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Autore: Terre_del_Nord    10/06/2009    17 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.001 - Legami di Sangue

MS.001


Mirzam Sherton
località sconosciuta - febbraio 1971

Cammino senza meta sulla spiaggia, a piedi nudi… Una rosa ormai sfiorita in mano…
   
    Che cosa diavolo volevo ottenere?
 
Il vento mi gela la pelle… I vestiti abbandonati a terra. Non m’importa che l’acqua li trascini via e li rovini… Avanzo a occhi chiusi con solo una grande voglia di urlare… Una fatica incredibile a trattenermi dall’urlare… Il tuo nome? Il mio dolore? Quello che ho sempre provato per te? Le peggiori maledizioni che conosco? Non lo so, ma voglio urlare... Fino a farmi esplodere i polmoni e morire… Così… Solo morire…
Ti ho visto oggi, dalla cima della collina, nascosto tra gli alberi come un ladro… Avevi il tuo bell’abito da sposa e ridevi nel parco, tra i fiori e gli invitati… E nemmeno l’ombra di un turbamento… Nemmeno un ripensamento…

    Siamo solo polvere... Solo ricordi e foto bruciate... Solo pagine strappate…

 
Deglutisco, sono talmente sbronzo che potrei svenire e annegarmi ormai…
Lui era accanto a te… Lì, con i capelli mossi dal vento… E ti ha preso per la vita, e tu l’hai baciato, e prima… Un’enormità di tempo prima... Di baci prima... Di carezze prima... Di risate prima… Vi siete scambiati quegli anelli, testimoni di un amore miserabile rispetto a quello che avrei potuto darti io…

    No… No… No...
 
Affondo nella sabbia, tenendomi la testa tra le mani. La disperazione mi spinge le lacrime sempre più su … Io non posso, non devo piangere… Uno come me non piange mai…

    Uno come me….

 
Affondo le dita nella sabbia per trattenere i granelli che la marea mi strappa via... Uno dopo l’altro… Uno dopo l’altro… Come la vita e la mia idiozia mi hanno portato via te…

    Merlino! Vorrei essere cancellato dalla faccia della terra… Ora… Mentre ti fa sua… Cancellato come le parole che ho tracciato sulla sabbia… Idiota… Inutile… Patetico… Vigliacco… Sì, vigliacco…

Tengo la bacchetta in mano, ora che non serve più a niente.

    Se fossi stato un uomo, avrei pronunciato un Avada… Sarei finito in carcere, certo, ma lui non ti avrebbe avuto mai… Non sono stato capace nemmeno di questo…

Pronuncio ora parole… Altre parole… Per chiamare le onde che mi trascinino via… E mi sento sbattere sugli scogli... E non voglio pensare più a niente... Né al sangue che esce dalle mie braccia... Né alle ferite che si saneranno sempre troppo presto... Rispetto al dolore che porto dentro... Se solo fosse possibile... Se solo riuscissi ad annullarmi in questo turbinio… Se solo bastasse chiudere gli occhi… Nulla ha più senso ormai… Mentre le luci di Orione si alzano sull’orizzonte...

    Andromeda…
 
Mi riaggrappo allo scoglio…

    È tutta colpa mia... Solo colpa mia…
 
Stringo l’acqua delirando, folle, illuso di trattenere te… Voglio urlare... Voglio morire…

    Voglio... Te…
 
Perché non te l’ho detto mai? Perché sono coraggioso su una scopa o mentre faccio a botte, ma sono un patetico vigliacco di fronte a te? Perché non ho sputato sul mio onore? Perché non ho detto, non m’interessa niente? Perché sono scappato davanti alle chiacchiere? Perché non ti ho posto almeno di fronte a una scelta? Perché ti ho fatto credere che le tue idee ti rendessero indegna di me? Perché non ti ho detto, ti amo? Perché non te l’ho detto... Mai... Nemmeno quando ancora era tutto possibile...Nemmeno quando abbiamo ballato sotto la luna… Mai... Nemmeno una parola su quello che provo per te… Perché sono solo un vigliacco...
Sono rimasto in cima alla collina per ore... Impietrito da quello che stavo vedendo... Ogni bacio era una coltellata... Ed io lì, fermo come un idiota…

    Come un perfetto idiota… Con una stupida rosa in mano…
    Ti ho perduta per colpa mia… Solo per colpa mia…
 
Le lacrime si fondono nelle onde, tu sei perduta per sempre… Perché sono solo un viziato… Perché non so controllarmi… Perché non sono nessuno… Perché sono solo un nome.

    Un maledettissimo nome… Che non mi è bastato a meritare l’unica cosa che desidero…
    Meda…
 
Le luci della notte urlano il tuo nome, non potrò più alzare gli occhi al cielo senza sentirmi morire…

***
 
Mirzam Sherton
Londra - 15 giugno 1958
 
    “Muoviti Mir… siamo in spaventoso ritardo!”
    “Ma mamma… la partita comincia tra più di due ore!”
    “Dobbiamo prima incontrare il signor Krampton a Diagon Alley, è appena arrivato il suo gufo… è per quella festa che sto organizzando per papà…”
    “Quella ad Amesbury, con tutte le luci nel grande parco?”
    “Sì, tesoro… te l’ho detto: sarà una magnifica estate…”
 
    La mamma mi sorrideva, accarezzandomi i capelli: se quel giorno il Puddlemere avesse vinto la partita, com’era naturale, il campionato sarebbe finito in pratica con due mesi d’anticipo, la squadra avrebbe conquistato la stagione e finalmente papà si sarebbe impegnato di meno, e sarebbe stato tutto mio… tutto mio… almeno fino alla nascita di “quell’altro”. Guardai la pancia già lievemente arrotondata della mamma e pur cercando di reprimermi, non potei fare a meno di sentire montarmi dentro una sorda gelosia.

    Hanno me… che bisogno c’è di “quest’altro”?
 
    “Io e la mamma ci amiamo, Mir… e quest’amore si è trasformato in un bambino, come già è successo quando sei nato tu… tutto qui… lui c’è perché io e la mamma ci amiamo, non perché tu non ci basti… è lo stesso amore che ha creato te, è questo, ancor più del sangue, che vi rende fratelli… lui non ti toglierà nulla, io e la mamma ti adoriamo, lo sai!”

Mio padre mi aveva scompigliato i capelli e mi aveva abbracciato, come faceva sempre, ma per quanto apparisse rassicurante, non riuscivo a perdonargli quanto stava accadendo. Passavo tanti pomeriggi in camera mia a giocare col boccino e a riflettere su come sarebbe cambiata la mia vita: mio padre avrebbe smesso di insegnarmi a volare per occuparsi di lui? E la mamma? Lei era mia… ero già geloso di papà quando la baciava, e ora dovevo dividerla anche con “quell’altro”…

    No, non è giusto…
 
    “Allora sei pronto?”
 
Le sorrisi: mi afferrò la mano appena annuii e stringendomi a sé, avvolgendomi nel suo buon profumo, ci smaterializzammo alla periferia di Londra. Era una tarda mattinata di metà giugno, assolata, l’aria però era stranamente ferma, quasi pronta a scatenarsi in una tempesta di calore: per le strade, su cui si aprivano solo negozi dalle serrande abbassate, non c’era nessuno. La mamma camminava tranquilla al mio fianco, parlandomi della festa che aveva in mente, mentre affrontavamo quel quartiere babbano: non era la prima volta che passavamo di lì, e casa nostra sorgeva, visibile, in un quartiere in pieno centro. Al contrario della maggior parte dei purosangue Slytherins, infatti, mio padre non aveva problemi con i babbani, quanto a mia madre, per amor suo, aveva messo da parte le sue iniziali perplessità di strega purosangue e Serpeverde. Ora si divertiva persino, soprattutto quando ci spostavamo in auto, o papà portava a  casa una nuova diavoleria babbana: quando comprava un nuovo disco, ballavano in salotto per ore stretti stretti ed io sognavo di ballare un giorno con la mia principessa come facevano loro. Così, quando lui non c’era, pregavo la mamma che insegnasse anche a me, e lei acconsentiva e m’istruiva non solo sui balli dei maghi ma anche su quelli dei babbani. E poi c’erano i loro libri, che mio padre mi leggeva a letto se ero ammalato o anche solo se non riuscivo ad addormentarmi: lo sentivo che restava al mio fianco, sempre, finché non era più che sicuro che dormissi sereno e potesse ritornare da mia madre. Quando si era accorto che dalla mamma avevo preso un po’ di naturale diffidenza per i babbani, poi, mi aveva rassicurato a lungo che non avevo nulla da temere. Ed io gli avevo creduto e gli credevo ancora, così mi lasciavo andare con fiducia al nostro bizzarro modo di vivere e con il tempo avevo scoperto quanto amassi la loro musica e la loro poesia.
Anche quella mattina camminavo ridendo, al fianco della mamma: dovevamo arrivare fino all’incrocio infondo alla strada, lì iniziava la Londra magica, celata da una barriera di mattoni che ci avrebbe immesso nella parte estrema di Diagon Alley. Era il modo più semplice e rapido di arrivare all’appuntamento, senza passare davanti a Florian Fortebraccio e ai suoi meravigliosi gelati, che ci avrebbero assorbito il poco tempo che avevamo a disposizione. Di colpo, nel deserto silenzioso della strada, da una via laterale sbucarono due ceffi, un tipo basso e corpulento e uno più alto, completamente calvo e dal muso da topo: ridevano sguaiatamente e iniziarono a dire ad alta voce parole che non capivo. Dopo un po’ mi fu chiaro che si rivolgevano alla mamma… Lei mi serrò la mano nella sua e accelerò il passo, senza dire niente. La guardai: aveva il viso contratto in una strana smorfia e gli occhi fissi davanti a noi. I due uomini continuarono a ridere della nostra apparente indifferenza ma invece di lasciarci andare, cambiarono direzione e iniziarono a seguirci.
 
    “Muoviti Mir... e se ti dico scappa… tu corri… siamo intesi?”
    “Ma mamma…”
    “Niente ma… Devi raggiungere la barriera e cercare qualcuno cui chiedere aiuto non appena ti dirò di farlo…”
 
La osservai meglio, il suo sguardo celava un’ombra di paura, anche se cercava di mantenersi calma per me; annuii, più di una volta mio padre aveva detto che quando non c’era lui, io dovevo fare tutto quello che diceva la mamma. Ma diceva anche di proteggerla, perché, se lui non c’era, ero io l’uomo di casa e lui affidava a me quanto aveva di più prezioso. Le risate e le parole quasi urlate sembravano avvicinarsi sempre di più e il nostro passo pur accelerato quasi a trasformarsi in una corsa, sembrava inutile, la barriera sembrava sempre più lontana, e esposti in mezzo a una strada babbana, seppur deserta, la mamma non poteva prendermi e smaterializzarci.
 
    “Vieni qua bella rossa… Non ti va di fare amicizia con noi?”
 
Urlava il calvo, un sorriso sordido a rendere ancor più disgustosa la sua faccia.
 
    “Vai Mir… per l’amor di Merlino… vai!”
 
Mia madre mi spinse avanti, quasi volesse lanciarmi di peso oltre la barriera di mattoni, poi si voltò ad affrontarli, coprendo la mia fuga: ormai quasi in salvo, mi guardai indietro e la vidi che tirava fuori dalla manica la bacchetta, ma l’altro uomo, quello basso che finora era rimasto zitto, la colpì al volto, facendola cadere. Quando la vidi in ginocchio a terra, ferita, terrorizzata, che cercava di proteggersi la pancia con le mani, sentii il sangue urlarmi dentro e non capii più niente: tornai indietro, contravvenendo agli ordini e alla logica, mentre lei m’implorava di oltrepassare la barriera. Invece mi chinai, presi la bacchetta caduta dalle sue mani, avanzai verso i due ceffi che ridevano sempre di più: l’odio, un odio che non avevo mai provato, vinceva la paura e mi rendeva forte.
 
    “State lontani da lei! State lontani da lei!”
 
Sibilavo, pregando in cuor mio la bacchetta perché, benché fossi piccolo e non fosse la mia, mi rispondesse e potessi fare qualcosa, qualsiasi cosa, per proteggere la mamma e “mio fratello”. L’uomo alto però mi prese all’improvviso alle spalle, sollevandomi, e mentre mia madre a terra urlava che mi lasciassero andare, l’altro tirò fuori una cosa lucida dalla giacca, sentii un sibilo strano, e vidi un lampo che squarciava l’aria e poi un dolore lancinante alla pancia e poi un altro e un altro ancora… Non capivo perché… Faceva tanto male e la luce si faceva sempre più debole e tutto diventava scuro. Anche se era appena passato mezzogiorno.
Sentii le mie dita allentare la presa, il rumore del legno della bacchetta che cadeva a terra e che era schiacciata e spezzata dal piede pesante di uno dei due. Con lei caddero il mio coraggio e la mia forza. Era sempre più freddo, mentre i miei vestiti s’inzuppavano di qualcosa di caldo e appiccicoso. Ormai c’erano solo le loro risate. E la voce disperata della mamma che urlava il mio nome, sembrava arrivarmi da un luogo sempre più lontano.
Poi non sentii più niente.

***
 
Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 21 marzo 1960
 
Fin da piccolo, delle tante storie raccontate da mio padre, quelle erano le mie preferite, dopo le avventure legate al Quidditch: quando mi parlava di Herrengton, restavo affascinato per giorni immaginando il castello e la foresta e gli ippogrifi e gli altri animali magici, un mondo ben diverso da quello che vivevo tutti i giorni a Essex Street o ad Amesbury, d’estate. E ora ero finalmente lì. Guardavo fuori dalla finestra, l’oceano sotto di me sembrava una placida distesa di mercurio, intorno a me pietra millenaria e strani alambicchi, libri polverosi dalla copertina consumata, arazzi, quadri di antenati, una miriade di ampolle e contenitori con nomi di strani ingredienti: lo studio del nonno. Finora ero stato a Herrengton solo per prendere le rune, ma ero troppo piccolo per ricordare. E quando eravamo stati male: sapevo che io e la mamma eravamo stati curati a lungo in Scozia, ma anche di quello avevo poca memoria. Mio padre e ancor di più mia madre, anche se non ne parlavano chiaramente, e non ne capissi il motivo, non erano troppo felici di farmi stare con il nonno, per questo l’avevo incontrato solo poche volte: quando pensavo a lui, rivedevo solo una figura austera che non mi aveva baciato mai, che attendeva sull’arco di pietra della porta, con le mani serrate, che i Medimaghi finissero di visitarci e lo rassicurassero sulle condizioni mie e della mamma. Era un uomo anziano che aveva in sé ancora molto della propria antica energia: era alto come mio padre, altrettanto magro, con una criniera di capelli lisci, candidi come neve, che gli arrivavano fino a metà schiena, legati in una coda, lasciando così scoperta la maestosa runa che portava al collo. Sembrava che sulla sua pelle quell’inchiostro sacro risaltasse più che sulla mia o su quella di papà.  
Fino a pochi minuti prima ero rimasto nella mia stanza, nella camera che aveva fatto preparare per me in una delle torri, con gli stendardi di Salazar davanti al mio baldacchino: io non vivevo in una casa Serpeverde, a Essex Street, lì gli oggetti non avevano fregi serpenteschi. Quando avevo visto la mia stanza a Herrengton la prima volta, avevo iniziato a chiedermi perché mio padre volesse che vivessimo in mezzo a oggetti che non ricordavano il valore e la grandezza della nostra famiglia, ma mio padre diceva soltanto

    “Quando sarai grande, parleremo e capirai”.

Io non volevo capire, volevo solo vivere da Serpeverde e aspettavo con impazienza che passasse un altro anno e mezzo per poter finalmente entrare nella casa di Salazar, a Hogwarts. Mio padre sorrideva di questo, anche se il suo non era più il sorriso di un uomo felice. Dopo quel pomeriggio in cui i due babbani avevano attaccato me e la mamma, mio padre era stato strano per molto tempo, aveva smesso di parlare in termini entusiastici del mondo "non magico", era diventato triste e spesso l’avevo sentito chiedere a mia madre di perdonarlo. Lei allora gli diceva qualcosa piano all’orecchio e lo abbracciava e lo baciava, come sempre, pur tuttavia mio padre aveva perso il sorriso che aveva sempre avuto. Benché fossi solo un bambino, avevo capito che anche mio padre aveva perso qualcosa quel giorno. Volevo essere proprio per questo un Serpeverde: non per la tradizione di famiglia, ma perché come una Serpe odiavo i babbani. E non era per il dolore che avevo provato quel giorno o perché avevo rischiato di morire: li odiavo perché non riuscivo a dimenticare mia madre a terra, ferita, e perché pensavo che solo una piena vendetta avrebbe reso di nuovo il sorriso a mio padre.
Quando all’improvviso la porta della mia stanza si era aperta e Doimòs mi aveva annunciato che mio nonno desiderava parlarmi, il pensiero era corso, rapido, a Londra, alla mamma impegnata a far nascere un altro bambino; era troppo presto... La mia agitazione aumentò: la paura per mia madre mi fece tremare e stringere le mani tanto da segnarmi la pelle con le mie stesse unghie. Seguii timoroso in silenzio il vecchio elfo per corridoi oscuri e scale a chiocciola, sempre più in basso, fino ai sotterranei di una delle torri: Doimòs mi fece entrare in una stanza ampia illuminata da bifore che guardavano verso il mare, poi mi lasciò da solo, in attesa che il nonno mi raggiungesse. La mente turbinava e si perdeva in pensieri tristi e orribili. Poi sentii la porta aprirsi e richiudersi, sentii il suo mantello muoversi nell’aria. Alla fine mi voltai, impettito, come si conveniva a suo nipote, cercando di tenere ferma la voce, mentre mio nonno stava ritto davanti a me, presso il caminetto. A scrutarmi, quasi come se mi stesse valutando.
 
    “Signore, è… è successo qualcosa a mia madre?”
    “Tua madre e il bambino stanno bene, non sei qui per loro, ma per seguirmi e ascoltarmi…”
 
Guardai quell’uomo, era freddo come ghiaccio: dunque era nato. Eppure la sua espressione non cambiò, la sua voce non si addolcì. Non feci domande, sicuro che non avrei avuto risposte. Lo seguii, mantenendomi due passi indietro come faceva sempre anche mio padre, lasciando che mi guidasse in una parte del castello che non ricordavo di aver visitato mai. Papà diceva che il castello era pieno di tesori, di reliquie del passato, ma che non era ancora nel pieno della sua magnificenza, perché molte cose ci erano state rubate nel corso dei secoli e, lui, una volta lasciato il Quidditch, voleva impegnarsi a recuperare tutto: guardandomi attorno, mentre attraversavo quei corridoi dai soffitti altissimi, in cui la pietra si annodava su se stessa creando intrecci maestosi, mi chiedevo come dovesse essere Herrengton al massimo del suo splendore, perché già così era meravigliosa. L’aspetto del maniero cambiò di nuovo, il corridoio si fece più ampio, più luminoso, il soffitto non era più di pietra ma coperto con cassettoni dorati; ovunque, al contrario di casa nostra a Londra, c’erano fregi serpenteschi e i colori della sacra casa di Serpeverde. Mio nonno svoltò a destra, entrando in un ambiente celato allo sguardo da una ricca tenda di broccato verde, lo seguii e mi ritrovai in una gigantesca sala, apparentemente più antica del corridoio appena percorso: enorme, era fatta di pietra, con, in fondo, tre archi ogivali che costituivano un sipario ed era sormontata da una volta a botte, affrescata con un cielo stellato, cinque lampadari di cristallo scendevano dal soffitto, illuminando l’ambiente con la luce di cento candele. Notai che le pareti erano ricoperte di arazzi e la voce commossa di mio padre emerse dai miei ricordi: m’irrigidii sulla porta, avendo compreso dove mi trovassi in quel momento. Invitato a entrare, mossi pochi titubanti passi all’interno, ero circondato da un millennio di storia, tutti i nomi dei maghi purosangue erano lì attorno a me, sapevo di esserci entrato solo un’altra volta nella mia vita, quando mio padre mi aveva presentato ai suoi avi come futuro erede degli Sherton. Sentii emozione, timore e orgoglio fondersi insieme in un unico fuoco nel mio cuore.
 
    “Avvicinati e osserva… Noi siamo gli Sherton: un singolo ramo. Come puoi vedere, siamo soli, non abbiamo fratelli, né cugini, compete solo a noi portare avanti il destino della famiglia più potente del Nord.”
 
Alzai gli occhi, come un ammonimento sinistro osservai la linea che scorreva sopra il nome di mio zio e sua moglie: sì, eravamo rimasti soli, solo io e la mia famiglia. Era la maledizione della nostra storia, un grande potere che faceva gola a troppi nelle mani di un solo uomo, un singolo errore e tutto sarebbe finito in polvere.

    La prima regola è sopravvivere…

Compresi in quel momento l’importanza di mio fratello, dei miei fratelli: se fosse capitato qualcosa a me... io ero niente, era la nostra famiglia ciò che contava. Mentre riflettevo sul peso che gravava su tutti noi, il nonno estrasse una boccetta dalla toga, poi materializzò un pugnale: come vidi la lama, i miei occhi si riempirono di terrore, troppo vividi e troppo spaventosi, ancora, erano i miei ricordi.
 
    “Dammi la mano… sarai tu a donare sangue puro, stavolta.”
 
Tesi la mano, sorpreso e titubante, me la sentii afferrare con poca grazia, la lama ferì il mio palmo, disegnando una riga sottile e profonda, il sangue rubino apparve poco dopo, il nonno lasciò che si accumulasse nel palmo poi lo versò con cura all’interno della boccetta; infine pose di piatto la lama sulla ferita, cicatrizzandola magicamente. Osservai la sottile linea: sembravano incise delle fitte e piccole rune, tutto lungo il taglio. Intanto, con la mano sinistra, il nonno mescolava lo strano intruglio nella boccetta, recitando a bassa voce una litania in gaelico.
 
    “Ora scriverò il nome del bambino sull’arazzo, con una lega fatta di puro argento di Herrengton e di puro sangue Sherton: lì resterà indelebile nei secoli. Un giorno sarai tu, l’erede di Hifrig, a scrivere il nome dei nuovi Sherton. Ricordati sempre, però: dovrai meritare il tuo ruolo nella storia con la tua vita!”
 
Mi pose una mano sulla spalla avvicinando la bacchetta all’arazzo e serrandomi a sé, tanto forte che sentii il battito del suo cuore, rimasi sorpreso: credevo quasi che non ne avesse uno, al contrario di mio padre. Non avevo chiesto quale fosse il nome scelto e quando lo vidi tracciato, rimasi stupito, impressionato: possibile? Possibile fosse vero? Possibile che fossi testimone di un evento così importante? C’era scritto Meissa Deidra Sherton. Avevo dunque una sorella, una sorella nata proprio nel giorno di Habarcat? Non era possibile, era un sogno forse: avevamo atteso quasi settecento anni. No, non era possibile. Mio nonno si voltò, aveva una luce particolarmente eccitata nello sguardo, non l’avevo mai visto così.
 
    “Mirzam Alshain Sherton sei qui, di fronte ai nostri padri, ad annunciare con me il momento glorioso, in cui ritorniamo padroni del nostro destino, in cui termina il nostro declino e la nostra solitudine. Hai annunciato ai nostri avi col tuo sangue la nascita di tua sorella nel giorno di Habarcat… ti sei impegnato a proteggerla per tutta la vita, davanti a tutti, non dimenticarlo mai… chi cede il proprio sangue all’arazzo, s’impegna a rispettare i propri doveri di fronte a Salazar stesso…”
 
Guardò la mia mano appena risanata, e guardò me… Era tutto vero, Herrengton aveva riconquistato la sua libertà, la cosa più preziosa, più degli ori e degli argenti, più di Habarcat stessa. Ed io avevo appena promesso di proteggere mia sorella a costo della vita, per garantire il futuro di noi tutti. Mio padre mi aveva raccontato molte cose della nostra famiglia: delle lotte che settecento anni prima ci avevano quasi distrutto, delle maledizioni poste su di noi per impedire che nascessero femmine e diventassimo troppo potenti grazie alla loro forza. E ora ero lì, davanti all’arazzo e ammiravo immobile e silenzioso un miracolo che aspettavamo da tanto, troppo. I secoli bui erano finiti ed io mi sentivo orgoglioso e grato verso quella bambina e avrei voluto essere già a Londra, a partecipare della gioia della mia famiglia. Mi chiedevo che faccia avesse, se assomigliasse alla mamma, con i bei capelli rossi, o avesse gli occhi chiari come i miei, o fosse più simile a mia nonna, considerata la più bella strega del Nord.
 
    “Seguimi!”
 
Il nonno scivolò silenzioso verso i tre archi ogivali, sollevò una delle tende e si fermò lì, facendomi cenno di seguirlo, mi mossi piano, in religioso silenzio: una specie di terrore sacro mi prese allo stomaco, ero curioso ma anche incredibilmente terrorizzato, al pensiero di stare al cospetto di Habarcat.
 
    “Sai già cos’è questa fiamma, il dono che Salazar Slytherin fece alla nostra famiglia per la nostra fedeltà. Habarcat…”
 
Entrai nel sacello, sembrava che l’aria lì dentro fosse più densa, la fiamma riluceva della sua fredda luce blu-verde… Il nonno pronunciò delle parole in gaelico, versò quanto era rimasto nella boccetta e la fiamma si nutrì del mio sangue: per pochi istanti il suo colore virò verso delle tonalità più naturali, rossicce. Sorrise e sospirò un sì liberatorio. Mio padre aveva detto una volta che il nonno era un grande veggente capace di fare domande alla fiamma e ottenere risposte: non gli chiesi conferma dei miei dubbi, ma capii dal suo sguardo che aveva chiesto a Habarcat se Meissa fosse proprio la bambina della svolta. E aveva ottenuto la risposta che desiderava. Mentre lasciavamo la sala e ritornavamo in silenzio sui nostri passi, nonostante la felicità e l’eccitazione mi sentivo angustiato però da mille domande. Perché mio nonno aveva affidato Meissa a un bambino come me? Quasi mi avesse letto nella mente, al temine della nostra silenziosa cena, il nonno mi chiamò a sé, ritto in piedi, davanti al caminetto su cui campeggiava il ritratto che lo raffigurava con la nonna e i suoi due figli.
 
    “Ti stai chiedendo perché ho voluto il tuo sangue, non quello di tuo padre… Mio figlio è un grande mago, un ottimo giocatore di Quidditch e un brav’uomo… ma è anche un debole dalle convinzioni deboli, Mirzam: non ha mai capito e non ha mai accettato gli insegnamenti più importanti per un mago Slytherin e purosangue… con la sua curiosità, la sua indecisione, la sua insofferenza ha messo in pericolo te, tua madre, la nostra intera famiglia … Io non posso permettere che si ripeta, no, non mi posso fidare, non più, non ora… Ormai sei grande, tra poco andrai a scuola… Ho voluto il tuo sangue, perché così ti prenderai l’impegno di occuparti dei tuoi fratelli, di farli crescere come dei bravi Slytherins, a costo della vita: voi tre siete il futuro della nostra famiglia ed io sono troppo vecchio e stanco ormai. Giurami che non sarai mai debole e insicuro… non importa quanto sarai abile come mago o perfetto come uomo, ciò che conta è che tu non dubiti mai di quanto è sacro e superiore il sangue che scorre nelle tue vene. Solo così sarai un vero Sherton. Ora vai e ricordati, non devi parlare mai di quanto ti ho detto questa sera, con nessuno!”
 
Mi congedò così, senza che potessi replicare, senza che potessi chiedere dei chiarimenti, lasciandomi nella più totale confusione. Passai tutta la notte a guardarmi la ferita alla mano, chiedendomi quale fosse la via per diventare uno Sherton migliore di mio padre, ammesso fosse possibile. Nella testa risuonavano le parole di mio nonno:

    "... Tuo padre è anche un debole dalle convinzioni deboli... "

    No, non è vero, non è vero! Mio padre è il mio eroe e mio nonno è solo un bugiardo!

Strinsi le lenzuola, arrabbiato e tremante….
 
    "... Non ha capito e non ha accettato mai gli insegnamenti più importanti… "

Che cosa significava? Quali insegnamenti non accettava? Era vero, amava le cose babbane, usava le cose babbane… E allora?  Forse non odiava i babbani, per lo meno prima non li odiava... ma ora avevo qualche dubbio.
 
   " … Con la sua curiosità, la sua indecisione, la sua insofferenza, ha messo in pericolo te, tua madre…"

Davvero mio nonno credeva questo? Ed era questa la verità? Era per questo che mio padre chiedeva perdono alla mamma? Ed io che cosa potevo fare? A chi potevo chiedere aiuto?
 
***

Mirzam Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - 1 settembre 1961
 
    “Mirzam Sherton…”
 
Era alla fine arrivato il momento della verità, al termine di una lunga giornata, che mi aveva visto per la prima volta lontano dalla mia famiglia. Per tutto il viaggio in treno ero stato teso e nervoso, diviso in due: entusiasta all’idea delle mille avventure che mi attendevano nel magico castello di Hogwarts, eppure triste per non aver potuto salutare la mamma al binario e averla dovuta lasciare a casa con i miei fratelli. Inoltre ero un po’ preoccupato per il mio smistamento: dopo quello che mi aveva detto il nonno, ormai quasi due anni prima, ero sempre pieno di dubbi e mi chiedevo sempre se quello che facevo e pensavo fossero pensieri e azioni giusti per un vero Sherton. Mio padre mi aveva accompagnato a King’s Cross e si era occupato personalmente dei miei bagagli e di trovarmi un posto, forse per avere più tempo da passare insieme, o perché, quando si trattava di uno dei suoi figli, non delegava mai agli altri nemmeno uno stupido dettaglio. Alla fine mi aveva lasciato salire scompigliandomi i capelli e baciandomi davanti a tutti, comportandosi in modo molto diverso dagli altri altezzosi genitori Slytherins: da quando avevo parlato col nonno, vedevo sempre più facilmente quanto fosse, e quanto fossimo, diversi dalle altre famiglie Serpeverdi, però non riuscivo a sentirmi inferiore agli altri, né a vergognarmi, solo perché mio padre dimostrava davanti a tutti il bene che mi voleva. Un po’ ero preoccupato di sentirmi dire che ero debole, però ero felice dell’affetto di mio padre, e per questo non avevo avuto scrupoli ad abbracciarlo, a mia volta, e molto di malavoglia ero salito. E subito ero corso al finestrino aperto per salutarlo, felice. A quel punto lui mi aveva dato il suo ultimo dono prima della partenza.
 
    “Questo è per te… se dovessi avere problemi ad addormentarti...”
 
Mi aveva messo in mano il libro che mi leggeva sempre, un libro piccino, ma piccolo solo quando stava in tasca, quando era aperto per essere letto, invece, le pagine sembravano non finire mai: l’aveva creato lui, mettendoci dentro tutte le storie più belle che amavo, e scrivendone persino alcune di suo pugno. E l’aveva creato apposta per me.

    Solo per me.

Gli sorrisi e rimasi sporto dal finestrino finché il treno non aveva curvato strappandomi alla sua vista: avevo urlato orgoglioso il suo nome e lui mi aveva risposto con un ampio sorriso, quello che dopo la nascita di Meissa era finalmente tornato a stamparsi spesso sulla sua faccia. Questa volta, però, quel sorriso era di nuovo tutto per me...

    Solo per me.
 
Ero andato a sedermi accanto al finestrino e avevo lanciato un’occhiata poco entusiasta ai miei compagni di viaggio, cupo… Ci misi poco a farmi un’idea di loro. C’erano due timide bimbette che non sembravano nemmeno avere undici anni, soprattutto di fronte a me che ero ben più alto della mia età: frignarono per tutto il viaggio perché mancava loro la madre. Una era una ragazzina un po’ rotondetta dai capelli fulvi, Molly Prewett, l’altra, Martha McDougal, la più lamentosa delle due, era simile a un pulcino, con gli occhi acquosi e celesti, il musetto smunto e dei sottilissimi capelli biondi legati in due treccine cadenti… Di sicuro, benché purosangue, piattole come quelle potevano finire solo a Tassorosso, quindi non rivolsi loro più nemmeno uno sguardo, ben intenzionato a non dar loro spago: non stava bene avere a che fare con lagne come quelle. Altri due li conoscevo già: Jarvis Warrington, era il figlio di un compagno di squadra di papà, era un ragazzo dai capelli corvini e con gli occhi azzurri, abbastanza alto e un po’ corpulento, dalla risata schietta e l’aria sempre gioviale, a parte quando, nelle occasioni in cui c’eravamo incontrati, l’avevo battuto a scacchi senza pietà. A guardarlo, con quell’aria da bravo ragazzo studioso, non avevo dubbi che sarebbe diventato un Corvonero, quindi mi sorpresi non poco, quella sera, quando finimmo a dividere la stessa stanza nei dormitorii di Serpeverde. Dall’altra parte dello scompartimento, a ridosso della porta, silenziosa, c’era una ragazzina bruna dallo sguardo luminoso e chiaro almeno quanto il mio: sorrideva appena di tutto quello che accadeva là dentro e non mi staccava mai gli occhi di dosso. L’avevo vista qualche volta alle feste di zia Rebecca a Doire: si chiamava Sile ed era la figlia di Donovan Kelly, uno dei più cari amici irlandesi di mio padre. Poi, quando già il treno era in viaggio, -  se solo l’avesse immaginato, di certo, mio padre avrebbe cercato un altro posto per me-, si era aggiunto un assurdo tipo dai capelli rossi sparati per aria, Arthur Weasley, futuro Grifondoro come tutta la sua sudicia razza di rinnegati. Non rimase fermo un solo istante per tutto il viaggio, entusiasta per qualsiasi cosa di animato e inanimato passasse davanti ai suoi occhi, parlò di continuo, nella vana speranza di far smettere le “lamentiadi” alle altre due e provocandomi, con la sua chiacchiera infinita, un feroce mal di testa. Nemmeno Meissa, nota urlatrice, appena nata, provocava con i suoi pianti dei mal di testa peggiori… Dopo aver salutato tutti senza troppo trasporto, m’interessai solo del paesaggio che scorreva oltre il finestrino, intercettando spesso sul vetro gli occhi di Sile: facevo finta di nulla ma spesso la cercavo, poi imbarazzato, lasciavo che lo sguardo scorresse su colline e fiumi e valli, mentre il sole lentamente spariva tra le nuvole ed era sostituito dalla pioggia e i profili del paesaggio perdevano la propria morbidezza per diventare più maestosi…
Al passaggio della signora delle caramelle, da bravo Sherton, offrii ai miei compagni alcuni dolciumi, mi esibii in qualche parola di rito e cercai di mantenermi civile e cavalleresco: sotto gli occhi divertiti di Warrington, però, feci in modo di non tendere la mano a Weasley, che ci rimase un po’ male. In realtà, non avevo intenzione di metterlo in imbarazzo, solo che avevo allestito tutta quella sceneggiata solo per dare di nuovo la mano a Sile, e non mi andava di dover pagare pegno dandola pure a quello lì. Alla fine, ritornai a perdermi nei miei pensieri, osservando la pioggia che sferzava i vetri del finestrino: mi chiedevo con chi avrei legato, che tipo di Serpeverde ci fosse in quella scuola, se sarei riuscito a fare amicizia con loro. E se io stesso sarei finito lì, nonostante mio padre ed io fossimo così diversi dagli altri…
La maggior parte degli amici di mio padre non aveva figli della mia età, lui si era sposato troppo giovane e aveva avuto me a nemmeno vent’anni: avevano tutti figli piccolissimi, come Orion Black che aveva due figli dell’età di Meissa. Solo suo cognato Cygnus, tra i nostri conoscenti più intimi, aveva figlie grandi quasi quanto me: a pensarci bene, non mi sarebbe dispiaciuto fare quel viaggio con loro, ma Bella non sarebbe venuta a Hogwarts prima di un altro anno e Andromeda, addirittura, non prima di tre. La sera prima ero stato a casa di Orion, a Grimmauld Place, e c’era anche la famiglia di Cygnus: le figlie erano già incredibilmente belle e, in particolare, Bellatrix già da un po’ faceva di tutto perché la notassi e sembrava arrabbiarsi quando fingevo di non vederla nemmeno… Lei in realtà mi piaceva, non era una ragazzina stupida e lagnosa, anzi era in gamba, curiosa, piena d’inventiva, e mi batteva sempre a scacchi; i suoi occhi erano sempre attenti, ero convinto che notasse anche i più piccoli dettagli… E poi… lei ci teneva sempre tanto a ricordare che i Black sono detti “Toujours Pur” e a me piacevano tanto le persone orgogliose di se stesse, come lei… Sì, Bellatrix Black era proprio una ragazzina interessante e non vedevo l’ora che entrasse anche lei a Hogwarts: le avrei insegnato tutto quello che sapevo, e lei sarebbe stata contenta, ancora di più, della mia amicizia.
Infine eravamo arrivati, sotto un cielo di nuovo stellato avevamo affrontato il Lago Oscuro su delle piccole barchette, gli occhi sognanti e tanta emozione nel cuore: io stringevo forte il ciondolo che mia madre si era tolta dal collo per darlo a me.
 
    “Ti sarò sempre vicina, portami sul tuo cuore…”
 
E ora l’insegnante mi aveva chiamato. Mi staccai dalla colonna delle ultime matricole non ancora smistate e con passo un po’ incerto mi avvicinai, mi sedetti emozionato sullo sgabello e aspettai che il cappello di Godric mi fosse posto sulla testa. Fece appena in tempo a sfiorarmi i capelli che pronunciò a voce alta, senza alcuna esitazione:
 
    “Serpeverde!”
 
Sorrisi orgoglioso, emettendo un sospiro di sollievo, mentre decine di calorosi applausi fecero tremare il tavolo delle Serpi, levandosi dalle fila dei miei futuri amici e compagni. Mi alzai, spavaldo, e raggiunsi i miei compagni di Casa. Un ragazzo bruno, probabilmente del terzo o del quarto anno, dagli occhi azzurri come ossidiana blu, si strinse contro il suo vicino, creando un vuoto, allungò improvviso la mano verso di me, mi prese per la giacca e mi attirò al suo fianco: mi ritrovai seduto vicino a lui, senza capire cosa stava accadendo. Senza esitazione, allungò la mano per presentarsi.
 
    “Benvenuto a Serpeverde, Mirzam Sherton… Io mi chiamo Rodolphus... Rodolphus Lestrange…”
 
Ero già pronto a ricambiare la stretta, ma quando sentii il cognome, rimasi un attimo interdetto e indeciso su quello che dovevo fare: dovevo prendere quella mano dimostrandomi gentile e bendisposto o, come diceva mio padre, era bene evitare certe famiglie? Il suo volto sicuro e beffardo si stava aprendo un sorriso canzonatorio, ero convinto che avesse fatto tutto questo solo per dimostrare ai suoi amici che avevo paura di lui, che tutti gli Sherton si comportassero da conigli, di fronte a dei Lestrange. Si preparava già a deridermi e a darmi della mammoletta, ma io non esitai oltre, strinsi la sua mano con fare energico lasciandolo stupito, e gli raccontai di quanto fossi contento di essere finalmente nella casa dei miei avi e di aver fatto un viaggio davvero pessimo, con delle piattole frignanti che avevano sempre invocato la mamma: le indicai sedute ai tavoli dei Grifoni e dei Tassi, provocando ululati di derisione tra i miei compagni. Feci poi un cenno del capo all’indirizzo di Weasley, appena smistato, dicendo di aver dovuto dividere lo scompartimento anche con tipi poco raccomandabili, gentaglia al pari di sanguesporco, feccia immonda che non meritava di essere nemmeno nominata, e Warrington, che era stato smistato poco prima tra le Serpi e si era aggiunto al nostro tavolo in quel momento, non fece altro che confermare e darmi manforte.
 
    “Povere piccole Serpi, ma questi sono racconti dell'orrore... Ora non dovete più preoccuparvi, qui non rischierete più quel genere di brutti incontri… Ora ci pensiamo noi a proteggervi…”
 
Rodolphus si guardò intorno, intercettò il sorriso poco rassicurante del Caposcuola Pucey e brindò alle nuove Serpi, infischiandosene delle parole del vecchio preside, cui nessuno di noi prestò la benché minima attenzione… Io però lasciai stare presto anche lui e feci scorrere lo sguardo lungo la tavolata: alla mia destra, di fronte a me, alcuni posti più in giù, Sile Kelly continuava a non staccarmi gli occhi da dosso.
 
***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 20 luglio 1962
 
Era una fredda mattina di metà luglio, la pioggia scorreva su tutti noi, cinque figure vestite di nero, vestiti e capelli attaccati al corpo, fradici... Il gufo di mio padre era arrivato in piena notte, comunicandoci la notizia: lui era in Scozia già da una settimana, la mamma aveva appena avuto il tempo di avvertire Orion e lasciare i miei fratelli a Grimmauld Place. Non erano previste cerimonie pubbliche, bastava la famiglia, un Custode dei Riti del Nord e un testimone. Il vecchio sacerdote pronunciò le parole millenarie poi mio padre si chinò a baciare la bara che fu rapidamente calata a terra, sotto un imponente albero di quercia, in cima alla collina, accanto alla tomba di sua madre, Ryanna Meyer e di suo fratello, Ronald Sherton. Mia madre stava tre passi dietro di noi, accanto a Orion. Non riuscivo a piangere, la mente era un turbinio di pensieri ma non c’era tristezza, non c’era dolore, non capivo che cosa provassi…
La storia di mio nonno, Donavan Elija Sherton, finiva così, incomprensibile alla mia mente: sapevo che era stato un uomo che aveva tanto amato nella sua vita, era stato un padre simile al mio, seppur più rigido e introverso, poi la morte della nonna aveva congelato il suo cuore, era diventato freddo e distaccato, aveva perso mio padre per la sua testardaggine e intolleranza, l’aveva recuperato quando ero nato io, ma il loro rapporto non era più stato semplice. Le cose erano peggiorate ancora quando era morto anche mio zio, e il nonno si era chiuso nel suo silenzio carico di paura e risentimento. Mio padre si voltò verso di me e mi circondò le spalle col suo braccio forte, non mi guardò in viso come faceva sempre, lo sguardo perso all’infinito, su quel mare il cui colore assomigliava tanto a quello dei suoi occhi… Non l’avevo mai visto così sconvolto… Non l’avevo mai visto piangere… Mi chiedevo cosa ci fosse nel suo cuore in quel momento, perché ero convinto che amasse suo padre, ma che tra loro ci fossero troppe cose non dette: forse si sentiva in colpa, forse si sentiva perduto, forse aveva dei rimpianti. Io però sapevo che il nonno non lo stimava appieno, che per lui era diventato solo un mezzo per raggiungere un fine: il bene della famiglia. Mio nonno non lo vedeva più come un figlio, solo come un figlio… Forse era questo che lo faceva soffrire: anch’io avrei sofferto, se mio padre non mi avesse amato più …
Mi strinsi ancor di più nel suo abbraccio, non per il freddo, ma perché mi proteggesse. Tra noi non doveva essere così… Io e lui… non dovevamo finire così… Non dovevano esserci quei silenzi, quelle incomprensioni… Era questo che gli dicevano i miei occhi, era questa la preghiera timida e silenziosa che gli rivolgevo, quando alla fine mi fissò negli occhi. Lui capì, perché mi strinse ancora più forte a sé.
 
    “Ti voglio bene Mirzam…”
 
Avrei voluto che, pur nel dolore, quell’attimo rimanesse fissato per sempre. Che per tutta la vita mio padre fosse rimasto per sempre accanto a me. A farmi forza, come in quel momento.
 
***
 
Mirzam Sherton
Londra - 1 settembre 1962
 
    “Mi raccomando, Mirzam, quest’anno cerca di dar retta ai professori e pensa anche a studiare, non solo a svolazzare sulla scopa!”
 
Mi voltai verso mio padre rivolgendogli un’occhiata carica di promesse, poi di corsa raggiunsi Rodolphus, sotto gli occhi perplessi di mia madre: avevo convinto i miei a invitarlo a casa nostra per Natale, l’anno prima e pur rimasto leggermente meravigliato, mio padre, non aveva fatto una piega. Come sempre, per la mia felicità, non si opponeva e cercava di superare i propri pregiudizi. La mamma mi aveva però fatto promettere di stare sempre all’erta e di scrivere subito a lei o a papà, se qualcosa non mi avesse convinto. Io, però, non credevo che Rodolphus potesse essere pericoloso, loro non lo conoscevano: era una forza, giocava a Quidditch, nel ruolo di portiere, e in tutta Hogwarts non c’era nessuno che parasse i tiri bene come lui, tanto che era anche merito suo se l’anno precedente le Serpi avevano vinto il campionato! Non vedevo l’ora che ci fossero i provini, magari da cacciatore, visto che ancora per un paio di anni il ruolo di cercatore sarebbe stato più che dignitosamente ricoperto da Teddy Lammark, solo per giocare con lui. Poi… beh Rodolphus era davvero simpatico, con lui c’erano sempre belle avventure da organizzare, sempre nuovi scherzi da fare ai Grifoni... E lui era anche bravo a non farsi mai scoprire e mi aveva promesso che avrebbe insegnato anche a me come fare... E i suoi racconti… Merlino... certe sere d’inverno, attorno al caminetto, i suoi racconti avevano fatto restare tutte noi Serpi col fiato sospeso. Era un trascinatore, organizzava delle bellissime feste e non era un presuntuoso, lasciava che anche noi più piccoli partecipassimo e verso di me, in particolare, aveva sempre un atteggiamento aperto e amichevole: era il mio eroe, mi aveva persino fatto allenare a Quidditch di nascosto, l’anno prima, e mi aveva promesso che appena fosse stato possibile, avrebbe messo una buona parola col capitano perché il ruolo di cercatore finisse a me.
 
    “Hai passato bene le vacanze, Rod?”
 
Ero corso fin da lui, ma sembrava che la sua attenzione e quella dei suoi amici nei miei confronti fossero piuttosto carenti, seguii il suo sguardo e intercettai le figure altezzose dei coniugi Black e delle loro figlie, venuti a King’s Cross per accompagnare Bellatrix al suo primo viaggio. Lei doveva essere lì da qualche parte, ma non l’avevo ancora vista, a dire il vero non la vedevo da quando c’eravamo trasferiti a Herrengton, in fretta e in furia, alla morte del nonno.
 
    “Tu li conosci, vero, Sherton?”
 
Annuii, e iniziai a raccontare, sperando di riguadagnare la loro attenzione mostrando di sapere molto sui Black.
 
    “Li frequento regolarmente da quando sono nato, il mio padrino è Orion Black …”
    “Davvero? Non lo sapevo… Ma hanno solo figlie femmine?”
    “Cygnus Black ha tre figlie, Orion Black invece ha due maschi…”
    “Ah per fortuna, sarebbe stata una vera disgrazia se si fossero estinti pure loro…”
 
Adrian Bradford, del quinto anno, m’interruppe, spostando di nuovo il discorso su argomenti davvero poco leggeri di cui non capivo niente e che mi misero addosso tanta tristezza: la famiglia di Alicia Coulbourne si era definitivamente estinta quell’estate, quando suo padre, unico erede maschio dei Coulbourne, era morto in un incidente causato da dei babbani, lasciando una moglie e tre figlie piccole … e nessun erede maschio…
 
    “Stiamo sparendo dalla faccia della terra, è questa la verità… Quegli stramaledetti babbani… Siamo costretti a vivere nelle difficoltà e nella clandestinità per colpa di esseri inferiori… e a scuola, invece di insegnarci a difenderci e a riprendere il nostro posto, permettono a tutti di entrare! Hogwarts sta diventando un covo di sanguesporco e di mezzosangue… E con questo ministero, poi, che non ci protegge in alcun modo…. Se non cambierà qualcosa, presto i purosangue non ci saranno più… ci sarà solo feccia, dannata feccia…”
 
Rodolphus annuiva, mentre i suoi amici continuavano argomentando con altri esempi sempre più spaventosi. A me mancava l’aria… All’improvviso percepii dietro la figura di Druella Black qualcosa di corvino e la mia attenzione si ridestò, salutai Rod e gli altri con una scusa e tornai dai miei: mia madre si stava complimentando con i Black ancora una volta per la straordinaria bellezza di Narcissa, rendendoli particolarmente orgogliosi… Forse ero ancora in tempo per fare il viaggio con Bella! Mi avvicinai, tesi la mano, sfiorai la manica di quel bell’abito verde che intravvedevo e pronto a intercettare gli occhi attenti di Bellatrix sfoggiai il mio migliore sorriso, salutandola tutto gentile.
 
    “Buongiorno, Bellatrix Black!”
 
Quando la ragazzina si voltò, però, rimasi a bocca aperta: Andromeda era diventata graziosa almeno quanto sua sorella, l’unica cosa che le distingueva era la luce dolcissima che illuminava il suo sguardo, ben diverso dalla luce maliziosa che illuminava costantemente la figura di Bellatrix.
 
    “Sono Meda, non sono Bella… Ciao Mirzam Sherton…”
 
Sembrava leggermente delusa che non l’avessi riconosciuta, io diventai rosso, vergognandomi per la mia gaffe, d’altra parte l’avevo vista da lontano e lei fino all’ultimo era nascosta dietro la figura di sua madre.
 
    “Sei di nuovo qui? Hai già finito di giocare con i tuoi amici?”
 
Mia madre mi sorrise mentre continuavo a restare senza parole, poi vidi Bella che scendeva dal treno, un bell’abito rosso che risaltava il suo incarnato e un fiocco che le fermava i capelli in una ricca treccia corvina.
 
    “Io… pensavo… se Bella non ha già trovato un posto migliore sul treno… io… beh potremmo fare il viaggio insieme… così potrei raccontarle qualcos’altro di Hogwarts…”
 
Cercai di usare la galanteria convenzionale del caso, per dissimulare che desideravo davvero passare tutto quel lungo, altrimenti noioso, tempo con lei.
 
    “Che ragazzino gentile e premuroso… sarebbe davvero un’ottima soluzione se i nostri ragazzi facessero questo viaggio insieme, voi che ne dite?”
 
Druella tutta esaltata guardava, speranzosa, mio padre e mia madre, che non avevano nulla da obiettare, Cygnus prese con mala grazia per la collottola il suo elfo e gli impose di sbrigarsi a spostare i bagagli di sua figlia nello scompartimento in cui si trovavano i miei… Io ero completamente rosso ed emozionato: avrei passato tutto quel tempo, per la prima volta lontano dai miei, con la ragazzina che mi toglieva il sonno ormai da un paio di anni. La guardai: era meravigliosa, con gli occhi rilucenti di un delizioso compiacimento. E non era l'unica a essere compiaciuta in quel momento



*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito ecc ecc.

Valeria



Scheda
Immagine: al momento non riesco a ritrovare la fonte di questa immagine.
  
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