo fra l’orecchio e l’elmetto. “Richiesta artiglieria anticarro, ripeto, richiesta artiglieria anticarro, coordinate...”

Uno scoppio sotto di loro li fece sobbalzare tutti. Grecia si strinse nelle spalle, in un piccolo scatto, e i suoi muscoli tornarono subito rilassati, il respiro lento e il battito regolare, nessuna traccia di spavento nei suoi occhi che rimanevano placidi e ombreggiati dalle palpebre socchiuse. Girò il busto, si strofinò i capelli, e sollevò un sopracciglio in un’espressione interrogativa. “Perché stanno tirando fuori i mezzi corazzati?” domandò. “Mi sembra un po’ eccessivo.”

Il soldato accanto a lui abbassò il fucile, si aggiustò l’elmetto sulla fronte, e gli rivolse uno sguardo di nuovo sveglio e agguerrito. “Non si preoccupi, signore, gli impediremo di raggiungere la cima e di arrivare a Klisura a tutti i costi.” Si appoggiò anche lui di nuovo con i gomiti alla roccia e sollevò gli occhi al cielo, il grigio delle nuvole si riflesse nei suoi occhi cerchiati di nerofumo. “Temiamo un attacco aereo, ma a quanto pare le piste sono ancora in pessime condizioni e gli è impossibile decollare.”

Grecia annuì. “Mantenete le posizioni, tenetele a tutti i costi.” Raccolse il suo fucile fra i gomiti, premette la volata sulla spalla, e tese una gamba per scivolare via dal nascondiglio. “Continuate a inviare i rapporti per una situazione tattica sui fianchi destro e sinistro, nessuno dovrà ritirarsi nelle retrovie, nemmeno un singolo soldato.” Aggrottò la fronte, i suoi occhi bui brillarono in profondità. Il cuore trasmise un battito forte e scottante come una scarica elettrica. “Anche a costo di morire qui.”

I soldati annuirono insieme. “Sissignore!”

Grecia gettò un’occhiata fuori dal riparo. Il fumo si dissolse, scoprì il terreno scavato da crateri deserti. Niente soldati e gli spari delle mitragliatrici lontani. Via libera.

Si gettò fuori, imbracciò il fucile tenendo già l’indice infilato nel grilletto, la baionetta emise una scintilla argentata, e corse lungo il pendio senza staccare gli occhi da davanti sé. Il vento gli fischiò nelle orecchie, agitò i capelli sudati, lo isolò dagli altri rumori.

È questo il tuo obiettivo, Italia? Avanzare e avvicinarti a me prima che arrivi Germania?

Saltò una roccia. Qualcuno gridò in lontananza, Grecia spostò la corsa più a sinistra, abbassò le spalle, e un fischio lo raggiunse, terminò con uno scoppio che tremò sotto i suoi piedi, facendolo sobbalzare. L’onda di terra e sassi gli soffiò fra le gambe e rotolò in mezzo ai suoi stivali, ma Grecia non rallentò, continuò a correre.

Ma non te lo lascerò fare.

Sagome nere si unirono alla sua corsa, i suoi soldati accelerarono, alcuni si immersero nel fumo, puntarono le baionette sollevando i fucili davanti al petto, e i primi spari lampeggiarono attorno a lui, scoppiettando come fuochi artificiali.

Un’espressione più buia mascherò il volto di Grecia. Tu non meriti questa vittoria, rimuginò, e sono sicuro che anche tu ti stia rendendo conto di questo.

Un sentimento di orgoglio si infilò nel suo cuore, gli gonfiò il petto facendo scorrere una calda forza nel sangue che gli fece dimenticare la stanchezza alle gambe, la pesantezza del fucile fra le braccia, e i dolori alla schiena. Grecia aggrottò la fronte, i suoi occhi tornarono a bruciare di vita. Anche se in primavera sarò sconfitto, non accetterò mai di essere battuto da te. Strinse le mani attorno alla sua arma, irrigidì l’indice contro il grilletto, e avanzò nella sua corsa.

   
 
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