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Autore: L0g1c1ta    03/06/2017    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La divisa nera del fratello le sembra un orribile presagio, le medaglie splendenti di mille arcobaleni una vaga speranza. Soltanto guardarle le fa male. Lo stomaco le si stringe in una morsa molto più crudele di quella scorsa. Russia le sembra più alto, più scuro, più irraggiungibile. Odia questa sensazione. Odia che la sua gola bruci. Il fratello si stringe la sciarpa bianca attorno al collo. Si volta verso di lei, poggiata all’uscio e lui sulle scale del giardino. Quel nero stona molto su suo fratello. Lo fa brutto e ombroso come la morte, pensa, anche se è vero solo al suo cuore. Russia la guarda ancora, lei non riesce a guardarlo. I suoi passi schiacciano la pietra dei gradini, li oltrepassa. Si ferma davanti a lei, si china, l’abbraccia. La sua mano le cinge la schiena, i suoi capelli cozzano coi suoi, ma è la cosa più dolce che abbia sentito questo mese. Stringe le braccia al suo collo. Vorrebbe dargli premura così come lui le sta dando.

“Tornerò presto, sorellina. Aspetta qualche mese, riporterò da noi la sorellona e ritornerà tutto come prima” le sorride ad occhi chiudi. Lo stomaco le si stringe ancora. La gola in fiamme non la fa parlare. Vorrebbe dirgli qualcosa. Le mancano le parole. S’impazzisce il cuore. Russia si stacca dolcemente da lei. Le sue braccia scivolano via dal suo collo. È una calda carezza che pian piano svanisce. È orribile quel che le sta succedendo. Suo fratello è raggiante, ma in modo diverso dal solito. Ha gli occhi scuri come i suoi, non ha nemmeno un frammento di luce. Le sembra umano, debole e fragile. Ha paura di questo suo sentimento “Mentre ci aspetti fai la donna di casa. Fai la brava, va bene?” non riesce ancora a parlare, allora annuisce. Russia alza gli occhi, poco dietro di lei. Non vuole voltarsi, non ne ha le forze. Il fratello guarda Lituania e la sua severità, vista mentre erano a casa, le sembra mostruosa “Lituania, prenditi cura dei tuoi fratelli e di Biela. Fai in modo che a loro non manchi nulla”.

“Sì, signore” dice il ragazzo e annuisce, senza battere ciglio. Russia deglutisce. Guarda il ragazzo e non capisce cosa pensi di tutto questo. Non riesce a leggere i pensieri di Lituania da tempo. Per la prima volta abbassa lo sguardo e si rassegna. Chiude per un attimo gli occhi, spera con cuore di bambino che riaprendoli possa cambiare qualcosa. Gli riapre. Lituania non ha cambiato espressione. Sembra una statua immobile o un soldato in attesa di ordini. Sente quel poco di anima strapparsi dal petto. Russia si volta e incomincia a marciare sui gradini di casa. Ha una fitta al cuore. Si sente senza forze. Forse sarà l’ultima volta che vedrà quella casa. Forse l’ultima volta che vedrà Lituania sarà con quegli occhi senza amore.

Biela è rimasta a guardare il fratello svanire nella boscaglia. Respira profondamente, non ha più aria nei polmoni. Lituania si volta e cammina dentro casa. Biela sente chiudere la porta di casa alle sue spalle. Lui non ha sospirato, non ha calpestato il tappeto di casa in modo diverso. Non è cambiato nulla per lui. Biela vuole indietro il fratello, questa casa è troppo cupa per lei ora. Trascina i passi sugli scalini e ci si siede. La gonna è pesante, ma la camicia è troppo leggera per questo autunno scuro. Per lei ogni cosa non è altro che vento invernale, allora non ci fa caso. Punta gli occhi dove il fratello è sparito. Il cancello è chiuso a chiave. Un alito di vento le passa sopra i capelli. Deglutisce il nulla, la gola è ancora bloccata da un nodo gordiano. A malapena respira. Il vento si fa maldestro e prova a scoprire le calze e gli scarponcini. Ora è una col freddo.

Passano le ore e nemmeno se n’è resa conto.

“Se resti qui ti prenderai un brutto raffreddore” non crede di aver sentito i passi di Lituania e nemmeno sa se valga la pena voltarsi verso di lui. Non lo vuole guardare. Non ricorda nemmeno di odiarlo. Non capisce neppure perché sia tornato e non le importa: le fa ancora male la gola e lo stomaco ha stretto il suo cappio fino a soffocarla. Vuole stare sola, ma non lo scaccia: che resti o meno non fa differenza. Il ragazzo attende e capisce che non avrà risposta “Continuare a guardare il cancello non farà tornare indietro tuo fratello”

“Sta’ zitto!” gracida la sua voce, fatta rauca dal nodo alla trachea. Respira ed inspira. La sua gola fa uno strano suono. Lo odia, ma ora non prova odio. È assorbita dal freddo del vento e dolore della perdita, anche se non effettiva. Germania ha inglobato l’Europa e ha ucciso Polonia. Ha schiavizzato e sottomesso. Ha fatto urlare di morte Inghilterra, l’intoccabile. Potrebbe uccidere anche suo fratello e sua sorella. Questa ipotesi le solletica l’orecchio come una pulce fastidiosa. Lituania non si fa umano, ma nemmeno mostro.

“Russia tornerà e distruggerà Germania, Bielorussia, e tu lo sai benissimo” non è canzonatorio, lei lo capisce, ma non è nemmeno benefico. Non sembrano valere nulla le sue parole. Tutto ciò che le sta dicendo le sembra falso, come se avesse scritto un copione e lui, attore senza sentimenti, prova a recitarlo di fronte a lei. Lituania è diventato rivoltante in questi mesi. Il Lituania che ha conosciuto da bambina non avrebbe mai avuto una voce così fredda. E non starebbe in piedi di fronte ad una fanciulletta seduta, a stringersi le dita le une fra le altre, più per dolore che per tremore invernale. Un cavaliere soccorre la dama, ma Lituania non è più un cavaliere “Torna dentro casa al caldo, non voglio che ti prenda qualcosa”

“Ma a te che cazzo te ne importa?!” gracchia ancora come un corvo. La sua voce è terribile ed insicura. Prende una boccata d’aria e riempie i polmoni. Fa ancora quello strano suono. Si stringe nella gonna. Il cuore pulsa maledettamente. Le fa male, lo sente nelle orecchie. Lituania rimane ancora in piedi. Forse non capisce quel che sta sentendo nel suo spirito o molto più semplicemente sta ignorando il suo gracchiare più che eloquente. Sembra un adulto inflessibile di fronte ad un bambino capriccioso e questa cosa la odia.

“Mi è stato ordinato di prenderti cura di te, mi deve importare della tua salute” Biela non risponde. Il Lituania che conosceva non avrebbe mai detto una cosa del genere. Il Lituania cavaliere sarebbe corso da lei incredulo e terrorizzato e le avrebbe parlato con empatia. Questo Lituania non ha cuore. Questo Lituania non ha anima. Lo sente sospirare “E cosa ti fa credere che Russia possa perdere la guerra?”

“Non lo so!” la gola le si apre d’un tratto. È come una diga straripata e poi spezzata dalla gettata d’acqua fiondatasi addosso. Riesce a respirare, la sua voce continua a gracidare e a sussultare. Lituania è ancora inflessibile. Le pare tuttora ingiusto e crudele e questo la fa sentire male. Non riesce nemmeno ad arrabbiarsi con lui. Non ne ha le forze. Il ragazzo fa un altro respiro profondo, lei non sente questa cosa, con le mani gettate sugli occhi. Si vergogna di quello che sta facendo.

“Biela, smettila di piangere”

Continua a singhiozzare. Sente acqua salata scendere e macchiare la sua gonna. Questo vestito l’ha comprato suo fratello per lei. Non voleva sporcarlo in questo modo rivoltante. Si sente ancora più triste. Non riesce a fermarsi. Si sente ancora più sola. Sarà orfana anche dei suoi fratelli, fredde croci della guerra inutile. I tedeschi stermineranno tutti gli slavi come hanno detto e la sua famiglia sarà di nuovo decimata.

“Biela, smettila, non fare la bambina”

Tira su il naso. Non riesce a fermare gli scossoni della schiena. Immagina cose mai accadute e che probabilmente non accadranno mai. Immagina suo fratello ingoiato dal fango e dal sangue suo, e Germania che lo guarda con disprezzo e lo squadra alzandogli la pistola alla testa. Però non riesce ad immaginare la sorella, forse per rivalità, forse perché le è troppo raccapricciante pensare di lei sotto la pioggia di proiettili nemici. È troppo familiare come sensazione…

“Biela, basta”

…è qualcosa che ha già visto troppe volte…

“Biela, non devi fare così, andrà tutto bene”

…è qualcosa di ossessivo ormai, è come il destino crudele che ha intrecciato il suo filo nella sua vita, in quella di sua sorella…

“Biela, non piangere…”

…in quella di suo fratello, in quella del suo cuore sfortunato. Non riesce più a fermarsi e non si è nemmeno accorta della voce di Lituania e di come si sia ingentilita. Non si è accorta nemmeno che si sia seduto vicino a lui, sui gradini di casa, sotto il venticello autunnale. Non si è accorta nemmeno di quanto si sia avvicinato a lei. Però si accorge del fazzoletto che le sta porgendo. Non sa come comportarsi, credeva che non avrebbe pianto in questo modo. Lo afferra e lo passa sotto agli occhi. Le palpita ancora il cuore per il dolore. La mano le trema mentre si asciuga le lacrime con la morbida seta. Lo poggia sotto al naso, profuma, non sa bene di cosa.

“Non devi pensare a queste cose. Tuo fratello e tua sorella torneranno a casa e vinceranno la guerra. Russia è forte, Biela, lo sai che dico la verità” la voce di Lituania le è molto più familiare e adolescenziale di quella che ha sentito fino ad ora. Quasi l’aveva dimenticata. Annuisce più volte, senza più lacrime. Ha detto il vero: suo fratello è forte, torneranno a casa e ritornerà tutto come prima. Crede che sia stata patetica. Ha un altro singhiozzo. L’animo del ragazzo si fa più dolce “Biela, non piangere più… Sei troppo bella per piangere”.

Bielorussia si fa rigida come il marmo. Le lacrime che stavano per nascere s’impietriscono sotto le ciglia. Il petto le si fa leggero e il cuore meravigliato. Alza lo sguardo e abbassa il fazzoletto al grembo, raccolto nella gonna. Guarda per la prima volta Lituania. Le sue guance sono tinte di un lieve rossiccio, gli occhi luminosi e i capelli raccolti le paiono cavallereschi. La guarda come un bambino guarda una Madonnina per la prima volta, con incanto e timidezza. Lituania è identico a come lo ricordava. Le si contrae il viso in una smorfia, quelle parole l’hanno disgustata. Alza la mano e schiocca il palmo sulla guancia del ragazzo.

Gli ha dato un colpo forte e inaspettato. Gli si è girata la testa dal lato inverso. Abbassa la mano, pronta a difendersi con una lingua di serpente, a sbeffeggiarlo, a ricordargli che lei è la sorella del suo padrone e che non deve nemmeno poter pensare a dirgli cose del genere. Lituania riapre le palpebre, serrate prima per il ceffone. La piega degli occhi è cambiata, pare più adulta e rigorosa. Non volta il capo, non muove gli occhi per guardarla. La guancia colpita è già bruciante di rosso. Lituania rimane un attimo fermo. Il celeste diventa grigio perla. Sembra realizzare qualcosa che lei non comprende. Bielorussia rimane in allerta. Non la guarda. Non sembra esistere più per lui. Si alza, rigido come un soldato, con la guancia ancora incandescente, e cammina a casa. Biela rimane incredula, non riesce a dire nulla, non lo ferma, non gli impedisce di scomparire dietro la porta di casa. Si sente confusa e oltraggiata. Guarda il fazzoletto nel suo grembo e le ricorda troppo lui. Le ritorna la rabbia e l’umiliazione. Lo accartoccia nella sua mano e lo lancia lontano, come una pietruzza. Più tardi si ricorderà di buttarlo veramente.

I giorni seguenti Lituania non cambiò volto, non cambiò occhi, né passo fermo. Era ritornato cavaliere senza anima, come se tutto quello che era successo non fosse mai accaduto.

 

 

 

 

 

“Hey, dove state andando?!”

L’occhio lucifero di Polonia vede cavalli e aste di lance allontanarsi verso l’orizzonte. Il soldato polacco che ha urlato alle sue spalle ha il volto contratto dal fango e dal terrore. Lo perde di vista in un attimo, dev’essere stato ucciso alle sue spalle. Ormai i prussiani li hanno accerchiati per davvero. Non ha tempo da perdere. Le armature pesanti tranciano con un eco il suono della battaglia. I ferri dei cavalli sbattono sul terreno e fuggono come se lo desiderassero loro stessi. Le pellicce barbare scompaiono del tutto dal suo occhio. I soldati lituani sono fuggiti. Liet se n’è scappato con loro.

“Ah! Sembra che il tuo amichetto ti abbia tradito” Prussia, molto più giovane di come ricordasse, col mantello bianco, onda del vento, sghignazza a due passi da lui. Alza la spada, aguzza la punta, come se fosse stata impugnata solo in questo istante “Peccato… beh, tanto i miei uomini gli sono dietro” ammorbidisce il sorriso “Ora getta la spada e ti porterò da lui” il cuore di Polonia pompa terrore e rabbia. Le parole del cavaliere bianco bruciano come acqua salata. Il filo di sangue si congela sulla sua fronte. Si sente veramente sporco. Alza la spada, ridotta ad un giocattolo in mano ad un bambino. Dimentica come impugnarla e la tiene con due mani, incapace.

“Dio, sei un totale chiacchierone!” dice, con la voce più furiosa che terrorizzata “Ce la faccio anche da solo!” Liet non doveva lasciarmi qui da solo, pensa il suo cuore di infante. Sente di essere a due passi dalla morte.

“Ho detto di gettare la spada! Gettala, bastardello!” non trema più, l’urlo di Prussia ha penetrato nella sua anima. Si sente scosso fin dentro il midollo delle ossa. Guarda Prussia, la sua scioltezza, la sua sicurezza e si sente un granello di sabbia in suo confronto. Pensa a cosa fare. Pensa che non può farcela per davvero da solo. Pensa che ha mentito e che non dovrebbe neanche pensare di poter stare senza Liet, anche se l’ha lasciato qui. Pensa che non potrebbe mai macchiare di sangue il mantello bianco del mercenario prussiano. È nato per indossare una corona e non per prendere in mano la lancia e lo scudo. Non è nemmeno abbastanza forte per sollevarlo, uno scudo. Esita ancora, ma sa che gli occhi vermigli non avranno pietà.

“Va bene…” mormora, lasciando la spada. Si disarma con le sue stesse mani. Un cavaliere non l’avrebbe mai fatto. Liet non l’avrebbe mai fatto, piuttosto si sarebbe ucciso. Polska lo sa bene, ma sa anche di odiare questa spada e questa polvere molto più del tradimento del suo amico. La spada affoga nel fango nero e nel sangue scarlatto di cavalli e cavalieri. Scende sulle ginocchia. Alza le mani, arrendendosi. Guarda per terra, è troppo orgoglioso e codardo per fronteggiare con gli occhi un nemico. Un vero cavaliere avrebbe trapassato con l’iride l’anima nera del suo avversario e lo avrebbe deriso, anche se tra le braccia della morte.

“Ah, che significa questo?” Polska non batte ciglio. Prussia pensa la stessa cosa del ragazzino e lui stesso lo sa. Si sente sporco e codardo “Non immaginavo che saresti stato tanto intelligente…”.

Polonia continua a fare il testardo, continua a guardare terra. La sua spada è sparita, non potrebbe nemmeno fare il meschino e tagliargli di sorpresa lo stomaco come gli ha insegnato Liet. Liet gli ha detto che non esiste disonore più grande che inginocchiarsi di fronte al nemico. Gli ha detto che è un gesto da vigliacchi. Gli ha detto che la morte è ciò che un cavaliere merita, insieme al sangue e alla gloria del proprio sovrano. Polonia ricorda tutto, eppure non ricorda di doversi vergognare. Liet dovrebbe proteggerlo, non avrebbe dovuto lasciarlo morire qui, nel fango, tra i corpi dei suoi uomini. La lama bianca di Prussia si alza sulla sua testa. Polska vede l’ombra oscurargli gli occhi. Il nemico lo copre col velo della madama morte.

“Farai pace col tuo amichetto all’altro mondo” pronuncia, solenne. Per Polonia è un bacio alla signora oscura “Addio!”.

Polonia ritorna ragazzo in un corpo da bambino.

Chiude gli occhi, attende il colpo che sa che non avverrà mai. Sotto le palpebre vede lo spettro della spada squarciare pian piano l’aria sporca. Si fa sordo, si fa cieco e muto. Ricorda la battaglia maledetta, ricorda come ha fatto ad incastrarsi in questo luogo atroce. Ricorda Liet cavalcare coi suoi uomini lontano da lui e di averlo abbandonato ad una spanna da Prussia. Lo ricorda, così come ricorda ciò che accadde in seguito. Liet tornò indietro, disarmò Prussia, lo costrinse ad arrendersi. Lo salvò, così come ha sempre fatto. Un angolo delle sue labbra si alza leggermente, con la sicurezza nell’anima. Liet lo salverà in tempo.

Dolore, vero dolore. Polonia spalanca le palpebre, trattiene l’urlo, le pupille diventano capocchie di spilli. Non sente più scorrere il tempo. Vede le ginocchia del suo nemico e i bordi del suo mantello latteo. Il bianco diventa luce argentata, che gli spezza la vista. È abbagliato, non sa come riesca a tenere gli occhi aperti. Rimane paralizzato per un attimo e abbassa lo sguardo. È ancora per metà cieco, ma vede una spada incastrata nella sua carne. Il metallo è inebriato del suo sangue. Parte di sé comprende. Non capisce, questo non è mai accaduto. La lama affilata trapassa il suo petto con un leggero affondo. Polonia sobbalza, sputa, non immaginava di avere sangue alla gola. Sente canali di vermiglio straripare dalla sua gola e gocciolare fuori dalla bocca. Non riesce a respirare. Sente l’altro capo del metallo pesante dietro la schiena. Gli tremano le ginocchia su cui è appoggiato. Questo è dolore vero. Questo non è un sogno. Una vera spada lo sta uccidendo, si rende conto. Si chiede come abbia fatto a finire qui.

L’arma bianca è crudele: non torna indietro, ma taglia in alto, verso la sua gola. Lo sta tranciando in due come una carta francese. Polonia vorrebbe urlare, vorrebbe ribellarsi a ciò e strapparsi la spada dal petto. Non riesce nemmeno a muovere le dita. Gorgogli di sangue spruzzano dalla sua ferita, macchiano il terreno e i bordi del mantello di Prussia. Vede solo bianco. Gli cade la testa all’indietro, le braccia seguono il collo spezzato. Sente scoppi di arterie e vene. Sente sangue abbandonarlo. L’anima lo sta abbandonando. La lama riesce a tagliarlo come carne di vitello. Geme, non capisce. Dov’è Liet?

La spada viene strappata dalla sua carne. Polonia urla, col sangue che gli macchia le labbra. Continua ad urlare, si agita come un lombrico strappato dalla terra. La lama maledetta lo ha trinciato fino alla gola. Il suo stesso sangue schizza via e lo innaffia come pioggia. I capelli e l’armatura s’immolano nel pantano e negli sputi dei nemici. Non sente più nulla. Prussia è sparito, lo ha abbandonato anche lui.

Il dolore invece non lo smette di pulsargli le orecchie. Trema, ancora vivo. Che morte crudele. Si chiede dove sia Liet e perché l’abbia lasciato lì a morire da solo. La sua bocca sputa garbugli di sangue nero. Sta soffocando. Sta morendo.

 

 

 

 

 

La forchetta s’impunta con le sue cinque gambe di ferro su quel frammento di petto scoperto. Alza di poco gli occhi: da sotto le palpebre dell’addormentato si stanno agitando delle iridi irrequiete, le sopracciglia si dimenano tra loro anch’esse. Abbassa lo sguardo sulla forchetta ancora premuta sulla carne fredda. Non ci pensa nemmeno, preso dal capriccio. Tiene ferma la posata col polpastrello dell’indice e preme. Parte delle punte scompaiono sotto la pelle grigiastra. Alza gli occhi, nessuna reazione insolita, ha ancora il sonno agitato. Con lo sguardo concentrato sul volto tra gli stracci, continua a premere imperterrito il ferro acuminato. Le gambe affondano infine nella carne.

Finalmente una reazione: il volto si contrae, si sono aperte anche le labbra, esce un gemito basso. È troppo incomprensibile per lui. Il capriccio lo stravolge, gli scappa anche il sorriso. Impugna l’utensile come un coltello e affonda. Le gambe di ferro si immergono nel petto come una fetta di torta. Polonia, scosso dall’incubo e dal dolore, urla e scalcia i suoi stracci. Si alza il torso, poggia le mani in mezzo al petto, il suo urlo riecheggia ancora nella stanza, nonostante il tempo passato. Si agita come si agitava nel terreno sporco e sanguineo. Si stringe il torace e singhiozza, chiuso in un bozzolo. Il sosia vede solo il cerchio grigio della sua testa imperfetta. Guarda annoiato l’altro capo della stanza: la forchetta è saltata addosso ad una camicia e non ha nemmeno tintinnato sul muro. Sospira, amareggiato che il suo scherzo sia già finito, ma divertito dalla reazione del ragazzo.

“Ma che stavi facendo?!” non si rende conto di urlare. Abbassa lo sguardo sul petto. Apre freneticamente i due bottoni la camicia: ci sono cinque buchi cicatrizzati sulla sua pelle. Sembrano morsi di serpe. Sono già uscite gocce di sangue. Non smettono di ruzzolare fino alla sua pancia. Sale il panico. S’infila un dito sporco in bocca e incomincia a puntellare le ferite. Bruciano un poco e il sangue continua a scorrere e a macchiargli la camicia a righe. Il sosia si alza da terra, si scrolla della terra invisibile dalle ginocchia, congiunge le mani e si stiracchia le dita, senza fare alcun suono.

“Dai…! Mica ti ho fatto tanto male” a Polonia pizzicano le orecchie. Sentire la sua voce dalle labbra di un estraneo gli è ancora insolito. E fastidioso. E spaventoso. Fosse un cucciolo abbasserebbe le orecchie.

“Sei scemo o cosa?! Mi potevi uccidere!” geme di rimando. Guarda ancora in basso. I tagli non lacrimano più sangue, ma incominciano a bruciare. Sono rossicci, forse potrebbero anche infettarsi. Questa prospettiva lo fa deglutire. Non esisterebbe nulla di peggio. Gli occhiacci smeraldini lo squadrano come un gattaccio squadra un topolino sperduto nella campagna.

“Tante storie per dei taglietti. Se ne andranno tipo subitissimo” sbuffa con una certezza disinteressata, il suo gemello. Polonia capisce il suo disinteresse per lui e deglutisce. I suoi occhi grigi guardano da capo a piedi il sosia. Gli osserva le mani e possibili fenditure nel mantello. Si rassicura un po’: non ha nulla che potrebbe fargli del male. La sua copia capisce perché sia così sottomesso, ma non se ne rallegra “Piuttosto, guarda che ti hanno portato stamattina” dice con una nuova freddezza d’animo, facendo scivolare il piede di lato.

Polonia non sapeva cosa fare, allora ha arricchito la sua tana. Ha organizzato al meglio le camicie e i pantaloni strappati. Ne ha ammucchiati alcuni per creare una sorta di cuscino, un materasso sporco e una coperta inefficace. Si sta accorgendo di quanto stia diventando magro, persino le sue ossa di notte li fanno male: le giunture della spina dorsale si fanno sentire sotto la pelle. Dovette ammucchiare i pantaloni sotto la sua schiena per dormire. Ha circondato il materasso con le sedie, quelle che non servivano per creare il ponte per la finestrella, e ha realizzato un muro tra lui e il resto della stanza. Un muro lontano da chiunque entrasse lì quando dormiva. Un muro per tenere lontano il sosia.

Quello è sparito dalla sua vista, il mantello lo ha seguito come un secondo strato di pelle. Il porpora gli fa stringere le palpebre, come da miope. Polonia aguzza la vista indebolita: vede una ciotola ai piedi della spessa porta di ferro. Comprende, gli si arresta il cuore. I denti scattano fuori dalle labbra, gli occhi si fanno piccoli, il fiato corto. Si alza e balza sul suo materasso, come se avesse altra energia in corpo. Spinge il letto coi piedi scalzi, fa volare in aria una camicia e un copricapo a righe. Le sedie vengono scaraventate a terra, si creano lividi sulle gambe senza carne. Polonia si getta sulle scale, annaspa senza aria e gattona affaticato, il sosia alza un sopracciglio, come indignato e incredulo. Guarda dentro la ciotola: c’è della zuppa. Fa scattare le dita addosso al legno. Sembrano artigli, le sue unghie. Alza la ciotola e ingoia. Non sente nemmeno il sapore, non sente i pezzi di cibo scivolargli in gola, non sente quanto sia calda. Singhiozza, gli va di traverso del brodo, tossisce con impazienza. Lo stomaco vuole nutrirsi. Con la tosse incontrollata, ricomincia ad inghiottire acqua e altro di strano. Il suo gemello si stringe nel mantello, la tunica violetta scompare nel porpora. Osserva le unghie lunghe con lo sporco sotto, i piedi scalzi e imbrattati di terra e polvere, la camicia e i pantaloni ormai tinti di brodaglia inodore. Storce la bocca: è disgustoso. Polonia finisce la zuppa. Si lecca le labbra, si succhia le dita.

“Hey, hey, non è che tipo gli spunteranno le gambe e se ne scapperà via, Po” annuisce fra sé il gemello, strappandosi via l’espressione infastidita. Polonia è ancora affamato. Sente il ventre scaldato, ma lo stomaco ancora insoddisfatto. Guarda la ciotola, un guizzo di delusione lo prende al cuore. Credeva che fosse più grande e colma. La osserva ancora, non c’è rimasto più niente. Si agita sullo scalino, controllo che non abbiano lasciato altro. Nulla. Abbassa lo sguardo, abbattuto “Se ti metti a piangere io me ne vado di corsa, frignone” mormore il sosia, acquattato vicino al suo orecchio. Polonia credeva che fosse ancora di fronte a lui, per questo sobbalza. Sbatte l’osso sacro contro lo spigolo dello scalino. Ingoia il dolore, orgoglioso. Il suo gemello vuole solo vederlo distrutto, sa bene. Non vuole dargliela vinta. A quello si allunga il ghigno e mostra i denti. Gli legge ancora nel pensiero, sa che si è fatto male. Ridacchia, divertito. Polonia si nasconde nelle spalle. Lui è prepotente, veramente prepotente. Batte le palpebre, quello scompare. Scompare anche il freddo nella stanza. Lo fa sempre. Batte ancora le palpebre e una luce abbaglia il suo lui più giovane, ritornato nella camera. Chino, di spalle, afferra qualcosa dalla sua cuccia completamente rovinata. Polonia ha una fitta al cuore: quello tiene tra due dita, scettico e schifato, il pallone che negli ultimi giorni ha provato a riparare. Gli batte forte il cuore.

“Non toccarlo!” non lo ascolta, continua a rigirarselo fra le mani. Polonia si alza di scatto, fa cadere la ciotola a terra. Continua a battergli il cuore come un tamburo. Non sa che aspettarsi. Cautamente scende le scale. Non sa che fare. Gli occhi s’impuntano sul pallone come se stesse per sparire del tutto. Il sosia si volta. Inclina gli occhi come un gatto spietato. Allunga il sorriso. Polonia rimane congelato coi piedi immobili a terra.

“E tu hai perso tutto questo tempo a riparare questo pallone totalmente inutile?” alza gli occhi al cielo, sbuffa, col sorriso da bambino viziato “Lo sai che è tipo una cosa totalmente inutile, vero?” Polonia deglutisce, sa che farà qualcosa di orribile.

“Non è inutile. Ora ridammi la palla!” non si muove dal suo posto, sa che è inutile. Il sosia può svanire e ricomparire alle sue spalle con la facilità di uno schiocco di dita. Sa che, anche da scomparso, continuerà a farsi sentire la sua voce. E a prendersi gioco dei suoi pensieri, lui legge i suoi pensieri. A sussurrargli la notte di non dormire, quando è stanco morto. A far saltare in aria la sua cuccia e tutte le sedie. Lo fa sempre, si annoia anche lui e ha il potere di farlo sentire male. Ha il potere di ricordargli quanto sia inutile ora da morto.

“Uh, se ci tieni…” la palla per metà riparata cade per terra. Polonia trattiene il respiro, continua ad osservarla, come se brillasse di luce propria. Dimentica di non doverlo fare, che così non farà altro che divertirlo. Ma Polonia dimentica anche che non vuole dargliela vinta. Si è stufato di essere nemico di se stesso. Il cuoio bruciato, ricucito con spago di pantaloni, forato con un chiodo sottile strappato da una sedia sembra veramente insignificante per il gemello. Quello ha un’illuminazione negli occhi. Alza lo sguardo su Polonia. Occhio spavaldo contro occhio terrorizzato. Il sosia alza il piede, sta per calciare “Prendila, allora!”

“Fermo!” Polonia chiude gli occhi e si accuccia sulle ginocchia, stringendo la testa con le braccia ossute. Immagina il colpo prepotente su di sé, con quegli stivali di cuoio e ha un attacco di codardia. Sente sulla sua testa la palla tagliare l’aria. Sente come uno scoppio, un palloncino esploso. Si alza da lì, con la paura nel cuore. La palla si è spaccata a metà, non è più un taglio netto. Si è completamente distrutta. A Polonia trema l’anima nel fondo della carne. Guarda i resti del pallone come se fossero le ossa di un neonato. La sua speranza si è spezzata in due come il cuoio. Non ha la forza nemmeno per voltarsi.

“Beh, questa palla ha fatto proprio schifo” sente il sosia stiracchiarsi ancora. E’ proprio un gattaccio. Polonia ha l’anima crepata, si sente svuotato di tutti i suoi sforzi. Si volta con gli occhi fuori dalle orbite e il collo spezzato.

Il sosia è sparito. L’ha lasciato solo, con una palla da rattoppare daccapo.

Gli viene da piangere. È frustrato e triste. Stringe forte per palpebre, non vuole far cadere nemmeno una lacrima. Inizia a singhiozzare. Scivola a terra, nell’angolo di questo buco. Si appallottola, con le ginocchia al petto e la testa sui polsi. Guarda i sei numeri stampati nella sua carne e piange. Guarda il nastro di Liet e lo porta alle labbra.

Continua a piangere e nessuno lo consola.

 

 

 

 

 

Gli bruciano le orecchie. È una cosa stupida, ma è veramente così. Non può pensare ad altro che fuoco dentro al padiglione destro. Fa più male di quello sinistro, che man a mano sembra sbloccarsi dal suo dolore. Si sta affievolendo il bruciore anche nell’orecchio destro. Muove i polpastrelli delle dita, le stiracchia sul terreno dov’è sbattuto. O crede di essere stato sbattuto, non ricorda e basta. Sente freddo, sente morbido. Sente neve. La stringe forte tra le falangi insensibili. Gli gira la testa, per un attimo ha creduto che il terreno si muovesse. O forse si muove veramente e lui non ne è certo. Il bruciore alle orecchie svanisce del tutto. Ora sente, sente delle ginocchia schioccare, piegate verso terra. Sente cuoio e pelliccia pesante piegarsi insieme ad un intero uomo. A Polonia si sbloccano le orecchie, ascolta.

“Sembri un ragazzo molto intelligente. Ti farò lavorare a casa mia” sente un sobbalzo accanto a sé. Ma non sa nemmeno chi ci sia accanto a sé “Hai perso, quindi non è che tu abbia una scelta”.

Polonia spalanca gli occhi, senza nemmeno guardare la terra che scrutano i suoi occhi. Si sente sveglio e attivo, come se si fosse bagnato il viso con acqua ghiacciata. Ricorda la neve, la pancia strappata ma indolore, i due uomini che ha ucciso per Liet… Liet.

L’occhio verde scatta, guarda la mano da gigante di Russia scendere sulle spalle di Liet. Polonia si scuote, ha freddo e paura. Dimentica il dolore alle orecchie e allo stomaco aperto. Dimentica le mani congelate, tutt’uno con la neve. Dimentica che questo è solo un sogno, come gli altri che ha vissuto. Russia si sta alzando, ha le mani sotto le ascelle di Lituania. Polonia impunta il ginocchio per terra. Scatta in avanti, crolla addosso alla schiena dell’amico, ancora sollevato. Russia forse non se l’aspettava o forse non aveva la presa ferrea, ma entrambi scivolano di nuovo per terra. Polonia cade addosso a Liet. Non ricorda la pancia aperta e il suo sangue sul compagno. Alza la testa e incontra gli occhi sbigottiti di Russia. Prende un respiro profondo, non ha più aria nei polmoni.

“Non portarmelo via!” grida, senza nemmeno rendersene conto. Ma a Polonia ora non importa. I capelli castani di Liet non si sono mossi. Polonia prende un'altra sorsata d’aria gelida. Il gigante lo osserva con occhi sbigottiti “Liet è importante per me e tu lo sai benissimo!” Russia non ha espressione. La sciarpa si muove col vento. Lo guarda come se non capisse. È indecifrabile, come Polonia lo ha sempre ricordato “Tu non hai bisogno di lui, io si! Liet… Liet” ingoia altra aria, dirlo è difficile “Liet è l’unica persona che ho. Io non ce la faccio a vivere senza di lui. Mi capisci, Russia?!” la sua voce ha fatto eco nel bianco dei boschi circostanti. Russia si scongela, rilassa le spalle. Lo guarda ancora senza espressione “Tu hai già le tue sorelle, hai Estonia e Lettonia e se potessi ti prenderesti totalmente tutto il mondo! Ma Liet lascialo a me. Io ho bisogno di lui” Io non vivo senza di lui, vorrebbe aggiungere, ma gli si è bloccata la gola.

Russia cambia piega degli occhi. Non sono tristi, non sono infuriati. Non sono indifferenti. Il vento agita la sua sciarpa e il giaccone scuro. Polonia non batte ciglio. Prende forti boccate d’aria, non vuole piangere. Il gigante bianco chiude per qualche secondo gli occhi, gli riapre con qualcosa che somiglia alla noia, ma non la identifica come noia. Si china di nuovo, fa schioccare di nuovo il ginocchio sotto al suo peso. Polonia incrocia gli occhi coi suoi. Sente le vertigini, sente la paura. Si specchia nelle biglie amare. È un bambino di fronte ad un adulto. La sua mano smisurata si poggia al collo di Polonia. Capisce cosa vuole fare. Geme, alza le mani, si sente scivolare lontano dalla schiena dell’amico. La pancia ritorna a sfiorare la neve sporca. Aggrappa le unghie alla giacca di Russia, stringe forte. Ma è troppo forte

“Polonia, lascialo andare” dice, con una voce che non ricordava sua.

Si apre una crepa nel suo cuore.

Alza Lituania, come se pesasse meno di un grammo di polvere. Liet poggia i piedi a terra. Non ha fatto resistenza. Russia lo prende per la mano e non per il polso, Polonia la vede stringere con un sentimento che non ha mai riconosciuto in lui. Si volta, tira piano il ragazzo. Liet cammina facilmente, senza pensare alla gamba spezzata. Polonia ricorda chiaramente che avesse una gamba spezzata. Russia scompare nella bufera. Liet scompare insieme a lui. Lo abbandonano nella neve, ferito come un miserabile. Aguzza gli occhi, ma il suo amico non c’è più. Non vede più nemmeno le sue dita nella mano gigantesca di Russia.

E gli si spacca il cuore.

Liet non lo ha guardato nemmeno per un secondo.

 

 

 

 

 

Smette di tremare e piangere, anche se nel silenzio. Una mano affonda nella pelle del suo cranio. Non ricorda nemmeno di non avere un capello in testa. Le dita femminili non toccano la sua ferita, passano sopra le orecchie, carezzano il cranio sterile. Si quieta d’un colpo, il corpo diventa morbido, non s’irrigidisce più. Si concentra sulle dita morbide e dolci. Si sente rilassato.

Respira con le labbra, rimane ancora immobile. Non riesce ad aprire gli occhi e non vorrebbe nemmeno farlo. La fanciulla se ne andrà, se si sveglierà. La sua mano di giovane donna è familiare, il respiro sulla pelle del suo collo è caldo. La carezza è sempre più profonda. Polonia si rilassa del tutto. Per poco non aveva sobbalzato: le labbra morbide si sono poggiate poco sopra il suo orecchio. Sente un calore nel petto e nello stomaco, come innamorato. La vuole, sa che la vuole.

La mano lo abbandona dolcemente. Il respiro non si fa più sentire. Sta per andarsene. Polonia non apre gli occhi, non vuole guardarle il volto e pentirsene. Nel vuoto e nel silenzio fa scattare la mano poco sopra la sua testa. La fanciulla sobbalza: le ha stretto il polso. Respira con affanno, non vuole che quel calore se ne vada. La strattona all’indietro. Vuole che cada nello stesso pantano dov’è ora, vuole che non se ne andrà mai più. La giovanissima cade nei suoi stracci. Le stringe la carne con l’altra mano. Non vuole che provi a scappare mai più.

Non sente più carne, nemmeno più calore. Perplesso, apre gli occhi e vede solo il buio della sua prigione. La fanciulla è stato solo un sogno.

 

 

 

 

 

Sì! De sibo!

“Fantastico, hai capito tutto!” sospira sollevato Polonia, ancora con gli occhi chiusi per il sole come un gatto esausto. Alla bambina sembra ancora un felino raggrinzito, per questo ridacchia. Il sosia guarda la schiena magra del suo gemello, senza dire una parola. Osserva la bambina e non ha espressione. Polonia fa uscire dalla finestrella la palla riparata. Alla bambina brillano gli occhi. Dice una parola della sua lingua che non capisce.

Sì, de sibo, de sibo!” comprende. Allunga le mani verso il buio. Vuole la palla. Polonia da sotto le palpebre vede la manina magra avvicinarsi. È rapido. Fa scomparire la palla. La bambina rimane come ferma e incredula. Sente il suo pugno minuto sbattere contro terra. Ripete quella parola, ripete altre parole che non comprende. Si sta agitando e non capisce perché non può avere indietro il suo gioco. Polonia, al posto della palla, mostra la sua mano. Abbassa il mignolo e l’anulare. La bambina osserva le tre dita, non comprendendo.

“Devi portarmi tre de sibo. Tre. Capito?” la bambina si guarda le mani, si conta le dita. Mostra anche lei il pollice, l’indice e il medio.

Thè?” Polonia alza la voce.

“No, tre! Tre de sibo! Uno, due, tre!”

Tre?” dice correttamente, con un po’ di tremore nella voce, come se stesse chiedendo oro ispanico solo per delle ciotole di zuppa. Polonia annuisce, ancora con gli occhi chiusi. In un'altra mano mostra la ciotola di legno che ha conservato in questi giorni. Il nastro di Liet continua a stringergli il polso, i numeri bruciano sotto al sole. Spinge la ciotola verso la piccola. Lei la afferra esitante e se la rigira. Capisce, ma non crede che sia vero quello che le stia chiedendo. Polonia sospira con la poco pazienza che ha in corpo. Ha fame, è il suo stomaco a parlare.

“Tre de sibo, dopo ti darò la palla. Capisci?” sibila, come infuriato. La bambina si stringe la ciotola al petto. Trema, ma vuole la palla e vuole far felici anche i suoi amici.

Tre de sibo, poi palla” lo stomaco ruggisce.

“Sì, ora vai! Muoviti!” sbatte i polsi al terreno. La piccola sobbalza sulle ginocchia e si rialza. Da sotto le palpebre chiuse Polonia la vede correre via, con la sua ciotola. La pancia smette di irritarsi e attende. Spera che possa portargli subito qualcosa da mettere sotto i denti. Si accorge che il nastro di Liet si stia sporcando nel fango, allora ritira la mano. Si rintana dentro il buco. Guarda preoccupato il ricordo del suo amico. Non è niente di grave, ma questa polvere non c’era prima. Ci soffia addosso, strofina le dita sulla seta nera.

“Sei proprio un bastardo, Po” ignora il sosia, ancora lì, con le braccia incrociate. Continua a soffiare. La polvere se ne sta andando “Ma lo sai quanto è difficile per lei trovare un po’ di zuppa?” lo stomaco di Polonia sbuffa per lui.

“Sta’ zitto, tu! Le sarà totalmente facile. Io invece sto morendo di fame e ne ho bisogno tipo quasi più di lei!” ruggisce la pancia e continua a sfregare il nastro sporco, come se fosse la cosa più importante di questo mondo.

Il sosia guarda brevemente il pallone, caduto per terra e ignorato da entrambi. Scuote la testa, indignato. Si volta e scompare, senza che nemmeno Polonia lo veda.

De sibo!

“Bravissima, ce l’hai totalmente fatta!”

 

 

 

 

 

 

“Hey, mister Po, anche oggi niente cibo!” trilla la vocina del suo sosia. La fame ha trasformato le sue orecchie acute e la sua vista sottile. Vede a malapena dalla finestrella. Si è arrampicato anche oggi quassù. La luce gli fa ancora male, forse anche più di prima, ma sente di aver bisogno di raggi di sole. Il buio alle sue spalle lo rende ancora più cieco, la fame lo rende ancora più testardo e sgarbato. Non sa quante volte ha urlato malamente al suo gemello. È ancora egoista, ha ancora una voce irritante, è…crudele. Lo ignora, non gli importa di quel che ha detto. Se l’aspettava, in verità. Se negli ultimi due giorni non hanno fatto scendere niente, allora anche oggi non faranno lo stesso. Il sosia lo osserva in silenzio, sa tutto di lui ormai, sa anche che lo sta ignorando. Sente il suo stivale premere delicatamente sul pavimento.

“Polska, posso chiederti una cosa?” Polonia irrigidisce i muscoli, la sua voce agrodolce lo disturba. Lo vorrà insultare come al solito e prenderlo in giro. Oppure si lamenterà del fatto che abbia chiesto da mangiare ad una bambina “Non ti prendo in giro, sono serissimo ora” legge nei suoi pensieri. Anche solo il pensiero che possa capire cosa pensi gli dà fastidio. Ma Polonia si è abituato anche a questo.

“Cosa?” sbotta, con la voce affamata, ma con più calma. Guarda ancora in mezzo al bianco, senza immergerci la testa, con le mani fuori dalla finestrella, a prendere aria e raggi caldi di sole. Il sosia non si muove, ma a Polonia è sembrato di sentire un respiro tiepido sulle sue caviglie scoperte.

“Quand’è stata l’ultima volta in cui hai abbracciato Lituania?”

Polonia non sbatte nemmeno le palpebre. Parte di sé deve ancora assorbire completamente la domanda. Il gemello sa la risposta, non doveva neanche chiedergliela. Eppure non gli è sembrata una crudeltà. Polonia ha come un dardo di ghiaccio conficcato nel cuore. Congela tutto di lui, anche le mani scaldate al sole. Socchiude la bocca, vorrebbe rispondere, ma la risposta gli sfugge dai denti. Non ha una risposta. Non sa la risposta.

“Non te lo ricordi, vero?” traduce i suoi pensieri. Polonia chiude la bocca, non sa nemmeno che aspetto abbiano i suoi occhi o se siano lucidi. Non ha più pudore per queste cose. Deglutisce aria fredda, dimentica di sbattere le palpebre. Il dardo è ancora conficcato nel cuore. Ricorda gli incubi che l’hanno assorbito in queste notti e ricordargli è uno dei dolori peggiori mai incontrati.

“Prima che ci separassero lo facevo tutti i giorni…” la sua voce singhiozza, per fortuna i suoi occhi sono ancora opachi. Si concentra su questa domanda come se la risposta sia essenziale in questo momento. Il suo sosia si è avvicinato a lui, come per magia, sulla sedia dove ora si tira su per guardare fuori. Il suo respiro è diventato caldo. Non lo tocca e in sé Polonia lo ringrazia per questo. Odia essere toccato da lui. Odia che il gemello possa toccarlo, mentre invece lui no.

“Non dovresti più pensare a lui” il sosia sospira “La vita è per i vivi, Polska” Polonia stringe i pugni, non per rabbia. Sente il dardo rigirarsi nella carne. Il sosia gli guarda il polso, lui fa lo stesso. Il nastro di Liet è ancora stretto alla sua carne. Vorrebbe portarselo al naso e alle labbra, ma reprime l’istinto. Non è il momento per essere consolato da un brandello di seta “Potresti vivere un’altra vita qui” Polonia batte le palpebre “Magari non sarà come la vorresti… di sicuro non sarà bella come la tua di prima… ma ti sentiresti molto meglio con te stesso”.

Polonia batte ancora le palpebre. D’istinto guarda il nastro di Liet al suo polso. Un altro istinto lo fa voltare verso il sosia. Non è mai stato così. Il doppione lo guarda grave e addolorato. Ha occhi scuri ed emozionati. Parte della sua anima si smuove, come se sentisse quel che prova il suo gemello. Questo non è mai successo. Lo guarda come se non capisse quel che stia dicendo. Scuote la testa, non capendo, non volendo capire.

“Tu sei totalmente fuori” mormora. Il sosia lo sente e il suo volto muta completamente. Polonia stringe i pugni, scopre i denti. La fame e la rabbia lo fanno furente “Come dovrei stare bene qui?! Mi stanno uccidendo, manco fossi tipo ancora vivo! Mi hanno rinchiuso qui, mi hanno bruciato la pelle come un animale, mi hanno tolto i vestiti e mi hanno messo questi qua! Sembro… faccio schifo, idiota!” stringe i denti, non vuole urlare troppo. La sua voce è come quella del sosia e detesta anche questa. Il suo doppione alza le sopracciglia “Questo… questo è l’Inferno e tu lo sai! Come dovrei viverci qui, secondo te?!”.

Il gemello lo squadra. Squadra la sua cuccia di stracci alle sue spalle, squadra i numeri marchiati sul suo braccio, la sua testa rasata affatto tonda e la sua uniforme carceraria. Smette di fissarlo e allunga il sorriso. Mostra anche lui i denti. È ritornato cattivo. I suoi occhi diventano sottili, il suo sorriso sembra quello disumano di Russia.

“Sì, è vero Po, questo è l’Inferno” per un attimo Polonia ha visto occhi violacei e sorriso infantile ma ugualmente cinico. Riconosciuto un demonio, deglutisce. Il dardo cade dalla sua carne e viene dimenticato. Il sosia si volta, ancora canzonatorio. Liberano entrambi un sospiro, ma entrambi completamente diversi “Allora goditelo, questo Inferno. Il bello non è nemmeno iniziato” e congiunge le mani dietro al mantello.

Polonia sbatte le palpebre. Il sosia è di nuovo sparito.

 

 

 

 

 

 

 

AVVISO!

Buongiorno o buonasera a tutti i miei lettori e recensori. Volevo scrivere questo annuncio per augurarvi delle ottime vacanze e per avvertirvi che questo sarà l’ultimo capitolo della Fenice prima dell’inizio dei temutissimi esami di maturità.

Immagino, che qualcuno abbia avuto un colpo nel leggere ‘ultimo capitolo’, eh? (tsk, magari fosse l’ultimo…). Lo studio in questi giorni sta aumentando a dismisura e presto dovrò completare la tesina che dovrò portare agli orali.

Solo verso la metà di luglio incomincerò di nuovo a scrivere. Non aspettatevi immediati aggiornamenti. Queste settimane saranno tragiche per me. Conoscendo la mia ansia mi metterò a piangere durante gli orali (che fifona che sono…).

Dunque, non temete. Presto o tardi avrete nuovi capitoli e conoscerete anche i risultati del mio ultimo test di coraggio al liceo classico (sempre se non vieni bocciata, L0g1…).

Concludo augurando a tutti voi delle bellissime vacanze estive e di divertirvi il più che potete, anche per la poveraccia che sta scrivendo questo papiro che è la Fenice d’Argento.

Arrivederci a tutti voi!

L0g1

 

  
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