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Autore: nikita82roma    23/05/2017    2 recensioni
Ambientata prima dell'ultimo episodio della prima stagione. Castle e Beckett sono sulla scena del crimine di un duplice omicidio, una coppia di coniugi con una bambina in affido: Joy entrerà prepotentemente nella vita di castle e ancora di più in quella di Beckett. Il passato si scontrerà con il futuro, scelte, errori e decisioni vecchie e nuove porteranno i nostri dentro un percorso dal quale uscirne non sarà facile, dove giusto e sbagliato non sono così netti e dove verranno prese decisioni sofferte.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Nuovo personaggio, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
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Joy stava cominciando ad ambientarsi in quella famiglia sui generis come era quella di Castle. In quel week end aveva passato molto tempo con Alexis a guardare le loro serie tv preferite e poi la ragazza l’aveva aiutata a ripassare per la scuola che avrebbe ripreso quel lunedì per gli ultimi giorni prima delle vacanze: aveva delle verifiche importanti, aveva detto e voleva essere preparata. Joy era attenta e diligente, in questo a Rick ricordava molto sua figlia e gli piaceva osservarle studiare insieme alla scrivania nella cameretta di Alexis, dove Joy trascorreva molto tempo. Come gli aveva confidato lei stessa era la prima volta che si trovava in una famiglia dove c’era un’altra ragazza, solitamente chi l’aveva presa in affido erano tutte coppie sole senza figli, spesso avanti con l’età, come erano anche gli Austin. Con Rick, Alexis e Martha, invece, si divertiva, le piaceva ascoltare i racconti dell’attrice, felice di aver trovato un altra persona alla quale narrare le sue avventure nel mondo dello spettacolo e Joy rideva alle sue battute enfatizzate dai gesti plateali, le piaceva passare del tempo con Alexis che si prodigava molto nell’inserimento della bambina nella loro famiglia. Ma era Castle quello che cercava di starle vicino sempre, anche quando lei non si accorgeva, quando era con Martha o Alexis e la guardava da lontano. Erano passati pochi giorni, ma Joy era diventata già molto meno timida e si stava aprendo sempre più, iniziando a sentirsi parte di quella famiglia. Erano stati insieme ad Alexis al cinema e poi per la prima volta l’aveva portata a mangiare in un ristorante giapponese dove aveva provato senza troppo successo a mangiare con le bacchette, ma aveva chiesto a Rick se poteva portarle a casa per esercitarsi, così sarebbe stata più brava in futuro, facendo ridere tutti, anche la composta cameriera che gliene portò un paio nuove tutte per lei. Joy era una bambina che non dava mai nulla per scontato, nemmeno un semplice paio di bacchette di legno. Rick apprezzava molto il suo ringraziare sempre, per ogni minima cosa anche se questo, ogni volta, gli ricordava come per lei nulla fosse ovvio e dovuto e le spezzava il cuore non riuscire a donarle la spensieratezza dovuta, così quando quella domenica pomeriggio lo ringraziò con un bacio ed un abbraccio dopo che aveva passato molto tempo a giocare con lei, si sentì veramente ricompensato di tutto quello fatto in quei giorni e gli fece capire di essere sulla giusta strada. Poi c’era Alexis, che anche se tendeva a dimenticarlo per quanto era matura ancora era solo un’adolescente. Così ogni sera, dopo che Joy si era addormentata, andava in camera sua, cercando di passare un po' di tempo solo con lei, raccogliendo i suoi pensieri e le sue sensazioni su quello che stavano passando e scusandosi se non poteva essere presente con lei come avrebbe voluto, come prima. Quando stringeva Alexis gli sembrava di essere stato tremendamente egoista ad imporle la presenza di Joy nelle loro vite e si faceva più problemi di quanti non si facesse sua figlia, totalmente entusiasta di avere una “sorellina”. Per Castle, invece era diverso. Lui era uno totalizzante, era sempre stato tutto per sua figlia e non sapeva se era veramente in grado di dividere il suo tempo e le sue attenzioni tra Alexis e Joy. Non voleva trascurare sua figlia, non voleva che lei si sentisse scalzata nel suo cuore, ma allo stesso tempo non voleva che Joy si sentisse diversa, per lui da quando era entrata al loft era diventata un membro della sua famiglia, a tutti gli effetti.

 

Kate da quando era tornata a casa non era più uscita, era rimasta rintanata nel suo appartamento e nel suo passato. Si sentì di nuovo catapultata in quei giorni di fine giugno di dieci anni prima. Aveva ritrovato il diario di quei mesi, dove aveva annotato tutte le sue speranze e le sue illusioni, dove aveva sfogato il suo dolore e non era passato, era solo aumentato tanto quanto voleva nasconderlo e se ne rendeva conto solo in quel momento quando tutto era tornato a galla. Aveva ritrovato le casette che le aveva regalato la sua amica Kelly, con tutte le canzoni che le piacevano di più di quel periodo: Iris, Kiss the Rain, Truly Madly Deeply, I Don't Want to Miss a Thing, Bitter, Sweet Symphony, Secret Garden, My Heart Will Go On… era la colonna sonora di quegli anni, era la musica amava cantare spensierata, quella che quando ancora era troppo piccola per sentirla, faceva sentire alla sua bambina, appoggiando le cuffiette sulla pancia, quella che poi copriva il rumore del suo pianto. Si era data solo qualche settimana per riprendersi, poi prima della fine dell’estate aveva fatto richiesta per entrare in accademia. Superò brillantemente tutte le prove d’ingresso e l’addestramento. Dopo sei mesi da quando era entra era a tutti gli effetti un agente della polizia di New York, il suo modo per provare a dare agli altri quella giustizia che lei non aveva avuto per sua madre, per essere migliore di tutti quegli agenti e detective con i quali aveva parlato e che non le avevano mai detto nulla, che non avevano mai avuto alcun rispetto per il suo dolore e quello di suo padre. Aveva dato un taglio con quello che le era successo, con la sua vita di prima, con il sogno di diventare la prima donna Presidente della Corte suprema degli Stati Uniti, abbandonato Stanford definitivamente, la sua nuova vita era nella sua città, difendendo la sua gente. Aveva anche tagliato i suoi lunghi capelli castani e non li aveva più fatti ricrescere, perché così pensava di essere più autorevole, più maschile, in quel mondo ancora così difficile per una giovane ragazza anche se tosta e determinata come lei.

Aveva nascosto a tutti e prima di tutto a se stessa quanto accaduto in quella fine di giugno, perché così dimenticare ed andare avanti sarebbe stato più facile. Ma non era sempre stato così, perché ogni volta che incontrava una bimba che poteva avere l’età di Joy, di sua figlia, si chiedeva se fosse lei e lo aveva fatto anche quella volta, per poi scrollarsi il pensiero di dosso, senza riuscirci. 

Scoprire che quella bambina era sua figlia l’aveva devastata. Lei l’aveva lasciata per offrirle una vita migliore di quella che avrebbe potuto darle ed invece l’aveva solo condannata a dolore e solitudine. La tristezza nel suo sguardo, le sue parole, la torturavano continuamente, il ricordo di quando l’aveva presa in braccio e lei si era addormentata ora le bruciava dentro. Senza saperlo era stata la prima volta che aveva abbracciato sua figlia e forse era vero che c’era qualcosa che legava un figlio con sua madre che non poteva essere definito, perché le era venuto tutto così naturale e spontaneo che aveva sorpreso anche se stessa.

In quei giorni si era accoltellata l’anima pensando che era colpa sua se Joy aveva avuto quella vita, sballottata da una famiglia all’altra, da un rifiuto all’altro, se aveva dovuto convivere con quella malattia che la logorava lentamente, se non aveva potuto avere un’infanzia come tutti i bambini, se aveva dovuto scoprire troppo presto cosa era il dolore e vedere tutto il peggio della vita con i suoi occhi ancora da bambina, senza nessuno vicino che asciugava le sue lacrime o l’abbracciava quando ne aveva bisogno. Aveva combattuto ogni istante in quel fine settimana con la voglia di andare da Castle e di vederla con altri occhi, ma non trovò mai il coraggio, ed era troppo vigliacca per andare lì ed affrontarla.  

Il momento peggiore, però, fu quando Castle la chiamò, non lo faceva mai di solito se non era per qualcosa che riguardava direttamente un loro caso, così nel vedere il suo nome sul display fu allarmata ed emozionata allo stesso tempo. Le voleva solo confermare che sarebbe stato al distretto la mattina successiva, dopo aver accompagnato Joy a scuola. Si trovò a chiedergli precipitosamente come stesse, se si stava ambientando, per poi correggere il tiro chiedendogli se avesse ricordato qualcos’altro: la risposta fu negativa, ma francamente in quel momento le importava poco, era molto più interessata a sapere che stava bene con lui, ma non ne aveva dubbi, e pensò di sciogliersi quando Rick le disse che era lì davanti a lui e la stava salutando. Ricambiò, chiedendogli di darle un bacio da parte sua, proprio prima di attaccare, prima che Castle la salutasse con il suo solito “A Domani”. Un bacio. Uno dei tanti baci mancati in quei dieci anni, dieci anni che non avrebbe mai potuto recuperare in nessun modo.

 

Quel lunedì mattina, però, Kate non andò subito al distretto, non si sarebbe potuta concentrare e non avrebbe potuto lavorare a nessun caso, nemmeno a quello di Ethan e Lauren, perché la sua mente era altrove, sempre, da quando aveva parlato con Lanie.

- Ryan, sono Beckett. Sto andando a casa degli Austin. Devo controllare una cosa, un dubbio che mi è venuto in questi giorni.

- Vuoi che ti raggiungiamo lì?

- No, non c’è bisogno. Ci vediamo più tardi.

Non aveva solo un dubbio, ne aveva tanti, ma nessuno di questi riguardava il caso degli Austin. Proseguì in direzione contraria rispetto al distretto, fino ad arrivare a quel palazzo ormai ben noto. Il portiere la riconobbe e non ebbe nemmeno bisogno di mostrarle il distintivo.

- Il signor Austin ha detto di avvisarlo se sareste tornati, perché vuole essere presente se prendete qualcosa. - Riferì l’uomo aprendo il portone. Aveva così scoperto chi è che lo aveva avvisato.

- Dica al signor Austin che la polizia di New York non ha bisogno né della sua presenza né della sua autorizzazione per visionare la scena del crimine o prendere qualsiasi cosa ritenga necessaria durante le indagini di un omicidio. Gli faccia sapere che riavrà tutto ad indagini concluse e lo dica anche al suo avvocato, tanto mi pare di capire che le piace parlare molto. - Il suo tono fu tutt’altro che gentile e cortese, ma non voleva nemmeno esserlo. Era sicura che l’uomo avrebbe riferito tutto velocemente al padre o al fratello di Ethan, non sapeva a quale signor Austin si riferisse.

Salì in ascensore battendo nervosamente un piede a terra nell’attesa di arrivare al piano. Scostò il nastro davanti alla porta e poi entrò richiudendosi piano la porta alle spalle. In realtà un dubbio le era venuto sul serio, andò in camera di Ethan e Lauren, sorpassò l’area ancora segnata dove avevano trovato i corpi con il sangue ancora ben visibile a terra sul tappeto ed aprì l’armadio. Controllò le ante, accuratamente, si accovacciò provando a guardare nella direzione di dove erano stati uccisi gli Austin: anche se le ante non fossero state perfettamente chiuse, Joy non avrebbe potuto vedere nulla, solo sentire quello che si dicevano e se la sua parte di poliziotta ne era dispiaciuta, perché non avrebbe potuto fornire ulteriori informazioni, un’altra parte di se, adesso che gridava ancora più forte, ne era felice perché almeno si era risparmiata la vista di quello scempio. Avrebbe dovuto fare i conti con quella parte di lei, ora e sempre, quella parte che l’aveva portata lì, non per indagare, ma per avere risposte.

Lasciò quella stanza senza toccare nulla e si diresse nell’altra in quella vicina. C’era ancora tanto di lei lì. C’erano ancora molti suoi vestiti e sul letto ancora sfatto anche il suo pigiamino, quello che aveva tolto quella mattina. Era ripiegato vicino al cuscino con una cura ed un ordine fin troppo rigoroso per una bambina della sua età. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro e regalarle la spensieratezza che doveva avere nei suoi anni. Lo prese tra le mani e lo aprì, sorrise nel vedere i disegni delle principesse Disney. Sentì il profumo di sua figlia e fu solo la prima delle sensazioni che la invasero in quella stanza. Trovò quello che probabilmente doveva essere il suo diario segreto ed ebbe la tentazione di aprirlo e leggerlo. Pensò a quando aveva scoperto che lo aveva fatto anche sua madre e a come si era sentita tradita da lei in quel momento e le sembrò così strano trovarsi dalla parte opposta, ma lei non l’avrebbe potuta tradire più di quando non avesse già fatto dal momento in cui l’aveva messa al mondo. Ne accarezzò la copertina e poi non resistette, lo aprì ma lesse solo la prima pagina, dove con la sua calligrafia curata aveva scritto semplicemente “Diario di Joy”. Lo richiuse tenendo la mano ben premuta sopra, prendendosi un momento in cui chiuse gli occhi per assimilare tutto. In una delle mensole sulla scrivania trovò altri due diari come quello, chiusi con il loro piccolo lucchettino: era evidente che a Joy piacesse scrivere, stava aggiungendo piccole tessere al puzzle di quella che era Joy. Sorrise pensando a lei e alla sua passione per la scrittura finita nella casa di uno scrittore e si chiese se lui lo avesse già scoperto. Si muoveva tra quegli oggetti con il suo sguardo da detective ma il cuore che le diceva tutt’altro e quando frugando dentro ad un mobiletto trovò una scatola di cartone con le farfalle disegnate, i bordi consumati ed il suo nome scritto sopra non potè resistere alla tentazione di aprirla, ma nel vedere il suo contenuto sentì lo stomaco chiudersi ed il cuore smettere di battere per qualche istante prima di riprendere all’impazzata. Erano passati dieci anni dall’ultima volta che aveva visto quella tutina rosa. Era semplice, senza fiocchi o disegni. L’aveva comprata lei perché non sapeva cosa fare, non sapeva di cosa avrebbe avuto bisogno, perché sentiva che avrebbe dovuto darle qualcosa, per proteggerla pensava. Così l’aveva presa e l’aveva lasciata in ospedale sul suo letto prima di andarsene, perché non aveva avuto nemmeno il coraggio di darla all’infermiera. Si chiese se l’aveva mai indossata o solo se gliel’avevano data come unico ricordo. Sotto a quella c’erano i ricordi dei suoi dieci anni di vita, qualcosa che sicuramente all’inizio qualcuno aveva fatto e per lei e che poi aveva continuato da sola. C’erano un ciuccio ed un bavaglino, c’erano però soprattutto molte foto, molte più di quanto Kate pensasse di trovare e cominciavano da quando doveva aver avuto qualche mese e molte era da sola, altre in braccio a qualcuno ed erano state strappate o tagliate, tranne quelle con Emily. Ma ebbe tempo solo un attimo di chiedersi se le avesse tagliate lei o se lo avessero fatto perché non avesse traccia dei suoi precedenti affidatari o lei per non volerli ricordare: i suoi occhi poi furono catturati da quelli di quella bimba di pochi mesi, sorridente e ignara di tutto quello che era stato e che sarebbe stata in futuro. Non sapeva se era una suggestione del momento, ma era certa di rivedere nei suoi occhi i propri, passò velocemente tra una foto e l’altra vedendola crescere in quei minuti, ripercorrere dieci anni di vita, vedere quegli occhi intristirsi ed il sorriso spegnersi, diventare meno brillante, senza però sparire mai. Vide come i suoi capelli diventavano sempre più lunghi e ripensò a se stessa, quando era più piccola anche lei li portava così, orgogliosa dei suoi lunghi capelli castani, proprio come quelli di Joy. Rimise tutto nella scatola e nel poggiare sopra la tutina rosa non riuscì più a trattenere quel macigno che aveva nello stomaco e scoppiò a piangere in silenzio. 

Non si accorse dei rumori provenienti dall’ingresso fino a quando non sentì due voci sconosciute. Si asciugò in fretta le lacrime cercando di ricomporsi mentre estraeva e caricava la sua pistola.

- Fermi, NYPD! - Gridò prima ancora di vederli avanzando verso l’ingresso con la pistola spianata. La abbassò per un momento solo quando vide un uomo in divisa davanti a lei.

- Buongiorno detective! 

- Buongiorno, agente… - chiese non ricordandosi il nome dell’uomo né la sua faccia, forse era uno dei nuovi arrivati da altri distretti.

- Sullivan. Agente Sullivan!

- Cosa fate qui, agente Sullivan?

- Siamo qui per raccogliere delle prove.

- Prove? Quali prove? Chi vi ha mandato? 

Non fece in tempo a risponderle, perché Beckett cadde a terra colpita da una violenta botta. L’uomo dietro di lei dopo averla colpita con il calcio della pistola stava mirando dritto alla sua testa.

- Ehy Sam, cosa pensi di fare? - disse all’altro uomo quello che si era presentato come Agente Sullivan.

- La faccio fuori, cosa ti sembra?

- Lascia stare, abbiamo già troppi casini, andiamocene! L’hai trovata?

- No… - Sam stava mettendo via la pistola nella fondina, anche lui perfettamente vestito da agente.

- Il capo sarà furioso. 

- Ehy John, non è colpa mia, non doveva esserci tra i piedi la detective oggi! Adesso andiamo che non sopporto più questa roba addosso… ma dì un po', come ti è venuto in mente Sullivan? Te lo eri preparato?

- No, è il cognome di quella che mi porto a letto in questo periodo.

- Che bastardo che sei! - Rise Sam mentre uscivano dall’appartamento con Beckett ancora priva di sensi a terra che non si era accorta di nulla.

   
 
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