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Autore: Marysia Lukasiewicz    23/05/2017    3 recensioni
Almaty, Unione Sovietica, giugno 1941.
Un gruppo di ribelli anti-sovietici kazaki approfitta dell'operazione Barbarossa per sabotare e danneggiare l'esercito russo. Tra questi spicca la figura del giovane Otabek Altin, reduce da un passato burrascoso proprio a causa dei sovietici, che combatte attivamente per la libertà del proprio paese. Obbiettivo principale dell'organizzazione ribelle è il colonnello Viktor Nikiforov. Uomo affascinate che, dopo essere stato esiliato dalla natia San Pietroburgo, venne messo a capo della città di Almaty, compito per lui estremamente umiliante. Aiutato dal caporale Jean-Jacques Leroy, giunto in Kazakhstan con la propria divisione direttamente dal Canada per fronteggiare i nazisti al fianco dell'esercito sovietico, il colonnello Nikiforov combatte strenuamente la resistenza kazaka per risanare il proprio orgoglio. Un amore proibito nasce, però, tra le due fazioni di una guerra senza fine. Yuri Plisetsky, nipote del colonnello Nikiforov, sedicenne scalmanato allontanato ingiustamente dalla propria città Natale quando ancora era bambino, troverà l'amore al fianco dello stesso Otabek, l'Aquila d'oro delle steppe asiatiche.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Georgi Popovich, Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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- Yuri, starò via qualche ora. –

Yuri, che fino a pochi attimi prima si era completamente immerso nella lettura de “L’idiota” del tanto stimato Dostoijesvky, si ritrovò bruscamente destato da una voce calma e soave. Sollevò lo sguardo dal libro e vide suo zio intento a sistemarsi la divisa militare scura e triste, colma di medaglie al valore che l’appesantivano pietosamente.

- È successo qualcosa o vuoi solamente farti bello con la divisa? – gracchiò il sedicenne, rigirandosi sul divanetto in pelle e rileggendo da capo il paragrafo in cui era stato insolentemente interrotto. Sbuffò, aveva già perso la concentrazione e la voglia di leggere.

- È successo più di qualcosa, piccola tigre. – il colonnello Viktor Nikiforov, che era conosciuto nella natia San Pietroburgo per essere uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito sovietico, concesse un sorriso dolce e comprensivo all’irascibile e insolente nipote. – Ma nulla di preoccupante. – detto ciò si voltò nuovamente verso lo specchio, dove il suo affascinante riflesso lo attendeva. Si sistemò i capelli grigiastri sotto al berretto militare, dandosi poi una rapida occhiata per controllare che nulla fosse fuori posto.

- Si ritorna a San Pietroburgo? – Yuri squadrò lo zio con sguardo graffiante, da vera tigre, accennando ad un sorrisino tanto di sfida quanto speranzoso. I capelli biondo acceso, raccolti dietro la nuca con un nastro, gli concedevano un aspetto quasi effeminato e angelico, ma gli occhi felini e il sorriso insolente stonavano molto con la delicatezza dei suoi lineamenti.

- San Pietroburgo è troppo pericolosa per te.- lo ammonì Viktor, mentre un domestico si apprestava ad aprirgli la porta di casa.

- O magari è troppo importante per essere affidata ad uno come te. – il biondino non si degnò neppure di guardare negli occhi lo zio mentre, con queste parole pungenti, s’impegnava a rigirare il coltello in una piaga che Viktor non era ancora riuscito a riparare.

Gli occhi color ghiaccio del colonnello, azzurri come le acque del Mar Baltico, di cui entrambi erano originari, fissavano addolorate la figura del nipote. Lacrime amare, cariche di scomodi ricordi, gli appannarono la vista, un groppo gli annodò rapidamente la gola. Non voleva trattare quell’argomento, Yuri lo sapeva bene.

- Possiamo evitare di…- Viktor capì che il biondo, come suo solito, non lo ascoltava, non gli prestava più la minima attenzione. Lo capiva, infondo. L’aveva portato via dalla Russia quando era ancora un bambino, l’aveva allontanato dai genitori, dagli amici… dal nonno.

- Vai a farti bello, che cazzo aspetti? – Yuri riaprì il libro, lesse una frase, la rilesse, la rilesse di nuovo, ma non la capiva. Era furente, il rancore che serbava nel cuore non gli dava tregua e non gli permetteva di pensare al altro, se non all’odio per colui che l’aveva portato via dalla sua Russia.

Viktor sospirò, tirò un respiro profondo e, da bravo attore, riportò un falso sorriso sul viso bello e invidiabile. Aveva imparato sì a farsi bello, per il suo bene e per quello dei suoi cari. Yuri non lo sapeva, ma prima o poi l’avrebbe capito. Viktor voleva solo il suo bene.

- Yakov arriverà tra un’ora, fatti trovare pronto.- la voce dell’uomo si fece più severa, come quella di un vero colonnello, poi, senza aggiungere altro, se ne andò, lasciando il nipote solo con i domestici.

Yuri richiuse il libro, le guance gli divennero rosse di rabbia incontenibile. Si alzò, lanciando a terra il libro, si infilò la giacca, per poi voltarsi malamente verso i domestici. – Provate a dire a Viktor che sono uscito e vi faccio crepare tutti di fame, stronzi.- e senza voltasi a guardare le espressioni stupite dei domestici, lasciò l’abitazione sbattendo la porta. Fuori era estate, ma in Kazakhstan sembrava essere costantemente inverno.

Yuri odiava Almaty. Era grigia, scura, triste, tutta un’altra storia rispetto a San Pietroburgo. In Kazakhstan tutti sapevano il russo, ma nessuno lo parlava, e se lui accennava a dire qualcosa nella sua lingua madre veniva subito allontanato. Non parlava kazako, non aveva amici kazaki, non aveva mai neppure avuto il tempo di visitare la città in quei 7 anni di prigionia in quel posto che aveva imparato ad odiare. Da quando Viktor era stato allontanato dalla città per quella maledetta stronzata, Yuri non aveva conosciuto pace. Suo zio gli aveva preparato le valigie in fretta e furia e se l’era portato ad Almaty, come se quell’esilio dovesse toccare anche a lui. Non aveva avuto neppure il tempo di salutar suo nonno, tanto amato.

- Dove andiamo? – chiese quello che all’epoca era ancora un tenero e dolce bambino dalle guance rosse e tonde, gli occhi colmi di innocenza smeraldina.

- In vacanza! – e fu così che Viktor se lo caricò su un treno, ma la vacanza sarebbe durata per sempre.

Teneva lo sguardo basso, il viso coperto per metà dal colletto del giubbotto, in quell’Almaty che tremava anche in pieno giugno. Non c’era nulla di interessante da vedere: poche chiese, strade strette, quasi nessuna macchina e tanti sgradevoli sguardi di cittadini diffidenti. Il caschetto biondo, gli occhi chiari e i lineamenti occidentali lo tradivano, così doveva sopportare sulle spalle gli sguardi pieni d’odio di chi i russi non riusciva proprio a sopportarli. Yuri sollevò la manica, diede un’occhiata all’orologio da polso. Yakov, il suo insegnante, sarebbe arrivato di lì a poco, aveva girovagato per la città per quasi un’ora. Sospirò, non aveva finito di leggere il capitolo, colpa di Viktor, come sempre. Yakov l’avrebbe senza dubbio ammazzato. Fece per tornare indietro, ma una leggera brezza gelida, tipica della steppa, lo investì. E un piacevole odore di libertà si fece largo nei suoi polmoni. Si mise le mani in tasca, si rese conto di avere degli spiccioli, il minimo indispensabile per una giornata lontana da Yakov, dallo studio, da Viktor e dagli sguardi soffocanti dei domestici. L’avrebbero ammazzato, questo era certo, ma non era la prima volta nella sua vita che si beccava una strigliata o un paio di schiaffi in faccia. Fece un respiro profondo, poi col suo elegante passo felino si allontanò da casa, verso quartieri sconosciuti, dove l’odore del pane fresco donava un’atmosfera più tenera a quell’angosciante città.

I quartieri del centro città erano incredibilmente pieni di vita rispetto alla periferia, dove la maggior parte degli ufficiali sovietici avevano alloggio. Non si vedevano troppe pattuglie russe, nessuna divisa scura, solo civili e odore di pane. Le mura dei palazzi, ingrigite dal tempo e dal freddo, erano spesso adornate con soli, aquile o scritte in Qazaqsa che non riusciva a capire. Lì, dove la maggior parte della popolazione civile si radunava, le attività dei ribelli erano parecchio frequenti, notò, non si aspettava tante provocazioni scritte sui muri. Sembrava essere tornato bambino, il giovane Yurio, nel pieno della sua innocenza e fanciullezza. Almaty era diversa da San Pietroburgo, l’architettura era particolare, così come gli abiti dei cittadini kazaki, perfino gli odori erano diversi. Aveva fame, così, vedendo un’affascinante donna uscire da una panetteria col cestino colmo di invitanti dolci, decise di farsi tentare. Di gente ce n’era parecchia e notò quanto, in centro, i prezzi della vita fossero minori. I russi, gli ufficiali, preferivano fare acquisti nelle panetterie fuori città, più raffinate, dove i panettieri avevano imparato a preparare per lo più prodotti di tradizione russa. Yuri, curioso, si fece tentare da alcune particolari focacce, che scoprì chiamarsi Shelpek, dal colore invitante. Non proferì parola nella panetteria, era sicuro che parlare russo non gli avrebbe portato nulla di buono. Si limito a ringraziare con un timido “Raxmet”, in un incerto kazako che, in un primo momento non sembrò destare sospetti. Si accomodò su una panchina in una piazza piuttosto grande, dove sorgeva una grande e meravigliosa moschea, dai colori sgargianti e chiari. Tirò fuori la sua porzione di Shelpek, ancora calda e, scrutando da lontano la bella moschea, cominciò a mangiare nella calma più totale. Nessuno a dargli ordini o a fare domande, nessun’interrogazione, niente cibo freddo o insipido dei domestici. Solo aria fresca, un bel panorama e il calore di quell’ottima focaccia che non aveva mai avuto il piacere di assaggiare dopo cinque anni in Kazakhstan. Pensò, probabilmente a suo nonno sarebbe piaciuto quel posto, quella situazione. Insieme, su una panchina a mangiare i suoi amati piroshki. Le panetterie kazake facevano sì dell’ottimo Shelpek, ma i Piroshki del nonno non avevano rivali e Viktor, per quanto ci provasse, non era mai riuscito ad imitarli. E a Yuri mancavano da morire.

Si alzò, una volta finito il pasto, e si rimise in marcia per le vie della città. La sua esplorazione non era ancora finita, la sua curiosità incolmabile non aveva limiti. E s’incamminò per le vie strette della zona della grande moschea, dove l’atmosfera sembrava essere tornata quella cupa e triste della periferia. Notò, alle sue spalle, tra i civili, un gruppo di ragazzi piuttosto particolari. Una strana acconciatura, completamente rasata ai lati, ma con un alto e folto ciuffo, i cappotti abbottonati con cura, gli occhi furtivi tipici delle volpi o di chi aveva intenzioni piuttosto losche. Li aveva notati già da un po’, erano nella panetteria assieme a lui, solo in quel momento si rese conto che non lo persero mai di vista. E più si addentrava per le vie strette, più i civili venivano a mancare, più queste figure poco raccomandabili si facevano vicine e minacciose. Yuri ebbe un fremito, non aveva modo di tornare indietro, e più andava avanti più si faceva vulnerabile, nessuno avrebbe potuto aiutarlo in caso quei farabutti ce l’avessero con lui. Non correva, né aveva un’espressione particolarmente spaventata, nonostante fosse terrorizzato. Non voleva attirare ancor di più l’attenzione, né apparire indifeso, voleva solo tirarsi fuori da quella situazione prima che degenerasse in modo spiacevole. Ma lui non conosceva le strade di Almaty, al contrario dei ribelli, che ne avevano fatto proprio terreno di caccia, e nel tentare la sua silenziosa fuga si intrappolò in un vicolo cieco. Quale cliché più stupido per porre fine alle speranze di un sedicenne russo indifeso e dal corpo invitante, caduto preda di quel branco di lupi assetati di sangue? Un muro alto, insormontabile, i grigi palazzi che lo tenevano intrappolato non lasciavano neppure passare la speranzosa luce del sole. Si bloccò, dietro di sé sentiva ancora i passi dei ribelli avvicinarsi sempre più rapidi e duri. Non si voltò, fissò il muro per qualche attimo, maledicendosi per essere stato così maledettamente incauto e stupido. Uno dei ribelli accennò una risata, gracchiò qualcosa in kazako ai compagni, poi si rivolse a Yuri in un russo particolarmente storpiato e sgradevole.

- Si è perso, signorina? – lo derise, i compagni scoppiarono in una fragorosa risata. Quelle parole giunsero pungenti all’orecchio di Yuri, ma non si voltò, fissò quei grigi mattoni che, di lì a poco, sarebbero stati spettatori di una violenza che il sedicenne non avrebbe mai pensato di subire. Pianse, silenziosamente, i ribelli non potevano vedere le sue lacrime, non voleva che qualcuno vedesse la sua debolezza.

I ribelli si scambiarono brevi frasi in kazako, Yuri non capiva, ma conosceva le loro intenzioni. Non era la prima volta che un’imboscata del genere veniva riservata alle belle o ai giovani cittadini russi in zona. Sentì i loro passi farsi più vicini, finché la mano pesante e ruvida di uno di loro non gli si posò con falsa delicatezza sul viso. Una carezza amara, il ribelle conobbe per primo le lacrime del giovane Yuri.

- Oh, non piangere, non vogliamo mica farti male.- gli sussurrò all’orecchio con tono tutt’altro che rassicurante, mentre le mani di un altro di loro gli si posarono addosso. Uno dei ribelli si mise tra lui e il muro, gli mise una mano sui fianchi e avvicinò le labbra alle sue, mentre ogni muscolo del giovane Yuri s’irrigidiva in un disperato tentativo di liberarsi. Il rivoluzionario allungo la mano verso le sue parti intime, e a quel punto Yuri non poté far altro che urlare, chiedere aiuto, implorare la pietà di qualche anima pia.

- Aiuto! Vaffanculo, lasciatemi stronzi!- la voce di Yuri risuonò disperata per le strade, profonda e cupa per essere quella di un sedicenne, potente, implorava aiuto. Il ribelle lo zittì, gli premette una mano sulla bocca, forte, quasi a fargli male, ma Yuri non la smetteva di urlare, di dimenarsi. Non voleva conoscere quel dolore, né voleva arrendersi, apparire vulnerabile, essere sottomesso. Gli uomini cercavano di tenerlo fermo, uno di loro riuscì ad infilarsi tra le sue gambe, mentre Yuri continuava ad urlare e scalciare, in vano. Gli tolsero la giacca, gliela strapparono via, così come tentavano di fare con i pantaloni, ma Yuri si ribellava. Gli tirarono i capelli, lunghi, lisci, sinuosi, poi di graffiarono il viso, gli tenevano i polsi in strette atroci, ma il ragazzo, che era troppo giovane per provare un male simile, non si placava, non si piegava, ma tutti i suoi sforzi apparivano vani. Così accettò la consapevolezza che, in quel vicolo, in quel maledetto giorno, avrebbe perduto la propria innocenza. “Viktor aveva ragione”, pensò, “Qui fuori è tutto troppo pericoloso per me.” Avrebbe voluto dargli ascolto, invece di dover subire quel dolore. Chiuse gli occhi. Non voleva guardare nessuno di quegli uomini in faccia nel momento in cui sarebbero riusciti a fargli del male.

- Basta!- un urlo potente, una voce profonda e matura, si levò dietro di loro, all’inizio di quel maledetto vicolo. Yuri si sentì sollevato, ringraziò Dio per avergli mandato quell’angelo a salvarlo.

I ribelli allentarono la presa attorno al russo, si voltarono e videro un loro compagno, ben più giovane di loro ritto in piedi all’entrata del vicolo, gli occhi severi non lasciavano trasparire alcuna emozione se non rabbia e disgusto. L’uomo che si era fatto strada tra le gambe di Yuri rise, quasi sollevato, per poi riportare le mani al cavallo dei pantaloni del ragazzino, che riprese a levare urla disperate.

- Aquila d’oro, vuoi favorire? – chiese in kazako, Yuri non capì, ma sapeva non avesse detto nulla di buono. Il biondino, rosso di terrore, sentii il suono secco di un cane di una pistola venir tirato, e i suoi aggressori si pietrificarono in un lampo.

Otabek Altin, diciottenne anonimo e calmo, stava impugnando la pistola contro i suoi stessi compagni, con la mano ferma di chi, una volta sparato il colpo, non si sarebbe pentito del gesto. Gli occhi gelidi scrutavano il gruppo di assalitori, un’espressione disgustata si fece largo sul viso squadrato dell’affascinante ribelle.

- Non abbiamo giurato fedeltà per stuprare ragazzini.- la voce di Otabek era fredda, graffiante, gli occhi ricolmi di rabbia per la scena disgustosa a cui stava assistendo.
I ribelli, suoi compagni, esitarono, vedendosi puntare contro un’arma. Yuri, scosso, terrorizzato, continuava a dimenarsi, voleva scappare lontano da lì, correre da Viktor e scusarsi, scusarsi per non avergli dato mai retta, per essersi cacciato in una situazione tanto orrenda.

- Ma è un russo.- gracchiò con disprezzo uno degli aggressori, scrutando la pistola di Otabek con fare sorpreso. Nessuno dei ribelli aveva mai tentato di difendere un russo da una violenza, per quanto giovane e innocente questo fosse. I ribelli condividevano un comune odio verso i sovietici, che spesso scaturiva in una totale mancanza di umanità verso gli innocenti. Il giovane Altin, però, non nutriva odio per nessuno, aveva giurato fedeltà alla sua bandiera per schierarsi dalla parte dei deboli, russi o kazaki che fossero. Una violenza gratuita non riusciva a giustificarla.

- Mi costringete… - detto ciò il dito del bel ribelle si avvolse attorno al grilletto, il suono metallico della pistola carica pietrificò in malo modo gli aggressori, che immediatamente lasciarono andare Yuri che, in preda al terrore, alla rabbia, alla vergogna, si accasciò a terra, dilaniato da sentimenti orrendi che mai avrebbe voluto provare.

Otabek squadrò i ribelli, ancora con la pistola in pugno, finché questi non se ne furono andati e il vicolo fosse sicuro. Con passo cauto si avvicinò al povero russo, accasciato a terra, che stringeva i pugni con rabbia per l’umiliazione e il male che gli era stato fatto ingiustamente. Gli occhi iniettati di sangue, lasciavano scorrere lacrime amare, un misto di rabbia, dolore, angoscia. Otabek raccolse la sua giacca da terra, che quei maledetti aggressori avevano malamente calpestato durante la fuga, e glielo poggiò delicatamente sulle spalle. Yuri ebbe un fremito, lo guardò, riconobbe l’acconciatura, lo sguardo severo e i tratti duri dei ribelli, ebbe uno scatto e si allontanò, spingendosi fin contro il muro. Le labbra tremanti mimavano imprecazioni e frasi d’odio e terrore in russo, gli occhi increduli scrutavano il kazako da capo a piedi. Il russo si avvolse nella giacca, come per proteggersi, poi digrignò i denti, tremante, come una tigre confusa e famelica. Non voleva soffrire, voleva solo proteggersi. Otabek si chinò al suo fianco, gli porse la mano, l’espressione severa svanì dal suo viso, lasciando spazio ad uno sguardo preoccupato e sensibile. Yuri, diffidente, rifiutò l’aiuto, ma il kazako non si arrese.

- Ti riporto a casa.- gli disse in russo, con un accento particolare e piacevole, il suo tono si era fatto più delicato e comprensivo. Yuri sollevò lo sguardo e lo fissò in silenzio. Voleva cogliere nel suo sguardo, nei suoi gesti qualsiasi segnale di violenza, ma Otabek era calmo, gentile, la sua mano tesa con dolcezza. L’aveva già aiutato prima, Yuri non trovò soluzione migliore che fidarsi di lui.

Non rispose, non disse nulla, si limitò a prendergli la mano e il kazako lo aiutò ad alarsi da terra. Lo sguardo del russo era vuoto, uno specchio sulla sua anima confusa e vulnerabile, segnata dallo shock di quella violenza che, fortunatamente, non si compì mai.

- Sei ferito? – chiese Otabek, assicurandosi che Yuri non avesse segni evidenti dell’aggressione. Il biondo scosse il capo, non disse nulla, poi distolse lo sguardo. Otabek notò dei segni evidenti, dei lividi scuri e segnare i polsi del russo, dove gli assalitori lo avevano tenuto stretto. – Tranquillo, farò modo che nessuno si accorga di questi, ok? – detto ciò, si stacco dal polso un bracciale di cuoio spesso e ben decorato, un tipico oggetto artigianale della zona. Lo avvolse attorno al polso di Yuri, era abbastanza grande da coprire tutto il segno, almeno quanto bastava a nasconderlo da occhi indiscreti.

Il biondo dagli occhi confusi si scrutò il polso, poi accennò un sorriso. – Raxmet.- disse infine Yuri. Otabek sorrise al sentire quella voce stranamente matura pronunciare quel semplice quanto gratificante ringraziamento.

Yuri tornò a casa, scrutato da Otabek, in una mezz’oretta. Si sentiva protetto, in un certo senso, avere accanto un ribelle non gli causò guai. Si lasciarono a qualche decina di metri da casa di Yuri, con un timido saluto, e le loro strade si divisero. Dentro di sé, però, entrambi nutrivano uno strano desiderio di rincontrarsi di nuovo.
 

Yuri entrò in casa senza bussare o suonare al campanello, la porta era stranamente aperta. Neppure il tempo di mettere un piede in casa che una delle domestiche, una signora paffuta dai capelli ricci e mori, lo assalì con la stessa violenza con cui l'avevano assalito i ribelli. Yuri ebbe un fremito, ma le parole della domestica lo calmarono.

- Sia lodato il signore, è tornato! È tornato ed è sano e salvo!- la domestica lo prese per il polso, gli tolse la giacca impolverata, segnata dagli scarponi dei ribelli, e lo trascinò in salotto. Lì, seduto al tavolo, lo attendeva il maestro Yakov che, al contrario della domestica, non sembrava tanto felice nel rivederlo.

Lo fissava con occhi severi, poi si alzò in piedi, tozzo, basso, calvo, si avvicinò al ragazzino e, con la mano pesante e grossa, gli stampò uno schiaffo sulla guancia. Un segno rosso segnava il viso di Yuri, ma lui non disse nulla, non si ribellò, al contrario delle altre volte in cui veniva punito. Il tentato stupro di quel pomeriggio era bastato a fargli capire la lezione, lo schiaffo di Yakov era solo la ciliegina sulla torta di una giornata assolutamente da dimenticare.

- Tuo zio si sta dannando per te, disgraziato.- lo rimproverò con tono cupo, severo. Yuri non sollevò lo sguardo da terra, mortificato per la prima volta nella sua vita, umiliato dai suoi errori. La domestica gli indicò la sala da pranzo, socchiusa, dove si sentiva chiaramente la voce di Viktor discutere con qualcuno. Non si era accorto del suo rientro.

Gli occhi di Yuri si colmarono di lacrime, ma non le lasciò venir fuori. Per una volta voleva chiedere scusa a suo zio, per non avergli dato ascolto ed averne pagato le conseguenze. Si avvicinò alla porta della sala da pranzo, sospirò, poi la spalancò ed entrò senza neppure bussare. Con lo sguardo mortificato cercava Viktor. Il colonnello era seduto al tavolo, la divisa ancora indosso, stava discutendo animatamente in francese con un soldato dalla divisa che non aveva mai visto. Viktor si voltò, vide il nipote e, senza prestare attenzione all’ospite, si fiondò su di lui, abbracciandolo e singhiozzando come un bambino.

- Dove sei stato, piccola tigre..? – gli chiese con tono dolce, amorevole, non era arrabbiato con lui, né gli portava rancore per non avergli dato ascolto per l’ennesima volta. Viktor voleva bene al nipote, lo amava come un figlio, non riusciva mai ad arrabbiarsi seriamente con lui. Era semplicemente preoccupato.

- Scusa zio… perdonami…- Yuri cercava di trattenere, invano, i singhiozzi. Piangere lo faceva sentire un bambino, e quel giorno aveva già pianto abbastanza. Ma era triste, era mortificato, solo in quel momento si accorse di quanto gli facesse piacere essere abbracciato da suo zio.

Viktor sorrise, quasi non credeva a quelle parole, Yuri non gliele aveva mai concesse. Eppure cambiò argomento, non voleva insistere, non voleva forzare Yuri a parlare. Aveva capito, dai suoi occhi, che era accaduto qualcosa, qualcosa di spiacevole, non voleva farlo star male nel porgere domande, almeno non quella sera. Decise così di presentargli il loro ospite, il soldato dalla divisa sconosciuta, che era rimasto in attesa davanti a quella scena.

- Yuri, ti presento il caporale Jean-Jacques Leroy, venuto direttamente dal Canada per respingere al nostro fianco l’attacco nazista. Caporale Leroy, le presento mio nipote. – disse in un francese perfetto Viktor e, garbatamente, invitò Yuri a porgere la mano al canadese. Yuri sapeva il francese, non era fluente come lo zio, ma se la cavava.

- Piacere mio, monsieur…- disse Yuri, stringendo la mano del caporale in un saluto impacciato. Jean accennò un sorriso irritante.

- Così, sei tu la piccola peste che ha fatto dannare il colonnello Nikiforov tutto il pomeriggio. – disse con tono ironico, pungente, che infastidì il giovane Yuri e non poco. Viktor accennò ad una risatina, poi diede un’amichevole pacca sulla spalla dell’ufficiale canadese.

- Ah, la mia piccola peste!- detto ciò, condusse il caporale Leroy presso il proprio ufficio, dove avrebbero continuato con calma il discorso che Yuri aveva interrotto. – Va a cambiarti, piccola tigre, tra un’ora sarà pronta la cena. – Viktor strizzò l’occhio al nipote, richiudendosi poi la porta alle spalle.

Yuri, per una volta, obbedì. 
   
 
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