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Autore: _Frame_    14/05/2017    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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125. Nike Àptera e Vittoria Mutilata

 

 

La mano di Italia strizzò la pezza bianca schiacciata fra le sue dita, i lembi sbavati di nero e di rosso si agitarono al vento mosso dalla corsa, come le ali di una piccola bandiera. Italia sollevò il braccio sfilandolo da sotto il corpo del fucile premuto al fianco, tenne il pugno stretto attorno al panno e si strofinò la manica dell’uniforme sul viso fradicio di sudore e sporco di terra e schizzi di sangue che gli gocciolavano dalla fronte e dalle guance. Allungò tre falcate di seguito in mezzo alle rocce fumanti e i sassi ancora incrostati di ghiaccio si ribaltarono contro le sue caviglie e dietro i suoi piedi. Fece scivolare il braccio giù dal viso annerito e scavato di fatica, svelò due grandi occhi luminosi e ardenti, febbricitanti, che riflessero i lampi che scoppiavano nel campo di battaglia, attorno alla nebbia di zolfo che avvolgeva lui, suo fratello, e i loro uomini.

Altra falcata di corsa. Italia schiacciò il piede a terra – il braccio ancora piegato davanti al petto e la pezza bianca a sventolare dalla mano –, ed esalò un profondo sospiro che gli svuotò i polmoni gonfiandosi in una nube di condensa grigia come i fumi soffiati dai crateri. Restrinse le palpebre sotto le sopracciglia aggrottate, e il suo viso si contrasse in un’espressione esausta. Il respiro successivo gli scaricò un pugno di dolore nei polmoni, dritto alle costole come una martellata, e la gola arrochita bruciò come se avesse ingollato un braciere. Un altro passo di corsa e una scossa di dolore gli si arrampicò su per la gamba, penetrò il ginocchio come un chiodo di ferro, la gabbia di sofferenza rimase a frustargli i piedi come se si fosse ritrovato scalzo a correre in mezzo ai coralli.

Italia riagguantò il fucile con entrambe le braccia, una mano attorno al calcio e uno sulla volata, e le spalle si appesantirono di colpo. Il peso improvviso sui muscoli lo tirò verso il basso, gli fece contrarre il busto e chinare il capo, il fucile iniziò a scivolargli dalle dita unte di sangue e fango. Italia flesse le unghie, diede una graffiata al metallo dell’arma, trattenne il respiro e tirò su di colpo la volata contro il fumo a cui stava andando incontro.

Sollevò lo sguardo. Un primo capogiro gli esplose davanti agli occhi come il lampo di uno dei cannoni che sparavano dalle montagne. Gli accecò la vista, l’ondata di emicrania e di vertigini gli sbatté in faccia con la prepotenza di uno schiaffo, gli diede la nausea e l’impressione di star svenendo. I suoni si offuscarono, i colori sfumarono mescolandosi fra loro. Gli spari, i suoni delle corse e dei suoi stessi respiri sempre più distanti.

Italia scosse la testa, strinse i denti sopprimendo un sottile ringhio. Devo farcela. Si diede un’altra asciugata al viso, tirò su col naso e guadagnò un respiro che ossigenò il cervello.

Qualcos’altro esplose dietro di lui. Sentì Romano accelerare. L’onda d’urto gli investì la schiena, colpendolo come un calcio, ma Italia resistette. Contrasse i muscoli doloranti, continuò a correre ignorando le chiodate di dolore alle piante dei piedi e nelle caviglie, imbracciò il fucile contro il fianco e puntò gli occhi ristretti sotto l’elmetto addosso ai riccioli di fumo.

Non devo mollare, anche se fa male. Devo resistere!

La sagoma di Romano gli corse di fianco, saltò lo spuntone di una roccia, accelerò, e lo superò mettendosi davanti alla sua spalla. Anche lui mollò la canna del fucile e si strinse la visiera dell’elmetto fra due dita. Tirò su l’ombra dal viso, sollevò la fronte al cielo e spalancò gli occhi davanti all’immagine di un altro colpo caricato dalla parete del monte. La bocca cadde socchiusa in un sospiro muto.

Romano si girò verso Italia, gli allacciò il braccio attorno alle spalle, lo tirò in disparte e gli premette la mano dietro la nuca. “Testa bassa!” Entrambi caddero in ginocchio, le braccia di Romano strette contro la schiena del fratello. Italia sbatté la coscia addosso alla cima di una roccia, ma il suono della raffica di mitragliate gli scaricò addosso un’ondata di adrenalina che gli infiammò il sangue, impedendogli di sentire il dolore.

Rimasero entrambi a spalle chine e teste basse fino a che la grandinata di spari non cessò.

Lo scroscio si ritirò, lasciò un eco metallico che vibrò attraverso l’aria, si mescolò al suono di passi in corsa che continuava, alle grida di qualcuno che incitava il battaglione a proseguire l’arrampicata, e al resto degli spari singoli che scoppiavano come schiocchi di frusta.

Italia sollevò lo sguardo oltre la sua spalla e oltre il braccio di Romano. Un getto di fumo gli finì addosso, gli bruciò gli occhi, e la sua vista appannata si posò sulle sagome nere dei soldati che correvano fra le scintille degli spari.

Uno dei soldati finì trafitto da un proiettile che tagliò l’aria come una lama. L’uomo contrasse la schiena, gettò le spalle all’indietro sporgendo il petto ferito e cacciò un urlo sordo. Si ribaltò di fianco, sbatté la spalla a terra rotolando fra il polverone che si era sollevato dagli spari, picchiò la tempia sullo spuntone di una roccia e l’elmetto gli volò via dalla testa, scoprendo la sua nera espressione di sofferenza. Il soldato si aggrappò con le mani al petto, boccheggiò, rivoli di sangue sgorgarono fra le dita contratte e sporche di nero, gli bagnarono la giacca dell’uniforme e rotolarono a terra. Righe di sangue scivolarono anche dall’attaccatura dei capelli bagnati di sudore e neri di fumo, incollati alle guance sfregiate e incavate dalla fatica e dal dolore che gli teneva strizzati gli occhi e i denti contratti in quella smorfia di sofferenza.

Altri soldati caddero sotto gli spari che continuavano a piovere sulle pendici della montagna, altri continuarono a correre, a tenersi riparati, e a sparare a loro volta per poi andare a gettarsi dietro le rocce o agli arbusti più alti. Nessuno si fermava. Scavalcavano i fiumiciattoli di sangue e fango sciolto, e proseguivano la corsa con gli stivali macchiati di rosso.

Gli occhi di Italia si allargarono riflettendo l’immagine del soldato caduto. Rabbia e dolore gli bruciarono nel sangue, un’ondata di compassione gli appesantì il cuore, gonfiò il battito che sembrò fermarsi, lasciandolo senza fiato.

Italia si scrollò di dosso il braccio di Romano, si gettò a terra con i gomiti tenendo il fucile allacciato alla schiena, e gattonò a testa bassa con braccia e gambe che strisciavano fra rocce e terra ribaltata.

Romano capì e scattò gettando le mani addosso ai suoi piedi. “Veneziano, no!” Acchiappò una manciata di vuoto vicino alle sue caviglie, senza riuscire ad afferrarle e a fermarlo. Il fracasso di un’esplosione scoppiò lì vicino, l’onda d’urto attraversò il terreno e lo fece arretrare. Romano tossì, si riparò il viso con un braccio, e lanciò un urlo di furia verso Italia. “Torna indietro, stupido!”

Un altro scoppio spazzò una folata di polveri e detriti sopra il corpo chino di Italia che avanzava strisciando verso i rantolii del soldato colpito, la coltre lo inghiottì, strappandolo alla vista di Romano.

Italia si aggrappò a una radice e a uno spuntone di roccia, e si spinse accanto al soldato. Accostò una mano sporca di terra alla gola, si slacciò l’elmetto, prese due rauchi respiri per alzare la voce e per farsi sentire dall’uomo. “Eccomi, eccomi.”

Il soldato rantolò un lamento fra i denti sporchi di sangue e terra, strinse forte le mani accostate al petto già imbrattato di nero, fece strisciare un ginocchio contro il ventre, e girò il torso schiacciando la guancia fra le rocce. Schiuse le palpebre chiuse dalle rughe di dolore. Occhi lucidi di sofferenza e iniettati di sangue ruotarono verso lo sguardo di Italia, si restrinsero in un silenzioso imploro di aiuto, mentre dalle mani contratte sul petto ferito continuavano a far sgorgare fiotti di sangue nero e fumante.

Italia si spinse sulle ginocchia, restando a spalle basse, e gli si accovacciò affianco. “Non ti preoccupare, ora ti porto al riparo.” Si sfilò di dosso l’elmetto che prima aveva slacciato. Un’improvvisa ventata di aria fresca gli soffiò fra i capelli, pizzicò dietro le orecchie e sulla fonte trasmettendogli una piacevole sensazione di leggerezza. Italia scrollò i capelli sudati strofinandosi la nuca, e tornò a occuparsi del soldato, a guardarlo in quegli occhi grigi di dolore, ristretti come capocchie di spillo. “Andrà tutto bene, tutto bene, te lo prometto.” Gli sollevò il capo sentendo il suo corpo tremare di dolore sotto il suo tocco, gli infilò l’elmetto al posto di quello che gli era volato via dalla testa e gli allacciò le cinghie sotto la gola che vibrava per il respiro accelerato.

Altri spari a raffica accompagnarono la corsa dei soldati ancora in piedi che proseguivano la risalita della montagna in mezzo alle raffiche luminose, alle pietre spaccate e ai crateri nel terreno.

Italia sentì un’improvvisa scarica di energia e terrore esplodergli nel petto e raggiungere le gambe, facendogli fremere i muscoli contratti dalla fatica. Si gettò a raccogliere le braccia del soldato, costringendolo a far scivolare via le mani dalla ferita – l’uomo girò il capo dall’altra parte e soffocò un lamento – e si diede una spinta per rialzarsi. “Resisti.” Diede un piccolo slancio di spalle, pestò un passo all’indietro tenendo i denti stretti per la fatica, e mirò un punto del campo dove non soffiava più fumo.

Un’altra pioggia di spari gli sfiorò la schiena, i proiettili esplosero accanto ai suoi piedi e le scintille schizzarono fino alle sue spalle. Italia saltò dalla paura, a occhi sgranati, “Ah!”, e tornò a precipitare con le ginocchia a terra. Una scossa di paura gli bruciò attraverso il sangue, il vento addosso alla testa scoperta e fra i capelli sudati gli trasmise un amaro sentimento di vulnerabilità che lo fece arricciare su se stesso.

Italia riaprì gli occhi e in mezzo al fumo si elevò una figura nera, sempre più grande e sempre più scura, che si gettò verso di lui saltando oltre gli spuntoni di roccia e le raffiche di detriti che volavano graffiando l’aria. Un peso si buttò al suolo accanto a lui, il terreno vibrò sotto le sue ginocchia, le sue braccia si tesero a raccogliere le gambe del soldato, e una voce familiare gli squillò nelle orecchie. “Forza, sbrigati!”

Un guizzo di gioia e sollievo attraversò il cuore di Italia, facendolo saltare nel petto, e i suoi occhi sciacquati dallo spavento si riempirono dell’immagine di Romano appena saltato accanto a lui.

Subito altri due uomini saltarono fuori dal fumo, sospinti dal tuono di un’esplosione. Uno di loro rimase in piedi, il fucile sottobraccio e la mira puntata in mezzo alla nebbia, di guardia, e il secondo si buttò accanto a Romano, gli fece un cenno aiutandolo con l’uomo ferito, e gli indicò un punto del campo. “Vi aiutiamo noi!”

Romano annuì per primo. Italia tirò su le spalle sentendo un forte calore ardergli nel sangue, trasmettergli un’ondata di forza e fiducia. “Forza, tutti insieme,” gridò. “Ora!”

Tirarono su insieme il soldato e accelerarono il passo verso uno dei ripari dietro ai cespugli più folti. Il fante che era rimasto di guardia corse assieme a loro, appallottolò una pezza che aveva tirato fuori dalla tasca e gliela spinse contro il petto, dove la ferita continuava a spurgare sangue.

Arrivarono dietro la roccia più alta e spessa, posarono il soldato, e subito un’altra esplosione fece saltare la terra. Uno dei soldati che avevano portato lì l’uomo si chinò accanto al compagno, gli batté una mano sulla spalla. “Ci siamo noi, ci siamo noi, andrà tutto bene.”

Italia si infilò una mano fra i capelli scoperti, li tirò lontani dal viso, e tenne le dita strette fra le ciocche per non farle di nuovo incollare alla faccia. “Avvisate un capitano medico! Fate mettere al riparo tutti i feriti, non lasciate che rimangano troppo a lungo sul campo!”

Tutti i soldati – tranne quello ferito – annuirono all’unisono. “Sissignore!”

Romano si lanciò a stringere il braccio di Italia, lo fece alzare dietro di lui, e guardò già verso la cima al monte, puntando il loro obiettivo. “Sbrigati, dobbiamo tornare fuori!” Gli diede un piccolo strattone e corse fuori dal riparo, tirandoselo dietro.

Italia annuì e si lasciò guidare. Alla prima falcata le gambe si indurirono come blocchi di marmo, i piedi si inchiodarono al suolo, ma la corsa di Romano lo tirò avanti, la sua mano gli resse il braccio che non teneva il fucile, e scese fino a stringergli le dita. La sua presa si intrecciò con la pezza bianca da cui Italia non si era mai separato. Chiazze rosse di un sangue non suo maculavano la stoffa sporca di terra nera, una gocciolina rossa piovve dall’intreccio di dita e finì trascinata via dal vento che odorava di zolfo e di ferro.

Un’altra esplosione proveniente dalle rocce più alte catturò l’attenzione di entrambi verso le nuvole color piombo che tappavano la luce del sole. Romano rallentò, i suoi occhi si restrinsero e riflessero le scintille metalliche provenienti dai cannoni e dagli obici nascosti dietro le macchie di boscaglia. Staccò la mano da quella di Italia, si sfilò il fucile dalla spalla, lo schiacciò al fianco e lo puntò verso l’alto. 

“Coprimi!”

Italia annuì. Rallentò anche lui e schiacciò la schiena alla sua, incrociò un piede a quelli di suo fratello, e mirò anche lui il suo fucile verso il basso, contro le nuvole di fumo che rimasero piatte e vuote, a galleggiare riflettendo solo i lampi degli spari.

Romano sparò i primi due colpi, la sua schiena sobbalzò contro quella di Italia e i suoi gomiti gli premettero sui fianchi a ogni esplosione. Italia sentì il gracchio metallico del bossolo che saltava via, unito a un ringhio basso di Romano. “Dannati.” E altri due spari uno di seguito all’altro.

Romano spinse il fucile sulla spalla, riagguantò la manica di Italia e riprese a correre facendolo girare. Gli schiocchi dei suoi passi frantumarono l’eco delle esplosioni che erano cessate. “Forse siamo messi meglio di quel che credevo,” disse con uno sbuffo di fatica.

Italia scrollò il capo per riprendersi dallo stordimento. “Perché?” Tese un passo più ampio e riacquistò l’equilibrio, la testa smise di girare.

Romano accelerò, i suoi occhi circondati da goccioline di sudore che piovevano dalle ciglia tornarono a puntare verso l’alto. Una scintilla di entusiasmo gli attraversò lo sguardo. “Sono riuscito a colpire i bastardi che sparano dagli obici. Abbiamo la via libera ma dobbiamo sbrigarci!” Strizzò la manica di Italia e accelerò.

Italia sorrise, colto anche lui da quel sobbalzo di gioia che gli gonfiò il cuore di speranza. “Te l’avevo detto che dovevi fidarti di me.”

Romano fece roteare lo sguardo, non riuscì a contenere un mezzo ghigno. “Sì, ma non agitarti troppo.” In viso tornò buio, sporco di terra e fumo, e anche il mezzo sorriso cadde piatto. La coltre grigia e dall’odore di esplosivo gli riempì la mente trascinandolo all’ultima battaglia in cui avevano fronteggiato Grecia. “Altrimenti finisce come l’ultima volta.”

Italia scosse il capo, non rallentò la corsa. “Oggi no.” Strizzò la pezza bianca nella sua mano, isolò i suoni e si concentrò sul tintinnio della croce di ferro che sbatteva sui bottoni della giacca a ogni falcata. “Oggi lo impedirò, oggi è diverso.”

Romano fece per rispondergli ma un’ennesima esplosione gli strappò le parole, facendo sobbalzare entrambi. Scattò di un rimbalzo più ampio, le gambe gli bruciarono per lo sforzo, e i suoi occhi volarono di nuovo contro la cima della montagna. “Muoviamoci, corri!”

Una forte ventata elettrica scivolò in mezzo ai riccioli di fumo, soffiò attraverso i corpi di Italia e Romano, scottò sulla loro pelle lasciando una scia di brividi che pizzicarono dietro la schiena e lungo la base del collo. Romano deglutì. Un’irrazionale sensazione di paura gli ghiacciò il sangue, annodò lo stomaco facendo salire un acido senso di nausea. Questa volta no? ripeté a se stesso.

Buttò la coda dell’occhio sopra la sua spalla, inquadrò il viso di Italia, sudato e sbavato di terra, più in luce ora che non indossava l’elmetto. Guardava anche lui in alto, verso la cima del monte. Il vento gli agitava le ciocche di capelli, nere e sporche di sangue. Gocce di fango colavano dalle punte e gli rigavano le guance fino al mento, passando in mezzo alle labbra socchiuse dalla fatica.

Romano aggrottò la fronte.

Non cos’abbia in testa, ma questa volta non succederà quello che ci ha quasi ammazzati durante l’ultima battaglia.

Lo sguardo gli cadde sulla pezza bianca che Italia stringeva in mano, sui lembi che sventolavano contro il suo polso, e un altro brivido di timore gli attraversò il cuore come una frecciatina.

Mi devo fidare davvero?

I rumori si isolarono, gli echi degli spari cessarono, il fragore delle mitragliate si spense, passò un ululato di vento che trascinò con sé un fumo ancora più denso e spumoso, una nebbia umida e appiccicosa che caricò l’aria di una tensione elettrica da far salire la pelle d’oca.

Romano si fermò, rimbalzò di un paio di passi facendo rotolare una roccia, e tese il braccio per bloccare Italia dietro di sé. “Stai indietro.” Gettò lo sguardo a destra e a sinistra, e il fumo si strinse ancora, isolandoli dalle pareti di montagna.

Italia strinse le mani sulla giacca di Romano, unì la spalla alla sua, guardò dietro di sé, un brivido di spavento lo fece tremare, ma gli occhi rimasero accesi da quella fiamma di determinazione che gli bruciava dentro. Deglutì. Calmò il respiro. “Va tutto bene.” Lasciò scivolare la mano che stringeva la pezza, stese il braccio lungo il fianco in modo che si vedesse meglio, e un altro brivido di attesa gli punse lo stomaco torto nella tensione. “Va tutto bene, non ci farà del male.”

Romano girò il viso, tese un palmo verso il suo fucile, e continuò a scavare con lo sguardo in mezzo al fumo stretto ad anello attorno a loro. Un brontolio del cielo li paralizzò. Italia e Romano si cercarono le mani e le strinsero, restando stretti e con i cuori in gola. Appena fuori dal fumo, una presenza si avvicinò a loro.

 

.

 

Un anello di fumo scivolò fra le rocce del terreno, circondò Grecia, gli corse in mezzo ai piedi e alle ginocchia, si innalzò in un muro e tappò ogni rumore esterno isolandolo dagli spari e dalle cannonate che facevano tremare la montagna. Chiuse e addensò in quel cerchio l’aria che sapeva di esplosivo. Minuscole scossette elettriche gli punsero il collo e scivolarono lungo la schiena, i brividi si trasmisero anche attraverso le sue gambe, lo fecero avvicinare di un passo più al centro. Grecia strinse il suo fucile al fianco, mosse un altro passo avanzando con la punta del piede, spostò una roccia che rotolò verso il basso, e lui girò lo sguardo tendendo le orecchie e ascoltando la tensione dei suoi nervi che stavano salendo a fior di pelle. Il vento gli scosse due ciocche di capelli davanti agli occhi ristretti. Grecia aggrottò le punte delle sopracciglia, affilando lo sguardo in tensione, e fece scivolare l’indice lungo il profilo del fucile. Lo infilò nell’anello del grilletto, spinse la prima falange sulla levetta ricurva.

Dove sei, Italia?

Si voltò alla sua destra, spostò la volata del fucile, premette leggermente l’indice sul grilletto, sentendolo cigolare, e tornò a tendere l’udito per penetrare quel silenzio elettrico. Aguzzò la vista nell’ambiente pregno di fumo gonfio e denso che lo isolava dal resto del campo di battaglia.

Una voce lo sorprese alle sue spalle.

“Grecia, fermo!”

Grecia sgranò gli occhi, spinse il peso su una gamba, facendola scivolare all’indietro, e si voltò di scatto. Tirò su le braccia, puntò la mira del fucile verso la voce di Italia che aveva trapassato il fumo, e socchiuse un occhio per inquadrare le due ombre che si stavano ingrandendo, sempre più vicine. Rallentò il respiro, mantenne regolare il battito cardiaco, e distese le linee del viso.

Italia premette un piede fuori dal fumo, fece rotolare via dei sassolini da sotto lo stivale, la sua gamba avanzò di un passo. Dalla nebbia emerse per primo il suo braccio teso, la mano strinse e diede una piccola scossa alla pezza che teneva fra dita e palmo: una piccola bandiera bianca. Il fumo si schiuse come una coppia di ali, si dissolse attorno al suo corpo, e svelò lo sguardo incorniciato dai capelli spettinati, sudati e sporchi di polvere, che sventolavano davanti due occhi accesi e senza paura, più scuri ma allo stesso tempo più brillanti. Il fucile allacciato alla spalla e disteso dietro la scapola.

Dietro di lui, l’ombra di Romano rimase nascosta accanto alla spalla di Italia, ma la sagoma del suo fucile si tese sfiorando il braccio che impugnava la bandiera bianca. Emanò una scintilla metallica sulla punta della canna, splendette di una luce fredda e ostile, pregna di odio, la stessa che regnava nei suoi occhi puntati su Grecia come lame affilate.

Italia compì un altro passo al centro dell’anello di fumo, e tenne lo sguardo alto, rivolto al viso di Grecia. Piegò il braccio e portò la pezza bianca davanti al petto, dandole un’altra piccola scossa. “Non sparare,” un singolo brivido di timore gli attraversò il tono di voce, “non siamo qui a combattere.”

Grecia non abbassò il fucile. I suoi occhi scivolarono dalla pezza bianca di Italia al fucile imbracciato dalla mezza figura di Romano che emergeva da dietro il suo fianco, alla canna scintillante mirata contro di lui e che incrementava la tensione elettrica che surriscaldava l’aria. Sollevò un sopracciglio e rivolse a Italia quell’espressione scettica. Per chi mi hai preso?

Italia capì. Voltò la guancia senza scollare gli occhi alti e in guardia da quelli di Grecia, e si rivolse a Romano. “Romano, abbassa il fucile,” disse con voce ferma.

Le braccia di Romano tremarono, lo sguardo incerto, e un nodo di paura e conflitto gli strinse il cuore, facendolo esitare.

Italia rinnovò l’occhiata rassicurante. “Va tutto bene,” il fiato era ancora un po’ corto per la corsa in mezzo alle esplosioni, “fidati, lascia il fucile.”

Romano strinse ancora di più la presa. I suoi occhi volarono su Grecia, gli lanciarono un feroce sguardo di ammonizione, e tornarono bui. Si fidò. Ritirò il fucile, lo stese sul fianco, restando accanto a Italia, dietro la sua spalla, ma la sua mano si accostò alla cinta allacciata sotto la giacca, le dita si tesero verso le tasche gonfie di cartucce cariche e sfiorarono il calcio della pistola ancora infilata nel fodero. Non la toccarono, ma la guardia di Romano rimase alta, i nervi tesi e pronti a scattare a un minimo movimento falso di Grecia.

Anche Grecia abbassò la sua arma sul fianco, raddrizzò le spalle e rilassò la tensione dei muscoli. Il vento gli passò attraverso, trascinò le sue parole. “Un’altra offensiva,” commentò.

Italia abbassò le palpebre, sospirò e chinò la fronte, già allontanandosi da quell’accusa.

Grecia invece indurì lo sguardo, lo tenne rigido e severo. “È da quando la guerra è cominciata che ho sempre cercato di capire cosa ti passasse per la testa, Italia.” Ruotò gli occhi al cielo, esaminando con aria annoiata il fumo addensato attorno a loro, i lampi bianchi che riflettevano gli spari silenziosi che continuavano a bombardare la montagna. “Dopo questo...” Scosse le spalle. “Credo davvero che non riuscirò mai a capirlo.”

Una sbavatura di colpevolezza macchiò l’espressione di Italia, gli tenne le palpebre chiuse, le punte delle sopracciglia increspate. “Questa offensiva...” Sospirò a fondo. Schiuse gli occhi che apparvero meno luminosi, annebbiati da una patina di fatica e tristezza, cerchiati dal nero delle occhiaie e dallo sporco del fango che continuava a colare assieme al sudore gocciolato dai capelli. Cercò lo sguardo di Grecia, quasi a chiedere scusa. “Era necessaria.”

Grecia aggrottò la fronte. “Perché?” chiese. “Solo per avvantaggiarti su Germania? Sei stato stupido, ancora un paio di settimane e lui sarà qui. Non avevi bisogno di semplificargli il lavoro.” Avanzò di un passo cauto, premette il piede fra i sassi che emisero uno schiocco sordo, e Romano tornò a scattare sull’attenti, le dita contratte toccarono il calcio della pistola ma tornarono immobili. Grecia flesse leggermente il capo di lato, rivolse una debole espressione incuriosita a Italia. “Perché stai continuando a buttare all’aria uomini e mezzi?” Tornò a spalle strette. “Per riscattare tutte le sconfitte precedenti? Per un onore che non arriverà nemmeno a battaglia finita?”

Romano digrignò i denti, un reflusso di umiliazione salì a bruciargli nel petto, a infiammargli le guance. Spostò un piede ma Italia tese il braccio davanti a lui, bloccandolo. Anticipò il movimento senza distogliere l’attenzione da Grecia.

Italia scosse il capo. “Non è come credi.” Abbassò la pezza bianca, calò il braccio da davanti il petto di Romano e si fece avanti al posto suo. “Questa offensiva è nata perché io volevo...” Trattenne il respiro, strinse i pugni, e riguadagnò una breve sorsata di fiato. Si fece coraggio. “Perché io avevo bisogno di parlarti faccia a faccia.”

Un brontolio dietro le nuvole si animò in un lampo di luce che sbatté contro il banco di nebbia a forma di anello stretto attorno ai loro corpi. Grecia non lo notò nemmeno. Sollevò un sopracciglio, rimanendo con il capo lievemente flesso e a palpebre socchiuse, catturato dalle parole di Italia e mosso da un brivido di curiosità fiorita nel petto.

Italia prese un altro respiro, superò il senso di vuoto che provava nel non sentire la spalla di Romano premuta alla sua, e fronteggiò Grecia con gli stessi occhi adulti, cerchiati di stanchezza e sporco, con cui si era presentato. “A gennaio sono tornato a casa, al Passo del Brennero, e ho parlato con Germania.” Nel suo sguardo si specchiò un riflesso più triste e colpevole, il tono di voce si fece più debole e rassegnato. Gli pesò sul cuore. “Ormai è già deciso tutto, Grecia, ancora poche settimane e Germania darà ordine di cominciare le operazioni, sta già organizzando e schierando i corpi d’armata sul confine e prendendo accordi con le altre nazioni per intervenire qui.”

Altri tuoni ovattati dalle nuvole rombarono fuori dalla nebbia, luci si alternarono e si spensero, un denso vento rovente penetrò la barriera e scosse abiti e capelli, un soffio di polveri grigie – zolfo e grani di rocce sbriciolate – scivolò davanti a Grecia e gli rese lo sguardo più scuro, l’espressione quasi annoiata.

Grecia sollevò le sopracciglia. “E secondo te io non mi aspettavo qualcosa del genere?” Raddrizzò il capo e si strofinò una mano fra i capelli per togliere le ciocche scompigliate da davanti il volto. “Mi credi così sprovveduto? Già lo scorso inverno avevo capito che prima o poi Germania si sarebbe fatto avanti per terminare quello che tu non saresti riuscito a ottenere da questa campagna.”

Italia strinse le labbra, pizzicandosi la carne, e la bocca vibrò, ingoiò e tenne dentro tutto l’umiliante dolore sputato da quelle parole. I pugni stretti sui fianchi tremarono, le unghie spinsero sui palmi, ma Italia non mosse un muscolo.

Grecia restrinse leggermente gli occhi, e il suo sguardo finì attraversato da un lampo di pietà che li tenne duri e inflessibili, ma meno severi. “Perché credi che io ti avessi proposto l’armistizio, qualche mese fa?”

Italia guadagnò un piccolo respiro per calmarsi e distendere i brividi di tensione. “Perché temi Germania,” rispose.

Grecia aggrottò la fronte. “Certo che lo temo.” Un altro borbottio del cielo fece da eco alla sua voce. “E temevo anche che saremmo arrivati a una situazione del genere. Ma non è la paura che mi farà arretrare, né davanti a voi né davanti a lui. E non lo faranno nemmeno le tue minacce.”

Italia annuì. “Lo so.” Rimase a fronte bassa, la frangia caduta davanti agli occhi gli dava un’aria sconfitta. “Lo so che non cederesti nemmeno davanti a Germania. È per questo che ho voluto incontrarti, è per questo che voglio comunque fare un altro tentativo, per...” Aprì e strizzò i pugni, soppresse la scossetta nata in fondo al petto. “Per convincerti ad arrenderti.”

Un barlume di smarrimento comparve negli occhi di Grecia, gli fece tenere un sopracciglio aggrottato, e un rivolo di terra sciolta gocciolò da una ciocca di capelli. Dove vuole arrivare?

Italia prese un respiro di incoraggiamento. “Grecia.” Premette un passo avanti – crack! – e si avvicinò ancora. “Se Germania intervenisse, lui...” Tornò a percepire l’ombra di Germania incombere sulla nazione, inghiottirla lasciando alle sue spalle una scia di impronte di sangue. “Lui non si tratterrebbe con te, impiegherà tutti i mezzi a sua disposizione per riuscire a vincere e a portare l’Italia in salvo.” Scosse il capo, di nuovo schiacciato da quel pensiero. “Ma non era questo che volevo,” confessò. “Io ho fatto degli errori durante questa campagna. La campagna stessa è stata un grosso errore, un errore a cui ormai non posso più rimediare come vorrei. Io voglio che finisca, ma non in questo modo, non voglio che delle nazioni vengano distrutte per causa mia.”

Anche Romano abbassò gli occhi, rallentò il respiro, e la stessa botta di colpevolezza centrò anche lui in mezzo al petto.

Italia strinse più forte i pugni, fino a sentirli bruciare. “Grecia.” Nei suoi occhi si specchiò un’ombra che gli rabbuiò i lineamenti del viso, facendoli apparire più forti e duri, ma anche più tristi. “Arrenditi.”

Un brontolio in lontananza addensò il fumo attorno a loro tre, le nuvole che ricoprivano il cielo divennero di un grigio più denso e impenetrabile. Un lenzuolo di buio e freddo li avvolse, il vento soffiò trascinando l’acre odore di esplosione, di sangue e di ferro.

Grecia rimase impassibile. Lo sguardo duro, quasi offeso, ombreggiato dai capelli spettinati e sporchi di terra che si spostavano, sospinti dalle scosse d’aria.

“L’unico modo che hai per salvarti la vita,” continuò Italia, “è accettare la sconfitta e impedire che Germania intervenga qua. Per quanta forza e coraggio tu possa metterci, lo sai che nemmeno questo sarà sufficiente contro l’avanzata della Wehrmacht.” Sospirò, e la voce suonò più stanca. “Ti prego,” suonò come una supplica, “arrenditi.” Tremori risalirono i pugni, le braccia, le spalle, e scesero lungo la schiena, gli fecero vibrare la voce. “Non costringere Germania a...” A fare qualcosa che non voglio vedere davanti ai miei occhi. Non dargli la possibilità di iniziare a divorarsi nella sua stessa rabbia come l’ultima volta. Italia deglutì. “A rendersi capace di qualcosa di simile.” Il fumo gli scivolò davanti, si infilò fra le sue gambe, si arricciò attorno al suo busto, gli toccò il viso bruciando in mezzo agli occhi, dando l’impressione che stessero lacrimando.

Grecia lasciò che quel nastro di polvere e fumo si dissolvesse, tornò a reclinare leggermente la testa di lato e squadrò Romano con gli stessi occhi inquisitori. “Tu, Romano, la pensi così?”

Romano sobbalzò, si morse il labbro, le braccia strinsero d’istinto attorno al fucile che aveva lasciato allacciato alla scapola. Un brivido lo punse alla sprovvista, lo costrinse a guardare per terra, in mezzo ai piedi, schiacciato da una fitta sensazione di malessere simile a quella che provava quando mentiva o nascondeva un segreto. Che stronzo, sa benissimo come la penso.

Italia si fece avanti di un altro passetto, stese un braccio a proteggere Romano. “La decisione è stata mia, Romano non c’entra. Io voglio...” Tremò di nuovo. Sulle sue labbra comparve un debole e insicuro sorriso tremolante che nascondeva in sé una minuscola ombra di ipocrisia. “Voglio salvarti, Grecia.”

Sul volto di Grecia tornò quell’espressione offesa che gli fece scivolare un disgustoso brivido di rabbia nel petto. “È per salvare me che lo stai dicendo,” sollevò la punta di un sopracciglio, “o è per salvare te stesso?”

Italia schiuse la bocca, sussultò, mosse il labbro inferiore, ma le parole rimasero incastrate assieme al suo respiro.

Grecia sbuffò. “Dopo tutto quello in cui mi hai trascinato, Italia, dopo tutto quello che stai facendo passare alla mia nazione e alla tua...” Sollevò leggermente il mento. “Hai anche il coraggio di preoccuparti per me?”

Italia gettò d’istinto gli occhi in basso, come Romano, e sgranchì le dita per resistere alla sensazione di volersi proteggere incrociando le braccia al petto e chiudendosi nelle spalle.

Gli occhi di Grecia si fecero più bui, il verde delle iridi finì coperto dal grigio delle nuvole che brulicavano sopra di loro, una serpe di fumo strisciò gonfiandosi attorno alle sue gambe, il vento fece risalire una soffice nebbia nera attorno al suo corpo, l’aria gli agitò le punte dei capelli davanti al volto. “A che gioco stai giocando, Italia, si può sapere?” gli fece. “Credi che sia questo il modo di affrontare una guerra? Credi che io lo accetti?”

Anche Italia si sentì una piccola fiammella bruciargli nel sangue, incenerire il sentimento di vergogna, e farlo tornare a sguardo alto. “Io so come affrontare una guerra, è solo...” Scosse il capo, di nuovo incerto. “Che non voglio che ti capiti qualcosa che non meriti.”

Grecia aggrottò la fronte. “E questo?” Sollevò un indice al cielo. “Questo invece me lo merito?”

“Ma era solo...” Tentennò. “Era solo per...” Uno scoppio ovattato dal fumo lo fece trasalire, Italia ingoiò respiro e parole, si strinse le mani al petto, fece un saltello all’indietro rimbalzando sulla spalla di Romano, e riprese a tremare nella sua gabbia di indecisione e timore che gli attanagliava il cuore come un artiglio di spine.

Grecia sospirò. Sul suo volto intransigente apparve una ruga sconsolata e compassionevole. “Italia.” Il fumo che si era addensato attorno al suo corpo si abbassò, dissolse l’ombra, la sua voce suonò più morbida. “Tutto questo, tutte le motivazioni che ti hanno spinto a questo attacco...” Scosse lentamente il capo. “Non hanno mai avuto realmente a che vedere con me, sono sempre ruotate attorno a te, e continuano a ruotare attorno a te.”

Questa volta fu Romano a esitare. Spalancò le palpebre e il grigio nei suoi occhi riflesse il ricordo di quando si era trovato per la prima volta da solo davanti a Grecia. Divenne il grigio delle acque del Kalamas, delle rocce fra le quali era caduto, della pioggia che continuava a scrosciargli addosso. “Tutto questo è successo solo perché dovevamo dimostrare di essere forti come lui!” Un altro amaro boccone di colpevolezza gli andò di traverso, facendogli impallidire le guance.

“Non mi stai mettendo in guardia per salvarmi,” continuò Grecia, “ma per salvare te stesso. Non vuoi avere sulla coscienza il peso di un’intera nazione messa a ferro e fuoco solo per colpa tua.” Restrinse le palpebre e il suo sguardo tornò buio e accusatorio, una lama puntata al cuore. “Non sei cambiato per niente da questo autunno e da questo inverno, stai sempre e solo continuando a scappare dalle conseguenze delle tue decisioni.”

“E...” Italia si strofinò la manica sul viso, schiacciò il pugno al fianco, e fronteggiò Grecia con occhi alti e forti. “E anche se fosse?” disse. “E anche se fosse così, cosa ci sarebbe di male? Non importa per chi o per cosa io lo stia facendo, sto sempre cercando di salvarti prima che Germania ti uccida.”

Romano sussultò, si svegliò dal ricordo. Ucciderlo? Lanciò un’occhiata perplessa a Grecia, inarcò un sopracciglio, venne scosso da un brivido. No, non avrebbe senso. Perché Germania dovrebbe ucciderlo? Non è come con Polonia, e nemmeno Francia era finito ridotto in quel modo dopo la scorsa primavera. I suoi occhi tornarono su Italia. Divennero scuri e penetranti come quelli di Grecia, ma più scettici. Che Veneziano mi stia nascondendo qualcosa?

“Non ho bisogno della tua pietà,” rispose Grecia, con indifferenza. “E nemmeno di una tua esitazione.” Sollevò le spalle, tornò a flettere leggermente il capo per squadrare Italia di traverso. “Credi di essere l’unico che può permettersi di contare sulla potenza e sull’aiuto di qualcun altro, Italia?”

“Di qualcun altro?” Italia sbatté le palpebre, restò a labbra socchiuse, una spina di sospetto si infilò nella sua testa. “Hai...” La spina di timore si ingrossò in un chiodo di paura. Italia slargò le palpebre, le guance impallidirono, un brivido gli penetrò le ossa. “Inghilterra parteciperà alla campagna?”

Anche Romano si sentì trafitto dallo stesso chiodo di paura. Inghilterra?

Davanti a lui apparvero i feroci occhi di Inghilterra abbagliati dai riflettori del porto che aveva fronteggiato a Taranto, l’unico occhio libero dalla benda nera che lo aveva inseguito in cielo durante la battaglia in mare assieme a Prussia, e quel piccolo corpo insanguinato che continuava a rialzarsi e a correre dopo ogni colpo subito, dopo ogni cannonata esplosa sulle sue navi.  

Effettivamente, ragionò, nemmeno i crucchi sono riusciti a metterlo fuori combattimento, e ormai è quasi un anno che ci provano. Con Inghilterra a combattere per lui, forse anche Grecia potrebbe avere una speranza di vittoria?

Un soffio di vento e polvere tornò a fischiargli nelle orecchie.

A quel punto, se nemmeno Germania riuscisse a tirarci fuori da qua... Romano si rivide di nuovo davanti a Inghilterra, davanti ai suoi occhi truci che brillavano come il ghigno dipinto sulle sue labbra, e l’ombra di Germania non abbastanza grande da proteggere sia lui che Italia. Saremmo fottuti.

Grecia allontanò gli occhi che tornarono avvolti da quella velata espressione insonnolita, si strofinò il capo e sospirò con aria stanca e sconsolata. “Sai, Italia, in realtà...” Si strinse nelle spalle. “Anche io ho commesso i miei errori da quando è cominciata questa guerra.”

La tensione sul viso di Italia si rilassò. Lui sbatté le palpebre, confuso, e smise di respirare come per non disturbare le sue parole.

“Non sono stato in grado di sconfiggerti come avrei voluto,” continuò Grecia, “e se avessi agito in maniera diversa, probabilmente ora tutto questo sarebbe già finito.” Si posò una mano sul petto. “Anche io mi assumo le mie colpe ma, se dovessi perdere, sarai tu a rimetterci più di me, perché tu avevi perso...” Il buio tornò ad abbassarsi, donò al suo sguardo placido una sfumatura solenne. “Ancora prima di attaccarmi.”     

La stessa paura che Italia aveva provato davanti a Grecia quando lo aveva combattuto, quando si era trovato accasciato ai suoi piedi, ricoperto di sangue e di fango, quando aveva sentito esplodere il proiettile nel suo petto e trafiggergli il cuore, quando aveva percepito l’alito gelido della Morte soffiargli dietro l’orecchio e si era già visto inghiottito nella sua bocca nera, tornò ad aggredirlo in una secchiata di acqua ghiacciata. Lo stomaco si strinse, il cuore batté forte e secco, lo sguardo impallidì, tutto il suo corpo divenne un pesante blocco di marmo.

Un rombo esplose nel cielo, interruppe il flusso di pensieri, il tuono lo attraversò come una saetta e gli fece schizzare il cuore alla gola.

Italia buttò lo sguardo al cielo, arretrò di un passo e si mise una mano davanti alla fronte.

Una formazione di bombardieri italiani graffiò il tetto di nuvole. I cinque aerei schizzarono lontani lasciandosi dietro altrettante scie bianche: artigliate bianche sul grigio del cielo, e il loro rombo si estinse scomparendo assieme alle loro sagome.

Italia sgranò gli occhi, finì investito dalla risacca d’aria trasportata dal volo dei bombardieri, e rimase congelato, a bocca socchiusa e palpebre sbarrate, ancora paralizzato dalle ultime parole di Grecia. “Tu avevi perso ancora prima di attaccarmi.” Gli tremarono le ginocchia, iniziò a sentire freddo e a sentire la testa girare. “Ancora prima di attaccarmi.” I brividi si arrampicarono lungo la schiena, la vista sfumò, le graffiate di fumo si sdoppiarono, sciolte dalle vertigini. “Tu avevi già perso.”

Il peso di Romano gli arrivò addosso, le sue mani si aggrapparono alla sua spalla e al suo fianco e lo tirarono via. La sua voce gli esplose nelle orecchie. “Giù, ripariamoci!”

Italia incrociò un passo, gli si appese al gomito per non precipitare a terra, piantò i piedi fra le rocce e lo tirò nella direzione opposta, colto da un’altra morsa di panico. “A-aspetta...” Non posso andarmene ora!

Le prime bombardate precipitarono dal cielo ed esplosero contro le pareti della montagna. A un primo scoppio ne seguì un altro, colonne bianche e grigie si elevarono toccando le nuvole del cielo, crearono fiori di fumo a forma di fontane, braci luminose piovvero scoppiando a mezz’aria. Le vibrazioni si propagarono, sobbalzarono sotto i loro piedi come le scosse di un terremoto, rocce franarono e rotolarono lungo il pendio, finendo addosso ai cespugli secchi che macchiavano il monte.

Italia si aggrappò a Romano, la spalla contro il suo fianco, la fronte premuta contro il suo collo sudato che sentiva fremere di spavento e fatica, e ruotò lo sguardo verso l’ombra di Grecia.

Altre due esplosioni seguirono il ronzio di un’altra ondata di bombardieri in volo.

Il fumo gettato in mezzo al campo di battaglia infranse la barriera che li isolava dal resto degli eserciti e spalancò la visione del cielo già tinto di un intenso color cremisi.

Italia seguì quel bruciore che continuava a torturarlo da dentro, sentì di nuovo i muscoli infiammarsi, il cuore che gridava di tornare indietro, di fermare Grecia, di urlargli di dargli retta e di arrendersi. Strappò via la spalla dal braccio di Romano, si avvitò all’indietro, incrociò i piedi e cadde a terra sulle ginocchia. Strizzò le rocce fra i palmi, caricò l’energia nelle gambe, spinse con i piedi a terra e si diede lo slancio per rialzarsi. Scattò inseguito dalla voce di Romano che esplose alle sue spalle.  

“Veneziano!”

Un’altra bomba fischiò in lontananza e precipitò dal cielo, si schiantò a terra sollevando il terreno e gonfiando un’onda di polveri e pietre che Italia sentì soffiare sulla schiena e in mezzo alle gambe.

Romano lanciò un altro grido. “Veneziano, torna qui, stupido, dobbiamo scappare subito!” Ma le sue parole finirono inghiottite dal boato di un altro scoppio.

Italia attraversò i bozzi di fumo che si rimestavano fra le rocce, schiacciò un passo più pesante e una zolla di terra si staccò sotto il suo piede, scivolò facendolo inciampare e rotolò lungo la pendenza che dava alla valle. Arrancò di un passo, riprese l’equilibrio, e gettò un braccio verso Grecia per farlo fermare. “Grecia!”

Grecia si fermò, si girò di profilo, scoccò un’occhiata a Italia, nascosto dietro il velo di fumo, e il tuono di un’altra esplosione scoppiò lontano da loro.

Italia pestò un altro passo lasciando un’impronta sulla terra, boccheggiò a fatica, le guance rosse e la gola bruciante, il viso che scottava. Gettò di nuovo il braccio avanti e riuscì a raccogliere l’immagine del corpo di Grecia nella sua mano spalancata. “Grecia, ferm – wha!” Un’altra zolla si staccò sotto il suo piede, scivolò come una lastra di ghiaccio umido, e lo fece precipitare a terra aprendogli un vuoto nello stomaco.

Il braccio di Grecia si tese e lo raggiunse, la mano gli acchiappò il polso, strinse sopra la manica della giacca, e il peso di Italia trascinò tutti e due nel ruzzolone. Italia sbatté il fianco a terra per primo, uno spuntone di roccia gli martellò l’anca, la tempia colpì un’altra pietra e una spolverata di terriccio gli finì fra le labbra. Rotolò ancora. Finì sopra il corpo di Grecia che si ribaltò a sua volta e che precipitò addosso ai rami secchi di uno dei cespugli. Grecia fece attrito con un piede, si aggrappò a una radice con la mano facendo stridere le unghie e resse Italia con l’altro braccio, bloccando il peso del suo corpo contro il petto. Gli ultimi frammenti di rocce e terriccio rotolarono attorno a loro, rimbalzarono sui loro corpi accasciati, sui loro vestiti, e corsero sparendo lungo il pendio.

Italia tenne strette le mani sulla giacca di Grecia, rimase a occhi strizzati e a fiato sospeso fino a che il brontolio dell’esplosione e l’eco della caduta delle pietre non cessarono. Sollevò la fronte, scosse il capo scrollandosi di dosso gli ultimi grani di terra e ramoscelli di cespuglio rimasti incastrati fra le ciocche. Schiuse le palpebre che ancora bruciavano per le polveri, riprese a respirare a fiato corto, e si trovò di fronte ai duri occhi di Grecia. Quello sguardo lo fece sussultare. 

Grecia gli rivolse uno sguardo piatto, di sufficienza. “Che aspetti?” Gli tolse la mano dalla spalla, dopo averlo sorretto per non farlo ruzzolare a valle, e girò la guancia spostando lo sguardo. “Vattene.”

Italia chiuse ancora di più le dita sulla sua giacca, le braccia tremarono, tornò quel dolore al petto che sembrava tagliargli il cuore in due come una spada. “No.” Scosse il capo, la voce gli si annodò in gola. “No, non voglio scappare.” Chinò la fronte, sollevò un pugno e lo spinse contro la spalla di Grecia, come per non farlo scappare. Un tremore di Italia scosse i corpi di entrambi, il nodo che sentiva al petto risalì la gola e minacciò di sciogliersi fra le palpebre già rosse e brucianti. Italia strinse i denti. “Devi ascoltarmi, ti prego, ti prego, devi...” Un’esplosione lontana gli strappò un altro gemito di spavento e tensione. Italia sollevò anche l’altro pugno sul petto di Grecia. Gli occhi larghi, lucidi e impauriti, si riflessero dentro quelli placidi di Grecia, piatti e calmi come specchi d’acqua. “Devi salvarti da questo. Non posso...” Il martellare del cuore gonfio di terrore riprese a fargli tremare i muscoli, a far sciamare vertigini di smarrimento e confusione attorno alla sua testa. “Non voglio vivere con questo peso, ti...” Le prime lacrime zampillarono dalle ciglia, sciolsero tutto il dolore e la disperazione che gli stagnavano dentro. Italia gli premette la fronte sul busto, le unghie graffiarono la stoffa, un piccolo singhiozzo gli fece sobbalzare la schiena, la sua voce finì soffocata nella giacca. “Ti prego.” Un altro singhiozzo.

I ronzii di altri bombardieri si incrociarono e attraversarono il cielo sopra di loro.

Grecia spinse la nuca all’indietro, i capelli gli scivolarono via dalle guance, i suoi occhi riflessero il grigio delle nuvole trafitte dalle scie degli aerei. Sospirò, di nuovo attraversato da un gelido sentimento di sconforto. I piccoli singhiozzi di Italia soffocati contro il suo petto fecero fremere anche il battito del suo cuore, i palpiti si fecero più pesanti, schiacciati da un peso.

“Questa guerra non ti ha insegnato nulla, Italia.”

Italia sussultò. Sollevò lo sguardo arrossato e rivolse a Grecia un’occhiata incredula, tesa di paura.

Grecia si strinse nelle spalle, rimanendo a viso alto. “Hai ragione, forse io finirò per perderla, ma non perderò mai me stesso come sta succedendo a te, ed è per questo che non ho paura per il mio paese.” Piegò un ginocchio per sollevare parte del peso di Italia dal suo busto, ruotò gli occhi per incontrare i suoi. La ciocca di capelli spettinati ricadde davanti al suo viso. “Questa vittoria non ti porterà a nulla, ed è per questo che tu stesso ne hai paura.”

La voglia di piangere tornò a gonfiarsi fra gli occhi di Italia, le sue braccia tremarono, la sua voce rotta stridette in un lamento arrochito dalla gola bruciante. “Che cosa dovrei fare, allora?” Diede una piccola scossetta alla giacca di Grecia, batté piano le nocche sul suo petto, gli occhi divennero una maschera di disperazione. “Dimmelo tu.”

Grecia scrollò le spalle, la sua voce vibrò sotto i pugni di Italia che gli premevano sulle costole. “Ricominciare imparando da quello da cui sei sempre scappato e che ti sta ancora inseguendo.”

Italia si strofinò il viso, tirò su col naso. “Cosa?” Una scintilla di smarrimento gli luccicò in mezzo agli occhi ristretti di paura. “Cosa mi insegue? Dimmelo. Io non...”

Altri scoppi tuonarono in lontananza. Sia Italia che Grecia puntarono gli sguardi verso i pennacchi di fumo che danzarono contro le pareti della montagna e che nascosero le sagome degli aerei svaniti dentro le nuvole. Italia era ancora a labbra socchiuse, gli occhi umidi e smarriti, il costante brivido a fargli tremare la schiena e le braccia piegate contro Grecia.

Grecia gli infilò una mano fra i capelli, strinse piano la presa, chiuse le dita forzandolo ad abbassare il capo, e gli accostò le labbra all’orecchio. “Nike Àptera,” mormorò.

Italia sbatacchiò le palpebre. “Co...” Riprese fiato, la testa ancora stretta fra le dita di Grecia, e gli occhi annebbiati che non riuscivano a raggiungerlo. “Cosa?” sibilò.

Grecia aspettò che l’eco di una delle bombardate si ritirasse e ripeté al suo orecchio: “Nike Àptera.” Sciolse leggermente la pressione delle dita fra i capelli di Italia, raccolse le gambe e tirò le spalle all’indietro. “Ricordati queste mie parole, Italia.” Si lasciò guardare dritto in viso, avvicinò la fronte alla sua, e gli occhi così vicini gli trasmisero un brivido che penetrò fino alla spina dorsale. “Saranno loro a condannarti, non io.”

Italia sentì quelle parole accoltellargli il petto e trafiggergli il cuore, il dolore gli morse la carne, raggelò il sangue e gli strappò un battito cardiaco, rendendogli la mente vuota e il viso bianco, gli occhi ancora larghi e persi nella paura.

Altri fischi, due esplosioni di seguito, una vampata di fumo e calore soffiata addosso alla nebbia che li nascondeva dal resto del campo. Grecia impennò lo sguardo, strinse le braccia attorno alle spalle di Italia, tirò su di colpo le ginocchia premendogliele sul ventre, e ribaltò il suo corpo di lato, sgusciando via dalla presa. Spinse i piedi e un gomito a terra, si rialzò con uno scatto, e corse verso il fumo.

Italia si resse il ventre, nel punto dove Grecia l’aveva colpito con la ginocchiata, tossì due volte, e rotolò sul fianco allungando verso di lui la mano libera. “A-aspetta,” esclamò. “Cosa vuol dire... Grecia!” Vide la sua sagoma rimpicciolirsi, sempre più sfocata e lontana, circondata dal fumo. Una sassata di paura lo centrò in pieno stomaco come una seconda ginocchiata, e le parole che gli aveva pronunciato all’orecchio cominciarono a ronzargli attorno alla testa come uno sciame di insetti. Italia si gettò in avanti, inciampò, cadde di spalla, si trascinò sul gomito e alzò la voce. “Grecia, ti prego!” Non lasciarmi qua così!

E invece se ne andò.

Italia sentì di nuovo il peso delle lacrime premergli fra le palpebre, bruciargli sul viso, appannargli la vista e annodargli un groppo in gola. Ritirò la mano che aveva teso verso la sagoma sempre più lontana e sfumata di Grecia, si tappò la bocca, soffocò un singhiozzo assorbendo tutto il sapore di sangue e terra, e un vuoto senso di disperazione gli risucchiò le energie dal corpo, gli fece salire la voglia di accasciarsi lì e di lasciarsi seppellire dalle esplosioni scaricate dai bombardieri.

Non ce l’ho fatta.

La sagoma di Romano trafisse il muro di fumo, le sue gambe atterrarono, infransero una crosta di terra, detriti rotolarono in mezzo ai suoi stivali, e si gettò addosso a Italia, gli strinse le spalle e gli schiacciò qualcosa di duro e metallico sopra la testa della forma di una padella.

“Via, via da qui!”

La consistenza dell’elmetto attutì il suo urlo, un’altra esplosione fischiò e scoppiò lontano da loro, spanse un ronzio dentro le orecchie di Italia che gli fece salire un senso di nausea e confusione.

Romano gli strinse le braccia, fece forza sui muscoli delle spalle, una scossa di dolore gli attraversò la schiena, ma lo tirò comunque in piedi e fu come sollevare un sacco di cemento inerte.

La formazione di cinque bombardieri più bassi attraversò un’altra volta il cielo, gonfiò una risacca d’aria che leccò tutto il fianco della montagna facendo inclinare le colonne di fumo e spandendo il calore rovente soffiato dagli incendi nati dalle esplosioni.

Romano arrancò di un passo, tirò Italia dietro di sé, e gli urlò sopra la spalla. “Corri, corri, dobbiamo andarcene!” Si precipitò dentro il fumo, abbassò il viso premendosi il braccio sulla bocca, e corse via con la sensazione di avere la testa più leggera, libera dall’elmetto, e i capelli sudati che pizzicavano sbattuti dalle folate di vento. Italia gli strinse la mano, irrigidì la presa, e si lasciò portare via come un burattino trascinato per i suoi stessi fili.

 

.

 

Si buttarono al riparo. Romano tenne premuto il palmo sull’elmetto che aveva schiacciato sulla testa di Italia, gli fece piegare il capo, e lo fece tuffare dentro una delle trincee abbandonate dai soldati in ritirata. Italia sbatté le spalle, rotolò giù strizzando gli occhi, un masso lo colpì prima alla schiena e poi all’anca, briciole di terra gli entrarono in bocca e in mezzo agli occhi. L’elmetto colpì la punta aguzza di una roccia, squillò, e parò il colpo dritto alla sua testa. Il ruzzolone si fermò, lo fece atterrare di fianco, le braccia piegate contro il petto e le gambe sollevate sopra la schiena di Romano che gli era scivolato affianco.

La terra sbriciolata dalla loro caduta finì di piovere addosso a entrambi, Romano scosse la testa libera dall’elmetto per far cadere i sassolini incastrati fra le ciocche, e si grattò la nuca. Tirò giù le gambe che si erano incastrate sulla parete opposta della trincea, e richiamò i piedi al ventre colpendo di striscio una spalla di Italia e lasciandogli un’impronta di stivale sull’uniforme.

Il ronzio di un’altra ondata di bombardieri richiamò il suo sguardo verso il cielo.

Romano riprese fiato, tossì, e si strofinò via i capelli dalla fronte rivolgendo gli occhi alle strisciate di fumo lasciate dal passaggio degli aerei. “Sono riusciti a decollare, alla fine.” Si toccò un punto della testa colpito da una delle rocce e gemette un ansito di dolore, si guardò la mano per vedere se era rimasto del sangue ma gocciolò solo fango nero.

Anche Italia riprese a respirare: un susseguirsi di affanni rauchi che trascinavano il graffiante sapore del fumo fino ai polmoni. I suoi occhi larghi e vuoti fissavano il vuoto, tenuti in ombra dall’elmetto storto che Romano gli aveva schiacciato sulla testa. La voce di Grecia ancora imprigionata nella sua testa continuava a premergli sulle tempie, a trafiggergli il cuore a ogni respiro.  

Romano torse il busto, si alzò sulle ginocchia, si aggrappò all’orlo della trincea con entrambe le mani, e sollevò lo sguardo scrutando oltre il fumo. Aggrottò la fronte. “Se nemmeno i bombardieri riescono a fare qualcosa, allora sarà stato tutto inutile.”

Italia boccheggiò ancora. I suoi piedi caddero dalla schiena di Romano, lui tirò le ginocchia al petto, abbracciò una gamba, rimase con lo sguardo fisso alla parete di terra opposta, e ricominciò a tremare.

Romano abbassò gli occhi, lo fulminò. “Ohi, mi stai ascoltando?”

Italia sobbalzò. “Oh.” Deglutì, aveva la bocca secca e amara, e riuscì a sentire il suo stesso cuore battergli in gola. “I-io...” I respiri si bloccarono, gli occhi di Italia tremarono, li attraversò un lampo di terrore, e di nuovo il suo sguardo si perse, come se gli avessero staccato la spina.

Romano tornò a scivolare dentro la trincea, si spinse fra le sue ginocchia, schiacciato contro la parete, e gli prese le spalle fra le mani guardandolo dritto negli occhi. “Si può sapere cosa ti è saltato in testa, prima? Presentarti davanti a Grecia solo per dirgli di arrendersi. Come diavolo pensavi che avrebbe reagito?” Lo scosse e alzò la voce. “Poteva farti saltare la testa!” Sbuffò, abbassò la fronte, scosse il capo passandosi una mano fra i capelli, e strinse i denti. “E io che ti ho anche dato retta...”

Italia schiuse le labbra, riuscì a far scivolare un sospiro sulla lingua impietrita, il labbro inferiore tremò. Una stretta al cuore trasmise una dolorosa vibrazione che gli uscì dalla bocca in un sussurro. “Nike Àptera.”

Romano sollevò un sopracciglio, soffiò un sospiro più pesante – aveva ancora il fiato corto – e gli rivolse un’occhiata interrogativa. “Eh?” Boccheggiò un’altra volta, rivoletti di sudore gli attraversarono il viso macchiato di terra e sbavato di sangue.

Italia prese altre boccate di fiato, ruotò anche lui gli occhi verso quelli di Romano, e il suo sguardo tornò presente, perse il barlume di straniamento. “Nike Àptera,” ripeté, e un brivido di paura pizzicò la sua voce. Le sue mani strinsero, una sui pantaloni dell’uniforme e una sulla terra, spremendo zolle umide e sassi. Il peso sul petto tornò a gravare come un macigno. “Che cosa vuol dire?” Accanto alla guancia, sentì di nuovo soffiare il respiro di Grecia che gli aveva mormorato quelle parole, lasciandogli un’impronta sulla pelle gelida come un presagio.

Romano scosse il capo. “Che ne so.” Gli sfilò le mani dalle spalle, si rotolò anche lui con la schiena sulla parete di terra, diede un’altra strofinata alla testa dove sentiva già crescere il bozzolo del bernoccolo, e raccolse le gambe contro il ventre. “Nike è ‘Vittoria’, no? Come Atena.” Si strinse nelle spalle. “Ma Àptera...”

Italia sospirò. La ripeté mentalmente. “Vittoria.” Sulla lingua gli rimase un sapore amaro come fiele. Si strinse una spalla, sfregò il braccio, i suoi occhi tornarono velati di paura. “Vittoria che cosa?”

Vittoria...

Una cicatrice bruciò. Un colpo secco e violento come una frustata.

Italia gemette, contrasse il busto e strinse le spalle, attraversato da quell’improvviso schiocco elettrico. La mano si aggrappò alla giacca, accanto alla croce di ferro che gli punse le dita sporche e tremanti. Inspirò, espirò, e il dolore tornò a premere sulla carne. Non era il dolore al cuore. Era il dolore alla spalla.

Italia si morse il labbro per contenere un guaito strozzato. La mano risalì la giacca umida di sudore e terriccio, sorpassò la consistenza delle piastrine cucite sulla stoffa, le dita si aggrapparono alla mostrina della divisione, e il palmo premette contro l’osso della clavicola. Il dolore pulsò, gli indurì il torso. Italia spinse la nuca all’indietro, schiacciandola sulla parete di terra, e strizzò gli occhi tenendo i denti stretti, già percependo il sapore del sangue bagnargli la bocca.

La cicatrice dello sparo si riaprì dentro di lui, le immagini si spalancarono in un lampo dietro i suoi occhi strizzati, lo bombardarono con la stessa prepotenza degli aerei appena sfrecciati sopra il campo di battaglia.

Non più l’immagine di loro in mezzo alla pioggia, con i piedi nell’Isonzo, ma l’immagine di Romano visto di profilo, schiacciato dal dolore e dalla rabbia che lo avvolgeva come una nebbia nera.“Comincio a credere...” L’immagine del suo ricordo strinse i pugni, le sue braccia tremarono, il volto chino e i capelli davanti agli occhi non gli permisero di vederlo in faccia. I denti strinsero, le parole uscirono in un ringhio sibilante. “Comincio a credere che sarebbe stato meglio se avessimo perso, piuttosto che esserci ridotti a questa...” Il ricordo di Romano sfumò, le sue spalle si piegarono, la schiena tremò, il viso contratto di sofferenza rimase nascosto nell’ombra. “A questa...” Inspirò. Le parole uscirono amare come un fiume di bile che graffia la gola. “A una vittoria mutilata come questa.”

Uno scoppio dal cielo riportò Italia dentro la trincea, ma i ricordi rimasero con lui, ad abbracciarlo come tanti scheletri neri che gli premevano le ossa sul viso, sui fianchi, ghignando accanto alla sua guancia e fissandolo nel baratro degli occhi bui e vuoti.

Panico e dolore gli ronzarono in testa come la punta di un trapano.

Non di nuovo.

Italia si rannicchiò stringendo le braccia dietro la nuca, schiacciò le gambe al petto, premette il viso in mezzo alle ginocchia, sollevò una mano e la aprì sopra l’elmetto, nascondendosi sotto.

Non di nuovo. Ti prego.

Romano si girò a guardarlo, si accorse del suo viso impallidito, diventato quasi grigio, ma Italia non lo notò nemmeno. “Ehi, cos’hai?” gli fece.

Italia stridette un lamento fra le labbra e schiacciò di più i palmi contro la testa. Ti scongiuro!

Romano si gettò davanti a lui e tornò ad afferrargli le spalle, a scuoterlo. “Rispondimi, maledizione, che ti prende?”

Italia scosse il capo, si arricciò su se stesso, il battito del cuore accelerò, fece crescere il senso di terrore, e il dolore continuò a picchiarlo all’altezza della cicatrice sulla spalla.

Non di nuovo!

Il vortice di dolore lo risucchiò nel baratro nero dei suoi ricordi.

 

♦♦♦

 

4 novembre 1918,

Versailles, Francia

 

La cicatrice alla spalla batté una pulsazione di dolore che affondò nell’osso e schioccò attraverso il muscolo dell’avambraccio come una saetta. Italia gemette a labbra socchiuse, un piccolo singhiozzo, e si strinse la spalla premendo forte le dita contro il dolore, imprigionandolo sotto lenti e profondi movimenti circolari. Fece una piccola smorfia, tenne gli occhi bassi, rivolti al pavimento di marmo, e spostò il peso da un piede all’altro per bilanciare la pesantezza che gravava sui muscoli dei polpacci e che lo costringeva a stare con la schiena ingobbita. Le ossa così sofferenti e tremanti da dargli l’impressione di potersi spezzare come grissini al minimo movimento.

“L’Esercito Austro-Ungarico è annientato,” annunciò Romano accanto a lui.

Italia ebbe un altro piccolo sussulto. Spostò da terra il suo sguardo stanco e assente, ruotò gli occhi gonfi e cerchiati di nero al suo fianco, sbatté lentamente le palpebre, e il suo viso assunse un’espressione ancora più triste, incavata in quel viso pallido e smagrito, grigio attorno alle orbite.

Romano diede una piccola scossetta alla pagina del bollettino di guerra che teneva fra le mani, prese un breve respiro, e i suoi occhi stanchi ma ristretti sotto la ruga delle sopracciglia aggrottate corsero sulle righe più in basso. Si schiarì la voce. “Esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni, e nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni.”

Italia chinò di più la testa, sfregò la mano sull’avambraccio, scivolò all’indietro con la punta di un piede e si fermò con il tallone ancora alto, la gamba tremante, e il cuore che scoppiava dalla voglia di correre via, di nascondersi lontano con il viso tuffato fra le mani.

Nella sua testa, comparve l’immagine di Austria in ginocchio fra le macerie e i detriti che fumavano attorno a lui come una nebbia, a reggersi il volto sfregiato di sangue, i vestiti strappati e sporchi di polvere; l’immagine di Ungheria abbracciata a lui, a stringergli le spalle, a tremare per le ferite sul suo corpo che continuavano a sanguinare e a macchiarle i capelli caduti davanti al volto bagnato di lacrime; l’immagine di Germania che...

Italia scosse il capo, si stropicciò un occhio frizionandoci la nocca sopra, sopprimendo il costante bruciore che pizzicava fra le palpebre gonfie e nere. Inspirò a fondo, si calmò.

La voce di Romano lesse le ultime righe del bollettino e cacciò via quelle immagini.

“I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.” Abbassò il bollettino. I suoi occhi sorvolarono la pagina e si posarono sulle due figure che scrutavano lui e Italia dall’altro lato della stanza. Restrinse leggermente le punte delle sopracciglia, squadrò entrambi con discrezione ma senza alcun rispetto. “Questo è il nostro resoconto.”

Francia si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, accavallò una gamba all’altra rimanendo con il fianco premuto sul bracciolo della poltroncina e la schiena poggiata alla spalla di Inghilterra che era seduto alla scrivania. Spostò lo sguardo all’indietro e sollevò un sopracciglio rivolgendogli un’occhiata di conferma. Inghilterra finì di riordinare due delle carte che reggeva fra le mani, batté gli orli sul tavolo per pareggiare i fogli, li posò, e tese un braccio verso Romano, mostrandogli il palmo aperto.

“Passa.”

Romano esitò. Le sue dita tremarono contro gli orli della pagina.

Buttò una breve occhiata su Italia, in cerca di uno sguardo che non trovò, e mosse da solo il primo passo. Si avvicinò alla scrivania continuando a guardare il pavimento, allungò il foglio spostando il viso alle sue spalle, per non guardare Inghilterra e Francia, e Inghilterra raccolse il bollettino dalla sua mano. Lo porse a Francia, entrambi lo rilessero da cima a fondo, tutto d’un fiato.

Francia tornò a spostare il peso sul bracciolo della poltroncina su cui premeva la sua anca e sulla spalla di Inghilterra su cui aveva appoggiato la schiena. Sollevò lo sguardo, ammorbidendolo, e lo rivolse alla figura china di Italia che non aveva ancora aperto bocca, avvolto da quella scura aura di malessere che lo copriva come un mantello d’ombra. “Confermi tutto, Italia?”

Italia non rispose. Gli occhi vuoti e spenti riflettevano il lucido del pavimento, il labbro inferiore fremette e stette in silenzio.

Romano gli tornò vicino. Lo colpì con una piccola spallata che lo punse come una scossa.

“Uh.” Italia scosse il capo, si strofinò i capelli dietro l’orecchio e si sfregò la fronte. “S-sì. Confermo,” mormorò con voce rotta. Fece scivolare all’indietro la punta di un piede e sfiorò la spalla di Romano, si riparò nella sua ombra tenendosi chiuso in quel guscio di dolore.

Francia lo notò, seguì quel piccolo movimento, il gesto di tenersi stretto alla spalla e al braccio, scrutò quel suo sguardo sempre più basso e in ombra, quegli occhi lucidi di dolore e vergogna che Italia non riusciva a sollevare, ma stette zitto.

Romano buttò un’occhiata alla porta dietro di loro, si sporse a controllare anche il fondo della camera, e rivolse a Inghilterra uno sguardo più sicuro. Una punta di amarezza gli inacidì il tono di voce. “Dov’è America?”

Inghilterra finì di rileggere il bollettino e sollevò gli occhi da dietro la pagina, aggrottò un sopracciglio. “Non è affar tuo, o sbaglio?”

Romano ricambiò l’occhiataccia. Strinse i pugni e un primo groppo di rabbia si accumulò in fondo allo stomaco.

Francia diede una piccola spallata a Inghilterra e rispose per lui. “Non è qui.” Incrociò le braccia al petto e si rivolse a Romano. “Lui e Russia sono in Germania. Stiamo ancora valutando quando e come occuparci definitivamente degli armistizi. Dovrebbero firmarli entro qualche giorno, ma prima dovranno essere tutti in grado di venire qui.” Si strofinò la nuca e sospirò. Anche il suo viso assunse una piega più stanca, ingrigita come quella di Italia. “Anche dopo gli armistizi, potrebbe volerci anche più di un anno prima di riuscire a firmare degli accordi definitivi con i loro governi e ottenere quello che ci spetta...” Si strinse nelle spalle. “Economicamente parlando. Poi, essendoci così tante nazioni di mezzo, la faccenda si complica ulteriormente.”

Inghilterra posò il bollettino e gli diede una spallata alla schiena. “Piantala,” sbottò. “Non devono sapere tutto.”

Un altro fremito di rabbia attraversò il corpo di Romano. Lui aprì e schiacciò i pugni, sopprimendo la voglia di stampargliene uno in faccia. Italia non udì nemmeno quelle parole. Lo sguardo apatico rimaneva fisso sul suo stesso riflesso specchiato lungo il pavimento.

Francia si massaggiò la spalla, Inghilterra lisciò la manica attorno al gomito che aveva battuto in mezzo alle sue scapole, e raccolse uno dei documenti che stava sfogliando prima di ricevere il bollettino da Romano.

“Immagino che sia questo che vi prema.” Inghilterra scosse le pagine, il suo volto si incupì, raggelando l’aria della stanza. “O sbaglio?”

Romano allargò le palpebre, le pupille si dilatarono leggermente, lo sguardo si accese come quello di una falena che avvista la fiamma di una candela. Socchiuse di nuovo gli occhi, e la fiamma al loro interno tornò ostile e affilata. “Ci preme ciò che ci spetta.” Sgranchì di nuovo i pugni.

Inghilterra emise una risata soffusa. “Staremo a vedere.” Si alzò dalla poltroncina, Francia si scollò dalla sua spalla e si rimise in piedi anche lui. Sollevò il documento davanti al viso, si schiarì la voce, pronunciò quelle parole con tono solenne. “Secondo gli accordi, noi Nazioni Alleate abbiamo riconosciuto e affidato al Popolo Italiano le seguenti province in seguito alla vittoria e alla conquista delle nazioni sconfitte.”

Romano inspirò, trattenne il fiato, stese il braccio e raccolse il pugno che Italia teneva premuto sul fianco. Infilò le dita fra le sue, spremette la presa, cercò un appiglio di calore, ma fu come avvolgere la mano a una statua. Il cuore gli si riempì d’ansia, batté più rapido, il palpito scese fino alla pancia torcendogli lo stomaco in un nodo di tensione che gli diede i brividi.

La voce di Inghilterra ruppe il silenzio. “Al Regno d’Italia quindi spettano...”

Romano strinse la presa.

“Il Trentino,” continuò Inghilterra, “l’Alto Adige, Istria.” Abbassò il foglio, i suoi occhi squadrarono i due fratelli con una punta di maligna indifferenza. “E Trieste.”

Romano increspò la fronte, le dita strette a quelle di Italia raggelarono, un altro battito del cuore scaricò una morsa sul petto. “E...” Lo disse aspettandosi che Inghilterra continuasse al posto suo.

Inghilterra lasciò cadere il documento sulla scrivania. “E basta, direi.” La pagina piovve sopra il bollettino che svolazzò e tornò piatto.

Romano rimase a bocca aperta, gli occhi increduli, il cuore pesante. “Ma...” Lasciò la mano a Italia e si fece avanti di un passo. “E la Dalmazia? E Fiume?” Il tono di voce cominciò a crescere assieme alla rabbia che gli stava infiammando il sangue fino a battere sulle tempie come colpi di martello. “Anche quelle rientrano negli accordi.”

Inghilterra si strinse nelle spalle, mostrò i palmi. “Be’, ora non più.”

“Ma non...” Romano pestò un altro passo, si batté una mano sul petto, spalancò l’altro braccio, e il suo volto nero di rabbia si piegò in un’espressione di dolore. “Non potete farci questo, non dopo tutto quello che abbiamo fatto e dopo tutto quello che abbiamo passato, noi abbiamo il diritto di...”

“Il diritto di cosa?” lo interruppe Inghilterra. Lo sguardo di nuovo duro e penetrante. “Come pretendete di essere trattati dopo questa guerra?” Sbuffò un soffio di risata che gli fece sobbalzare le spalle. “Come martiri? Come un popolo meritevole di questa vittoria a cui spettano di diritto degli aiuti da parte nostra?”

Romano abbassò il braccio e dovette conficcarsi le unghie nei palmi per resistere alla tentazione di saltargli addosso e strangolarlo. Si morsicò il labbro fino a sentire il viscido sapore di ferro invadergli la bocca. “Noi abbiamo spanto tanto sangue quanto voi,” gorgogliò. “Ci siamo fatti ammazzare, abbiamo riempito il Piave di cadaveri, ed è così che ci ripagate?” Tremò, prese un forte respiro, e gli gridò addosso tutta la rabbia e l’odio che sentiva provenire dalle viscere e dall’anima del suo stesso paese. “È questo il prezzo del sangue degli italiani?”

Inghilterra non si sfilò quella maschera di inflessibilità. “Cos’è che ti preme? Solo Fiume?” Sollevò un sopracciglio, affilò un ghigno di sfida, una leggera ombra calò sul suo volto incupendogli gli occhi e la voce. “O ti brucia per il fatto di non essere riuscito a prendere la città con le tue stesse mani?”

Questa volta anche Francia lo guardò male.

Romano strinse i denti, i pugni presero fuoco, le ossa delle dita scricchiolarono e le vene salirono in rilievo, gonfie e pulsanti. Tirò su il braccio, scattò di un passo in avanti, pronto a scaricargli il cazzotto sul naso, ma le mani di Italia si chiusero attorno al suo polso, trattennero il colpo.

“Accettiamo,” mormorò la sua voce, fioca e fredda come una soffice nevicata d’inverno.

Romano tenne il braccio alzato, strabuzzò gli occhi, rimase a bocca aperta, e gli lanciò un’occhiata allibita.

Italia allontanò lo sguardo. Le sue mani fredde e sottili attorno al polso di suo fratello gli fecero lentamente abbassare il braccio. “Accettiamo le condizioni,” ripeté.

Inghilterra e Francia si scambiarono un’occhiata dubbiosa, il viso di Inghilterra ancora incrinato da quella piega di acidità.

Romano sentì il cuore cadergli nello stomaco, una gelida secchiata di delusione e amarezza lo invase strappandogli un gemito, i suoi occhi si riempirono di incredulità. “N-no, Veneziano...” Scosse il capo, gli strappò via il braccio dalle mani, e lo afferrò per le spalle. “Non accettiamo nulla, non possono farci questo! Come puoi...”

Italia tornò a posargli la mano sul braccio. “Ti prego,” lo implorò con un filo di voce. Sollevò quegli occhi racchiusi in quelle palpebre gonfie e nere che li facevano sembrare ancora più larghi e sporgenti, da animaletto ferito. “Ti prego.”

Romano cedette. Abbassò lo sguardo per allontanarsi da quel volto distrutto e sciupato che era come una pugnalata nell’anima, e arretrò di un passetto, sfilandosi dal suo tocco.

Italia spostò lo sguardo andando incontro a quello di Francia. Si guardarono in silenzio, Italia ancora un po’ ingobbito, ma senza più vergogna sulle spalle. Inspirò, si fece forza, e si avvicinò a lui. Avevano ancora molto da dirsi.

   
 
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