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Autore: Marysia Lukasiewicz    20/06/2017    3 recensioni
Almaty, Unione Sovietica, giugno 1941.
Un gruppo di ribelli anti-sovietici kazaki approfitta dell'operazione Barbarossa per sabotare e danneggiare l'esercito russo. Tra questi spicca la figura del giovane Otabek Altin, reduce da un passato burrascoso proprio a causa dei sovietici, che combatte attivamente per la libertà del proprio paese. Obbiettivo principale dell'organizzazione ribelle è il colonnello Viktor Nikiforov. Uomo affascinate che, dopo essere stato esiliato dalla natia San Pietroburgo, venne messo a capo della città di Almaty, compito per lui estremamente umiliante. Aiutato dal caporale Jean-Jacques Leroy, giunto in Kazakhstan con la propria divisione direttamente dal Canada per fronteggiare i nazisti al fianco dell'esercito sovietico, il colonnello Nikiforov combatte strenuamente la resistenza kazaka per risanare il proprio orgoglio. Un amore proibito nasce, però, tra le due fazioni di una guerra senza fine. Yuri Plisetsky, nipote del colonnello Nikiforov, sedicenne scalmanato allontanato ingiustamente dalla propria città Natale quando ancora era bambino, troverà l'amore al fianco dello stesso Otabek, l'Aquila d'oro delle steppe asiatiche.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Georgi Popovich, Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Intanto, nella zona della grande moschea, qualcuno si stava subendo una brutta lavata di testa. Nel vociferare fastidioso che si era scatenato nel quartier generare da quando la notizia dell’invasione era stata diffusa, spiccavano due voci intente a discutere animatamente. La giovane e rampante Aquila d’Oro di Almaty, che oltre ad un immenso coraggio aveva dimostrato di avere anche un gran cuore, si trovava ad essere rimproverato per la sua umanità, per il riguardo che aveva avuto per un innocente. Era tornato al quartier generale con un raro sorriso stampato sulle labbra, appena accennato, ma comunque sincero e felice. Quando aveva giurato, davanti ai colori della propria bandiera, fedeltà all’organizzazione non l’aveva fatto con l’intenzione di far del male agli innocenti, di ripagare i sovietici con la loro stessa sporca moneta. Era un innocente, Otabek, uno dei tanti indifesi del Kazakhstan e aveva provato sulla propria pelle l’orrore della violenza gratuita, ingiustificata. Era per quello che combatteva, per proteggere chi non poteva. Non voleva macchiarsi degli stessi peccati dei suoi nemici, in tal caso la sua lotta e i suoi ideali sarebbero stati vani e vuoti. Non voleva che la sua lotta lo riducesse allo schifoso ruolo di un criminale. Chiuse gli occhi, sentiva ciò che Serik aveva da dirgli, ma non l’ascoltava. Quei rimproveri gli sembravano un’enorme stupidaggine.

- Dopotutto, sai quante delle nostre donne hanno subito un trattamento simile? – sbottò il capo, i capelli ingrigiti dall’età gli erano ricaduti sul viso rosso, nervoso, furente verso quel giovanotto aitante dal cuore troppo grande per quel mondo. Una vena sulla fronte pulsava pesantemente, come sul punto di esplodere, la stanza era invasa dal fumo dei sigari.

Otabek sollevò lo sguardo, contrasse il viso in una smorfia. Non sapeva, Serik, il motivo della sua lotta. Non conosceva il dolore, la rabbia che il ragazzo covava in sé verso i soldati, i potenti e i prepotenti. L’innocenza che aveva perduto da piccolo, i segni che portava sul proprio corpo, Serik non li conosceva. E Otabek sapeva che l’innocenza non ha nazionalità.
Ebbe un fremito, bruciavano ancora le sue ferite, cicatrici mai completamente guarite di un passato troppo recente per essere dimenticato. Lo squadrò con occhi spenti, ribollenti solo di fastidiosa rabbia. Sapeva bene, l’Aquila d’Oro, ancor più di quanto sapesse il suo superiore.

- Avrei fatto giuramento alla mia bandiera…- il giovane scrutava il proprio superiore. Dietro di lui, appeso al muro, spiccava lo stemma di un sole raggiante, simbolo del suo paese amato, della libertà, del calore. – Per far del male ai ragazzini?- il suo sguardo, deluso, disgustato, s’incontrò con quello di Serik, sorpreso.

- Noi siamo dalla parte del bene, Altin. Questo non lo capisci proprio, eh? – il tono dell’uomo si fece duro, severo, i suoi occhi parevano increduli. Non era mai passata per la sua testa di aver sbagliato qualcosa, la vendetta era stata fedele compagna sua e del suo popolo. E i russi, che a loro avevano causato dolore, avrebbero patito le stesse sventure che i kazaki sopportavano quotidianamente. La violenza andava ripagata con la violenza, il dolore con altro dolore e l’odio con ancor più odio.

Otabek non rispose, continuare quella discussione sarebbe stato inutile e poco produttivo. Chinò il capo, ma non chiese scusa, non ne aveva motivo. Avrebbe pagato oro se, anni prima, qualcuno fosse intervenuto quando il dolore entrò a far parte della sua vita, se qualcuno l’avesse protetto da quel male troppo straziante per un bambino. E, ne era sicuro, il gesto che aveva compiuto quel giorno stesso aveva migliorato la vita di un ragazzo, questa soddisfazione non aveva prezzo. Serik sbuffò, l’atteggiamento irrispettoso del ragazzo lo irritava, le orecchie gli erano diventate rosse per il nervoso. Non poteva capire.

- È permesso? – una voce estremamente familiare ad Otabek, profonda e roca, ma da lui tanto adorata. La porta si spalancò alle spalle del giovane e una figura robusta ed alta come un armadio si fece largo nella stanza, un sorriso amichevole stampato in volto ed una pipa stretta tra le labbra. – Ho sentito il mio figliolo discutere con te, Serik, la cosa mi ha scosso alquanto. – Otabek si lasciò sfuggire una risata, ma si apprestò a soffocarla. – Cos’ha fatto di tanto grave il mio cadetto migliore per farti perdere tanto tempo in un momento così cruciale? – detto ciò, con la manona grande e dura, diede un’amichevole pacca sulla spalla del ragazzo.

Otabek era felice di vederlo. Aybek Jenil era stato per lui più di un mentore, era stato un amico, un fratello, poi un padre, una casa. Quando si era ritrovato solo, era stato un’ancora di salvezza, che lo aveva portato fuori dal gelo della strada e l’aveva condotto verso la via della resistenza. La maggior parte dei suoi ideali eroici li aveva ereditati dai suoi insegnamenti, aveva fatto suoi tutti i consigli che gli aveva concesso e, fin da quando aveva solo 15 anni, lo prese come punto di riferimento, un’icona. Era solo grazie a lui se era riuscito a rialzarsi dopo la tragedia, solo grazie a lui aveva un tetto dove stare e del pane da mettere sotto i denti. E Aybek, a sua volta, adorava Otabek. L’aveva conosciuto che era solo un ragazzino spaventato e l’aveva visto crescere e maturare in un giovane uomo dagli ideali solidi e nobili, era fiero e soddisfatto del nome in codice che egli stesso gli aveva dato. Aybek sorrise ad Otabek come lo si fa ai bambini ed il ragazzo accennò un saluto scuotendo la testa, sul suo viso si fece largo un sorriso grato.

- Ha aggredito dei suoi compagni con un’arma, le pare poco signor Jenil? – Serik si tolse gli occhiali da lettura, appannati, strofinandosi la fronte per il nervoso e lo sconforto.

- Quante volte ti ho detto di chiamarmi per nome? Ah… - il grande capo della resistenza sospirò, diede dapprima un’occhiata a Serik, poi riportò la sua attenzione su Otabek, ancora in attesa sull’uscio della porta. – Va a casa, Aquila d’Oro. Rifletti sui tuoi errori e bla bla bla… Io e Serik abbiamo questioni più importanti di cui discutere. –

Otabek annuì, accennò ad un rispettoso saluto militare, poi si rimise la giacca e si apprestò ad uscire, senza aggiungere altro. L’invasione nazista era iniziata da pochi giorni, ma era già evidente un forte sconquasso nello schieramento sovietico. Sarebbe stata questione di poco e anche i soldati di stanza ad Almaty, colti di sorpresa, avrebbero abbassato la guardia temendo un possibile scontro con i nazisti. Sarebbe stata questione di pochi giorni prima che il famigerato colonnello Nikiforov, ombra nera sovietica sulla città di Almaty, dallo sguardo seducente e ammaliante e il cuore di ghiaccio, avrebbe ceduto alle pressioni naziste. E finalmente avrebbe pagato, il grande Nikiforov, per il male che aveva fatto a lui e alla sua famiglia. Sarebbe stata questione di poco prima che l’uomo che aveva tormentato per anni il suo sonno, con quel sorriso falsamente amichevole e fuorviante e gli occhi ghiacciati, sarebbe perito sotto gli stessi dolori che aveva fatto provare a lui e all’intera Almaty. La speranza di poter debellare quella canaglia dalla faccia della terra, violento e spietato, riempiva da anni il cuore di Otabek.

- Ah, per quella cosa…- lo richiamò Aybek prima che il ragazzo se ne fosse andato. Il giovane Altin si voltò ed ascoltò ancora. – Tutto confermato. Per dopodomani, il piano lo conosci. – Otabek annuì, strinse i pugni e Aybek gli fece cenno di uscire, con un sorriso soddisfatto in volto.

Finalmente qualcosa si muoveva nella vita di quell’orfano dimenticato, si sarebbe riscattato e la memoria dei suoi cari sarebbe stata onorata. Nel taschino della giacca custodiva una foto, un ricordo a lui caro. Sul retro, nero su bianco, era incisa la firma di Nikiforov.
 
Viktor Nikiforov era una persona dalle mille facce, un’anima divisa in decine di pezzi, che a seconda della situazione prendevano il sopravvento in lui. Agli occhi di Yuri era uno zio premuroso, protettivo, disponibile, una persona totalmente rispettabile. Yakov conosceva di lui la parte più seria e diligente, dedito allo studio e alla cultura, preciso e puntuale come un orologio svizzero, una persona pacata, un grande oratore e un’impeccabile ascoltatore. Il caporale Leroy, che l’aveva conosciuto dal vivo da poco, lo aveva etichettato come un festaiolo, una persona di grande carisma, che, nonostante le difficoltà della nazione, trovava sempre il modo di divertirsi e curarsi, sempre attento al proprio apparire. Per Otabek, così come per Almaty intera, Viktor Nikiforov era un mostro.
 
 - Tigre, la cena è in tavola! –

Yuri quasi non sentì neppure la voce dello zio chiamarlo dalla sala da pranzo. Era davanti allo specchio, le mani immerse in una bacinella d’acqua, il viso arrossato da un pianto che, appena rifugiatosi da solo in casa, lontano da sguardi indiscreti, non ebbe il coraggio di trattenere. Gli occhi fissi sul suo riflesso erano severi, malinconici, mortificati, non indossava la maglietta. Il fisico esile, magro, dalle linee morbide e immature che quel giorno imparò ad odiare. Era debole, si rese conto, uno scricciolo che voleva a tutti costi fingersi un gigante. Il polso bruciava, il livido in quelle ore si era fatto sempre più scuro e doloroso. Si sentiva umiliato, usato. Infilò la testa nella bacinella, trattenne delle urla di famelica rabbia, poi si ritirò su di scatto, le ciocche bionde e zuppe gli ricaddero sul viso dai lineamenti delicati, contrastati da un’espressione dura e cupa. Le labbra rosee, le guance ancora morbide, come i bambini. Gli occhi arrossati e gonfi, quello sguardo famelico colmo d’odio e risentimento, erano i tipici occhi di un bambino capriccioso. Il suo viso innocente non era adatto ad un ragazzo ribelle e neppure a chi, poche ore prima, era sfuggito ad un dolore fin troppo adulto. Se avesse potuto frantumare lo specchio lo avrebbe fatto, non sopportava più la vista del suo corpo infantile. Sentiva la pelle bruciare, il ricordo troppo recente delle mani dei suoi aggressori era ancora vivido e estremamente asfissiante. Si sentiva soffocare, come una bestia rinchiusa in una gabbia, sentiva la stretta crudele dei ribelli sul suo collo, si sentiva morire. Se non ci fosse stato quel ribelle gentile, la sua pelle sarebbe stata profanata. E Yuri non riusciva neppure ad immaginare la vergogna e il dolore che ciò gli avrebbe portato. Con quale coraggio avrebbe anche solo potuto sperare di andare avanti, se quell’innocenza che tanto disprezzava gli fosse stata strappata via con tanta violenta crudeltà? Dove avrebbe trovato la forza di guardare in faccia suo zio una volta sporcato di peccato? Era stato un irresponsabile, non avrebbe mai più ripetuto lo stesso errore, non voleva che quella violenza incompiuta venisse portata a termine. Non voleva umiliarsi ancora agli occhi dello zio.

- Yuratchka, ricordati che abbiamo un ospite, non fare il maleducato! – il tono di Viktor non sembrava spazientito, né severo. Con Yuri non riusciva a fare a meno che essere dolce e comprensivo, nonostante il suo comportamento ribelle lo facesse dannare da mattina a sera. L’aveva visto soffrire abbastanza in passato, un passato che Yuri non ricordava, ma Viktor sì, desiderava solo la felicità del nipote. Se avesse saputo ciò che gli era accaduto quel pomeriggio, non avrebbe sicuramente trovato modo di sopprimere la rabbia spietata che l’avrebbe travolto.

- Arrivo.- rispose Yuri, distogliendo lo sguardo dallo specchio. Prese un asciugamani e si diede una rapida sistemata, raccogliendosi i capelli bagnati con un nastro. Yakov, che voleva educarlo come un uomo valoroso al pari dei suoi discendenti, non esitava mai a rimproverargli che quello fosse un accessorio da donna, ma Yuri non gli dava ascolto. Amava tenere i capelli lunghi, e ancor più amava tenerli legati. E, ovviamente, amava andare contro le regole che il maestro cercava continuamente di imporgli.

Si rivestì in fretta, il viso ancora arrossato di rabbia e pianto, la camicia sgualcita e abbottonata svogliatamente. Non tolse neppure per un istante braccialetto del coraggioso ribelle, intrecciato con cura e decorato da perle di terracotta. Il livido sembrava fare meno male quando questo lo copriva. Appena entrato in sala da pranzo Yakov non gli risparmiò un’occhiataccia, ma gli risparmiò la solita strigliata in presenza del caporale Leroy. Viktor lo squadrò teneramente, poi gli concesse un ampio e amorevole sorriso, invitandolo ad accomodarsi al tavolo. Il colonnello Nikiforov sedeva a capotavola, accanto a lui, alla sua sinistra, sedeva il caporale Leroy, alla sua destra una sedia vuota, destinata al nipote, e poi Yakov, che scrutava da capo a piedi l’allievo mentre si accomodava al fianco dello zio.

- Molto bene, ora che siamo tutti in tavola, possiamo cominciare. – disse l’affascinante ufficiale sovietico, ancora con la divisa indosso, perfettamente in ordine come suo solito. – Vi auguro buon appetito. – e, concedendo ai commensali il migliore dei suoi sorrisi, iniziò garbatamente a consumare la sua cena.

- Buon appetito a voi. – tentò di dire in russo, con un marcato accento francese, Jean-Jacques. – Il cibo russo sembra davvero molto invitante, monsieur. – riprese a parlare, poi, in francese, sapendo che in tavola tutti erano capaci di capire, chi con più difficoltà di altri, la sua lingua.

Yuri diede un’occhiata al piatto, non aveva fame, ma l’odore era invitante. Sorrise quando vide che gli era stata servita una porzione di Piroshki. Sollevò lo sguardo verso lo zio, Viktor sorrise. Erano il suo piatto preferito, lo sapeva bene, e anche non sapendo imitare la ricetta di suo nonno, aveva comunque tentato di fare qualcosa di buono. E, nonostante la semplicità del gesto, Yuri si sentì immediatamente meglio. Afferrò le posate e si fiondò sul proprio cibo, come fa un leone con la preda appena catturata. Nonostante non fossero perfetti, il biondino riuscì a distinguere distintamente, in ogni boccone, i piacevoli sapori della sua adorata Russia e i ricordi di un’infanzia felice si fecero strada nella sua mente. Le grandi mani di suo nonno, delicate come una piuma d’oca, ricordava con quanta facilità riuscisse a prenderlo in braccio e a metterselo sulle spalle. Il piccolo Yuri, in Russia, era stato felice come non mai, nel pieno della sua innocenza, ed era avido di quei ricordi meravigliosi, sognava la Russia per riavere la sua famiglia.

- Ma guarda tu, sembra che non ti abbia insegnato nulla! – la voce profonda di Yakov destò Yuri dai suoi pensieri, violentemente. – Stai dritto quando mangi, e non masticare a bocca aperta. – il biondino non disse nulla mentre Yakov gli tirava una manata dietro la nuca, non sollevò neppure lo sguardo per incontrare gli occhi contrariati di Viktor. Non era in vena di discutere, né voleva far fare figuracce allo zio.

- Yakov.- la voce del colonnello si fece improvvisamente fredda, severa, pronunciò quel nome con una fermezza quasi spaventosa. Yuri non aveva mai sentito quel tono di voce da parte dello zio, ma Yakov sì, e sapeva che non volva dire nulla di buono.

L’anziano maestro si rimise al suo posto, senza aggiungere altro, e Yuri riprese a mangiare in silenzio. Per tutta la sera, nessuno proferì parola, il giovane biondino non sollevò mai lo sguardo dal suo piatto. E quando tutti ebbero terminato la cena, Yuri venne gentilmente spedito in camera dallo zio, mentre il colonnello ed il caporale rimasero in salotto fino a tarda ora a discutere. Yuri passò quella notte insonne.
 
La notte tardava sempre più ad arrivare, con l’avvento di un’ennesima estate fredda e cupa le giornate s’erano fatte più lunghe. E per Otabek questo era un bene. Per quanto lui ed i suoi compagni facessero dell’oscurità la propria guida e maestra, il giovane dagli occhi felini odiava la notte buia e solitaria. Perché è di notte, quando si è indifesi, che i ricordi più dolorosi tornano a galla. Incubi e voci di una vita ormai vissuta, sussurri di un passato di dolore. Aveva una casetta tutta per sé, Otabek, molto vicina a quella del suo mentore e salvatore Aybek. Era piccola, spoglia, modesta, ma a lui bastava e avanzava. Consumava pasti frugali, da solo, in un tavolo troppo grande per una sola persona, nel buio della povertà nel quale riversava quasi tutta la città. La foto della sua famiglia gli teneva compagnia, illuminata dalla pallida luce di una candela. La teneva stretta al cuore, la baciava, e da anni né aveva fatto la sua unica gioia. Sorrideva alla sorella, poi alla madre, infine al padre, poi piangeva in silenzio lacrime amare nel vedersi al loro fianco, con un meraviglioso sorriso ad ornargli il viso ancora fanciullesco. Erano anni che tentava di grattar via la firma di Nikiforov dal retro della foto, tentava di nasconderla in tutti modi, ma questa tornava sempre in superficie e non accennava a sbiadirsi. Quello del colonnello era un marchio che aveva impresso sulla sua famiglia quella maledetta notte, Otabek non se ne sarebbe mai liberato. Come fosse un animale, una bestia, portava quel nome inciso sulla pelle, sul cuore, il nome di colui che aveva preso in mano la sua vita e l’aveva distrutta. E quella solitudine l’opprimeva, i ricordi lo divoravano. Otabek passò quella notte insonne.
 

Quella mattina decise di studiare, stavolta seriamente. Riprese in mano “L’Idiota” e, seduto in veranda, riprese a leggere il capitolo che gli era stato assegnato per il giorno prima. Una leggera brezza fresca gli accarezzò i lunghi capelli color dell’oro, splendenti come il sole che, lì in Kazakhstan, sembrava non esserci mai. Una domestica gli portò una tazza di buon thè e il caro Yuri prese a sorseggiare tra una riga e l’altra del romanzo. Ogni tanto staccava gli occhi dal libro e dava un’occhiata in strada. Era quasi sempre deserta, spoglia, ma quella tranquillità iniziava a fargli piacere, la quiete del suo giaciglio, il calore di casa, dello zio. Sospirava, riprendeva a leggere, poi lanciava un’altra occhiata in strada. Ogni tanto incrociava lo sguardo di un passante e, timidamente, distoglieva lo sguardo, riprendendo immediatamente a leggere. Andò così avanti per più di un’ora, il capitolo assegnatoli l’aveva terminato, ma decise di proseguire con la lettura, annoiato. Sollevò un’ultima volta lo sguardo dal libro, poggiato ad una parete, dall’altra parte della strada, vide un giovane dai capelli corvini, rasati ai lati, che lo scrutava in silenzio con un’espressione tanto indecifrabile quanto tranquilla. Yuri sussultò e appena riconobbe l’eroica figura di Otabek Altin non riuscì a trattenere un insolito sorriso, un misto di stupore, gratitudine e di genuina felicità. Quella figura gli trasmetteva un innaturale senso di calma, di protezione. Lo salutò con un cenno della mano, il kazako ricambiò, poi gli sorrise e rimase immobile, avvolto nel giaccone, a fissare la bella figura del sedicenne intento nella lettura. Yuri non resistette, richiuse il libro, poi si sporse alla ringhiera e sorrise ancora, il suo viso non era abituato a tanta fresca gioia.

- Non penso di averti ringraziato abbastanza. – gli disse con voce calma e gentile, un’espressione serena in viso, fiduciosa. Era diversa la sua voce dal giorno prima, al ribelle risuonò ben più innocente e immatura, una voce adatta ad un ragazzino quale era. Gli piaceva, quella voce più giovanile. Otabek si avvicinò cauto alla veranda, gli occhi immersi in quelli del russo in un incontro delicato e piacevole.

- Volevo solo vedere come stavi. – precisò l’Aquila d’oro, scrutando il ragazzo dagli occhi vivaci tinti del colore della speranza e della bellezza. – E sono felice di vedere che stai bene. – Otabek esitò, poi squadrò la figura del giovane russo, notò che indossava il suo bracciale e capì che il dolore continuava a persistere. Yuri abbassò lo sguardo, sospirò. Quelle parole facevano piacere. – Addio, Yuri.- sorrise un’ultima volta il kazako, poi fece un rapido cenno al biondo, voltandosi e avviandosi verso casa. Il suo lavoro l’aveva portato a termine, il sorriso che il russo gli aveva concesso ne era la prova. Aveva preservato la felicità e la purezza di un ragazzo, e ne era felice, non sentiva bisogno d’altro.

- A-aspetta! Beka! – lo chiamò Yuri, sporgendosi ancor di più sulla ringhiera, come a voler raggiungere il ragazzo dagli occhi felini. Otabek si voltò, sollevando divertito un sopracciglio. Avevano storpiato il suo nome in tutti i modi, ma “Beka” proprio gli mancava.

- Come mi hai chiamato? – ridacchiò, in fin dei conti quell’errore non gli era dispiaciuto per niente. Suonava bene, molto dolce, amichevole, divertente.

- B-Beka… - balbettò timidamente il biondo. Non ricordava il suo nome, sicuramente il giorno prima, riportandolo a casa, gliel’aveva detto, ma non ci aveva fatto caso. Non sapeva da dove fosse uscito quel nome, semplicemente il viso scolpito e duro, quanto piacevolmente genuino, gli sapeva di “Beka”. Una sensazione strana lo pervase, lo sguardo di Otabek aveva un peculiare ma piacevole effetto su di lui. Probabilmente era per l’atto eroico del giorno prima, o magari per la gentilezza che dimostrava nei suoi confronti, ma Yuri si sentiva bene a parlare con lui. Si sentiva libero. – Potresti accompagnarmi in centro? – chiese tutto d’un fiato, con gli occhi supplichevoli di un bambino. Voleva visitare ancora Almaty, conoscerla, ma aveva paura a farlo da solo. E, ovvio, voleva passare del tempo con Otabek, che si era messo in pericolo per salvarlo senza neppure conoscerlo. Erano nemici, sulla carta, un russo e un kazako, ma gli era grato per quel gesto eroico. Per quanto potesse, voleva conoscerlo.

- Perché? – l’Aquila d’Oro si voltò, gli occhi scuri, colmi di curiosità, inteneriti da tanta piacevole e dolce timidezza. Qualsiasi fosse il motivo, aveva già deciso di accettare. Sembrava interessante, quel ragazzino, e al di là di ciò che pensavano o facevano i suoi compagni, non vedeva nessun male in quel giovane russo dal sorriso innocente, indifeso come lo era stato lui. Yuri sussultò.

- Vorrei… dello Shelpek…- quasi sussurrò il ragazzo, timido di fronte al ragazzo che l’aveva salvato e che era stato gentile con lui. Non era abituato a parlare con persone diverse da Viktor e Yakov, soprattutto non aveva mai parlato con un affascinante diciottenne kazako dal fare dolce come lui.

- E Shelpek sia.- Otabek rimase in attesa, ritto e composto, senza staccare gli occhi dal giovane. Yuri sussultò, poi una forte emozione gli pervase lo stomaco, un brivido gli percorse la schiena. Era felice, molto felice, ma non sapeva bene perché.

Scese in strada dalla scaletta della veranda, non avvertì nessuno che stava uscendo: sarebbe tornato nel giro di poco, quanto bastava per poter conoscere meglio l’incredibile Otabek. Aveva ancora degli spiccioli nelle tasche, sarebbero bastati, Viktor non si sarebbe neppure accorto della sua breve assenza, tanto era impegnato a discutere con l’ufficiale canadese. Yuri raggiunse il ribelle dagli occhi profondi e gentili, quest’ultimo lo accolse con un accennato sorriso amichevole. Lo portò in centro, passando per vie secondarie, rimase in silenzio per la maggior parte del tempo e Yuri non aveva il coraggio di cominciare una conversazione. In centro permaneva ancora il costante e delicato profumo delle focacce appena sfornate. Era il classico odore che si sentiva in una tipica casa kazaka durante il pranzo, quando, per tradizione, l’intera famiglia si riuniva in un unico grande tavolo per passare una piacevole ora assieme. I bambini amavano quell’odore, agli adulti faceva sorridere. Ad Otabek metteva solo tanta tristezza. Perché, da anni, non aveva più il privilegio di poter condividere il pane con chi più amava, e quella gioia frizzante che provavano le famiglie durante il pranzo era per lui solo un amaro ricordo. Il cielo, spoglio di nuvole, appariva agli occhi di Otabek ogni giorno più grigio, spento, e ogni giorno che passava vedeva morire anche la speranza di una vita migliore. Indicò a Yuri la sua panetteria preferita, un tempo, e il ragazzino dai capelli dorati, preso dall’entusiasmo, vi si fiondò immediatamente. “Beka”, pesò, che nomignolo simpatico. Assomigliava a quello che gli diede la sorella, tempo prima, “Bekushka”. L’aveva sentito da un russo, si ricordò Otabek, e le era piaciuto a tal punto che gliel’aveva affibbiato. Gli aveva sempre dato fastidio l’idea di avere un nomignolo, ma non si oppose mai alla sorella, esattamente come non aveva fatto con Yuri. Quella voce gentile, dopotutto, gli ricordava proprio Ayzere.

- Beka…- lo chiamò il russo, mentre, seduto accanto a lui su una panchina, consumava beatamente la sua focaccia. Non lo stava guardando, sembrava distaccato, e Otabek s’incuriosì. – Perché ieri mi hai salvato..? – il kazako sussultò, Yuri continuava a guardare a terra, calmo. – Dico, non mi conosci… E io non conosco te.- Otabek sospirò, Yuri finalmente sollevò lo sguardo, i loro occhi si incontrarono.

- Non voglio che gli innocenti paghino le pene che spettano ai criminali. – rispose l’Aquila delle steppe con tono fermo e composto, lo sguardo in un misto di fierezza e rabbia. – Io non odio i russi. – continuò, Yuri lo ascoltava attento, lo sguardo perso nei suoi occhi. Quel tono impostato, fiero, gli occhi profondi di un soldato, Otabek sembrava un cavaliere, un eroe. – Odio chi mi ha rovinato la vita, il fatto che sia russo non cambia nulla. L’avrei odiato anche se fosse stato kazako, o uzbeko, o cinese. – il giovane Altin, dal cuore impavido, sospirò, la leggera brezza della steppa gli smosse i capelli, agli occhi di Yuri sembrava una statua, tanto che era squadrato e composto. Gli occhi brillavano di una particolare e malinconica luce, il pomo d’Adamo faceva su e giù. Yuri percepì il dolore indescrivibile che infestava il cuore del kazako. Otabek aveva imparato a celarlo, in fondo all’anima, a covare dentro di lui il più amaro risentimento, il più cieco desiderio di sporca vendetta. Ma soffriva, questo Yuri lo aveva capito.

- Chi è questa persona? Conosci il suo nome? – si azzardò a chiedere, curioso. Essendo nipote dell’uomo a capo dell’amministrazione della città conosceva gran parte dei soldati russi della zona. Magari, proprio tra le sue conoscenze, c’era proprio colui che aveva fatto del male al suo eroe.

Otabek ebbe un fremito, soffocò in gola un singhiozzo, poi strinse i pugni tanto forte che le nocche gli si tinsero di viola in poco tempo. Voleva urlare quel nome, maledirlo, ma il buon senso lo fece restare in silenzio. Il cuore batteva forte, rabbioso, nella tasca del giaccone conservava ancora la foto della famiglia.

- Nikiforov. – il tono del kazako si era fatto così tagliente e ruvido, gli occhi iniettati di odio, dolore, frustrazione. – Viktor Nikiforov. – ripeté, soffocando tra i denti il dolore che quel nome gli procurava. Lo stomaco prese a bruciargli, come l’inferno, voleva urlare, piangere, ma anche volendo non ci riusciva. Aveva urlato e pianto troppe volte negli anni precedenti, era ormai da tempo che non si piegava più in gesti tanto disperati. Quella firma sulla foto bruciava come un marchio a fuoco sulla pelle, una cicatrice inguaribile.

Yuri spalancò gli occhi, il cuore perse un battito, poi lo stupore si aggrovigliò nella sua gola quasi a soffocarlo. Il nome di suo zio, pronunciato con tanto odio e disprezzo, gli risuonava nella mente come un eco infinito e angosciante. Il russo dai capelli color dell’oro posò lo sguardo su Otabek e rimase pietrificato nel vedere un’espressione disgustata e furente sul suo volto perfettamente simmetrico. La rabbia più cieca aveva deformato i lineamenti del kazako in una maschera orrenda di dolore, tanto atroce da spezzare il cuore confuso del giovane Yuri. Come poteva il nome di suo zio, tanto premuroso e dolce, poter essere la causa di tanto sconforto e sofferenza?

- Nikiforov? – chiese il giovane russo, le mani tremavano, non capiva. Suo zio era sempre sorridente, aveva un gran senso dell’umorismo, un’incredibile voglia di divertirsi, ed era comprensivo ed educato. Non poteva aver fatto del male ad Otabek, non era il tipo di persona da meritare tutto quell’odio. Conosceva suo zio, o almeno credeva, e non si capacitava di tanta sofferenza negli occhi del kazako. – Proprio Viktor Nikiforov? –
La fiera Aquila d’Oro cadde, le ali spezzate dal peso insopportabile dei ricordi. Si mise una mano sul cuore, il volto freddo del più spietato dei soldati si vide bagnato da lacrime amare. Ne scivolò giù una, poi un’altra, una terza, poi strozzò un gemito in gola, si mise le mani tra i capelli, se li tirò, si fece male finché non smise. Gli eroi non piangono. I singhiozzi gli morivano in gola. Fece un respiro profondo, poi tirò fuori dalla giacca la foto, unico ricordo della sua bella e felice famiglia. La girò, poi la passò a Yuri senza trovare il coraggio di guardarne il retro.

- Quella è la sua firma. Viktor Nikiforov.- Otabek si voltò, strinse i pugni e fissò in silenzio la grande moschea. Il cuore bruciava, gli occhi bruciavano, e così anche la gola. Yuri si rigirò la foto tra le mani, in silenzio. Non fece fatica a riconoscere l’elegante calligrafia dello zio. Eppure non capiva, non capiva cosa significasse quella firma, come legasse Viktor e Otabek, né i dolorosi ricordi che quella foto riportava a galla nella mente del kazako.

- È la tua famiglia? – chiese con un fil di voce, scrutando la foto dell’allegra famiglia. Stretti tra le braccia dei genitori, c’erano due bambini, un maschio e una femmina. Il sorriso del bambino era raggiante, felice. Era tanto diverso dal ragazzo che aveva accanto, eppure riconosceva che fossero la stessa persona. Come poteva quel bambino dallo sguardo innocente aver perso, negli anni, quella sua fresca fanciullezza? Come poteva un giovane aitante e affascinate come Otabek avere nel cuore tutta quella sofferenza? Cosa gli era accaduto, cosa?

Otabek si riprese la foto, la sistemò al suo posto, nel taschino all’altezza del cuore, poi si alzò, senza azzardarsi a guardare Yuri. Il suo viso era rosso, gli occhi lucidi lo facevano sembrare un bambino. E lui non era un bambino. Non lo era più da tanto, Otabek. Le spalle possenti lo facevano sembrare una montagna insormontabile, ma dentro di sé covava un cuore fragile, gentile, era cresciuto troppo in fretta.

- Quando ti strappano l’innocenza, impari a rispettare chi ancora la possiede, Yuri. – sussurrò, ma il russo lo sentì, ed ebbe un fremito. Da come Otabek aveva reagito, capì che non avrebbe potuto fargli altre domande. Eppure continuava a non capire, la firma dello zio era ormai impressa nella sua memoria, non vi trovava una spiegazione. – Devi tornare a casa. – detto ciò si incamminò, senza voltarsi, verso casa di Yuri. Il respiro gli si fece pesante, si sentiva soffocare, voleva solo terminare in fretta quella conversazione.

Il russo lo seguì con lo sguardo qualche attimo, poi una crepa gli si aprì nel petto, il cuore saltò un battito. L’aveva ferito, senza volerlo, gli aveva fatto del male. Si morse la lingua, si punì per aver parlato troppo, aver chiesto cose che non doveva chiedere. Yakov gli avrebbe tirato uno schiaffo, o forse due, il suo comportamento sciocco e invadente andava punito.

- Beka! Mi dispiace… -  gli corse dietro, lo raggiunse, a testa bassa, e Otabek, stupito, si fermò senza voltarsi. Sentiva che avrebbe pianto da un momento all’altro, non voleva umiliarsi davanti a Yuri. – Qualsiasi cosa abbia fatto Nikiforov… mi dispiace, voglio che tu sappia che mi dispiace. – era il suo sangue, dopotutto. Viktor aveva fatto qualcosa, qualcosa di grave, e aveva paura di sapere cosa, paura di conoscere un nuovo lato di suo zio, un lato spaventoso da come veniva rappresentato dallo sguardo addolorato di Otabek. Si sentiva in colpa, come se i peccati dello zio fossero i suoi. Si vergognava a stare accanto al suo eroe, che lo aveva salvato, mentre nelle sue vene scorreva lo stesso sangue del suo nemico odiato. Lo sguardo di Yuri era mortificato. Non aveva il coraggio di rivelargli di essere niente poco di meno che il nipote del colonnello Nikiforov.

Finalmente Otabek si voltò, un sorriso amaro gli si stampò in volto. – Devo riportarti a casa, Yuri. – il tono del kazako tornò gentile, gli occhi, ancora vitrei, si fecero più vivi. Una strana e piacevole sensazione di calore si fece largo nel suo petto, all’altezza del cuore. Non voleva sbagliarsi, ma forse stava provando, dopo tanto tempo, felicità.


***Angolo dell'autrice***
Perdonate la mia lentezza nell'aggiornare, ma sto scrivendo un'altra piccola storia Otayuri di 3 capitoli che pubblicherò qui a breve. Please, lasciate una recensione per farmi sapere cosa ne pensate! 
   
 
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