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Autore: Koa__    10/05/2017    12 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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En garde, mon capitan
 
 
 

 
Lo affronterò con la sinistra.
E solo asì hai un po’ de sodisfasione.
Se uso la mano derecia lo finisco subito.
 

 
 
Non aveva dormito poi molto quella notte, forse per via del discorso fatto da Victor, John era crollato sullo scrittoio soltanto dopo che lo stoppino della candela si era consumato per intero. Doveva essere più o meno l’alba quando aveva finalmente chiuso gli occhi, franando miseramente tra le pagine del diario rimasto aperto. Sapeva quanto poco fosse salutare il trascorrere le ore dopo il tramonto a scrivere invece che riposare adeguatamente, ciononostante e a propria discolpa, il dolce agitarsi delle onde e la musica del violino suonato dal capitano, lo avevano fatto sentire così in pace che sarebbe stato un vero peccato sprecare del tempo a dormire. Dunque aveva scritto. A lungo e fermandosi soltanto di tanto in tanto a scacciar via le fantasie riguardanti un certo fondo schiena. Fare i conti con quanto stava provando era più difficile da accettare della solitudine di Antigua e degli incubi della guerra che nei sogni lo tormentavano. Non aveva fatto altro che domandarsi che cosa provava; se fosse niente se non una passione passeggera? Ormai era evidente che Victor lo stava spingendo a farsi avanti e che desiderava per loro molto più di quanto John non fosse sicuro di saper dare al momento. Il guaio era che, a pensarci, la sola idea gli pareva incredibile. Come poteva un prete (sebbene molto “sul generis” ma pur sempre un uomo di chiesa), spingere affinché due maschi divenissero amanti? Chiunque avrebbe ritenuto un’unione di quel genere, un vero e proprio abominio contro Dio e la natura, possibile che padre Trevor desiderasse la felicità del suo più caro amico a tal punto? O che poco si curasse di che cosa effettivamente due persone avevano fra le gambe? Era assolutamente privo di senso e per quanto si sforzasse di capirci qualcosa, non poteva negare che l’interesse di Victor per l’intera faccenda era a dir poco eccessivo. Ancora, John pensava ci fosse dell’altro e se oramai poteva dirsi convinto che non fossero mai stati a letto insieme, era comunque certo che nella loro storia passata ci fosse ben più che dei drammi familiari. Aveva quasi la sensazione che sulla testa di padre Trevor incombesse il peso di un senso di colpa ben più ingombrante della più semplice convinzione di aver reso infelice qualcuno, un segreto del quale ancora non aveva parlato. John non poteva dirsene sicuro, al contrario le sue erano niente di più che sciocche speculazioni. Eppure, più ci pensava e più trovava oltremodo sospetta la maniera in cui lo sguardo di Victor si ombreggiava quando parlava seriamente di Sherlock o il come talune volte egli diventasse malinconico. Perciò non riusciva davvero non ripetersi che c’era senz’altro un qualcosa di terribile in quel loro movimentato passato. Per molte ore questi pensieri gli erano vorticati nella mente e, sotto la fioca luce della candela, aveva tentato di dar loro un senso allo stesso modo di come si era sforzato di comprendere quale sentimento nutriva per il leggendario pirata bianco. Ora della fine e dopo una notte intera di approfondita analisi di se stesso, l’ultimo dei suoi pensieri fu che ammirava Victor Trevor in una maniera tale da faticare a esprimerlo a parole. Quel prete gli piaceva e lo divertiva davvero, era ormai del tutto inutile negarlo, così come era impossibile evitare di soffermarsi a riflettere su Sherlock. Per lui provava una passione profonda, indomita, incontrollabile e un interesse che non faceva che crescere. Era come se un qualcuno lo avesse ripetutamente colpito sulla testa e ora pretendesse che facesse ragionamenti sensati. Probabilmente era impossibile dar un nome a tutto quello, magari era troppo presto per chiamarlo amore. O magari no. Magari se n’era innamorato a prima vista e adesso gli toccava solamente di ammetterlo. Forse era la paura a frenarlo, il suo sentirsi ancora spaesato e spaventato da tutti quei bucanieri e da una vita in mare sulla quale aveva avuto seri pregiudizi, e che si era rivelata essere ben diversa da quel che s’era immaginato in un primo momento. Ora che ci pensava per bene, ogni cosa era insolita e particolare lì a bordo. Pirati bambini, pirati gentili, pirati donne, pirati francesi giovani e belli, pirati che erano preti e che in parte lo erano ancora. Ma ancora, pirati tenenti, pirati che portavano il nome di un personaggio letto in un libro, e via discorrendo. E a cosa più incredibile era che, a completare il tutto, c’era lui, Sherlock Holmes. Il pirata bianco si era rivelato essere molto meglio di quanto l’insignificante John Watson avrebbe potuto pensare. Probabilmente la sua non era altro che paura di venir rifiutato, d’altronde cosa mai avrebbe potuto trovare d’interessante un mito in un misero reduce di guerra?

Aprì gli occhi che doveva essere la tarda mattinata o il primissimo pomeriggio, perché il sole era sufficientemente alto nel cielo e il caldo a dir poco eccessivo. Si tirò in piedi massaggiandosi la schiena indolenzita e maledicendo più volte se stesso e la propria idiozia, ma allo stesso tempo sentendosi come carico di una nuova inerzia, ben più leggero e pimpante. Mettere per iscritto i suoi passati tormenti aveva sortito un effetto quasi miracoloso, si sentiva molto meglio e aveva voglia di ridere. Così e senza una specifica ragione. Ridere perché gli andava, perché voleva vedere Sherlock e passare del tempo con lui. Ridere perché la musica che suonava al violino era meravigliosa e la sua storia, quella che ormai ben conosceva, gli era entrata così dentro da non farlo dormire. Sì, voleva ridere, John Watson e tanto divertimento lo caricò di una frettolosa frenesia. Mise da parte gli scritti, richiudendo il diario e cacciandolo in uno dei cassetti mentre evitava di soffermarsi troppo a rileggere alcuni passaggi, ma comunque dedicando loro una fugace occhiata. Non si trattava di nulla di straordinario, in effetti erano più che altro impressioni piuttosto personali concernenti gli ultimi mesi. Aveva abbozzato qualcosa anche su Harrieth, ma considerato che di lei parlava sempre malvolentieri, non si era soffermato poi molto a riguardo. Nemmeno aveva scritto su i pirati de la Norbury o di Victor e Sherlock, e forse era anche meglio così. Si stava a stento abituando alla nuova vita ed evitava di pensare troppo al futuro e a che cosa avrebbe fatto una volta trovata l’isola e il tesoro. Avrebbe potuto anche tornare in Inghilterra, per esempio, ma una volta lì cos’avrebbe potuto fare? Il medico? O di nuovo un vile servitore di suo cognato? Sarebbe ritornato a una vita che detestava e a fianco di gente con la quale non voleva avere nulla a che spartire? Si andava ripetendo che ci avrebbe pensato a tempo debito e così avrebbe fatto, eppure ogni tanto la mente gli vorticava su una nuova vita a Londra, magari a fianco di una donna gentile e onesta. Sarebbe riuscito a tollerare un’esistenza del genere? John detestava indugiare su simili idee, ciononostante non riuscì a non chiedersi se ci sarebbe mai davvero riuscito dopo una simile avventura. Ce l’avrebbe fatta a tornare alla normalità dopo il pirata bianco?

Ben deciso a non soffermarsi oltre, cacciò via ogni tormento e decise di dedicarsi a un qualcosa di produttivo. Azioni banali e quotidiane come lavarsi e cambiarsi d’abito, parevano l’ideale per placare la mente. Qualcuno doveva aver pensato a lui nelle ore precedenti, constatò mentre si guardava attorno perché l’acqua sporca del sangue di padre Trevor era sparita per far spazio a dell’altra più pulita. Si domandò chi fosse stato a offrirgli così tante premure, a fargli avere anche una candela nuova e fu quasi tentato di chiamare Victor e ringraziarlo (perché doveva esser stato lui), ma solamente allora notò che non avevano pensato a fargli avere da mangiare. Probabilmente si erano convinti che vivesse d’aria, il che era comprensibile se si considerava il fatto che, al suo secondo giorno su la Norbury, non era mai riuscito a condividere il rancio con gli altri marinai. O magari, il che era persino peggio, qualcuno poteva aver pensato che non volesse mescolarsi a loro nemmeno per nutrirsi. Angelo doveva detestarlo di certo, pensò mentre indossava vestiti nuovi. Scelse la camicia nera, quella che riusciva a nascondere perfettamente il disegno sul petto e che gli avrebbe consentito di non portare il panciotto. Per una volta avrebbe respirato.
Fu con un leggerissimo sorrisino carico di una certa ansia che John si decise a cacciar fuori il naso dalla porta. Doveva necessariamente uscire dalla cabina perché a quell’ora era impensabile riuscire a rimanervi dentro e dati gli oblò serrati che non permettevano all’aria di circolare, il caldo era soffocante e opprimente. Uscire in corridoio fu di aiuto, un refolo di un vento più fresco scese giù dalle scale, rinfrescandolo quel tanto da farlo sentire meglio. Fu allora che lo scalpiccio di alcuni passi attirò la sua attenzione e che la piccola figura di Archie, il bambino, gli apparve alla sinistra. Aveva occhi grandi e scuri e in viso si teneva stretta un’espressione strana, impaziente, come se desiderasse con tutto se stesso assolvere a un chissà quale compito che doveva essergli stato impartito. Un dovere che divenne immediatamente chiaro non appena John gli ebbe rivolto uno sguardo, invitandolo mutamente a parlare.
«Signor Watson, signore.» Archie aveva una vocina minuta e sottile, ma al tempo stesso determinata come se fosse ben deciso nel farsi valere persino su di un qualcuno di più grande e forte. Si domandò se tanto spirito non fosse scaturito dell’esser stato istruito da dei filibustieri, il che sarebbe stato comprensibile. Avere Victor Trevor come educatore probabilmente era ottimo per imparare latino e salmi, ma doveva essere un disastro per una crescita sana e moralmente accettabile. Già a guardarsi, dalla maniera in cui si presentava agghindato, di Archibald il pirata si comprendevano parecchie cose. * Vestiva in abiti più grandi e che erano stati parzialmente adattati al fisico magrolino, segno che non doveva avere un guardaroba personale poi tanto vasto. La camicia era due volte più grande, i pantaloni avevano dei risvolti alle caviglie ed erano retti grazie a una fascia legata in vita mentre sopra la testa aveva calato un cappellone da capitano di vascello, probabilmente appartenente alla marina olandese, che ricadeva in continuazione sulla fronte e che lui ricacciava su di modo da poterci vedere. Stretto in una mano, infine, aveva un librone che pareva esser fin troppo grande per quelle piccole mani. Ora, l’acerbo bucaniere, lo guardava diritto negli occhi e in lui si riusciva facilmente a notare come un vago sentore di sfida, un atteggiamento da sbruffone che solo un vero pirata sarebbe riuscito a tener saldo. C’era molto di Victor in quel modo di fare, che il bambino ne stesse imitando le gesta? Pur senza poter dirsene certo, John roteò gli occhi al cielo. Sperava solo che quel ragazzino sarebbe cresciuto più assennato rispetto all’immorale monaco.
«Che facevi davanti alla mia porta?» domandò dopo un qualche attimo di silenzio, chinandosi appena in avanti quasi tentasse di adattarsi alla statura ridotta del proprio interlocutore. Sebbene dubitasse che bastasse così poco per spaventarlo, tentò comunque di tenere un tono pacato e amichevole. Ad Antigua gli era capitato piuttosto spesso di avere a che fare con dei bambini, lì ce n’erano diversi e ogni tanto qualcuno gli aveva offerto aiuto con la pesca o le volte in cui s’era inoltrato nella foresta in cerca di erbe mediche. Nonostante ciò, John si sentiva appena un po’ agitato e come se gli occhi dell’intera nave gli fossero puntati addosso e lo giudicassero.
«Angelo mi ha ordinato di tener d’occhio la cabina: “quando il dottor Watson esce, tu lo fermi e mi vieni ad avvisare” così ha detto.»
«Di che si tratta?»
«È per il rancio, signore» annuì questi con vigore. «Lo ha saltato anche oggi. Angelo era preoccupato per lei e le ordina di rimanere qui e aspettarlo.»
«Mi spiace non esser riuscito a venire in tempo, scusati con lui da parte mia. Mi sono addormentato all’alba e ho aperto gli occhi da poco.»
«Padre Trevor pensa che le servirà un po’ per adattarsi al mare» urlò, facendo quasi per correr via e scendere giù dagli scalini. Tuttavia e nonostante John avesse davvero una gran fame, fermò Archie prima che questi potesse sparire dalla sua vista. C’era una domanda che lo tormentava, una faccenda che lo inquietava e non lo faceva star tranquillo. Riguardava quel gran vociare proveniente dal ponte. Si sentivano distintamente delle grida e probabilmente sciabordio di spade, ma non riusciva bene a capire che cosa stesse succedendo. Qualcuno stava combattendo? Erano stati arrembati? Era in corso una battaglia? Dubitava che Angelo si sarebbe messo a pensare al suo pasto in una situazione di pericolo o che nessuno avesse pensato di dargli una pistola. Ma se era per davvero tutto era nella norma, cosa stava accadendo e perché tanto trambusto?
«Archie, che sta succedendo?» gli chiese, accennando al ponte principale.
«Oh, è capitan Holmes, signore. Sta sfidando chiunque desideri tentare di batterlo in duello. Io non capisco perché lo facciano, nessuno riuscirà a sconfiggere il capitano.»
«Duello con che cosa?» chiese, occhieggiando ora il piano superiore con un più acceso interesse. Gli sarebbe stato concesso di duellare? Con la spalla che si ritrovava dubitava che sarebbe mai riuscito a batterlo con una spada, ma nel corpo a corpo ancora se la cavava. Non credeva che i pirati si facessero simili problemi con i nuovi venuti, ma John restava comunque un estraneo e anche se la prospettiva di mettergli le mani addosso era allettante, probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. E forse sarebbe stato meglio così.
«La scelta dell’arma spetta allo sfidante» intervenne il bambino, spezzando il flusso dei suoi pensieri. «Io spero di riuscire a vedere il combattimento con il tenente Lestrade, Bill mi ha detto che potrebbe succedere tra poco, anche se non era sicuro. Scusi, dottore ma adesso devo andare, se non lo avviso subito, Angelo si arrabbierà.» Una volta detto questo, il piccolo Archie corse giù per le scale, lasciando John solo e preda delle proprie fervide fantasie. Dunque, era in corso un duello! Beh, non poteva proprio negare che l’idea del capitano che combatteva di fioretto o spada, o magari persino a mani nude, non fosse affascinante. Figurarselo in tutta la sua magnificenza, sudato o senza la camicia gli permise di lasciarsi andare a quei lascivi e inopportuni pensieri che da troppo tempo stava tenendo dentro di sé. Scivolato a terra e rannicchiatosi su se stesso, serrò le palpebre mentre prendeva un bel respiro. Aveva la giustificazione di dover aspettare il rancio, ma se anche qualcuno lo avesse guardato con sospetto, probabilmente poco gliene sarebbe importato. Ciò che fece fu semplicemente lasciarsi trasportare dalla fantasia, immaginarsi con Sherlock sembrava essere un buon modo per ingannare l’attesa.
 

 
 
oOoOo
 


Quando finalmente si fece vedere sul ponte, John aveva lo stomaco pieno e il sincero desiderio di vedere capitan Holmes all’opera in un duello. Non era stato poi così difficile fantasticare sulla sua figura statuaria o su quel corpo che chissà come pareva essere muscoloso e aggraziato in egual misura. Ancor più semplice era stato immaginarselo a combattere in un confronto all’ultimo sangue. Per quanto stupendo fosse stato il lasciarsi andare a quel modo, però, il ritorno alla realtà fu ruvido e brutale. Una manciata di minuti dopo aver visto Archie sparire giù per le scale, Angelo gli si era parato di fronte. Imponente e di poche parole, come suo solito non si era lasciato andare a chissà quali discorsi, ma si era limitato a mugugnare un qualcosa d’indefinito mentre gli porgeva la ciotola colma di carne secca e della mistura composta da acqua e farina gialla, che tanto veniva usata nelle Indie Occidentali e che John aveva imparato ad apprezzare. Lo aveva lasciato mangiare in tranquillità e senza mostrarsi invadente o distrarlo con delle chiacchiere, al contrario era rimasto fermo sull’uscio della cabina, in silenzio, a braccia incrociate al petto e nel frattempo lo aveva fissato con quell’unico occhio buono. Soltanto a un certo punto si era messo a brontolare un qualcosa circa il fatto che John dovesse prima o poi farsi vivo al rancio con il resto dell’equipaggio, dato che in molti cominciavano a parlare di lui e della sua presenza a bordo. Faticavano a fidarsi, con queste esatte parole Angelo aveva esordito e non era tutto perché sembrava che circolassero persino delle voci sul conto del nuovo arrivato. Principalmente si trattava di sospetti sulle sue reali intenzioni e alcuni avevano sentito dire da altri (ma dalla bocca di chi fosse nata la diceria, questo nessuno era davvero in grado di dirlo), che il nuovo venuto fosse una spia inviata da Moriarty e che era stata sua la colpa dei fatti avvenuti il giorno prima. In pratica lo stavano incolpando del loro esser stati stanati da Moran e Moriarty neanche un giorno dopo aver lasciato Antigua. Il che era assolutamente ridicolo, assurdo! John non si sarebbe mai messo in combutta con un uomo viscido come James Moriarty, anche se era un capitano dell’esercito. Ciononostante non poté negare che la faccenda lo preoccupò fin troppo, al punto che s’impose di parlarne con Victor o addirittura a Sherlock stesso e il più presto possibile. Che volesse rincuorare loro circa le sue buone intenzioni e il non agire in malafede o più semplicemente placare se stesso e i propri timori, non poteva affermarlo con certezza. Di sicuro un qualcosa nella maniera che Angelo aveva di guardarlo, lo inquietò e gli fece venire voglia di andare a nascondersi e di celarsi dalla vista di chiunque. Era evidente che il cuoco di bordo doveva esser preoccupato e che sinceramente temesse per lui, magari aveva paura che potesse accadergli un qualcosa di ben peggiore che essere l’oggetto di sciocche chiacchiere. Il che non era nemmeno da escludere. Sì, John avrebbe dovuto star molto più attento da allora in avanti, badare agli orari della sveglia e dormire la notte con la porta chiusa a chiave. Guardarsi le spalle, adesso era strettamente necessario, così come lo era il concentrarsi su dove stava e non passare il tempo a fantasticare sulle grazie del capitano. Per quanto orrenda fosse l’idea di non poter più indugiare su certi sogni, era importante mantener saldo il controllo.

Il pasto cucinato da Angelo fu una mano santa per l’umore, e gli permise di metter da parte i cattivi pensieri e quei brutti sentimenti che avevano preso ad agitarglisi nello stomaco. Non si trattava di nulla di eccessivamente prelibato, ma era comunque migliore della sbobba che l’esercito rifilava ai propri soldati e che, proprio malgrado, aveva ingurgitato per anni. Ogni singola pietanza era stata cucinata con sapienza e attenzione, il che faceva sì che tutto fosse talmente squisito, che si ritrovò a raschiare la ciotola e a leccare il cucchiaio di legno un paio di volte.
«Eccezionale!» esclamò, deliziato mentre Angelo stirava un sorriso e annuiva con malcelata soddisfazione «era talmente tanto tempo che non mangiavo così bene… ad Antigua mi arrangiavo da me con quanto riuscivo a trovare, ma anche quando vivevo a Londra, io mai, mai ho mangiato nulla di simile. Fantastico, davvero fantastico.» In tutta risposta, Angelo aveva sorriso. Lo aveva fatto davvero e con una viva allegria nei modi che risultò vivamente rincuorante. Senza lasciarsi troppo andare, ma concedendogli una sonora manata sulla spalla che aveva fatto gemere John per il dolore, questi gli si era poi rivolto anche a parole. Adesso non c’era più divertimento in lui, ma una serietà quasi spaventosa.
«Tieni sempre il coltello a portata di mano, con quello che ti ho dato ci sgozzi un bue e vai a dire a quell’idiota di Lestrade o al suo amico blasfemo» disse, facendo il segno della croce «di dartela, quella dannata pistola. Guardati le spalle, John Watson e ricorda: gli amici di Sherlock Holmes sono miei amici.» Dopo di quello, Angelo se n’era andato. Era scomparso alla stessa velocità con cui si era fatto vedere, sempre in silenzio e parlando forse più con lo sguardo che con le parole. Lo aveva occhieggiato soltanto un’ultima volta, voltandosi di poco. Forse aveva sorriso, ma di questo, tuttavia, John non poteva dirsene sicuro.

Ad accoglierlo sul ponte principale fu il bel faccione di Victor. Il prete se ne stava blandamente seduto sulla ringhiera del cassero e ora lo salutava con un ampio gesto della mano, invitandolo a raggiungerlo. Non senza un qualche dubbio che gli si agitava dentro, assieme a una certa ansia, John uscì da dove stava e forse con eccessiva timidezza si fece avanti. Camminava a passo lento e nel frattempo si guardava attorno, rivolgendo il naso all’insù e del tutto meravigliato da ciò che gli si stava parando davanti. Mai gli era capitato di vedere un qualcosa di simile e non stentava a credere che le grida fossero arrivate fino giù di sotto, perché lì sopra coperta, il vociare era ben più intenso e le urla molto più forti. I pirati de la Norbury, erano a cantare. Inneggiavano al proprio capitano, lo incitavano e dicevano il suo nome. Ogni uomo, ogni paio di occhi e persino le attenzioni di coloro che si erano arrampicati su sartie, alberi e vele, applaudivano al pirata bianco. Guardavano il proprio capitano con sincera ammirazione, tenendo lo sguardo puntato alla balaustra di tribordo. Lì, in piedi, in uno ristrettissimo spazio che divideva vita e morte, Sherlock Holmes se ne stava in bilico. A meno di un passo, c’era la salvezza e la stabilità del ponte. Dietro di sé unicamente il mare. No, John Watson non ne sapeva poi molto di navigazione, ma era certo del fatto che persino il più abile dei nuotatori non ne sarebbe uscito vivo se fosse caduto giù di sotto. Chiunque sarebbe stato attratto dalla scia della nave, annegando prima di rendersene conto. Era incredibile che un capitano rischiasse la vita in quel modo stupido e che giocasse con la propria esistenza come se questa non avesse alcuna importanza, né un valore immenso. Lui che con la camicia allentata mostrava il petto e il biancore della pelle come se non fosse un qualcosa di cui vantarsi, ma quasi fosse normale per un uomo essere così stupendamente bello. Lui con l'arma stretta in una mano, il cappello da capitano calato sopra la testa a schiacciare i ricci e un’espressione dura e seria in volto, spezzata unicamente da un ghigno divertito. E se fosse caduto di sotto? Quanto seri erano simili duelli? Perché gli pareva ci fosse eccessiva aggressività da parte di entrambi. Si domandò se il capitano non stesse rischiando troppo e lo fece, fermandosi un istante in più a fissarlo. A un passo da Victor e dal suo sguardo sornione, John si perse in contemplazione di Sherlock Holmes e dei suoi muscoli guizzanti, così come di quegli occhi azzurri come il mare. L’idillio s’interruppe dopo che il capitano, con un balzo che aveva dell’incredibile, saltò giù dalla balaustra facendo cadere a terra il proprio sfidante. Soltanto allora, John si preoccupò di questi. Era un tale alto e magro, con una barba irsuta e lunghi capelli scuri raccolti in un codino, teneva la spada premuta al petto di Sherlock e nel contempo tentava di spingerlo via. Ricordava di averlo visto sul ponte, a fianco di Donovan, ma non sapeva qual fosse il suo nome. Rammentava unicamente il suo aver ragionato su quegli occhietti piccoli e sull’espressione corrucciata che ancora adesso si portava addosso.
«Non temere, dolcezza, è solo Anderson» esordì Victor, ammiccando appena in direzione dei duellanti. Come avesse fatto a cogliere i suoi pensieri e capire per che cosa si stava preoccupando, John proprio non sapeva dirlo. Si limitò a squadrare il prete da capo a piedi con una rapida occhiata e a comprendere che aveva un fare più giocherellone del solito. Faceva infatti ciondolare i piedi nel vuoto, aveva i polpacci scoperti e la fasciatura in bella mostra (quasi fosse un qualcosa di cui andare fieri), teneva la bibbia posata sulle ginocchia e aperta a una specifica pagina mentre in una mano stringeva un crocefisso di legno.
«Dimmi un po’, ma tu dormi sempre così tanto, dolcezza?» gli domandò poi, concedendogli un’ultima fugace occhiata prima di riportare le attenzioni al capitano.
«Ho passato la notte sveglio e mi sono addormentato all’alba, che mi sono perso?»
«Oh, così tante cose, mio caro. Per cominciare abbiamo una rotta per la tua isola.»
«Che cosa?» urlò John, rendendosi conto solo allora di aver gridato e quindi facendosi più vicino di qualche passo, mentre questi annuiva vistosamente.
«Pare che il buon Mastro Stamford sia stato tirato giù dal letto in piena notte, dice che il capitano ha capito dove si trova l’isola e che ha già dato ordine di seguire una rotta. Se gli alisei reggono a questa forza, due settimane e caro il mio molto dotato biondone, avrai il tuo tesoro.»
«Io non ci posso credere» mormorò, ancora stordito dalla notizia ed evitando abilmente l’ennesimo strano soprannome. Come aveva fatto Sherlock a capirci qualcosa in quella mappa assurda? Da quale dettaglio aveva intuito che luogo fosse? Certo, doveva trovarsi in un punto relativamente vicino se il tempo previsto erano un paio di settimane. Già, due settimane solamente e avrebbe avuto il tesoro di cui tanto Joe gli aveva parlato. Avrebbe onorato così la sua memoria, bevendo rum e brindando su quel famigerato oro.
«Ah» proseguì Victor, qualche istante dopo «Sherlock è talmente su di tono stamattina che non soltanto ha mangiato, ma si è messo a sfidare chiunque voglia provare a sconfiggerlo. Credo che abbia energie che non sa come sfogare, tu hai qualche idea?» chiese, con modi che erano evidentemente maliziosi e che erano accompagnati da un ghigno beffardo che lo rendeva dannatamente attraente. Un affascinante bastardo, ecco che cos’era.
«Padre Trevor, queste non sono domande che un prete dovrebbe fare e specie quando il suddetto monaco ha in mano un crocefisso e un libro sacro» mormorò, indicando la bibbia con un movimento fugace della mano e senza nascondere d’essere vivamente scandalizzato, ma subito scoppiando in una sonora risata. Era l’effetto che gli faceva Victor, riusciva a orripilarlo e a rallegrarlo al tempo stesso. «Lestrade ha ragione a dire che sei blasfemo.»
«Dolcezza, non sono mica io a dirle queste cose. Ti faccio un esempio dal vangelo di Marco. “E Gesù rispose: il primo comandamento è ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore, amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande”. O ancora: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni con gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” Giovanni 13, 34.»
«D’accordo, ma non è di certo un invito a fornicare a destra e a manca con chicchessia» replicò, quasi offeso. Non poteva dire di essere mai stato un praticante e con i troppi orrori visti durante la guerra, a malapena era in grado sapere che credeva ancora o meno. A fondo non ci aveva mai riflettuto, né aveva davvero pensato a che cosa significasse realmente credere in qualcuno o in qualcosa, umano o divino che fosse. Aveva creduto nel maggiore Sholto, tanto tempo prima e si era convinto d’ideali di libertà e patriottismo. Aveva creduto di poter fare il possibile per aiutare poveri disgraziati mutilati dalla polvere da sparo o feriti a morte e aveva persino creduto in una vita migliore, anche se dalla parte opposta del mondo, ma non aveva mai creduto a fondo che ci fosse un Dio. Si chiese, in quei frangenti, se Victor davvero fosse convinto di quanto andava dicendo e se mai avesse avuto una vocazione. Da ciò che sapeva di lui c’era da dubitare che fosse sinceramente religioso, aveva preso i voti sotto costrizione paterna e non perché lo desiderasse. Tuttavia, c’era da domandarsi se sentisse delle responsabilità verso i fedeli o se ritenesse giusto il professare la fede cristiana. Ne aveva ancora? O, meglio, aveva mai avuto fede in Dio? Forse no e se così era, nemmeno sarebbe stato strano. D’altronde era pur sempre un prete che faceva il pirata e, quindi, dalla dubbia morale.
«Dolcezza, conosci altro modo per dare amore che far godere un’altra persona dentro a un letto?»
«Ma andiamo» ribatté prontamente John, deciso a non farsi mettere i piedi in testa una volta tanto «c’è la fratellanza, l’affetto per la propria famiglia, l’amore di Dio o quello per i poveri sfortunati. Esiste l’amore per un amico e tu dovresti saperlo molto meglio di me. Hai Sherlock da tutta la vita e non ci hai mai fornicato, vuol dire forse che lo ami di meno? Pensa a tutte le donne con cui sei stato, le ami di più di quanto ami lui?» Victor non rispose mai a quella domanda, borbottò un ringhio non definito che comprendeva di certo le parole “demonio biondo”, ma non si professò in alcuna difesa. Sebbene in un primo momento se ne fosse domandato il motivo, ciò che avvenne poco più tardi mise a tacere ogni questione o dubbio. Senza dire nulla, infatti, egli era balzato in piedi e dalla ringhiera del cassero aveva preso a gridare. Solo allora si accorse che il duello era appena terminato e che il capitano ne era uscito vittorioso. Anderson si era ritirato mestamente da una parte e adesso se ne stava rannicchiato accanto a una premurosa Donovan. Sherlock, invece, adesso guardava Victor e oh, il sorriso che gli rivolgeva… Ah, avrebbe dovuto esserne quasi geloso. Eppure non lo era, al contrario era affascinato e profondamente ammirato da quel loro rapporto. Più di tutto e oltre all’evidente amore che il capitano provava, in quegli attimi lui era divertito.

«Nobili pirati» esordì il prete a voce ferma «voglio proporre una sfida a capitan Holmes, ma invece che domandarlo a lui lo chiederò a voi. Volete che il nostro amato pirata bianco, il terrore di tutti i mari, sfidi il qui presente John Watson in un duello?» E mentre un coro di “sì” e di urla festanti si elevava, riempiendo la nave di grida felici, mentre i pirati de la Norbury inneggiavano a un’altra vittoria di Sherlock Holmes, mentre Victor Trevor rideva sguaiatamente, John si chiese se non fosse finito in un incubo. Lui in un duello contro il capitano? Era da pazzi, era completamente da pazzi.
«Sei un idiota» gli disse, tirando il diabolico pastore per una manica e strattonandolo quel tanto da farlo ricadere giù.
«Andiamo, dolcezza, un po’ di movimento che male vuoi che faccia? Sarà uno scontro al primo sangue e Sherlock ci va sempre leggero, per lui sarà sufficiente batterti. Non vuole certo ammazzarti.»
«Lo sai che sono stato ferito a una spalla durante la guerra e che non ho forza nel braccio, sì? E che il tuo caro amico mi batterebbe subito? Farò la figura dell’idiota e tutti mi rideranno dietro.»
«Userà la sinistra invece che la destra, oh sì, lui adora queste cose. Sarà come una sfida a se stesso, so che lo amerà o altrimenti puoi scegliere tu un’altra arma. Una che non sia la spada. In fondo, l’onore della sfida è tuo.»
«Coraggio, dottore» urlò Fortebraccio proprio in quel momento, l’imponente timoniere che stava alle loro spalle e con un sorriso sdentato, lo fissava. «Non avrai mica paura» aggiunse, provocando sonora una risata tra i marinai. Fu allora che capì che non aveva scelta e che avrebbe dovuto combattere contro Sherlock Holmes e non era tanto una questione di voler lottare, era una faccenda d’onore. Comprese che non c’era scampo e che nemmeno servivano parole o accorati discorsi. Pertanto non aggiunse nulla e si limitò a inchinarsi leggermente in direzione pirati, in un segno di profondo rispetto. Poi, con un balzo incredibilmente agile saltò giù dal cassero, provocando un coro di stupore. Sì, era ancora in forma, disse a se stesso complimentandosi quasi. Lui era lì, Sherlock Holmes si era levato la camicia e stava a petto nudo. Aveva gettato via il cappello e adesso i ricci saettavano a destra e a sinistra, agitati dal vento. Sorrideva, il terrore dei sette mari e prima che John dichiarasse l’arma che aveva scelto per il combattimento, il capitano si profuse in una profonda riverenza.
«En garde, capitano» sussurrò John, prima di scagliarsi contro di lui con tutta forza di cui era capace. E mentre i pirati de la Norbury esultavano, affascinati dall’ennesima lotta, lassù sul cassero di poppa, Victor Trevor sorrideva beato.
 



Continua
 
 
 
 
 
La frase citata viene pronunciata da Iñigo Montoya (riferendosi a Westley) nel film Princess Bride.

*Ho creduto che Archie fosse diminutivo di un altro nome. Ho scelto Archibald.

Questo capitolo è un po’ di passaggio, ma mi serviva per introdurre due fatti molto importanti: il primo è che hanno una rotta e non chiedetemi come ha fatto Sherlock a capirlo perché lo spiegherà lui stesso, il secondo è forse più oscuro e magari nemmeno ve ne sarete accorti, ma qualcuno a bordo vuole screditare John. Non perché ce l’abbia con lui, ma perché sarebbe perfetto il far ricadere su di lui tutte le colpe. Le colpe di che cosa? Ovviamente non ve lo dico, però sono buona e vi lascio con una domanda, a cui comunque già ho accennato. Come facevano Moran e Moriarty a sapere dove trovare la Norbury?

Grazie a tutti coloro che stanno recensendo.
Koa
   
 
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