Bianco
Tra lo sciabordio delle onde e il garrito dei gabbiani si intromise un
rumore
sospetto di cui non conosceva l'origine. Insistente e ritmato, sembrava
farsi
più nitido e ampio man mano che passava il tempo, mentre il
bellissimo panorama
dell'oceano indiano con la sua sabbia fine lentamente perdeva di
consistenza,
sgretolandosi e rabbuiandosi alla stessa velocità con cui il
"beep"
insistente gli perforava i timpani.
Scostò le coperte di soprassalto, interrompendo l'affannarsi
della sveglia con
un colpo poco gentile. Mugugnò una frase sconnessa
desiderando ardentemente rinfilarsi
sotto le coperte e riprendere il sogno da dove era stato interrotto, ma
il
lavoro incombente che aveva accettato da diversi mesi reclamava le sue
energie
anche quella mattina. Si stropicciò gli occhi e distese le
braccia,
rabbrividendo nel percepire i freddi spifferi volteggiare per la
spoglia
stanza. Erano giornate particolarmente gelide per quella stagione:
l'inverno
era alle porte e gli alberi avevano già abbandonato il loro
copioso manto,
elevando gli ossuti rami al cielo invocando un sole che, ultimamente,
se ne
restava coperto e timido dietro una folta coltre di nubi.
Fortunatamente era
riuscito a raccattare una vecchia stufetta elettrica da qualche vecchio
collega
che gli doveva un favore, sicché il pericolo del freddo era
stato
momentaneamente sventato. Momentaneamente,
pensò Poppo avvicinandosi al
planisfero appeso alla parete di fondo della vecchia base che
utilizzava quando
era bambino, inclinando il busto a fissare un punto preciso della mappa
con
sguardo soddisfatto. A breve si sarebbe concluso il contratto con il
tizio a
cui aveva dato aiuto per tutta l'estate e quasi l'intero autunno, poi
finalmente sarebbe partito alla volta di sabbie bianche e sole cocente
finché
il modesto gruzzolo che aveva risparmiato glielo avrebbe permesso. Era
solo
questione di tempo, poi addio Giappone!
Si infilò gli abiti da lavoro e sedette al piccolo tavolo
che, all'occorrenza,
diventava comodino e anche cucina. Bevve un caffè in lattina
con una smorfia
disgustata in viso, avvicinando a sé la stufetta prima posta
vicino al letto.
Mangiò dei biscotti da un pacco aperto in precedenza e
afferrò qualche altra
schifezza poco salutare, infilandone alcune in tasca nel caso avesse
avuto
bisogno di energie durante la giornata. Dette una rapida sistemata ai
suoi
miseri oggetti personali e cercò le chiavi del motorino tra
le pile di alcuni
giornalini destinati agli adulti che circondavano il piccolo divanetto.
Una
volta trovate, infilò un vecchio cappotto - anche quello
regalo di un vecchio
conoscente - e si diresse verso lo scooter che, ultimamente, aveva
preso la
briga di parcheggiare all'interno della tana per evitare che si
bagnasse in
caso di eventuali scrosci notturni.
Non si era mai trattenuto in Giappone così a lungo:
solitamente, all'apertura
delle scuole lui era già bello spaparanzato in qualche luogo
esotico e
tropicale. Non amava il freddo, prediligeva i posti caldi che
permettevano
camicie leggere dai colori sgargianti e cocktail a base di frutta,
magari
conditi da graziose cameriere in bikini, ragion per cui il suo armadio
e i suoi
oggetti personali non comprendevano abiti e necessità adatte
alla stagione del
gelo. La verità era che Poppo detestava l'inverno: non era
questione di
temperature, era uno spirito libero e versatile, si adattava a
qualsiasi
situazione e clima senza problemi; era invece una repulsione viscerale,
un
sentimento radicato in profondità e a cui non riusciva porre
controllo. Proprio
come non riusciva a tagliare il cordone ombelicale con la piccola
capanna nel
bosco. Semplicemente, arrivata la stagione doveva andarsene. Una specie
di tiro
alla fine che durava da anni.
Aprì il piccolo uscio con slancio, trascinandosi dietro il
compagno fidato di
mille avventure e preparandosi all'ennesimo cielo uggioso che avrebbe
contornato la giornata. Il respiro gli si mozzò in gola, e
la presa sul
manubrio del veicolo vacillò nel constatare la situazione
esterna. Era
decisamente anomalo, inaspettato: erano gli ultimi giorni di Ottobre,
non
poteva essere, non così presto, non ora.
Mosse
un passo e la scarpa produsse un calpestio tra la neve
che echeggiò nella solitudine del bosco. A fatica,
trascinò
nello spiazzo aperto il vecchio veicolo, che slittò sul
suolo morbido e bagnato
rischiando di cadergli addosso. Pensò al lungo tragitto
immerso nella boscaglia
e appurò che non era affatto sicuro mettersi in moto di un
catorcio simile con
il terreno ricoperto di nevischio. Borbottò
un’imprecazione e lo lasciò lì dove
lo aveva collocato: al diavolo se si fosse bagnato, era in ritardo e la
giornata non avrebbe potuto iniziare in una maniera peggiore. Per una
volta
avrebbe preso i mezzi pubblici.
Sollevò
la collottola della giacca e, con le mani in tasca, si
incamminò lungo il
sentiero. Le scarpe, non equipaggiate, affondavano nel terreno
restituendogli
brividi di freddo lungo tutta la colonna vertebrale, il suo incedere
spedito
era l’unico rumore che percepiva. I rami si appigliavano ai
vestiti come
artigli desiderosi di trattenerlo tra le loro grinfie e il respiro
esalava in
nuvole di vapore. Ovunque si voltasse il bianco
della neve gli accecava lo sguardo. Si costrinse a guardare a terra,
concentrando
l’attenzione sul colore dei suoi indumenti, uniche macchie in
mezzo al candore
che aveva preso possesso di tutto il bosco. Si sentiva un punto di
matita disegnato
nel mezzo di un foglio intatto: non distingueva il cielo dal suolo, un
lieve
capogiro lo fece barcollare e inciampare su una radice sporgente.
Deglutì
passandosi una mano sul viso e percependo la fronte leggermente
imperlata di
sudore. Avanzò di diversi metri, svoltò un paio
di volte e, con stupore, si
accorse di aver smarrito la direzione del passo. Sebbene fosse la prima
volta
che percorreva la strada sommersa nella neve, si era addentrato in quei
boschi
così tante volte tanto da eseguirla in automatico, senza il
bisogno di pensarci
troppo. La conosceva fin da quando era bambino e si riteneva quasi
esperto, di casa, eppure per la
prima volta ebbe il
vivido terrore di perdercisi e venirne inghiottito. Cercò
qualche segnale o
punto che potesse essergli famigliare, ma non riuscì a
scorgere nulla che non
fossero tronchi spogli e bianco.
Si
accostò di lato e prese qualche respiro, sentendo crescere
l’ansia sotto la
pelle. Quanta neve poteva essere caduta in una sola notte per fargli
perdere
l’orientamento?
Si
sedette su un masso sporgente e, con la testa tra le mani e un vivido
senso di
vertigine, gli arrivò alle orecchie un suono molto
famigliare. Aguzzò l’udito e
cercò la fonte, si mosse di qualche metro e, tenendosi
saldamente ad una pianta
inzaccherata di neve, si sporse leggermente in avanti da un ripido
pendio della
collina, intravedendo sotto di sé il conosciuto ruscello che
gorgogliava
ininterrottamente.
Il
colore scuro, quasi nero del torrente spiccava tra le linde pendici. Le
correnti d’acqua si susseguivano alle altre in giochi
acrobatici e
imprevedibili, risucchiando qualsiasi cosa intralciasse il loro
imperterrito
cammino, come serpenti lucidi sibilavano in direzione della preda; i
mulinelli,
come bocche affamate e profonde, inghiottivano acqua e detriti che
sparivano in
un baleno dalla vista. Poppo sentì il sangue raggelarsi
nelle vene, trattenne
il fiato e si mosse per allontanarsi da quel luogo maledetto,
affondando però
nella morbida neve e scivolando con la gamba a terra. Urlò
con quanto fiato
aveva in gola, afferrò per istinto un ramo sporgente
scorticandosi le mani e si
tenne saldo, mentre bastoni secchi e rocce spinte dalla brusca caduta
rotolarono lungo il pendio finendo con un tonfo nelle profonde e rapide
acque
oscure. Il suono fu netto e limpido nella mente, la caduta impetuosa:
vide
ruzzolare quell’ammasso bianco
con violenza
e senza poter muovere un muscolo, scontrarsi con i residui del bosco e
urlare
nello scontro, tuffarsi nell’acqua ed essere inghiottito,
in silenzio, senza emettere più alcun suono, senza
più
apparire in superficie, sparire.
Menma.
Pietrificato,
solo il rumore del ruscello riempiva l’aria circostante.
Prese un profondo
respiro, lasciandosi sfuggire un violento lamento dalla bocca. Si
portò una
mano al viso, quasi a non capacitarsi di aver emesso un suono simile, e
constatò di avere le gote bagnate di calde lacrime,
brucianti a contatto con la
pelle fredda. Tremante e sudato, fece forza nelle braccia e si mise in
piedi,
sconvolto per l’inaspettata piega degli eventi. Il senso di
nausea era forte,
si sentiva addirittura febbricitante.
Decise
di tornare al rifugio, di non andare al lavoro, di lasciarlo prima del
preventivato e partire con i risparmi guadagnati fino ad allora. Prese
fiato e
lentamente proseguì in direzione opposta a quella del fiume,
riconoscendo il
sentiero e raggiungendo la piccola capanna. Entrò e si
infilò nel letto,
afferrò il telefono e compose il numero del suo titolare,
avvisandolo
dell’impossibilità di raggiungerlo.
“Perdonami… non ce
l’ho fatta, perdonami…”
mormorò alla cornetta, stille che si rincorrevano lungo le
gote, mentre la
persona dall’altro capo ascoltava confuso.
1442
parole.
Grazie per
l'attenzione.
hibou.