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Autore: QueenOfEvil    13/05/2017    2 recensioni
(Dal capitolo sette):
"Sì, aveva aspettato quel giorno per anni, nella polvere, nell’ombra di qualcun altro, di Ahadi, di Mufasa e adesso che correva il rischio di venire oscurato anche da Simba, da quello scricciolo che altro non era che un prolungamento del fratello tanto odiato, gli era stata finalmente data l’opportunità di scuotersi di dosso tutti: sarebbe diventato ciò che era stato predestinato ad essere fin dall’infanzia, fin dalla nascita. Il sovrano che nessuno mai aveva visto in lui."
La storia di un re considerato tale solo da se stesso. E, chissà, forse, in fondo, neanche quello.
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Scar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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2. Taka. We know what we are, but know not what we may be


Nessuno si aspettava che sarebbe successo quel giorno, né Ahadi né tantomeno Uru: era ancora presto, mancavano almeno due settimane al momento. Non poteva, non doveva avvenire proprio allora. Eppure a quanto pareva la sorte aveva deciso diversamente. Forse la leonessa si era sforzata troppo in quell’ultimo periodo, andare a caccia in quelle condizioni non era consigliabile, e sia Rafiki che il suo compagno l’avevano severamente ammonita, malgrado sapessero benissimo che non avrebbe seguito i loro consigli, o forse mangiando aveva ingerito inavvertitamente un’erba o una bacca particolarmente velenosa… nessuno poteva essere sicuro di quale fosse la causa primaria.


Fatto stava che, mentre il piccolo Mufasa giocava tranquillamente poco distante dalla Rupe dei Re con Sarabi e altri cuccioli del branco, Uru stava facendo nascere il suo secondo figlio, largamente in anticipo rispetto a quanto sarebbe stato opportuno. Il Re e lo sciamano, al suo fianco, rabbrividivano sentendo i lamenti della Regina, e ancor più temendo in quali condizioni il piccolo, o la piccola, sarebbe venuto al mondo: era presto, troppo presto, e, se con il loro primogenito fortunatamente non c’erano state complicazioni e la sua costituzione era subito risultata sana e forte, probabilmente non si sarebbe potuto dire lo stesso del secondo.


Se fosse stato nelle facoltà di Ahadi scegliere, lui avrebbe senz’altro preferito che quel cucciolo fosse una femmina: aveva già un erede, qualcuno che avrebbe potuto prendere il suo posto e che avrebbe regnato, lui ne era certo, grazie alla sua guida, saggiamente e giustamente ed il nome che aveva scelto per il piccolo era una conferma dei suoi pensieri. Avere un secondo maschio avrebbe complicato inutilmente le cose, senza contare quanto poco i due leoncini fossero distanti come età l’uno dall’altro: Uru era rimasta incinta nuovamente appena un mese dopo aver partorito Mufasa e ora, con questa nascita prematura, la differenza fra i due si sarebbe assottigliata ancora di più. Se invece fosse stata una leonessa, il problema non si sarebbe posto, anzi, ella sarebbe potuta essere poi unita con il capo di un altro territorio vicino, suggellando alleanze che sicuramente avrebbero giovato a entrambi i regni.


Sì, Ahadi aveva una chiara idea di come sarebbero dovuto andare le cose e fu senz’altro per quel motivo che, quando finalmente le doglie cessarono e la sua compagna poté finalmente riprendere fiato, i suoi occhi si incupirono alquanto quando vide che accanto ad ella vi era un leoncino, indubbiamente maschio, piccolo e fragile, e dall’aria malaticcia. Anche con un’occhiata sommaria, era evidente come egli fosse completamente diverso dal primogenito: al manto color miele di quest’ultimo, infatti, si contrapponeva un arancione quasi bruciato, talmente scuro da non lasciare dubbi sul fatto che l’avesse ereditato dalla madre, e in mezzo ad esso spiccavano due occhi verde acceso, per nulla simili a quelli marroni del fratello e del padre, in cui nulla vi era dell’espressione forte e volitiva che caratterizzava gli altri due maschi della famiglia. In essi compariva una luce diversa, quasi strana per un esserino così piccolo e appena nato, soprattutto considerando che le sue condizioni di salute erano alquanto precarie: nonostante le leccate della madre, egli sembrava non reagire, o reagire in modo molto fievole, e sia il re che Rafiki, dopo essersi lanciati un’occhiata, convennero con la mente al pensiero che quello fosse un segno della precoce morte a cui egli sarebbe andato incontro. 


Il babbuino, comunque, prese il leoncino tra le sue braccia, visitandolo e cercando in ogni modo di attirare la sua attenzione, tutto sotto gli occhi preoccupati di Uru, che non aveva assolutamente intenzione di perdere il suo cucciolo, e di Ahadi, il quale sembrava però già rassegnato all’idea che per lui non ci fosse nulla da fare.

Passarono delle ore, silenziose e meste, nelle quali non fu scambiata una parola: anche Mufasa, che nel frattempo era rientrato con la giocosa baldanzosità dei giovani, aveva intuito che qualcosa non andasse e perciò si era accucciato vicino alla madre, tentando di consolarla per qualcosa che neanche lui riusciva pienamente a comprendere.

“Dovremmo dargli un nome” disse infine la regina, guardando il batuffolo di pelo scuro che, già esausto, dormiva accanto a lei, respirando faticosamente “Dovremmo dargli un nome e presentarlo al regno”


Non ebbe subito una risposta, ma quella che ricevette non le piacque affatto: “Non credo che ce ne sarà bisogno”


“Come può non essercene bisogno? È nostro figlio! Abbiamo il dovere di dargli il benvenuto nella nostra famiglia!” le sue sopracciglia si incurvarono, facendo ancora più risaltare gli occhi azzurri contro il suo manto bruno: era un mistero per il re da dove il loro secondogenito avesse preso quegli smeraldi che si ritrovava incastonati sul muso.


“Anche se fosse solo per pochi giorni?” Il padre era restio a chiamarlo in alcun modo, non perché non gli interessasse del destino del cucciolo, quanto perché a parer suo il suo fato era già stato segnato: non aveva senso dare un nome a qualcosa che avrebbe perso nel giro di un battito di ciglia, né avrebbe probabilmente retto il pensiero di doversi separare da qualcosa che aveva già sentito come suo.


“Ancora di più se fosse così” ribatté lei, stupendolo con la sua fermezza: era sempre stato così con Uru, sapeva essere docile e mite, ma non appena aveva qualcosa da difendere, sapeva essere più persuasiva e forte di quanto lui sarebbe mai stato “Ma non sarà questo il caso. Nostro figlio vivrà e sarà un fratello amorevole e gentile per Mufasa. Non è tipico della nostra stirpe arrendersi e lui ha ereditato le nostre stesse caratteristiche. È comunque necessario che si senta a casa, non importa per quanto tempo egli resterà con noi”


Quelle parole lo colpirono e lo fecero riflettere: sì, non era l’erede ideale che avrebbe voluto, e aveva già un figlio che avrebbe dovuto svolgere quel compito, né la figlia che avrebbe potuto unire più di un regno, ma era comunque sangue del suo sangue. Anche se era così diverso da lui e il suo futuro era incerto, aveva comunque il diritto ad un riconoscimento, per quanto piccolo potesse essere.


“Taka” rispose perciò “Il suo nome sarà Taka” La moglie provò a controbattere, disapprovando la scelta del marito e soprattutto non volendo che il figlio venisse d’ora in poi chiamato in modo tanto denigratorio, ma questa volta fu lei a dover tacere, quando il Re parlò nuovamente.


“Se dovesse resistere, cosa che non sono certo che succederà, troveremo un altro appellativo più adatto a lui, ma per il momento faccio valere la mia autorità e decido per entrambi. In più, come tu ben sai, esiste un altro significato che questo nome custodisce, meno conosciuto, meno apprezzato, ma c’è: volere(1). E credo che tanto tu quanto gli Antenati siate a conoscenza di quanto io voglia che lui sopravviva” Si avvicinò al figlio, che, svegliato dai passi pesanti del padre, rivolse lo sguardo verso di lui. Non era spaventato, come era accaduto con Mufasa da piccolo, anzi: nelle sue iridi leggeva una forma di curiosità che lo intrigò a sua volta, seppur per un breve momento. Poi il piccolo sbadigliò e si rivolse nuovamente alla madre, che lo leccò e lo guardò con affetto.


“Benvenuto nel Grande Cerchio della Vita, Taka” sussurrò, allontanandosi piano e aspettando che il tempo facesse il suo corso.


                                                               *************


Taka non ebbe una cerimonia come quella del fratello, come quella di chiunque nato dalla stirpe reale: la sua condizione di salute rendeva impossibile per lui prendere ventate o anche solo stare esposto al sole per troppo tempo. La vita del cucciolo era appesa ad un filo e tutto avrebbe potuto sbilanciarne l’equilibrio, perciò passarono più di due settimane prima che chiunque, a parte Rafiki e i due genitori, potesse vederlo. Anche Mufasa, che pure non vedeva l’ora di avere un nuovo compagno di giochi con cui condividere le sue avventure, fu accuratamente redarguito così che non si avvicinasse troppo al secondogenito, per paura che, con la sua tipica irruenza, gli facesse male, seppur involontariamente. Tutti tranne Uru si aspettavano che la vita in quel piccolo corpo si spegnesse da un giorno all’altro, che un mattino avrebbero trovato Taka freddo, morto, raggomitolato in un angolo della tana.


Contro tutte le previsioni, invece, lui sopravvisse e Ahadi sospettò subito, anche se era impossibile, per qualcuno nato così da poco, che questo suo aggrapparsi alla vita e infine conquistarla pienamente fosse stato per puro spirito di contraddizione verso tutti gli altri, una sfida che egli aveva preso sul personale. E, forse, visto il particolare carattere che egli ebbe fin da subito, l’ipotesi poteva non rivelarsi così errata.


Dopo il primo mese di vita, gli venne finalmente accordato di iniziare ad uscire e orientarsi con gli altri cuccioli: il pericolo era passato e, anche se madre e padre dubitavano che avrebbe mai avuto la corporatura fisica di un leone pienamente in forze, era comunque ben saldo sulle gambe e aveva un ottimo senso dell’equilibrio. Non si poteva dire, quindi, che fosse totalmente svantaggiato rispetto agli altri, anche più grandi di lui, che ancora facevano quasi fatica a reggersi sulle quattro zampe. Malgrado quindi le previsioni del padre fossero state disattese, nessuno pensò di cambiargli nome: ormai egli si era infatti abituato ad essere chiamato in quel modo, e a lui non sembrava dispiacere. O forse era solo troppo piccolo per sorprendersi per quella strana e inusuale etimologia.


Quello che stupiva, invece, era il profondo contrasto presente fra i due fratelli, che, oltre per l’aspetto, differivano in tutto anche nel carattere: se Mufasa era impulsivo e coraggioso fin quasi all’imprudenza, Taka era riflessivo e flemmatico, tanto in alcuni casi da rasentare la codardia, se il primogenito amava lanciarsi in nuove avventure e perdersi nell’ambiente circostante tutto d’un colpo, il fratello tendeva ad avvicinarsi al nuovo con cautela, indagando e sicuro di avere la situazione in mano prima di fare qualsiasi altra mossa. Parlando in termini militari, Uru e Ahadi avevano creato un comandante indomito e un eccellente stratega. Il contrasto era forte, ma in qualche modo i due riuscivano a completarsi a vicenda: il loro era un legame molto stretto, reso ancora più forte dalla relativa vicinanza di età e questo rendeva molto fiera la madre e sollevato il padre. Se nella prima giovinezza il loro affetto reciproco fosse stato sempre così stretto, rifletteva, quando il momento fosse giunto per Mufasa di salire al trono non sarebbero nati dissidi o faide a cui lui avrebbe dovuto porre rimedio.


“Taka? Taka…? Taka!” l’erede al trono scosse una zampa più di una volta davanti al muso dell’altro, che non stava dando segno di prestargli attenzione: gli capitava spesso, in realtà, di perdersi nei suoi pensieri, che spesso trovava più interessanti del mondo attorno a lui e detestava, anzi, odiava, quando altri lo interrompevano. Ma per il fratello poteva fare un’eccezione, specialmente se sapeva che non avrebbe smesso fino a che non avesse ottenuto quello che desiderava. Era un’altra differenza nel loro carattere, avevano un concetto molto diverso di costanza: se Mufasa era capace di chiedere una cosa cento volte fino allo sfinimento altrui e o ottenerla una volta per tutte o dimenticarsene dopo meno di un’ora, Taka era solito fare sempre una sola richiesta, al massimo due se era necessario, ma calibrando bene momento e umore altrui. Se non l’otteneva immediatamente, apparentemente desisteva, ma era capace di ricordarsene per giorni, fino a che erano i suoi interlocutori ad essersene scordati: a quel punto tornava e, con poche parole, riusciva nel suo intento. Erano due metodi diversi, anche se ad una prima occhiata era il primogenito ad apparire il più determinato.


“Che succede?” sospirò quindi, alzandosi in piedi e squadrando l’altro con un’occhiata poco entusiasta.


“Vieni con me: ti devo far vedere una cosa! Sono sicuro che ti piacerà” sussurrò il primogenito, dopo aver fatto attenzione che nessuno degli adulti fosse nei paraggi.


“Di che si tratta?” Taka non aveva alcuna intenzione di muoversi di lì, non almeno fino a che l’altro non gli avesse dato una buona ragione per farlo: dal tono della sua voce, intuiva come quello che egli voleva mostrargli non fosse qualcosa che i suoi genitori avrebbero approvato e non era entusiasta nel mettersi nei guai. Non senza un ottimo motivo.


“È una sorpresa! Dai, dai, vieni con me!” Mufasa iniziò a saltellargli attorno, tentando di trasmettergli un po’ del suo spirito avventuriero, senza ottenere un gran risultato però.


“Sai che odio le sorprese. Quasi quanto gli indovinelli” L’idea che il fratello desistesse era quantomai remota, più un’utopia che una reale possibilità, ma era assolutamente determinato a non lasciarsi convincere per una sciocchezza.


“Non rovinare tutto come al solito: sono certo che ti divertirai anche tu” Come volevasi dimostrare, Taka si sentì afferrare per un orecchio e trascinare per un metro abbondante prima di riuscire a piantare gli artigli, ancora poco sviluppati, nel terreno e arrestarsi, facendo perdere l’equilibrio all’altro, che rotolò al suo fianco. Ostinato a non rispondere e a lasciarsi convincere, voltò lo sguardo dall’altra parte e si stese per terra, tentando di ignorare il sottile velo di curiosità che si stava pian piano adagiando su di lui.


“Il fatto che per te qualcosa sia divertente, Mufasa, non vuol dire che lo sia per tutti. Si chiamano “differenze di opinione” ne hai mai sentito parlare?” Socchiuse gli occhi, ma questo non gli impedì di fissare, con le sue iridi verdi tanto diverse da quelle di chiunque altro nel branco, gli occhi bruni del fratello, per nulla scoraggiato dalla sua apparente mancanza di interesse.


“Facciamo un gioco. Se vinci tu ti lascio in pace, se vinco io vieni con me” La competitività era uno dei pochi tratti che avevano in comune e, insieme ad un certo grado di vanità, era l’unico punto debole di cui Taka non riuscisse a liberarsi: dannandosi per questo e al contempo non potendo trattenersi, alzò le orecchie e la testa, squadrando torvo il suo interlocutore.


“Cosa proponi?” Capendo di essersi già in parte arreso al volere altrui, tentò di mantenere un po’ della sua ritrosia, determinato, in ogni caso, a non accettare una sfida in cui non avesse avuto possibilità di vittoria: non gli piaceva essere umiliato. Per tutta risposta, l’altro gli diede una spinta, rendendo chiaro quale fosse la sfida che gli stava proponendo: una mera questione di forza bruta. Il secondogenito non era entusiasta dell’idea e abbassò le orecchie, fermamente intenzionato a rifiutarsi di prendere parte ad un’attività in cui sarebbe sicuramente stato sconfitto. Mufasa sembrò accorgersi della reazione dell’altro, perché si affrettò ad aggiungere, con una malizia che Taka non credeva potesse possedere:


“Andiamo, non fare il fifone: solo perché non hai molte possibilità di battermi non devi ritirarti senza neanche tentare” Ed ecco che il secondo nervo scoperto del cucciolo era stato toccato: l’amor proprio. Arrabbiato e momentaneamente reso cieco dall’insinuazione del compagno, il leoncino scuro ringhiò debolmente contro l’altro e gli mosse contro con impeto. Felice di aver scatenato una qualche reazione e sicuro dell’esito dello scontro, il primogenito lo imitò. Poco prima del loro impatto, però, Taka, riguadagnata la lucidità, decise di evitare lo scontro diretto e, scartato di lato, affondò le unghie nel terreno, sollevando una nuvola di terra e lanciandola negli occhi dell’amico che, momentaneamente accecato, si lasciò prendere di sorpresa e vincere quasi troppo facilmente.


“Atterrato” gli sbatté in faccia il fratello, con un sorriso sarcastico e insieme vittorioso sul muso, attirandosi gli sbuffi del cucciolo dal manto color miele.


“Hai barato!”


“Non lo definirei barare, fratellone, quanto piuttosto sfruttare la situazione: è una cosa che dovresti imparare anche tu, se non vuoi farti prendere di sorpresa in futuro”


“Non vale, voglio la rivincita” Era tipico di Mufasa, lamentarsi quando non otteneva quello che voleva: con un sospiro di superiorità, il secondogenito commise l’errore di scuotere la testa in una maniera che poteva essere interpretata come un cenno di assenso, dando quindi la via libera all’avversario per liberarsi dalla sua presa con una zampata e farlo rotolare di quale metro, fino a finire contro la parete di roccia. Aspettò con ansia che si rialzasse per riprendere la lotta, ma, vedendo che egli rimaneva immobile e non accennava ad affrontarlo nuovamente, iniziò a sospettare che qualcosa non andasse: che lo avesse spinto troppo forte e si fosse fatto male? Che si fosse fatto… più che male? Era consapevole della natura delicata del fratello, non avrebbe mai voluto che gli succedesse qualcosa! Si avvicinò quindi con circospezione e, chiamando il compagno di giochi per nome, spinse delicatamente il suo naso contro la pelliccia dell’altro: per qualche eterno secondo, nulla si mosse. Poi, con uno scatto fulmineo, Taka si avvolse su se stesso e si tirò in piedi repentinamente, tanto da far perdere l’equilibrio a Mufasa, che si trovò nuovamente bloccato dalle zampe del fratello.


“Atterrato di nuovo” disse, questa volta con il caldo piacere della soddisfazione che gli montava nel petto.


“E tu hai barato di nuovo! Dai fammi alzare!” Consapevole della sconfitta, il primogenito si alzò con le orecchie basse e la voce mesta “D’accordo, hai vinto… ti lascio in pace” Per i Re Antenati quanto odiava vederlo con quell’espressione di vittimismo stampata sul muso: anche se aveva ottenuto quello che voleva, un po’ di pace, le parole gli uscirono di bocca prima di avere tempo di pensare.


“È qualcosa per cui vale davvero la pena correre un rischio?” Si maledisse per la propria debolezza quando vide l’occhiata vittoriosa che il fratello gli rivolse, ma era sempre così fra di loro: alla fine l’irruenza del primogenito prevaleva anche sulla sua enorme ritrosia.


“Assolutamente! Vedrai: sarà fantastico” E senza neanche aspettarlo, corse fuori, obbligando il cucciolo dal manto scuro a precipitarsi al suo inseguimento, tentando di raggiungerlo, anche se sapeva che sarebbe stato tutto inutile: la prestanza atletica, la forza, la resistenza … quelle erano caratteristiche che traboccavano in Mufasa, mentre in lui erano appena accennate. Ne aveva quanto bastava, certo, ma mai avrebbero potuto competere in quello.


Al fratello minore, però, non dispiaceva: ognuno eccelleva in qualcosa, d’altronde, ed era consapevole di essere di gran lunga più intelligente e scaltro del leoncino che in quel momento saettava davanti a lui. Fintanto che le due cose si fossero equilibrate, non aveva nessun motivo per provare alcun tipo di gelosia, anche se ogni tanto, ma solo ogni tanto, gli sarebbe davvero piaciuto avere una costituzione leggermente più piazzata.


Arrivarono alla pozza d’acqua e videro che Sarafina e Sarabi erano già lì, in attesa, per prendere parte a quella nuova avventura: erano amiche del fratello, e perciò anche sue, ma spesso notava come lo guardassero con apprensione, quasi si aspettassero che crollasse in pezzi al primo soffio di vento. Avrebbe voluto dire loro che non c’era alcun bisogno che si preoccupassero per lui, ma sospettava che gran parte di quel timore fosse costituito dalla possibilità che i suoi genitori le incolpassero se gli fosse capitato qualcosa e questo non gli faceva affatto piacere: sapeva di essere fragile, sua madre non faceva che ricordarglielo perché non si sforzasse troppo e il padre lo metteva continuamente in guardia perché non si confrontasse con leoni più grandi in scontri che non avrebbe potuto vincere, ma ciò non voleva dire che dovesse essere trattato come un peso.


“Oggi” ragionò “Potrebbe essere il giorno giusto per dimostrare chi sono, dopotutto”, per poi rivolgersi all’altro “Allora, qual è questa sorpresa che tanto volevi mostrarci?”


“Ho trovato un posto fantastico! Nessuno me ne aveva mai parlato prima, ma ho sentito di una gazzella che aveva sentito da uno gnu che aveva parlato con una giraffa che…”


“Se continuerai in questo modo, fratello, il sole calerà prima che tu ci abbia anche solo potuto dire di che si tratta”


“Non rovinare sempre il divertimento, Taka” ribatté Sarabi, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione all’amico “Avanti, mi stai incuriosendo” Odiava essere zittito da chicchessia, ma specialmente da lei: non sapeva esattamente per quale motivo, ma sentiva che fra lei e il primogenito c’era un legame molto stretto e venire rimproverato dalla cucciola era quasi come venire rimproverato da un componente della famiglia. Eccetto che lei non lo era. Stava per risponderle a tono, usando la lingua che sapeva poter essere sufficientemente tagliente da far tacere chiunque, quando il compagno si decise a risponderle.


“Beh, si tratta di un cimitero” L’eccitazione nella voce di Mufasa fece venire i brividi agli altri tre presenti, in particolare al fratello minore “Un cimitero di elefanti”.

 

 

 

 

 

 

 







1) non me lo sono inventato. Cercando su Google Traslate effettivamente “Taka” è anche parte di un verbo che significa “volere” in Swahili… ciò non toglie che per prima cosa stia per “spazzatura”


Angolino dell'autrice: Allora... che ne pensate? vi potrebbe sembare un inizio plausibile per la storia di Taka e Mufasa? Devo ammettere che la parte èiù dura è stata immaginare perché mai un padre amorevole avrebbe dovuto chiamare il proprio figlio "spazzatura" (seriamente, sfida tutte le logiche da me conosciute), ma sono piuttosto soddisfatta del risultato e spero che valga lo stesso per voi.

Per quanto riguarda il titolo dei capitoli... con due nomi avete iniziato a capire cosa abbiano in comune? Posso dirvi che è comunque qualcosa collegato con "Il Re Leone", anche se indirettamente. 

Grazie a chiunque legga, a chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite e, ovviamente, a chi commenti: recensoni e critiche negative sono sempre bene accette e aiutano a migliorare, o a dare sproni per continuare a scrivere, quindi spero davvero che mi direte come l'avete trovato.

Ci risentiamo fra due settimane!

L_A_B_SH


   
 
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