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Autore: Koa__    24/05/2017    15 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Questione di fiducia



 
La fiducia è lasciar perdere la necessità di
conoscere tutti i dettagli prima di aprire il tuo cuore.
[Anonimo]
 



Che avesse avuto una reazione spropositata, questo, a John fu evidente fin da subito. Senza aver bene idea di chi avesse visto che cosa, era corso giù per le scale chiudendosi in cabina. Aveva lasciato da parte ogni briciolo di pensiero razionale o di senso logico, abbandonandosi alla paura più nera. Si era spaventato, il che era piuttosto evidente dal respiro affannato e dal cuore che batteva svelto. Più che essere terrorizzato da ciò che quei pirati avrebbero potuto fargli, però, sentiva di essere lui stesso il problema. Aveva trascorso dei mesi a cercare di proteggersi, convinto di essere in pericolo con chiunque e che chiunque avrebbe potuto fargli seriamente del male. Ora aveva messo la sua stessa vita a rischio e tutto perché non aveva ritenuto opportuno il fermarsi a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, quasi dimentico di avere un tatuaggio segreto. La verità era che, a lungo, quel disegno altro non era stato che una scusa. Una giustificazione, valida certamente, ma pur sempre una maniera come un’altra per convincersi di non aver bisogno di nessuno. Troppo grande era stato il peso della guerra e scabrosi i segni che questa aveva lasciato in lui. Che senso aveva farsi una famiglia? Innamorarsi di qualcuno o anche l’aprirsi nei confronti di una sorella con la quale non era una sola volta andato d’accordo? John non aveva affrontato mai niente per davvero, nemmeno prima della guerra civile. Amava fare il medico e prendersi cura dei malati, tanto che aveva vissuto quel mestiere quasi si trattasse di una vocazione divina o come se la dedizione verso i bisognosi, gli nascesse direttamente dal cuore. Eppure, di fronte alla prospettiva di una vita simile a quella di suo padre, John era fuggito e si era arruolato nell’esercito. Una volta rispedito a casa da quelle stesse persone per le quali aveva dato tutto, col fisico stanco ed eccessivamente aggravato da ferite, invece che concedere a se stesso un po’ di pace e al proprio animo una tiepida serenità sentimentale (magari con una donna, magari fingendo d’esser felice e magari proprio con quella stessa Mary Morstan conoscente di Harrieth) era scappato nuovamente. In cerca di che cosa, ancora oggi non riusciva proprio a capirlo. Le Indie avevano il fascino dell’avventura, serbavano ancora il mistero di terre selvagge a cui mancava una decente civilizzazione. Ciononostante erano ammalianti e interessanti, al punto che la sola prospettiva di viaggiare in quella direzione aveva acceso una passione prepotente. Forse era proprio questo ciò che John desiderava più di tutto, un viaggio in nave a fianco di un vecchio i cui racconti sul Corsaro Nero ancora lo tenevano sveglio, la brama di un tesoro nascosto, un pirata bello come un Dio, percepire la vita pompare nel sangue e l’eccitazione divampargli nel petto come in un incendio. John desiderava ardentemente sentire lo stomaco torcersi per l’emozione, le viscere tremare e i muscoli tendersi di paura. Amava il gettarsi a capofitto nel pericolo e non ragionare troppo sulle cose. Per questo il nascondersi ad Antigua e nel contempo convincersi di non aver niente per cui lottare o che nulla valesse la pena amare, lo aveva lentamente distrutto. E proprio lì ad Antigua, tormentato da memorie di una guerra brutale, si era rintanato in una sorta di limbo dai tratti paradisiaci e dal quale ammirava tramonti con la pallida amarezza di un condannato a morte. Ogni giorno era sempre un po’ più convinto che quel calar del sole fosse l’ultimo della sua vita, le notti non dormiva, roso dagli incubi e nel mentre la solitudine lo opprimeva. Lentamente, John era sprofondato in una quotidianità dolceamara dalla quale, alla prima occasione, era scappato. Aveva inseguito il feroce pirata bianco, affidando alle sue pallide mani quel poco di vita che gli era rimasta aggrappata addosso. Ma nonostante fosse invaghito da tempo della leggenda che circondava il temuto bucaniere, non si era ancora preso la briga di spiegare a se stesso che cosa ci facesse a bordo di una nave stracolma di ladri e figli di puttana. C’erano frangenti in cui ancora se lo domandava e tanto che persino adesso, mentre se ne stava rinchiuso in una piccola cabina a bordo de la Norbury, John scrutava le espressioni di capitan Holmes, tentando di carpirci qualcosa. Come aveva fatto a fidarsi? Era esattamente così che stavano le cose, si era concesso a Sherlock a un primo sguardo e a lui aveva dato tutto, con immensa e incondizionata devozione. Sì, aveva combattuto e a lungo si era ripetuto che era impossibile innamorarsi di una persona così velocemente, ma quelle convinzioni a poco erano servite. E infatti eccolo, John Watson, a guardare capitan Holmes e ad ammirarne non troppo segretamente il profilo nobile. Adesso che finalmente erano soli e a conclusione di quel movimentato primo pomeriggio, comprese che il tempo era finito e che di scappare davvero non ne aveva più voglia.

Naturalmente fu Sherlock a spezzare il fruire di quei pensieri e lo fece con quel modo di fare di chi ha troppo da dire, ma non sa da quale parte iniziare. Si era alzato da dove stava e aveva preso a camminare per la stanza con fare agitato. Era nervoso e lo si intuiva facilmente dalle dita che non la smettevano di scompigliare i capelli o anche dai gesti affrettati. Tutto in capitan Holmes era sintomo di un subbuglio crescente, che cosa aveva da dirgli? Era fuggito dal ponte per proteggerlo? E perché adesso era nella sua cabina? Neanche s’era preso la briga di rivestirsi, come se non importasse l’essere ancora nudo dalla vita in su o lo star mostrando tanto sfacciatamente la propria divina bellezza. John non avrebbe dovuto spiarlo, non con intenti lascivi e con tanto grandi preoccupazioni non poteva certo star fermo a guardargli il sedere. Pertanto portò lo sguardo altrove, domandandosi se Sherlock già avesse trovato una soluzione per quel pasticcio.
«Mi dispiace, John, è colpa mia» brontolò capitan Holmes dopo aver fermato quell’insano camminare, ora sostava di fronte all’oblò e, voltato verso il vetro, guardava al di fuori. Era incredibile con quanta rapidità aveva mutato il proprio apparire, adesso era come se avesse ritrovato una dignitosa compostezza. Pareva tutt’altra persona. La postura diritta, le mani intrecciate dietro la schiena e un certo fare regale nella maniera che aveva di atteggiarsi, lo facevano sembrare ancor più distante e al punto che John indugiò un qualche attimo di troppo, indeciso su come rispondergli. Non seppe mai dire con precisione dove trovò in sé tanta determinazione, forse era la volontà di fare giustizia, a smuoverlo e farlo apparire così deciso.
«No, non lo è» replicò, tirandosi in piedi con uno scatto prima di muoversi in direzione di uno Sherlock adesso lievemente più irrigidito. Una tensione a cui non badò e sulla quale passò sopra, come se fosse più importante il fargli entrare in testa taluni concetti. «Ho passato mesi a nascondermi da tutto e tutti, poi arrivo qui e mi getto in un duello senza neanche riflettere sulle conseguenze. Non è colpa tua.»
«Avrei dovuto ricordarmi che tu…» mormorò agitando le braccia in aria e senza terminare la frase, che lasciò in sospeso «potevo impedirlo. Sono pur sempre il capitano.»
«E se Victor avesse saputo non avrebbe mai proposto nulla di simile. Sherlock, smettiamola di girare attorno a queste sciocchezze» ribadì John, caricando la voce di un velo di rabbia e stringendo a pugno quelle stesse mani che ricadevano giù lungo i fianchi. «Colpa mia, colpa tua, colpa di chi diavolo ne so! Non importa più, adesso dobbiamo solo accertarci se qualcuno ha visto il tatuaggio e ha capito di cosa si tratta, allora agiremo di conseguenza. Se vuoi che mi assuma la responsabilità dell’aver tenuto all’oscuro la ciurma, potrei anche farlo. Se me lo chiedi diremo…» balbettò come trovando le parole «diremo che avevo disegnato io una copia della mappa su una carta e che tu non sapevi dell’altra sul petto. Non mi piace mentire e detesto il far sì che si fidino di me ancora meno di quanto non facciano adesso che mi credono un traditore, ma posso sempre dire che non avevo fede nella parola del pirata bianco.» Nel sentirlo parlare in quel modo, il capitano sussultò in maniera impercettibile. Se ne stava voltato verso la parete ed evitava di guardarlo, nudo ancora dalla vita in su sembrava non dar segni di imbarazzo, benché fosse agitato. Tamburellava le dita una contro l’altra con fare nervoso, come se il peso delle responsabilità che sentiva fosse impossibile da tener rinchiuso. Cosa gravava sulle spalle di quel giovane uomo? Si chiese John, studiando la sua nuca e desiderando d’affondare le dita in quei ricci meravigliosi mentre stringeva con maggior forza le mani come a volersi trattenere. Quali e quanti tormenti aveva e con quanta serietà prendeva la sicurezza di una semplice nave e la vita di più di cento uomini? Che contasse così tanto un branco di pirati Guardandolo, John ebbe l’impressione che Sherlock Holmes sentisse su di sé il peso del mondo intero e mentre cercava un qualcosa da dirgli per rassicurarlo, si domandò se facesse parte lui stesso di quei pensieri. Fino a che punto il capitano si sentiva responsabile per la sua vita? A giudicare da quanto malamente aveva preso la faccenda del tatuaggio venuto allo scoperto, doveva tenere a lui molto più di quanto s’era convinto. Victor, dunque, aveva sempre più ragione.

«Se ho ben inteso le tue parole» ribatté Sherlock dopo qualche istante di teso silenzio durante il quale nessuno dei due aveva più parlato «significa che ti fidi di me? Vuol dire che tu, John Watson, hai fede nella parola di un pirata?»
«In quella di un pirata?» ripeté, ridendo quasi «no, non in quella di un pirata. Ho fede nella tua.» In risposta aveva annuito, senza più parlare ma mettendosi ritto al pari di un soldato pronto a ricevere ordini. Mai come in quel momento si sentì incondizionatamente suo e finalmente lasciò andare ogni patimento d’animo, ogni tormentato pensiero su quanto affrettato fosse tutto quello. Lui che mai si era davvero aperto con qualcuno, nel giro di pochi giorni si era perdutamente innamorato di uno sconosciuto sentito nominare in un qualche racconto e la cosa più incredibile, era che lo stargli a fianco era così facile, che ogni cosa svaniva e le paure finivano in niente. Era tutto semplice, a fianco di Sherlock Holmes. Facile come respirare. Naturale quanto chiudere gli occhi e lasciarsi irretire dalle maglie del sonno. Per uno strano scherzo della mente, John capì che era semplice anche ora e con tante cose a cui pensare. Certo, aveva paura, ma a fianco del pirata bianco era sicuro che sarebbe andato tutto per il meglio.

«Se ti chiedessi» esordì il capitano, dopo aver a lungo taciuto e senza essersi mai mosso da dove stava «se ti chiedessi di fare qualcosa con me questa notte, tu obbediresti senza pormi troppe domande?»
«Io…»
«Prima di decidere» lo interruppe «voglio che tu sappia che sei al sicuro e desidero che tu sia certo del fatto che so perfettamente quello che sta succedendo a bordo di questa nave. Le voci che circolano sul tuo conto e la mala fama di cui godi tra gli uomini, Angelo mi ha informato dei recenti sviluppi e dalle tue parole comprendo che sai ciò che sta accadendo. Potrei anche dirti che lo avevo previsto e che supponevo che saresti stato messo alla gogna dal mio equipaggio, il che porterebbe a una serie di domande a cui adesso non posso rispondere. Se è vero che ti fidi, John, vieni con me stanotte. Se deciderai di non farlo, capirò ugualmente» concluse, voltandosi con uno scatto e finalmente guardandolo negli occhi. Quei meravigliosi, grandi occhi azzurri che adesso lo sondavano con una curiosità mista a speranza. C’era così troppo negli occhi di Holmes il pirata, così tanta bellezza e sentimento, che pareva incredibile fosse lo stesso individuo descritto come terribile e freddo. Era quell’uomo che gli stava di fronte, uno dei più temuti e rispettati bucanieri che solcavano il mar dei Caraibi, eppure adesso non sembrava che un ragazzo. E mentre altra confusione si aggiungeva a quella che da giorni aveva, John si ritrovò ad annuire ancor prima di realizzare di star parlando ad alta voce. Che fosse mosso dai sentimenti che aveva ammesso di provare o per via di quello spirito d’avventura affatto domato, questo non lo sapeva. Era soltanto certo di aver parlato e, con convinzione, di aver annuito.
«Oh Dio, sì!» esclamò, lasciandosi andare a un ruggito mentre lo sguardo di Sherlock Holmes si accendeva di sfida e sì, probabilmente persino di gioia.
«Tieniti pronto, dottore, questa sera andremo a caccia di volatili.» Ancor prima che riuscisse a comprendere il reale significato di quella frase, il capitano uscì dalla cabina e scomparve nella propria, lasciando John Watson solo con un’infinità di domande.
 


 
oOoOo



Nonostante il primo istinto lo avesse spinto a correre appresso al capitano, John era rimasto fermo dove stava, immobile al centro della stanza. Seguirlo in cabina, spingerlo contro la parete e baciarlo con passione e, massì dai, già che c’era farci anche l’amore, erano tutte prospettive allettanti. Tuttavia, in quei frangenti, al desiderio aveva prevalso la confusione. Che cosa avrebbero dovuto fare quella notte e che c’entravano i volatili? Ma soprattutto perché gli aveva chiesto di seguirlo? In quale maniera, John poteva essere d’aiuto? Aveva forse a che vedere con l’isola del tesoro oppure era un’altra, la questione? E se Sherlock gli avesse chiesto un simile favore unicamente perché desiderava stare con lui? Cielo, non poteva pensarci. A questo davvero no. Non ora comunque. Per sua fortuna, durante il resto del pomeriggio, non ebbe occasione di rimuginarvi troppo e furono proprio alcuni membri dell’equipaggio, a distrarlo. Il primo a farsi vedere fu un preoccupato Lestrade, accorso con il timore che uno dei due si fosse ferito durante la lotta e che un’interruzione così brusca del duello, fosse da attribuire a un qualcosa di grave. John aveva mentito, borbottando sul fatto che Sherlock si era proclamato vincitore della sfida, cosa a cui Greg aveva creduto. Successivamente, però, ne aveva approfittato per indagare sulla situazione. Sembrava che il nostromo de la Norbury non sapesse niente della mappa sul petto e fu proprio allora a comprendere di aver esagerato. Se uno qualsiasi di quei pirati avesse notato la mappa, lo avrebbe certamente gridato a gran voce, lo avrebbero richiamato o portato via di forza. Quale ragione c’era nel tenere per sé una cosa simile? Non aveva alcun senso tacere, probabilmente sarebbe anche stata l’occasione ideale per i suoi accusatori di metterlo sotto una cattiva luce. Fra i tanti membri dell’equipaggio presenti sul ponte al momento del duello, Angelo era stato l’unico ad aver visto il disegno o, perlomeno, era così che Lestrade gli aveva raccontato. Sembrava che un altro pirata si fosse proclamato sicuro di aver visto un mostro marino sul petto del dottore e che, pertanto, fosse stato maledetto dagli Dei del mare. Già minacciavano di gettarlo fuoribordo, preoccupati dalla cattiva sorte, quando il cuoco era intervenuto prodigandosi in un’accurata spiegazione e confermando che si trattava di linee senza senso. Non uno dell’equipaggio aveva avuto il coraggio di ribattere, dato che nessuno si sarebbe mai azzardato a contraddire un napoletano dannatamente abile con i coltelli. * Neanche gli era occorso troppo tempo per imporsi, il discorso era finito in niente, i marinai avevano ripreso a cantare e ognuno aveva fatto ritorno al proprio posto. Tutto quello che a John rimase aggrappato addosso nei minuti che seguirono l’uscita di un più rasserenato Lestrade dalla sua cabina, oltre che a un vago senso di sollievo, fu proprio la strizzatina d’occhio che Angelo gli dedicò nell’attimo in cui si ritrovò a passare nel corridoio, prima di sparire nella stanza di Sherlock. Era salvo e nessuno aveva visto la mappa del tesoro.

Il resto della giornata fu decisamente meno movimentato e lo trascorse impegnato tra una chiacchierata con un allegro Victor, una qualche impressione annotata sul diario e una doverosa visita alle cucine. Archie gli aveva persino mostrato il luogo in cui tenevano i libri, una stanza buia e angusta, dove giacevano ammonticchiati decine e decine di volumi. A quanto pareva gli era stato concesso di andar lì a prenderne uno tutte le volte che voleva, il che era un vero sollievo perché la prospettiva di due settimane di navigazione e con niente da fare tutto il santo giorno, era piuttosto spaventosa. Ad ogni modo adesso si ritrovava lì, al termine di un’ennesima stramba giornata a bordo di un galeone spagnolo, accucciato oltre all’albero di bompresso. Era nascosto a prua, oltre una ringhiera che si affacciava su un piccolo spazio, comodo per un paio di persone. ** Seduto a fianco di capitan Holmes, con la fresca aria notturna ad accarezzargli la pelle e la dannata voglia di baciarlo a solleticargli le labbra, John se ne stava immobile e respirava lento. A quell’ora della notte non c’era pressoché nessuno sul ponte principale, fatta eccezione per il timoniere (il quale stava a poppa) e alla vedetta in cima all’albero di trinchetto, soltanto un paio di uomini erano di guardia nei pressi del cassero, ma erano davvero troppo lontani perché si potessero sentire anche soltanto le chiacchiere che facevano per passare il tempo. Grazie a qualche lanterna accesa qua e là si riusciva a vedere più o meno nitidamente le linee del ponte, ma era più che altro la luce della luna a rischiarare i loro profili e a regalare squarci di gioia all’animo agitato di John Watson. Già, perché, se di vedere oltre la linea del buio orizzonte niente gli importava, credeva fosse molto più interessante poter studiare da vicino le forme armoniose e appena un poco squadrate del viso di Sherlock. Uno Sherlock stupendo, bellissimo. Illuminato appena dai raggi argentei di una notte che lo rendeva ancor più etereo. Di certo era baciabile, aggiunse mentalmente e annotandosi quel ragionamento come se fosse vitale. Era affascinato dal pirata bianco, questo ormai era assodato. Lo era al di là della leggenda, oltre l’intelligenza acuta e penetrante o la nomea che si portava marchiata addosso al pari di una “P” sul petto. Sì, John era ammaliato dal pirata bianco. Lo era dalla bellezza, ma anche dal misterioso e bizzarro carattere che possedeva. A tratti pareva scostante e distaccato dal mondo intero, come se tutto lo annoiasse. Altre volte era eccitato ed emozionato come un bambino, e lo guardava quasi non vedesse l’ora di renderlo partecipe delle radici dei propri ragionamenti. Ogni tanto pareva ritroso come una giovane inesperta, ma in altre occasioni era più determinato, più virile, più dominante. Così diverso. Quando parlava, Sherlock era affascinante. John lo avrebbe ascoltato blaterare per delle ore e di un qualsiasi argomento. Di lui, gli andava bene persino lo stare in silenzio. Proprio come in quei momenti e fu proprio allora, mentre ragionava su tutto questo, che si domandò come potesse apparire un banale medico agli occhi di un uomo così complesso e, di fatto, incredibile. Poi, semplicemente, tornò a osservarlo.

Il capitano non si era mosso da dove stava, rannicchiato su se stesso e con le dita intrecciate in un groviglio informe, di tanto in tanto sollevava il viso e portava lo sguardo oltre la balaustra, rabbuiandosi immediatamente dopo. Stavano aspettando qualcuno, Sherlock non si era preoccupato di informarlo, ma ormai era lampante. Peccato solo che John non avesse la benché minima idea di che cosa dovesse succedere nel concreto. Erano lì nascosti da un’infinità di tempo e ancora nulla di rilevante era successo, ma soprattutto nessuno dei due aveva aperto bocca. Non credeva fosse poi così fondamentale lo starsene zitti, insomma non sapeva come funzionassero i venti e cose come quella, ma se gli alisei soffiavano da poppa, un qualsiasi discorso sarebbe dovuto riverberare direttamente in mare, giusto? Ah, ma che diavolo ne sapeva! Tutto ciò di cui poteva dirsi sicuro era che aveva bisogno di rompere il ghiaccio. Spesso aveva avuto la sensazione che Sherlock stesse per introdurre un discorso, poi però tornava a fissare il pavimento e nessuna parola gli usciva dalle labbra. In altre occasioni aveva creduto di essere osservato, ma quando si decideva a voltare lo sguardo, questi stava fissando altrove. Tra loro c’era una tensione sempre più percepibile, ogni istante un po’ più forte e tanto viva da essere addirittura consistente. Palpabile. Come avrebbe fatto a reggere? Si poteva smettere di provare tutto quello? Doveva imporre a se stesso di non pensarci, di non far caso al suo profumo, al ritmo regolare del respiro o a quanto baciabili fossero le sue labbra o ai quei ricci tentatori. Decise che avrebbe rimuginato su altro e per fortuna, la sua mente prese lentamente a vagare su fatti più concreti. Il capitano aveva parlato di volatili e di situazione sotto controllo, ma aveva anche parlato di supposizioni e ipotesi. Non stentava a credere che un qualcuno di tanto intelligente potesse aver intuito un fatto prima che questo avvenisse, d’altra parte aveva dedotto la sua vita per intero, però doveva senz’altro esserci dell’altro. Un particolare che a lui, nuovo arrivato a bordo, sfuggiva. Un dettaglio che non conosceva o un qualcosa di strettamente legato alla nave o alla ciurma, o a chissà che altro.

«John, smetti di pensare, è fastidioso» ringhiò il pirata bianco, con evidente seccatura nel tono di voce «sei una distrazione continua ed è snervante.»
«Ah, perfetto» sbottò John, senza preoccuparsi di niente. Non gli importava che quell’uomo fosse il capitano, già fin troppe frustrazioni gli erano rimaste dentro. Era il momento di farle uscire e poi o quello, o farci l’amore appassionatamente. Non c’era via di scampo. Forse. «Adesso non posso nemmeno più farmi delle domande.»
«Hai delle domande?» ribatté il capitano, titubante e appena un poco sorpreso. D’istinto e nel sentirlo mormorare in quel modo, ritroso e come se temesse di azzardare una parola di troppo, John sorrise apertamente. Oh, ne aveva così tante, di domande. E ora che il pirata sembrava disposto a spiegargli una qualche cosa (o almeno così gli era parso d’intuire) avrebbe dovuto cominciare col chiedergli che ci stessero facendo al buio, in balìa dei venti ed emozioni che, evidentemente, non riuscivano a controllare così bene come fingevano di star facendo. Invece che esporre ordinatamente i propri pensieri, vomitò letteralmente fuori una sfilza di interrogativi che non riusciva più a tenere per sé.
«Ne ho a decine, in effetti» proclamò, mettendosi diritto dove stava e volando il viso con decisione. Era pronto a fronteggiarlo, sarebbe stato freddo e determinato. Soldati, ripeté a se stesso stringendo i pugni mentre inspirava profondamente. Soldati. «Prima cosa: come hai fatto a capire dove si trovava l’isola del tesoro? Io ci ho riflettuto sopra per mesi e non sono venuto a capo di niente, poi arrivi tu e subito la trovi.»
«È stato piuttosto fac…»
«Perché quel tale si chiama come un personaggio di Shakespeare? La conosco, sai? La storia del principe danese, una volta sono stato a una rappresentazione con mia sorella e suo marito. Quel Fortebraccio non ce l’ha un nome proprio? E perché Angelo mi guarda le spalle? Perché è così, non è vero? Gliel’hai chiesto tu? Come mai questa nave si chiama “la Norbury” e non solo “Norbury” e chi diavolo è Norbury? Come mai Victor si sente in colpa nei tuoi confronti? E perché sta facendo di tutto per… per, ecco sì per… Oh, insomma, cosa diavolo ci facciamo qui da ore?» Se qualcuno gli avesse chiesto quando fosse effettivamente cominciata tra lui e Sherlock, John avrebbe risposto che era stato allora che tutto aveva avuto inizio. In futuro avrebbe ricordato quei frangenti come i più stupefacenti della sua vita, ma sul momento e a seguito di quell’accorata sequela di domande, arrivò il silenzio. Di fatto non si era limitato a poche parole, ma gli aveva riversato addosso mesi di frustrazione, sputata fuori con un accenno di nervosismo. Fu quasi sicuro, mentre sentiva appena riecheggiare l’eco della propria voce, che il pirata bianco lo avrebbe messo ai ceppi, appeso al pennone più alto a testa in giù o fattogli fare un giro sulla passerella e poi dato in pasto ai pesci. Era lecito pensarlo, giusto? Sherlock era bello e affascinante, ma era pur sempre un criminale e poi aveva già la mappa, la sua nave stava facendo rotta per l’isola del tesoro e John era stato tanto idiota da dirgli tutto ciò che sapeva. No, doveva aver fiducia. Nuovamente quella parola s’insinuò nella sua mente, entrandogli dentro. Si era fidato di quel giovane capitano e si fidava anche adesso.

Inaspettatamente, a un certo momento, a spezzare il teso silenzio calato fra di loro, giunse una risata. Forte e sincera, cristallina e carica di un divertimento gioviale e onesto che scaldava il cuore. Sherlock stava ridendo sfacciatamente, si era lasciato cadere indietro contro al legno e stava coprendo gli occhi con una mano, come se faticasse al solo tenerli aperti. Rideva apertamente e senza badare a prender fiato o a dover anche respirare. John lo seguì, seppur timidamente e del tutto incapace di formulare una qualche ipotesi a proposito di una simile reazione. Non riusciva più a pensare, anzi, tutto ciò che si diceva in grado di poter fare era di guardarlo. Di ammirarne i lineamenti, così come il bearsi di quella voce bassa e armoniosa. A stento riuscirono le sue parole, a scuoterlo da quel piacevole torpore.
«L’isola l’ho trovata per una cosa detta da Mastro Stamford» gli spiegò, con fare ancora leggero mentre strascichi di risa ancora s’infilavano tra una parola e l’altra «di luoghi con una baia tanto grande ce ne sono pochi in queste zone. Avevo pensato potesse trovarsi da tutt’altra parte, ma poi mi è tornata in mente una cosa che hai detto quel giorno a casa tua. Tu e Joe viaggiavate a bordo di una caracca diretta a Santo Domingo, quando siete scesi rubando una scialuppa. Dovevate trovarvi per forza lungo una delle rotte prestabilite dalla marina spagnola.»
«Sì, ma lì è dove mi han fatto il tatuaggio, non il posto che indica la mappa.»
«Ne sei assolutamente sicuro, John? Sei convinto che non fosse la medesima isola? No, perché io credo che quello fosse esattamente il luogo che hai disegnato sul petto. Come posso esserne sicuro? Dalla descrizione che ne hai dato, Joe sembrava un uomo desideroso di metter fine a una faccenda che per molto tempo lo aveva tormentato, credo che ti abbia portato sull’isola tesoro, ma che lì gli sia successo qualcosa di grave. Che abbia incontrato qualcuno, più precisamente e che abbia dovuto improvvisare. Pensaci, John, tu e lui su una caracca spagnola e fatti viaggiare indisturbati. Poi arrivate su un’isola piena di selvaggi, Joe scompare nel bel mezzo della notte e tu ti svegli con un tatuaggio sul petto.»
«Coincidenze?»
«Raramente il creato è così pigro e mi rendo perfettamente conto che ora come ora fatichi a credermi, ed è per questo che non ti dirò altro. Sapere più cose ti confonderebbe ulteriormente» concluse, congiungendo le dita sotto al mento e prendendo a parlare con fare più pacato. «Ora, per tornare alle tue domande. Dunque, il nome Fortebraccio gliel’ha dato Victor e non ho idea del motivo, già è tanto che io sappia di chi stai parlando. Seconda cosa, sì, ho chiesto ad Angelo di tenerti d’occhio. Lui e Victor sono le sole persone a cui affiderei qualcosa di prezioso, e poi aiuta il fatto che tutti abbiano paura di lui (compreso Lestrade). Il nome Norbury, infine. Ecco, sì, dunque, io…» Non fu solo il balbettare insistente a fargli capire che qualcosa nel capitano non andava, ma erano chiari sintomi anche il suo aver preso ad agitarsi vistosamente e l’imbarazzo che andava crescendo. John lo vide alzarsi con uno scatto, prima di saltare la ringhiera e oltrepassarla con un balzo agile. Stava fuggendo. Scappando via da risposte che non voleva dare o più semplicemente per salvaguardare un’intimità che era stata violata. Non scelse di andargli dietro, lo fece agendo per istinto. Preso coraggio, John affrettò il passo, ben deciso a non lasciarlo scappare. Non voleva che gli sfuggisse, non più.

Lo raggiunse al bompresso, dopo averlo afferrato per un braccio e strattonandolo con delicatezza, lo trattenne appena. Non voleva che si sentisse forzato a parlare o che nutrisse una sorta di obbligo nei suoi confronti, per questa ragione fu John a parlargli per primo. Voce bassa e fare pacato e con quella mano che ancora lo stringeva.
«Mi spiace» mormorò «scusa. Non è necessaria una spiegazione e non devi darmela se non ti va di farlo.» Un timido “sì” uscì dalle labbra di Sherlock Holmes, feroce pirata, implacabile flagello del mar dei Caraibi. E mentre le dita di John d’istinto scendevano lungo il braccio, sfiorandolo in una carezza lieve, questi sussultò violentemente. Più lo accarezzava, più desiderava toccare. Già gli stava stringendo la mano e a malapena se ne rendeva conto. Già gli stava addosso, respirandogli contro la nuca. Già aveva il sentore che il suo battito fosse accelerato. Quando si erano avvicinati tanto? Si chiese John, in un barlume di lucidità. Non credeva di ricordare con precisione, e forse nemmeno importava. Eppure stava accadendo, Sherlock si era voltato e ora si rilasciava contro il legno dell’albero, lasciandosi andare appena. Se ci fosse stata più luce avrebbe visto un rossore sulle sue guance e avrebbe notato persino gli occhi illanguiditi e un desiderio crescente montare in essi, ma coperti com’erano dall’ombra delle vele, tutto ciò che vide fu un boccheggiare leggero e la bocca aperta che reclamava aria.
«John» sussurrò il capitano, rompendo ogni indugio con un mormorio impercettibile «io sono terribilmente… ecco, io…» No, non lo fece parlare oltre. Non gli permise di aggiungere altro e, premutosi contro di lui, finalmente lo baciò. Con ritrovata vitalità. Stringendolo per la vita con un fare vagamente virile e mascolino e poi con le dita tra i capelli che ridiscendevano giù lungo la schiena. Stava baciando Sherlock Holmes e non era un sogno, ma la realtà. Tutto era vero, il suo odore, i sospiri non trattenuti, il muoversi delle labbra impacciato e inesperto. Reale come quelle dita, lunghe e affusolate, che vagavano sulla schiena di John tirando la stoffa della camicia le volte in cui il contatto diveniva più approfondito. Reale come il sapore rum sulla lingua. Sì, si stavano baciando e lo fecero a lungo, lì dove stavano. Schiacciati contro all’albero di bompresso, benedetto lui e chiunque lo avesse inventato! Si baciavano profondamente e come se niente potesse scalfirli, quasi si trovassero in un loro personale e meraviglioso paradiso. Fino a quando non successe. Fu allora che apparve. Una figura alta e snella venne fuori dal buio o almeno, John così credette. Più probabilmente uscì dalla porta che conduceva agli alloggi, ma distratto come lo era stato non aveva sentito il frusciare della porta o l’echeggiare dei passi. Non lo riconobbe subito, dato il buio eccessivo, per i primi istanti gli fu impossibile vederlo in volto. Da come Sherlock aveva preso a fissarlo, però, capì che era lui che stavano aspettando. John non si azzardò a parlare, né a porre domande. Rimase semplicemente a osservare quell’uomo, lo stesso individuo che, nascosto alle guardie e dal timoniere, ora sollevava un braccio al cielo mentre un grosso uccello gli planava vicino. Lo vide accarezzargli la nuca con le dita, poi allacciargli un qualcosa alla zampa e intanto gli dava qualche briciola, che il volatile prese a beccare. Solo allora, dopo che il grasso pennuto fu volato via e il tale si fu mosso, John riuscì a vederlo.
«Ehi, ma quello è…» balbettò, incredulo.
«La parola che stai cercando, dottore, è traditore. Traditore.» Dopodiché, Sherlock lo prese per mano, e insieme scesero in cabina.
 
 


Continua




*Se non sbaglio non viene mai specificato da dove proviene Angelo, ma sentendolo parlare mi pare di aver notato una sfumatura di accento meridionale. La scelta di Napoli è più una comodità letteraria, che una cosa legata alla parlata di Angelo nella serie o a mie preferenze regionali.
**Questa è difficile da spiegare, ma i galeoni non avevano tutti la stessa identica costruzione. Molti avevano, a prua, una ringhiera che si affacciava su un piccolo tratto di ponte, più ribassato rispetto al ponte principale, dal quale partiva un terzo o quarto (questo dipendeva dalla grandezza del veliero) albero, che stava però per orizzontale. Immaginatevi come una lunghissima lancia.

Sì, avete capito bene: piccioni viaggiatori. E come se no? Siamo pur sempre nel dannatissimo 1655, lo stesso anno che a suon di ricerche mi sta prosciugando l’anima. E no, non vi dico chi è il “traditore”. Non ancora!

Comunque, ho scoperto che questa storia è seguitissima. Cosa che non mi aspettavo. Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che son giunti fino a qua.
Koa

 
   
 
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