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Autore: _Frame_    04/06/2017    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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128. Lo studioso e Il fannullone

 

 

6 aprile 1941,

XVIII Corpo di Montagna, Seconda Divisione Panzer

Pressi della Linea Metaxas, Confine Bulgaro-Greco

 

Romania tese l’indice verso l’ovale di plastica di uno dei quadranti che formavano il pannello di comando all’interno del Panzer I. Vi batté l’unghia sopra. Tic, tic. La lancetta emise una leggera oscillazione verso destra, vibrò, e tornò stabile sui ventuno chilometri orari. Il rombo del motore trasmesso dal sedile del guidatore gli faceva tremare le ossa e lo stomaco, gli scossoni dei cingoli che macinavano la strada sterrata scuotevano l’intero abitacolo, il mazzo di tre chiavi incastrato nel cruscotto produceva un ritmico tintinnio a ogni sobbalzo del mezzo. Romania tolse la mano dai comandi, la strinse sulla leva sinistra accanto alla sua coscia, fece pressione con le dita e la tirò leggermente verso l’alto. Il Panzer deviò la traiettoria, si raddrizzò mettendosi in linea dietro gli altri carri, i furgoni e le motociclette che aprivano la via davanti a lui. Il carro armato rigettò un soffio nero dalla tubazione di scarico, e continuò la sua marcia tremante.

Romania staccò la mano dalla leva di manovra destra, si stropicciò gli occhi gonfi e pesanti di sonno, strofinandosi per bene agli angoli delle palpebre per raschiare via le lacrimucce che erano fiorite dalle ciglia. Scosse il capo e sciolse il groviglio di vertigini che teneva vivo il senso di nausea dato dalle oscillazioni del Panzer e dal suo pungente e stomachevole odore di carburante e di olio per ingranaggi. Romania tornò a stringere la leva, senza premerci sopra per spostarla, e socchiuse le palpebre, abbandonandosi alla soffice nebbiolina di stanchezza che gli ovattava la testa. Reclinò di poco il capo in avanti, il respiro rallentò, la vista del pannello si fece offuscata, i suoni attutiti dalle cuffie erano sempre più distanti, e le vibrazioni fra le gambe e sotto le cosce sempre più minime. Un delizioso senso di tepore lo avvolse come l’abbraccio di una coperta di lana al profumo di camomilla.

Uno scossone fece sobbalzare l’abitacolo.

Romania spalancò gli occhi infossati nel nero, sussultò mordendosi il labbro, il cuore gli schizzò in gola, e il cervello si riaccese scaricandogli un pizzico elettrico alla base del collo. Si diede un piccolo schiaffo alla guancia e scosse la testa.

Che sonno, maledizione.

Romania si sporse di lato, accostò il viso a uno dei portelli scoperchiati che davano sulla strada, e finì investito da una fresca zaffata di aria notturna. Il freddo gli punse la pelle, l’odore di erba e di alberi bagnati gli diede prurito al naso, le luci degli altri mezzi che brillavano nel blu si offuscarono per la patina di sonno che gli era comunque rimasta incollata agli occhi.

Romania si strofinò di nuovo il viso, passò la mano in mezzo ai capelli e grattò un’orecchia sotto il padiglione delle cuffie. Allentò la pressione del piede sul pedale dell’acceleratore, e tese un braccio dietro di sé. La mano raggiunse la gamba di Bulgaria, le dita si appesero alla stoffa dei pantaloni e diedero due strattoncini. “Ohi.” Buttò la testa all’indietro per cercare il suo sguardo e si ritrovò con una guancia a sfiorargli il ginocchio. Gli diede due schiaffetti sul polpaccio, alzò la voce. “Svegliati e dammi il cambio per un paio di ore, altrimenti crollo sui comandi.”

Il corpo di Bulgaria fece uno scatto, come morso da un pungolo elettrico. Il manuale aperto che gli copriva il viso addormentato sobbalzò e gli ricadde sul naso emettendo un fruscio cartaceo. Bulgaria sollevò il libretto dalla faccia – sulla copertina era disegnato un MG13 smontato delle componenti – e le sue cuffie scivolarono sul collo. “Uh.” Sbatacchiò tre volte le palpebre gonfie e cerchiate di nero, mise a fuoco l’abitacolo, tornò a sollevare la punta del naso e la sua testa sfiorò il tettuccio del carro. “Eh? Cosa? Dove?” Si tolse il manuale dalla faccia e lo appoggiò sul ginocchio, si stropicciò anche lui gli occhi e sbadigliò a fondo. “Ci attaccano?” Si diede un’altra stropicciata alla faccia e si rinfilò il cerchietto delle cuffie attorno alla testa.

Romania ritirò il braccio e tornò a stringere anche la leva destra. Scosse il capo. “No, non ci attaccano, siamo ancora in avanscoperta.” Tornò a sbirciare fuori dal carro e due del battaglione di motociclisti gli sfrecciarono accanto soffiandogli il vento fra i capelli. Romania sollevò la punta del piede dall’acceleratore, scese sui quindici chilometri orari abbassando le vibrazioni del mezzo, e tirò leggermente la leva destra per portarsi più al centro della strada sterrata. Una vertigine di sonno tornò a martellargli il cranio e a far salire un conato di nausea. Romania si diede un altro schiaffo alla faccia. “Ma guida tu un paio di ore,” sbiascicò. La lingua era molle e pesante come un impasto crudo. “Non riesco più a tenere gli occhi aperti.”

Bulgaria sbadigliò di nuovo. “Oh, eddai, sei un vampiro, o no?” Accavallò le gambe, tornò a tuffare il viso fra le pagine del manuale, e allungò un piede per dargli una piccola spintarella alla spalla. “I vampiri vivono di notte.”

Romania fece roteare lo sguardo. “Sì, e infatti sono appena passate le cinque di mattino. I vampiri vanno a nanna a quest’ora.”

Bulgaria sbuffò, e un’altra ondata di stanchezza gli aggredì i muscoli e il respiro. “Non posso guidare,” gli rispose. Diede una scrollata al manualetto della mitragliatrice e sfogliò una pagina, anche se Romania non poteva sentire il fruscio della carta per via delle cuffie. “Sto studiando.”

Romania fece schioccare la lingua. “Potevi farlo prima.” Gli sembrò di essere di nuovo seduto sul divanetto a Berlino, con i fogli di appunti sparsi fra le gambe incrociate, e non appollaiato sul sedile del guidatore di un Panzer I. Gli tornò in mente il tono di scherno di Bulgaria, “Studia, studia”, e un minuscolo ghigno gli affilò le punte dei canini incurvandogli le labbra. “Studia, studia,” lo scimmiottò.

Bulgaria abbassò di colpo il manuale. “Ehi,” esclamò, “non era previsto che partissimo così presto. Avrei ripassato almeno tre giorni prima, lo giuro. Okay, forse due giorni prima...” Sfogliò un’altra pagina, si rimise con le spalle reclinate sul sedile, e annuì a se stesso. “Ma lo avrei fatto di sicuro.”

Romania scosse la testa, pigiò lentamente il pedale dell’acceleratore e la stanghetta nel quadrante toccò i trenta chilometri orari. “Be’, vieni qua e studia mentre guidi, tanto devi solo fare attenzione ai pedali. La strada è tutta dritta.” Si tenne appeso alle due leve di manovra e si sporse di nuovo a sbirciare la strada sterrata che si srotolava nei campi. La grigia foschia notturna brillava come un manto d’argento steso sull’erba colorata di un intenso blu scuro, come il cielo. Romania diede un’altra annusata a quell’aria straniera che odorava di piante selvatiche e ferro, arricciò la punta del naso. “Non siamo ancora alla Metaxas, e per ora sembra tutto tranquillo.”

“Per ora,” precisò Bulgaria. “Ma abbiamo appena passato il confine, da adesso in poi è tutta zona rossa e non possiamo scambiarci le posizioni proprio ora, sarebbe un rischio.”

“Senti, guida tu e basta.” Romania si girò verso di lui, e nella penombra il suo sguardo sembrò ancora più cinereo e sciolto di sonno, ma incorniciato da una ruga di stizza. “Se succedesse qualcosa, allora svegliami e resterò io alla mitragliatrice.” Gli occhi volarono sul disegno della MG13 raffigurata sulla copertina del manuale. Si accesero in una piccola scintilla di sfida. “Io almeno so come si usa.”

Bulgaria si strinse nelle spalle, sollevò un sorrisetto sdrammatizzante e indifferente. “Naah, perché dovresti stare tu al mitra?” Il sorrisetto si trasformò in un ghigno da sbruffone. “Sei così bravo a guidare.”

Romania fece roteare lo sguardo, gli occhi gli caddero di nuovo fuori dallo spioncino del Panzer e individuarono una fossetta nel terreno riempita di acqua scura e fangosa su cui si specchiavano i ritagli di cielo blu visibili fra le nuvole. Due carri ci passarono sopra, schizzarono il pantano sullo sterrato e sulle rocce, e proseguirono. Romania si aggrappò alle due leve di manovra, preparò già il peso del piede sull’acceleratore, e indurì i muscoli di braccia e gambe. “Reggiti,” ordinò a Bulgaria.

Bulgaria lasciò giacere fra le gambe il manuale ancora aperto, tirò su le braccia tenendo i gomiti piegati sui fianchi e si aggrappò alle sporgenze del tettuccio. Si preparò anche lui al contraccolpo.

Il Panzer affondò con il cingolo sinistro dentro la pozza. Romania fece pressione con la leva, diede una forte sgasata, la ruota di rinvio accelerò spruzzando quell’acqua fangosa addosso alla corazza del carro, e il mezzo riemerse sullo sterrato. Il Panzer borbottò, soffiò due nuvolette nere, e continuò la sua traiettoria.

Bulgaria sospirò di sollievo. Staccò le mani dal tettuccio, riprese il piccolo manuale, lo chiuse, e si piegò a sistemarlo nella sua sacca. “Sai una cosa?” Tornò a poggiare la schiena al seggiolino e intrecciò le mani dietro la nuca. Il suo piede accavallato dondolò sfiorando il collo di Romania. “Ti preoccupi troppo.”

“Come fai a non essere preoccupato tu?” chiese Romania. “Come fai a prenderla così comoda?” Sollevò il piede dall’acceleratore, rallentò, fece una leggera pressione su entrambe le leve di comando, e spostò il peso del corpo sullo schienale. “Cosa credi,” reclinò il capo all’indietro, “che i greci verranno a bussare alla nostra porta per chiederci il permesso di cominciare ad attaccarci?”

Bulgaria alzò un indice al soffitto e schiuse le labbra per protestare.

Qualcosa bussò alla corazza del Panzer. Tre colpi di seguito che emisero un secco e forte clangore metallico.

Bulgaria e Romania sgranarono gli occhi, smisero di respirare, si lanciarono a vicenda due sguardi di sconcerto che sciolsero tutta la stanchezza dai loro volti. Romania infilò una mano sotto la cuffia e si sturò un orecchio. Ho le allucinazioni uditive per la mancanza di sonno?

Una voce maschile e sconosciuta li sorprese fuori dal carro, superò il rombo del motore. “Signori, aprite!” I passi dell’uomo accelerarono, ma senza aver bisogno di correre. “Sono il tenente Hesse della Seconda Divisione Panzer.”

Romania e Bulgaria emisero un soffio di sollievo che rallentò a entrambi i battiti cardiaci. Romania fece ciondolare il capo fra le spalle, spostò le cuffie in modo da avere un orecchio libero, tirò la leva sinistra, rallentò, e accostò sul margine della strada per fermarsi e lasciar passare gli altri mezzi. Non spense il motore. Bulgaria si sfilò le cuffie e le lasciò penzolare attorno al collo, sollevò le braccia, trovò la maniglia, e aprì il portello della torretta, si aggrappò all’orlo tirandosi in piedi sul seggiolino. Guardò in basso, abituandosi all’oscurità della strada, e mise a fuoco la figura in piedi accanto al Panzer. L’uomo era avvolto dalla nebbiolina di fumo che usciva dalla tubazione di scarico del carro armato. “Sì?” gli fece. Bulgaria riconobbe l’uniforme tedesca da carrista.

Il tenente si irrigidì, si mise sull’attenti. “Uno di voi due è richiesto a bordo, signore. Siamo fermi qualche metro più indietro e mi hanno mandato a chiamarvi.”

Anche Romania si era sporto ad ascoltare attraverso lo spioncino. Lui e Bulgaria si scambiarono un’occhiata di traverso, Bulgaria storse un sopracciglio in un’espressione raccapricciata, inclinò il capo in un gesto che diceva: ‘Dai, dai, vai tu’.

Romania sentì un brivido di disagio penetrargli le ossa indolenzite e fargli salire la pelle d’oca al pensiero di doversi presentare da Germania. Si raddrizzò fronteggiando il pannello di comandi del Panzer, si vide specchiato negli ovali e nei riquadri a mezzaluna, e rivolse un broncio al suo stesso riflesso. “Vacci tu,” disse a Bulgaria. Strinse le due leve di comando, ci sgranchì le dita sopra, aguzzò un mezzo sorriso da furbo. “Io sono così bravo a guidare che sarebbe uno spreco.”

Bulgaria piantò un muso duro che lo fece diventare scuro in viso più della notte che avvolgeva la campagna. Brutto bastardo. Si sfilò le cuffie dal collo, le lasciò cadere sul seggiolino in mezzo ai suoi piedi, fece forza con le braccia aggrappate all’orlo del portello di torretta, e si diede lo slancio per uscire. Piegò una gamba e scaricò un calcio alla nuca di Romania. Romania si girò e gli tirò una gomitata alla coscia che lo fece sbandare.

Bulgaria si sbilanciò, scivolò lungo il fianco del Panzer che non aveva smesso di vibrare per il motore ancora acceso, e il tenente gli prese le spalle al volo prima che crollasse a terra. L’uomo lo aiutò a rimettersi dritto e si chinò a dare un ultimo accenno a Romania attraverso lo spioncino. “Lei può ripartire, signore, solo non si porti troppo avanti.”

Romania annuì. “D’accordo.”

Bulgaria sgusciò via dalla presa dell’ufficiale, si aggiustò l’uniforme rimboccandosi il bavero attorno al collo – a lui avevano concesso di indossare la divisa nera e rossa del suo esercito – e soffiò una gonfia nube di condensa. La morsa umida di gelo gli spremette i polmoni e addentò le ossa, Bulgaria batté i denti e si strofinò braccia e cosce per sopprimere il freddo che gli aveva accapponato la pelle.

Il tenente si mosse prima di lui e camminò in direzione di marcia opposta al resto dell’esercito, marciò in mezzo al fumo soffiato dagli autocarri e dai furgoncini, e proseguì verso la parte di cielo più buia, seguito dallo scricchiolio dei suoi stivali che battevano sullo sterrato. Bulgaria si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, emise un profondo sospiro sconsolato, e si strinse nelle spalle. Trascinò i piedi, ingobbì le spalle, e camminò dietro il tenente.

Una sagoma di forma trapezoidale era posteggiata sull’orlo della via, sotto una massa di rami incolti che crescevano dagli alberi selvatici arrampicati lungo i pendii di terra e roccia che risalivano il bosco. Bulgaria restrinse le palpebre, aguzzò la vista da dietro il suo stesso fiato condensato, e riconobbe il profilo di un Panzer IV con il marchio giallo della Seconda Divisione Panzer tatuato sul fianco accanto alla croce bianca e nera della Wehrmacht.

Il tenente gli fece un cenno con la mano. “Qui, signore.” Si portò ai piedi del carro, davanti al portello del guidatore sistemato sulla torretta. “Prego.”

Bulgaria accelerò il passo e gli fu accanto. Si fece dare una spinta per riuscire a mettere piede sui cingoli, e si appese alle maniglie del portello. Lo sportello vibrò sotto il suo tocco, ci fu uno schiocco secco, e l’anta di ferro si sollevò. Dal suo interno sbucò la sagoma di un ufficiale che indossava la stessa uniforme del tenente che era venuto a chiamarlo. Gli fece un cenno col mento. “Signore.” Gli occhi lucidi e ristretti, doloranti di sonno, tradivano l’espressione di pietra scolpita sul suo volto.

Bulgaria tossicchiò, allentò il bavero della giacca. “S-salve.”

L’ufficiale fece leva sui gomiti per sgusciare fuori dal portello, si sedette sull’orlo, e indicò il buio all’interno del carro a Bulgaria. “Entri pure. La stanno aspettando.”

Bulgaria annuì. Sollevò una gamba, la tuffò nell’abitacolo, fece lo stesso con l’altra, e scivolò dentro la pancia del carro.

L’abitacolo era buio, odorava di ferro e di cuoio, una calma elettrica ne impregnava l’aria, dando l’impressione di essere finiti nell’abbraccio di una rete di corrente ingabbiata attorno al corpo. Una voce ovattata si spanse nell’ambiente, assunse un eco metallico che vibrò fino alle orecchie di Bulgaria.

“Aggirando questo colle allungheremmo la traiettoria, sarebbe quindi più consigliabile scavalcarlo.”

Bulgaria abbassò la testa e chinò lo sguardo, scrutò in mezzo all’oscurità e si soffermò su due figure immerse nella fioca luce frastagliata spanta dalle spie accese. L’ufficiale marconista parlava con l’indice premuto sulla mappa raccolta in mezzo a lui e Germania. La voce grave e appesantita dalla stanchezza. “Ora che cominciano i disgeli, non possiamo permetterci di forzare troppo i cingoli, dato che ci aspettano altre attraversate.” E Germania annuì, lo sguardo assorto e gli occhi concentrati sulla cartina che da lontano Bulgaria non riusciva a distinguere. “Procediamo in questa direttrice, allora,” disse. “Teniamo monitorati gli spostamenti del Trentesimo Corpo d’Armata e assicuriamoci di arrivare centralmente sulla Linea Metaxas.”

Il marconista annuì. “Sissignore.”

Bulgaria si schiarì la voce per farsi notare e accennò uno sventolio con la mano. “Ehi.”

Il marconista si girò, Germania si limitò a ruotare gli occhi verso di lui e fece un cenno con il mento all’ufficiale. L’uomo annuì, si sollevò tenendo un braccio sopra la testa per non sbattere sul soffitto del carro, e scavalcò il sedile per raggiungere il portello della torretta ancora aperto da cui era entrato Bulgaria. Gli passò vicino senza nemmeno guardarlo in viso, uscì appendendosi a una sporgenza, e richiuse la porticina che cigolò e si sigillò con uno schiocco.

Bulgaria aveva ancora lo sguardo voltato verso l’alto, quando la voce di Germania lo raggiunse, “Siediti”, facendolo sobbalzare. Bulgaria prese un profondo respiro di incoraggiamento, riempiendosi di quell’aria fitta e appiccicosa che odorava di olio per ingranaggi e benzina, e discese la postazione della torretta per raggiungere Germania. Occupò il posto dove prima era seduto il marconista, tenne gli occhi distanti da Germania anche se la sua presenza aveva infittito l’atmosfera elettrica attorno a lui. Chiuse i pugni sulle ginocchia, le nocche scricchiolarono e la pelle si bagnò di sudore.

Germania si voltò e raccolse altre carte, sparse il fruscio attraverso tutto l’abitacolo del Panzer. “Come state procedendo?”

“Uhm.” Bulgaria dondolò avanti e indietro, e fece spallucce. “Bene, credo.” La sensazione di avere di nuovo uno spigoloso sedile di pelle sotto le cosce gli trasmise un crampo di dolore alle ossa e ai muscoli induriti dalla fatica. Bulgaria reclinò il collo, si massaggiò le vertebre dalla spalla alla nuca e strinse la faccia in un’espressione di fastidio. “Però siamo esausti,” si lamentò. “È impossibile dormire all’interno di un carro in movimento, c’è troppo fracasso.” Guardò Germania negli occhi con un’espressione polemica. “Non potevamo fermarci un paio di ore a recuperare le forze? Almeno prima dell’attacco ai forti.”

Germania spiegò altre due cartine topografiche. L’espressione fredda e indifferente. “Quando la battaglia sarà nel pieno del suo sviluppo e non potremo fermarci nemmeno a mangiare, rimpiangerete di non avere più l’abitacolo di un Panzer in cui dormire.” Ne stese una fra lui e Bulgaria. Linee ondulate e concentriche rappresentavano le superfici di monti e di colline che si innalzavano nel territorio, i fiumi serpeggiavano fra le curve degli altopiani e univano le chiazze che raffiguravano i laghi. “Ora ascoltami.” L’aria attorno a Germania divenne più buia. “Lo spiegherò a te una volta sola, poi sarai tu a riferire le direttive a Romania, quindi memorizza tutto in fretta.”

Bulgaria fece una mezza smorfia da sbruffone che rimase nascosta nella penombra. “Sissignore.” Le parole di Germania gli suonarono nella testa come l’eco di quelle che Prussia aveva rivolto a lui e agli altri prima di partire. “Occhi e orecchie ben aperti, perché non spiegherò due volte quello che sto per dire.” Bulgaria fece roteare lo sguardo. Crucchi.

“Ti ho fatto chiamare ora perché abbiamo appena passato il confine,” proseguì Germania, “e anche il Trentesimo Corpo d’Armata dovrebbe essere più o meno nella nostra posizione. Noi prenderemo questa direttrice.” Seguì il percorso che uno dei fiumi tracciava da nord a sud. “Attraverseremo il fiume Struma, quindi i primi di noi ad arrivare saranno anche i primi a gettare le teste di ponte e a imbarcare i gommoni. È possibile che i greci precedano le nostre mosse e che siano già là ad aspettarci e a tenderci un’imboscata, quindi occhi bene aperti. Sia tu che Romania dovrete essere preparati a gestire la difesa.”

Bulgaria prese un breve respiro e annuì. “D’accordo.” Serrò i pugni pungendosi i palmi con le unghie, tornò a irrigidirsi e forzò la vista appannata di sonno a non sdoppiare l’immagine della mappa.

L’indice di Germania scese e raggiunse una spessa linea nera che assecondava le curve del territorio. “Una volta raggiunta la Linea Metaxas, ci saranno almeno una ventina di forti sparsi per il confine. Noi prenderemo la direttrice stradale che porta fino a Fort Rupel,” tracciò un cerchio con il dito attorno al nome del forte, “e prepareremo un assedio esattamente come abbiamo fatto sulla Maginot.”

Bulgaria inarcò un sopracciglio e si strinse il mento. “Perché proprio questo forte?”

Gli occhi di Germania si fecero più sottili e cupi, lo sguardo fitto e penetrante come l’oscurità che regnava nel Panzer. “Perché è lì che troveremo Grecia.”

“E come fai a dirlo?” domandò Bulgaria.

“Perché probabilmente...” L’indice di Germania tornò a percorrere la Linea Metaxas. “Lui e Inghilterra si saranno spartiti le posizioni. Inghilterra si trova con ogni probabilità in Dalmazia, a guidare il Gruppo W e a creare questa barriera,” passò sopra una seconda linea ricurva che proteggeva l’accesso in Albania, “per impedirci di ricongiungerci all’esercito di Italia. Di lui si occuperà mio fratello, per questo è stato meglio dividerci. Grecia deve per forza essere rimasto al nord, di guardia al confine con la tua nazione.” Batté il dito al centro della Linea Metaxas. “E il punto nevralgico di tutti questi forti è proprio Rupel. È lì che troveremo Grecia.”

“E credi che un solo corpo d’armata basti a spianarli?” Bulgaria incrociò le braccia al petto e piegò i gomiti sulle ginocchia. “Dopo che sei stato costretto a frammentare tutta la Seconda Armata, puoi ancora garantire la riuscita di un colpo d’ariete come speravi?”

Germania sfogliò un’altra mappa, tirandola fuori da sotto quella che aveva aperto fra lui e Bulgaria. “Ovviamente, prima del nuovo attacco ci penseranno gli Stuka a dare una prima spianata al territorio.” La seconda cartina era un ingrandimento delle zone-bersaglio concentrate solo sulla Linea Metaxas, contrassegnate da un numero ciascuna. “La Luftwaffe sarà la prima ad agire, bersaglierà soprattutto le loro artiglierie e i depositi di munizioni, e ci assisterà durante l’assedio.” Germania mostrò a Bulgaria i nomi che aveva già cerchiato. “Kleidon, Tsuka, e il Porto del Pireo. Questi saranno i centri che colpiranno maggiormente.”

Bulgaria sciolse i pugni e tamburellò le dita sulle ginocchia. “Solo bombardamento strategico, quindi? Niente...” Tornò a strizzare le mani, e un groppo di amarezza gli riempì la bocca, facendogli abbassare la voce. “Niente bombardamento civile?”

Germania scosse il capo. “Non sarà necessario.” Riprese in mano la cartina e la piegò in quattro. “E nemmeno noi possiamo permetterci di sprecare troppe munizioni.”

Bulgaria fece roteare lo sguardo. “Già,” mormorò, “dopo Belgrado...”

Germania diede una lisciata alle pieghe della carta, fermò le mani, e squadrò Bulgaria con un’occhiataccia tale da congelargli il sangue e fargli fermare il cuore.

Bulgaria si morse il labbro, deglutì, e gettò lo sguardo fra le gambe. “Scusa.” Un formicolio di nervosismo gli bruciò in fondo al petto.

Germania distese i tratti del volo e si girò per riporre la mappa piegata accanto ai pannelli di comando. “Con Belgrado abbiamo appena cominciato.” Lo disse con tono calmo, senza la minima traccia di rabbia o risentimento. “Mio fratello vi ha già informati di tutto, immagino.”

Bulgaria rimase per un secondo a labbra socchiuse e a lingua congelata sul palato. “S-sì, infatti.” È davvero così calmo? si chiese. Ha appena dato ordine di spezzare una nazione in due, di radere al suolo l’intera capitale, ma si comporta come se la cosa non lo toccasse nemmeno. Un rapido sentimento di disprezzo gli attraversò il cuore come una freccia. Ormai ci ha fatto l’abitudine a macchiarsi di tutto questo sangue.

Germania piegò i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le mani davanti al viso. “Mio fratello vi ha già comunicato che voglio che voi torniate in Jugoslavia, dopo la prima fase dell’assedio qua in Grecia?” domandò.

Bulgaria diede una piccola scossa al capo e si riprese. “Ehm. Sì.” Si strofinò la nuca, allontanò lo sguardo, e si strinse nelle spalle. “Lo trovo insensato, ma immagino di non avere scelta.”

Germania aggrottò la fronte e i suoi occhi si fecero più severi. “Smettila di fare quell’espressione da offeso. Tu per primo sapevi cosa sarebbe accaduto nel caso uno di voi si fosse rifiutato di seguire i miei ordini.” Gli rivolse uno sguardo sottile, uno sguardo d’intesa. “Dovresti essere sollevato del fatto di aver compiuto la scelta giusta.”

“Ma nessuno di noi è comunque al sicuro, no?”

Germania sollevò un sopracciglio, incrinò la sua espressione di granito. “Cosa vuoi dire?”

Bulgaria si guardò le spalle. Una sottilissima cornice di luce blu entrava dall’orlo del portello sigillato sulla cima della torretta. I carristi erano rimasti fuori, lui e Germania erano da soli all’interno del Panzer. Bulgaria chinò le spalle e abbassò comunque la voce, divenne un flebile mormorio freddo come una sorsata di ghiaccio sciolto. “Tu stesso stai per invadere Russia, quello che è ancora a tutti gli effetti un tuo alleato.” Corrugò le punte delle sopracciglia. “Come potremmo avere fiducia in te, dopo questo? Chi ci assicura che non farai la stessa cosa anche con noi?”

Germania mantenne il contatto visivo, ma anche lui abbassò la voce. “Non avrei motivo di farvi del male, se continuerete a stare affianco a me come state facendo ora,” disse. “Il legame che unisce me a voi è diverso da quello che unisce me a Russia. Con Russia è una questione di spazio vitale, di appropriarsi di un territorio che non potrebbe cadere in nessun’altro modo in mano nostra se non con un’invasione. Le vostre terre invece sono già tutte in mano mia.”

“E se i tuoi piani fallissero?” ribatté Bulgaria. “Se Russia riuscisse a sopravvivere?” Nei suoi occhi comparve un barlume di timore, un altro brivido di freddo gli scosse la schiena, simile a quello che lo aveva colto appena sceso dal Panzer. “Che cosa ne sarà di noi, allora?”

Germania socchiuse le palpebre e l’espressione sul suo viso divenne più mite, quasi consapevole. Scosse il capo, riguadagnò quella durezza che lo rendeva inscalfibile come una montagna. “Torna al tuo carro.” Si alzò e si spostò di postazione, diede la schiena a Bulgaria. “Dobbiamo sbrigarci ed essere ai forti entro l’alba.”

Bulgaria grugnì fra i denti. Si girò, sollevò il braccio per appendersi a una rientranza sul soffitto del Panzer, e si aiutò a rialzarsi. Quel pensiero però gli era rimasto dentro come un sassolino nello stivale. “Tu stai ponendo molta fiducia nella nostra forza e nel nostro sostegno, Germania, e noi faremo il nostro sporco dovere, come è giusto che sia, a quanto pare.” Scavalcò il sedile sbattendo il piede sullo schienale, rimbalzò per non schiantarsi su un pannello, e sgusciò in mezzo alle leve stando attento a non sbattere il ginocchio contro il piccolo estintore appeso a una delle pareti. Si rimboccò la giacca prima di prepararsi a uscire. “Ma vedi di non essere tu a deludere noi.”

Bulgaria allungò il braccio verso lo sportello, ma la voce di Germania lo bloccò.

“Devi essere tu quello che deve porre attenzione a non deludere me.”

Bulgaria raggelò. Si girò a rivolgere un ultimo sguardo a Germania ancora con il braccio sollevato sopra la testa.

Gli occhi di Germania ormai erano quasi impercettibili nel buio dell’abitacolo. “Se in questa campagna non otterrò da te quello che voglio, Bulgaria...” La sua voce si aggravò, assunse il rauco e cavernoso tono di una minaccia. Fu come una coltellata alla schiena. “Potrò anche rifiutarmi di concederti parte dei territori conquistati.”

Bulgaria fece stridere i denti, uno sfrigolio di rabbia risalì la pancia, gli bruciò sulle orecchie e in mezzo ai pugni. Stronzo. Agguantò lo sportello della torretta, lo spalancò. Di nuovo finì investito dall’aria che sapeva di brina, di piante bagnate, e di gas da carburante. Scivolò con i piedi a terra, si lasciò superare dal rombo di un automezzo che passò sopra due pozzanghere, e si ficcò di nuovo le mani nelle tasche. Si strinse nelle spalle, immerse le labbra nel bavero della giacca che aveva lo stesso profumo dell’abitacolo del Panzer I, e riprese a marciare seguendo la corrente del corpo d’armata.

Un filo di luce azzurra strisciò sulla linea d’orizzonte, i primissimi raggi dell’alba attraversarono il cielo notturno, sgusciarono fuori dal loro nido, e accolsero l’esercito tedesco nel territorio greco.

 

♦♦♦

 

6 aprile 1941,

Linea Metaxas, Fort Rupel,

Diciottesima Divisione di Fanteria della Sezione Macedone

 

L’aria dentro il forte di cemento armato odorava di chiuso, di metallo, di polvere e di olio per lucidare le armi. Un fascio della grigia luce dell’alba penetrò la finestrella rettangolare che dava sulla camera della mitragliatrice, attraversò l’ambiente pregno di una chiara foschia luminescente, sbatté sul rigonfiamento dell’arma ancora coperta dal telo di stoffa, e scivolò sul pavimento di pietra, accanto alle gambe di Grecia che dondolavano dalla cassa di munizioni. Grecia incrociò le braccia attorno al suo fucile, reclinò le spalle e si appoggiò con la schiena alla parete di pietra. Sollevò lo sguardo. Il raggio di luce gli sfiorò la punta del naso, facendogli il solletico, e gli intiepidì la pelle infreddolita dall’atmosfera chiusa del forte. Grecia raccolse una gamba sopra la cassa di munizioni su cui era seduto, accostò il ginocchio al ventre, inclinò la testa e la poggiò sulla canna del fucile che teneva abbracciato al petto. Socchiuse gli occhi, inspirò a fondo, rilassò i muscoli, distese la schiena che premeva sul muro, e cercò di assopirsi. Svuotò la mente godendosi il silenzio del forte armato prima che si riempisse del chiasso degli spari, delle urla dei soldati, del ruzzolare delle corse fra le pareti e dei boati che sarebbero esplosi in lontananza facendo tremare il suolo.

Passi schioccanti e cadenzati avanzarono nel corridoio, attraversarono l’anticamera e giunsero nella camera della mitragliatrice dove Grecia sedeva da solo. La sagoma di Inghilterra si fermò con i piedi fuori dal raggio di alba che toccava il suolo, incrociò le braccia al petto, il suo gomito urtò il fucile che si era già allacciato alla schiena, e volse lo sguardo a Grecia che aveva socchiuso le palpebre. Gli fece un cenno con il mento. “Ehi.”

Grecia allontanò gli occhi e corrugò un leggero broncio. Si strofinò la nuca e rispose con voce trascinata. “Ehi.”

Inghilterra si avvicinò, snodò un braccio dal petto e rivolse il pollice alle sue spalle. “Sono già nei pressi della Metaxas.” Avanzò di altri due passetti, e l’eco rimbalzò nel silenzio.

Grecia poggiò la fronte alla volata del fucile, una scossetta di freddo gli punse la pelle, e ruotò gli occhi socchiusi verso la finestrella incavata nella pietra. Sospirò. Lo sguardo spento e assente. “Immaginavo.”

Inghilterra annuì, si portò anche lui vicino a una parete. “Sono già iniziati gli attacchi da parte dei bombardieri della Luftwaffe.” Si poggiò con l’anca. “Hanno attaccato tutte le zone in cui tenevamo le artiglierie, e in più hanno fatto anche un bel lavoretto al Porto del Pireo, hanno affondato undici navi del Convoglio AFN-24.”

Grecia spostò lo sguardo su di lui, gli occhi si immersero nella parte buia della camera. “Non potremo più farci inviare le munizioni e i sussidi, allora.”

Inghilterra annuì. “Già.” Accavallò una gamba all’altra, sollevò la fronte scostandosi i capelli lontani dal viso e i suoi occhi finirono abbagliati dal fascio di luce grigia che luccicava per la brina del mattino. Si mise la mano davanti agli occhi per ripararsi. “Quello era l’unico punto di contatto per il mio Gruppo W, dobbiamo cavarcela solo con quello che abbiamo avuto finora.” Scrollò le spalle. “Ora siamo praticamente isolati, lo sai?”

Grecia indurì il volto, strinse leggermente una mano attorno al fucile, e ignorò quel groviglio di disagio.

Inghilterra tolse la mano dalla fronte, la sua voce suonò più profonda fra le pareti di cemento armato. “Ti senti pronto ad affrontare la Wehrmacht in queste condizioni?”

Grecia mosse lentamente le dita sul metallo del suo fucile, percorse con gli occhi la lunghezza della volata, si soffermò sulla scintilla argentata che batteva nel punto toccato dal fioco raggio di sole. Sbatté piano le palpebre, sospirò. I pensieri scorrevano lenti, ancora intorpiditi dalla nuvoletta di sonno che galleggiava attorno alla testa. Soppesò il fucile. Dovrò farmene dare uno d’assalto. “Quali direttrici stanno seguendo?”

Inghilterra rivolse lo sguardo all’anticamera del forte, sollevò la testa dalla parete e si strofinò la nuca. “Stanno iniziando a invadere tutti i settori attorno al Fiume Drin,” rispose. “Sono appena penetrati sia nella Valle dello Strumica, come avevamo predetto, e ora stanno avanzando verso sud. Però abbiamo notizie di un altro corpo d’armata che sta puntando la Pianura di Komotimi.”

Grecia si posò le dita attorno al mento e aggrottò le punte delle sopracciglia, picchiettò l’indice sulla guancia. I suoi occhi scavarono nella nuvoletta di pensieri dove si materializzò una cartina topografica del territorio a confine con Bulgaria. “Stanno mirando a ogni zona strategica della Linea Metaxas, quindi.”

“Tranne che a ovest,” rispose Inghilterra. “Lì mirano alla barriera formata dal Gruppo W, dove ho fatto piazzare l’ANZAC. Con Australia e Nuova Zelanda di guardia dovrebbero essere protetti a sufficienza, e ottenere anche più tempo per prepararsi all’arrivo dei tedeschi.”

Grecia tornò ad abbassare gli occhi su di lui, il velo di ombra gli scivolò su metà del viso. “E Belgrado?” L’aria all’interno del forte si fece più umida e fredda, penetrò nelle ossa. “I tedeschi staranno già entrando anche in Jugoslavia, a quest’ora.”

Inghilterra tornò a stringersi nelle spalle, sospirò e scosse il capo. “Non pensarci.” Si sollevò con la schiena dalla parete, raggiunse la spalla dalla quale non pendeva il fucile, e si massaggiò il muscolo facendo roteare il gomito. Una giuntura schioccò. “Ormai lì è andata, e non è più territorio di nostra competenza.” Diede una scrollata al braccio e puntò l’indice su Grecia. “Non puoi preoccuparti anche delle nazioni degli altri, ora devi concentrarti esclusivamente sulla tua vita. Anche se il Porto del Pireo è andato, e assieme a lui anche le nostre possibilità di rafforzarci, pure gli italiani sono indeboliti dopo l’attacco che gli ho regalato a Matapan.”

Grecia sollevò un sopracciglio, e una piccola scintilla di illuminazione sciolse la foschia di sonno che galleggiava attorno alla sua testa. Matapan? “Quello di fine marzo?”

Inghilterra annuì e un tiepido sentimento di orgoglio gli gonfiò il petto. “Ho affondato ben cinque navi italiane, mi sono preso una buona porzione di Mediterraneo e, quel che è più importante, anche i loro trasporti sono infinitamente rallentati.” Fece correre una mano fra i capelli e si strofinò la testa. “Tedeschi a parte, anche gli italiani dovranno arrangiarsi con quello che gli è rimasto.”

“Quindi credi...” Grecia flesse il capo di lato, le ciocche scivolarono sugli occhi e sulla guancia, e quella leggera ombra gli donò uno sguardo inquisitorio. “Che potrebbe esserci una qualche speranza di vittoria?”

Dal volto di Inghilterra scomparve quella scintilla di superbia, rimase una pallida ombra di rassegnazione. “Tu cosa credi?”

Grecia scosse le spalle, lo sguardo sereno. “Che credo che non si sia mai trattato di vincere e perdere, in realtà.”

Inghilterra sollevò un sopracciglio e schiuse le labbra per chiedergli cosa volesse dire, ma un rumore di passi in avvicinamento e la comparsa di una sagoma sulla soglia della camera gli fecero rimangiare le parole.

“Signore.”

Inghilterra e Grecia si voltarono verso la voce dell’ufficiale greco che si era materializzato affianco al raggio di luce che tagliava l’aria della camera. L’uomo unì le gambe e batté un saluto, rivolse lo sguardo a Grecia.

“Ci sono appena giunte notizie da Kleidon, signore. I tedeschi hanno già cominciato a bombardare con gli stormi di Stuka e prevediamo un loro arrivo anche al Forte di Nymféa.” Tolse la mano dalla fronte. “Potrebbero essere vicini.”

Inghilterra annuì e si cinse i fianchi. “Bene.” Buttò a Grecia un’occhiata da sopra la spalla. “Cominciamo a entrare in allerta.”

Grecia fece scivolare le gambe dalla cassa di munizioni, strinse la cinghia del fucile e se lo caricò in spalla, posò i piedi a terra e si alzò davanti al raggio di sole che si era allungato e che batteva sulla mitragliatrice avvolta dal telo. Raggiunse Inghilterra, entrambi imboccarono l’anticamera del forte, camminando dietro l’ufficiale che era venuto a chiamarli, e si diressero verso le scale che davano a una delle uscite.

Inghilterra rallentò il passo per tenersi accanto a Grecia e lontano dall’ufficiale. Si schiarì la voce. “Nel caso tu dovessi...” Si strofinò un braccio con un movimento nervoso. “Sai, nel caso dovesse...” Fece roteare la mano. “Andare storto qualcosa...”

Grecia continuò a camminargli affianco senza reagire.

Inghilterra seguì con lo sguardo le file di lampadine installate sul soffitto, si massaggiò il collo, e torse un angolo delle labbra in una smorfia di disagio. “Potresti finire fra le catene di Germania per un bel po’.”

Grecia annuì. Espressione impassibile, “Grazie”, ma il tono di voce scosso da una punta di amarezza.

Inghilterra fece spallucce, indifferente, e mise le mani in avanti. “Cerco solo di essere onesto.”

Grecia fece roteare lo sguardo e non aggiunse altro.

Sorpassarono l’anticamera, svoltarono una curva, e superarono un gruppo di soldati raccolti attorno a un mucchio di casse di munizioni sulle quali erano stese mappe geografiche. Alcuni di loro mangiavano dalla gavetta, uno invece riposava con la testa sullo zaino.

“Quale sarà la cosa che ti mancherà di più?” domandò Inghilterra.

Grecia sospirò e rispose senza nemmeno pensarci. “I miei gatti.” Socchiuse gli occhi e dentro di lui sbocciò un profondo sentimento di nostalgia dettato dal ricordo della pelliccia morbida che scorreva sotto le sue carezze, dei musetti umidi che si sfregavano sulle sue guance, delle fusa che vibravano accanto al suo orecchio, e del peso dei gattini acciambellati fra le sue ginocchia quando dormivano.

Inghilterra si lasciò sfuggire un soffio di risata. “Be’, è un buon incentivo anche quello,” disse. Aggiustò la cinghia del fucile sulla spalla, dando all’arma una piccola spintarella con la scapola, e il suo viso si fece serio di colpo. “Combatti per ciò che ami e non avrai mai rimpianti, nemmeno nella sconfitta.”

Grecia annuì. “Ha senso.”

Entrambi finirono inondati dai raggi del primo mattino. Il profumo del giorno appena sbocciato sulla pianura si sarebbe presto macchiato dell’odore del sangue.

 

♦♦♦

 

8 aprile 1941,

Linea Metaxas, Fort Rupel

Diciottesimo Corpo d’Armata di Montagna, Settantaduesima Divisione di Fanteria

 

La formazione di Stuka sfrecciò sopra la pianura attraversata dall’esercito tedesco, sollevò una risacca di vento che inclinò le colonne di fumo evaporate dal terreno, forò i nuvoloni neri che tappezzavano il cielo grigio, e volò verso la sagoma di Fort Rupel che emergeva sulla linea di orizzonte, davanti ai monti sommersi dalla nebbia di zolfo. Fischi acuti precipitarono dalle nuvole, sempre più intensi, e coprirono il ronzio dei motori. La prima esplosione tuonò come un fulmine, si schiantò sulle rocce, spalancò una cupola di fumo che fece brillare il cielo di rosso. Le prime sagome di soldati si torsero, alcune caddero, altre si rotolarono, e altri abbassarono le teste e continuarono a correre. Una seconda esplosione si dilatò creando un cratere di fumo che travolse la pianura investendo arbusti, rocce, cespugli e uomini. Il vento rovente soffiò fra l’erba seccata, trascinò un nuvolone di polvere, e la nebbia nascose tre Panzer che stavano discendendo uno dei colli circondati da fanti in corsa. Raffiche di spari infransero l’aria, tuonate più profonde scossero il terreno, l’eco delle esplosioni fece tremare le nuvole in cielo. Una foschia grigia si impossessò del campo di battaglia, inglobò al suo interno le ombre dei soldati che correvano verso il forte imbracciando i fucili.

Un altro fischio terminò in una terza esplosione. Il suolo saltò in aria, lo scoppio si impennò in una colonna di fumo e scintille, e toccò le nuvole. Altre esplosioni a ripetizione lampeggiarono dietro le cappe di fuliggine, ombre nere corsero in mezzo alla luce bianca e rossa che brillava fra i riccioli di fumo. I ronzii dei bombardieri si persero nell’eco dei boati e nel fracasso di grida e urla che si mescolavano alle raffiche di mitragliate.

La corsa dei soldati tedeschi infranse il muro di fumo. Passi voraci divorarono il terreno, rocce e terra secca si sbriciolarono sotto la pressione degli stivali, grappoli di pietre rotolarono dal pendio del colle, le ombre nere scivolarono dietro i piedi degli uomini e s’incresparono fra le rientranze. Le carabine imbracciate fra i gomiti, i visi sudati e sporchi di fumo tenuti in ombra dagli elmetti, le spalle basse, e le gambe che avanzavano rapide. Un boato ruggì davanti a loro, terminò con uno scoppio che fece saltare in aria zampilli di roccia incandescente. Ampi archi di fumo attraversarono l’aria, le loro scie incendiarono ciuffi d’erba secca che fumarono come incensi.

I soldati uscirono dal fumo, uno dei plotoni corse di fianco a uno dei Panzer che stava macinando il terreno sotto i suoi cingoli, le loro grida risuonarono sopra gli scoppi.

“Avanzate, non perdete il passo!”

“Avanti con il fianco destro!”

“Fate raggiungere la prima linea ai carri!”

Tre soldati accelerarono la corsa. Uno di loro saltò oltre una roccia, posò piede a terra, sbriciolò il terreno, un’esplosione precipitò dietro di lui e l’onda d’urto gli travolse la schiena facendolo sbalzare in avanti. Uno dei soldati che gli correvano affianco si appese al suo braccio, lo tirò in avanti per non farlo cadere tenendogli la testa bassa, ed entrambi scavalcarono un altro cumulo di terra. Sassi e zolle di terra secca si sbriciolarono sotto le loro suole, i detriti lanciati dalla loro corsa schizzarono come proiettili contro le rocce più alte e rimbalzarono su una delle postazioni delle mitragliatrici riparate da un muretto di due file di sacchi sovrapposti.

Romania tirò su lo sguardo di colpo da dietro la barriera. Nei suoi occhi si riflessero le sagome dei soldati in corsa, il fumo che rotolava fra i loro piedi, e le scintille bianche che facevano saltare le pietre lungo il suolo. Spalancò le palpebre, ingoiò un ansito di terrore, staccò una mano dal nastro di caricamento della mitragliatrice e schiacciò il palmo contro la testa di Bulgaria. “Giù, attento!” Gli buttò la testa verso il basso facendogli battere la fronte contro il coperchio di alimentazione. “Ahi!” Abbassò il viso a sua volta finendo investito dalle graffiate d’aria che saettarono sopra i suoi capelli sudati e sporchi di polvere da sparo.

Un rombo fece sobbalzare la terra sotto le loro pance sdraiate dietro le due pile di sacchi, lo scroscio della corsa dei soldati ruzzolò ai loro fianchi e altri sassi finirono addosso ai loro corpi. Spari a raffica mescolati a quelli più tuonanti dei carri impregnarono l’aria di un odore acre, di uova marce e di fuliggine metallica, infiammarono il vento che divenne un alito di fuoco.

Bulgaria sfilò la mano dall’anello del grilletto della mitragliatrice, girò la guancia stringendo una contrazione di dolore fra le labbra, e si sfregò le dita sotto la frangia, massaggiando il segno rosso lasciato dalla botta che si era preso battendo sul coperchio di alimentazione. Gemette. “Merda, potevi avvertirmi!” Chinò il viso dall’altra parte, strinse i gomiti sotto il petto e si strofinò la testa con tutte e due le mani. “Che male...”

Romania soffiò una nuvoletta di fiato color fumo per riprendersi dall’apnea che gli aveva contratto la paura nel petto. Si passò la mano fra i capelli sporchi e sudati, urtò la maniglia di comando della mitragliatrice con il gomito, e buttò un’occhiata dall’altro lato del campo di battaglia, dove le sagome dei soldati correvano rimpicciolendosi, sempre più vicine al forte, e i boati delle esplosioni erano meno intensi. Prese un’altra boccata di fiato. “Scusa.” Fra le labbra gli entrò il sapore della terra, del ferro e quello salato del sudore. Romania avanzò con i gomiti passando le braccia sotto il nastro caricatore, si aggrappò con una mano a uno dei sacchi che proteggevano la loro postazione, e sollevò le spalle. Restrinse le palpebre che già bruciavano per il fumo, e tese lo sguardo verso il forte: una cupola bianca in mezzo al grigio e alla nebbia color terra.

Bulgaria tornò a stringere l’impugnatura della mitragliatrice, alzò la mano libera per aggrapparsi alla leva di comando, abbassò la fronte per sbirciare dentro il mirino a V, e spinse l’indice nella parte superiore del grilletto, per lo sparo automatico. Alzò il pollice sulla leva della sicura, la falange dell’indice fece pressione sul grilletto, le piccole finestrelle nere del forte riempirono l’ovale del mirino.

Un braccio di Romania lo bloccò, gli toccò la spalla. “Non sparare, aspetta che passino.” Romania imbracciò di nuovo il nastro di caricamento facendolo scorrere nell’incavo del gomito, i proiettili tintinnarono fra loro, e sollevò il binocolo che pendeva dal suo collo. “Ti do il segnale io.” Fra le linee perpendicolari dei due ovali si materializzarono i soldati in uniforme tedesca che correvano in mezzo ai fumi del campo. Nel cielo sopra di loro, un’altra formazione di cinque Stuka ronzò attraverso le nuvole e sparì dietro la linea di orizzonte. Cinque scoppi esplosero uno di seguito all’altro, e il terreno sotto i loro corpi distesi sulla pancia vibrò di nuovo, trasmettendo la pressione del contraccolpo fino alle viscere.

Bulgaria strinse i denti, rannicchiò le ginocchia per avvicinarsi e sistemarsi il calcio della mitragliatrice sopra la spalla. “Maledetti.” Spostò la mira verso sinistra facendo ruotare la volata dell’arma sopra il tripode, il pollice fece scattare la levetta della sicura – click! – e l’indice si flesse, l’osso della falange scricchiolò sopra la curva del grilletto. “Che faccio? C’è troppo fumo.” Tossì due volte, e la gola bruciò come se avesse ingoiato una manciata di puntine da disegno.

Dentro il binocolo di Romania, i soldati si dispersero, sagome in uniforme verde dell’esercito greco avanzarono fra i riccioli di fumo soffiati dai crateri aperti sul terreno, carri armati nemici emersero dalla linea di orizzonte, si spinsero lungo le pendici del colle e il loro passaggio scavò profonde scie di terra ribaltata. Romania abbassò la mira, inquadrò le bocche di fuoco dell’artiglieria anticarro protetta dalla fanteria greca. Uno dei cannoni si ritirò, lo scoppio lo fece allungare di colpo, un anello di fumo si dilatò attorno alla bocca di fuoco, e la volata tornò ad assestarsi. Gli uomini attorno al cannone si piegarono a raccogliere un’altra granata.

“Aspetta che finiscano di sparare con l’artiglieria,” disse Romania, “poi mira più vicino possibile.” Fece scivolare l’indice sopra la rotella del binocolo, l’inquadratura si restrinse. Romania premette la punta della lingua fra i denti, smise di respirare, il cuore batté lento e regolare, calcolò la distanza. “Distanza duecento metri, trenta gradi nord.”

Altri bombardieri sfrecciarono nel cielo, attraversarono il campo di battaglia, e la risacca d’aria del loro volo ronzante risucchiò la foschia che avvolgeva il campo.

Romania mollò il binocolo, aprì entrambe le braccia sotto il nastro di caricamento e diede una spallata a Bulgaria. “Ora.”

Bulgaria schiacciò l’indice sulla parte inferiore del mirino e la raffica di mitragliate esplose attraverso la volata della mitragliatrice, i gas soffiarono dai fori sagomati, l’otturatore vomitò verso il basso tutti i bossoli svuotati, il nastro caricatore corse fra le braccia di Romania, accorciandosi sempre di più.

Bulgaria indurì i muscoli delle braccia, strinse di più le mani attorno alle vibrazioni trasmesse dall’arma, e inclinò la volata guardando attraverso i lampi bianchi degli scoppi. Parlò a denti stretti. “Perché è così difficile entrare in questo dannato forte?” Sentì tutto il cranio tremare e scuotergli il cervello. “Siamo stazionati qua da due giorni e questi non sono ancora caduti.” Click! Sparò un colpo a vuoto, i lampi si ritirarono e le vibrazioni cessarono. Bulgaria guardò in basso, inclinò la maniglia di comando, spostò l’indice sulla parte del grilletto per il tiro singolo, e lo schiacciò due volte. Click, click! La mitragliatrice non sparò. Proiettile inceppato. Un ribollio di rabbia gli infiammò il sangue, gli incendiò le guance, accelerò il battito cardiaco e gli fece tremare le mani attorno all’impugnatura del mitra. Bulgaria digrignò i denti facendo schioccare la mandibola. Diede un pugno al caricatore, agguantò l’otturatore, lo strattonò indietro, espulse il proiettile inceppato che sbatté su una roccia con un cling! e tornò ad abbassare il viso per riprendere la mira. Schiacciò il grilletto di cattiveria. La raffica di spari tornò a illuminargli il viso sudato attraverso i soffi di gas. “Maledetti crucchi bastardiii!”

Romania gli urlò contro. “Guarda che siamo noi i crucchi!”

“Mi basta inveire contro qualcuno!”

Il nastro di proiettili terminò di correre fra le mani di Romania, arrivò alla fine, e gli spari a raffica cessarono di nuovo. Nel silenzio piombato di colpo, si udirono gli scoppi più lontani delle artiglierie, le grida dei soldati in avanzata, e i tremori del terreno scossi dal passaggio dei carri armati.

Bulgaria ringhiò e continuò comunque a premere sul grilletto, il percussore sbatté a vuoto scaricandogli il rinculo sul braccio.

Romania gli strinse il polso. “Fermo, fermo, è finita!” Gli mostrò le mani vuote.

Bulgaria fece schioccare la lingua, si grattò la nuca, le labbra rimasero torte in quel mezzo ringhio di rabbia. “Merda.” Raggiunse il serbatoio della camera di scoppio, lo scoperchiò, e tese il braccio verso Romania mostrandogli il palmo aperto. “Sostituiamo, svelto!” La mano tremò, le dita indolenzite irrigidirono come stecche di pietra, l’osso del braccio continuò a vibrare per il contraccolpo.

Romania annuì. Avanzò con il gomito verso destra, ruotò il busto, e tese il braccio per raggiungere il nuovo nastro di alimentazione nelle casse su cui erano poggiati i loro due fucili e i due zaini. Prese il nastro, raggiunse un’estremità e la passò a Bulgaria. Bulgaria incastrò il primo proiettile dentro il serbatoio, richiuse lo sportello, tirò indietro l’otturatore, incastrò il primo colpo, abbassò la fronte, si rimise con l’occhio davanti al mirino, e infilò l’indice indolenzito nell’anello del grilletto. Altre nubi di fumo avevano invaso il campo di battaglia, la cupola del forte si celava dietro la nebbia, ombre nere correvano nella foschia. Bulgaria spostò la mira della volata ma non riuscì a star loro dietro.

Romania tornò a trascinarsi sui gomiti, fece correre il nuovo nastro di proiettili sul braccio, e tirò su il binocolo con la mano libera. La spalla schioccò, la scossetta di dolore si propagò attraverso il muscolo del braccio e gli indurì il muscolo. Romania arricciò una smorfia indolenzita, emise uno sbuffo, e si tolse il binocolo dal viso. “Allora è vero che Grecia è proprio qua con loro.”

Bulgaria sparò due piccole raffiche, si fermò, e si girò verso Romania. “Cosa?” gridò sopra i boati.

Romania si portò una mano attorno alle labbra, prese una boccata di fiato che sapeva di zolfo. “Ho detto che Germania aveva ragione!” gridò. “Grecia è proprio qua al forte! Questo spiega l’efficienza della loro divisione.” Si tolse la mano dal viso, scostò i capelli sudati dalla fronte sporca di terra, e tornò a guardare oltre il piccolo muro di sacchi. “Può essere solo lui a guidare una difesa così impenetrabile.”

Bulgaria fece roteare lo sguardo. “Già, peccato che non si sia ancora fatto vedere.”

“E cosa pretendi?”

Soldati tedeschi corsero di fianco alla loro postazione, sassi e zolle di terra volarono sulle loro schiene, un’altra nuvola di fumo si dilatò nascondendo le loro ombre che si allontanavano, uno scoppio ruggì gonfiando una bolla di fumo che arrivò a inghiottire le nubi in cielo. Il clangore di cingoli che sbattevano sulle rocce e il suono dei motori che rombavano fecero tremare tutta la piana.

Romania tornò a sporgersi, aggrottò la fronte, stese una mano sopra gli occhi. “Pretendi che venga fuori a braccia alzate?” fece. “Indebolendo lui indeboliremmo l’armata stessa del suo esercito, e non correrebbe mai un rischio simile.”

Un peso atterrò accanto al corpo disteso di Bulgaria, gettò la sua ombra su entrambi, inglobandoli in un abbraccio di buio. “Esatto.” Germania finì investito da una gettata di polvere sollevata dalla sua stessa corsa, si spinse sulle ginocchia per piegarsi dietro il piccolo riparo di sacchi, e abbassò l’arma. Un MP 40 sotto il braccio e un Karabiner 98 allacciato alla schiena. “Ma Grecia non potrà tenersi nascosto per sempre.”

Bulgaria rimase con le labbra socchiuse, un occhio sgranato e le sopracciglia inarcate in un’espressione attonita. Da dov’è sbucato?

Romania si strofinò una guancia sbavata di fango, piegò un gomito sulla spalla di Bulgaria per avvicinarsi a Germania e alzò la voce per farsi sentire. “Abbiamo conferma che Grecia è nel forte?”

Germania scosse il capo. “No.” Spinse un braccio sulla doppia fila di sacchi di sabbia, si sporse anche lui a guardare. Un soffio di vento gettato dalle cannonate gli scosse i capelli sulla fronte. “Ma non può essere che qui. Gli altri forti sono già sotto assedio e nessuno ha segnalato la sua presenza negli altri punti della Linea Metaxas.”

Lo sguardo di Bulgaria corse lungo il profilo di Germania avvolto dalle spirali di fumo nero che si elevavano contro il cielo bruciante di rosso dietro di lui. Un’altra soffiata di aria rovente e dall’odore di ferro gli arrivò in faccia, gli scosse i capelli spettinati sul viso lucido e sbavato di fuliggine, il bruciore gli fece restringere gli occhi che brillarono di una luce viva e tagliente come i lampi schiantati dagli spari.

Bulgaria sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

Non dà segni di stanchezza, anche se fra noi è quello che non ha chiuso mai occhio durante questi giorni.

Un’altra esplosione sollevò una vampata di vento che finì di nuovo addosso alle colonne di fumo e alla loro postazione. Un’ondata di scintille bianche e rosse soffiò addosso a Germania, e lui si riparò con un braccio. Spruzzi di fuoco e luce brillarono sulle guance, sulla giacca su cui pendeva la croce di ferro, e fra i capelli biondi. Lo costrinsero ad abbassarsi. Le spalle e la curva della schiena si contrasse sotto il peso della carabina allacciata al fianco, la sua mano strinse sull’MP 40 che teneva sottobraccio, le dita sporche di fango si irrigidirono, rivoletti di sudore corsero fra i rami di vene che si erano gonfiate. Una scintilla di ferocia gli illuminò lo sguardo. Gli occhi lucidi riflessero un’altra esplosione che li tinse di rosso, come quel cielo di guerra. Fiamme e fumo si ritirarono, lasciarono le iridi di nuovo sciacquate in un limpido e freddo azzurro senza la minima traccia di sgomento: profondi e sereni laghi ghiacciati.

Il cuore di Bulgaria batté un colpo profondo e pesante che sentì arrivargli in gola. Espanse un gelido sentimento di paura, soggezione e ammirazione.

È davvero nel suo elemento.

“Come facciamo a stanarlo?” domandò Romania, e Bulgaria sentì vibrare la sua voce attraverso il braccio ancora premuto sulla sua spalla. “Finché il forte è protetto, per noi sarà impossibile entrarci. Sacrificheremmo troppi uomini.”

“Dobbiamo usare la stessa tattica che abbiamo utilizzato in Francia,” rispose Germania. “Gas e lanciafiamme.” Un’ennesima esplosione richiamò il suo sguardo verso il cielo brulicante di nuvole plumbee. Il suo sguardo si contrasse in una ruga di tensione. “Ma è ancora troppo presto, prima dobbiamo sfiancarli con l’artiglieria.” Sollevò un ginocchio da terra, schiacciò il piede frantumando le rocce, si tenne aggrappato ai sacchi con una mano, alzò le spalle, e premette gli occhi su Bulgaria e Romania. “Uno di voi deve venire ad aiutarmi con i cannoni. Chi di voi due ha più forza nelle braccia?”

Romania e Bulgaria si indicarono a vicenda. “Lui!” esclamarono.

Si lanciarono addosso due occhiate di fuoco. Bulgaria digrignò i denti e graffiò le unghie sull’impugnatura della mitragliatrice, facendola stridere. Romania aggrottò la fronte e le punte dei canini premettero agli angoli delle labbra. Entrambi pensarono la stessa cosa. Vai tu, maledizione. Non ho voglia di starmene di fianco a Germania durante tutta la battaglia.

Bulgaria affilò il suo ringhio, incurvò gli angoli delle labbra e lo trasformò in un fine ghigno di furbizia. “Rom si è studiato i manuali.”

Romania stritolò un pugno nel terriccio per trattenersi di prendergli la testa e di sbattergliela di nuovo sul coperchio di alimentazione della mitragliatrice.

Germania annuì. “Bene.” Si diede una spinta e si alzò in piedi, il nero della sua sagoma finì coronato dalla luce grigia e metallica che aleggiava sul campo. I gas spanti dalle armi gli volarono attorno come un mantello. “Romania con me. Bulgaria rimane qua e prende posto in prima fanteria. Proteggi le artiglierie e le postazioni delle FlaK.”

Bulgaria batté un moscio saluto militare. “Sissignore.” Aprì il serbatoio della mitragliatrice, sfilò il proiettile incastrato, e sganciò il nastro caricatore che era stato consumato solo fino a metà.

Romania sbuffò, trattenendo un gorgoglio di risentimento. Raggiunse il suo zaino e lo caricò su una spalla, strinse la cinghia della sua carabina e si aiutò con quella per alzarsi, come un bastone. Camminò oltre le gambe ancora stese di Bulgaria e gli diede un colpo alla nuca con il calcio del fucile. Bulgaria sghignazzò e si strofinò fra i capelli, dove l’aveva colpito per ripicca.

Germania distese un braccio per tenere Romania riparato dietro alla sua spalla, spostò già una gamba oltre il riparo di sacchi, e rivolse ancora lo sguardo a Bulgaria. “Non dare ancora ordine di prendere il forte. Sarò io a decidere quando sarà il momento di entrare.”

Bulgaria annuì. “Sissignore,” ripeté con lo stesso tono ammosciato. Abbassò il calcio della mitragliatrice, svitò la canna verso sinistra e la staccò dal manicotto.

Germania fece un cenno a Romania da sopra la spalla. “Sbrighiamoci.” Saltò fuori e il fumo di un’esplosione nascose la sua corsa.

Romania imbracciò il suo fucile, lo soppesò respirando a fondo e ascoltando i battiti cardiaci che gli pulsavano nelle orecchie. Guardò dietro di sé, buttò un’ultima occhiata anche a Bulgaria, e si gettò all’inseguimento di Germania.

Bulgaria rimase sdraiato dietro la piccola trincea di sacchi, tese lo sguardo e lo fece rimanere incollato alle due ombre sempre più piccole di Germania e Romania fino a che non sparirono in mezzo al fumo e alle nuvole di terra esplosa che galleggiavano lungo il profilo della pianura. Puntò i gomiti a terra, si diede una spinta con i piedi e si trascinò verso il suo fucile rimasto accanto allo zaino rovesciato al suolo. Slacciò le cinghie della sacca, infilò dentro quello che rimaneva del nastro di caricamento della mitragliatrice e la canna smontata dell’arma che aveva appena svitato. Richiuse tutto, buttò un’ala di telo sopra il corpo della mitragliatrice rimasta protetta dietro la piccola trincea, e si caricò lo zaino sulle spalle. Strinse i denti per l’improvvisa e dolorosa pressione sulle ossa indolenzite, raccolse il fucile sotto braccio, e ingoiò una boccata di fiato che trattenne nei polmoni. Si aggrappò a uno dei sacchi, si piegò sulle ginocchia tenendo le spalle basse – il peso sui polpacci cominciava già a fargli tremare le gambe –, e sporse lo sguardo fuori dal rifugio. 

Scattò a correre, gettò un braccio davanti alla fronte e strizzò gli occhi. Il cuore prese a galoppargli in gola. Spari roventi gli sfrecciarono dietro le orecchie, esplosioni sobbalzarono sotto i suoi piedi, l’odore di sangue gli diede la nausea.

Chissà se Germania si è reso conto che non ho ancora preso un colpo?

Una scaglia di terra si frantumò sotto il suo piede, la gamba affondò scivolando al suolo, fece rotolare un grappolo di massi in mezzo all’erba seccata e ricoperta di polvere nera, e il muscolo si indurì. Bulgaria piegò la spalla, si aggrappò alla scapola stringendo i denti, e le ossa gli trasmisero un’altra violenta scarica di dolore attraverso tutto il corpo. Forzò l’altra gamba ad avanzare, piegò il ginocchio e la rotula emise uno schiocco secco, doloroso come una frustata. Il piede si trascinò fra la terra ribaltata, tornò a poggiarsi, schiacciò il suolo, e caricò un’altra falcata facendo tremare il polpaccio. Bulgaria si passò una manica della giacca sulla fronte, raschiò via sudore e terra, esalò un violento respiro che si condensò in una nuvoletta bianca e umida. Continuò a correre in mezzo all’aria bollente che gli bruciava fra le palpebre.

Merda, mi sono davvero rammollito così tanto dall’ultima guerra? Fece roteare lo sguardo. E non posso credere che mi sto davvero preoccupando di fare bella figura davanti a Germania.

Un’altra ondata di detriti e di vento infuocato esplose alle sue spalle, arrivò come un calcio sulla schiena facendolo saltare oltre una duna di terra. Bulgaria atterrò, i piedi scivolarono, una frana di terra rotolò sotto le sue gambe e lo fece planare sul fianco, dietro una seconda barriera di sacche di sabbia più bassa di quella di prima. Una colonna di fumo si torse e scoprì l’immagine del forte dietro i cespugli e gli arbusti. Bulgaria sentì una scintilla scattargli dentro.

Bah, ma che dico.

Tornò a stendersi sullo stomaco, piantò i gomiti a terra e avanzò facendo strisciare i piedi, assorbendo tutto il saporaccio amaro delle rocce esplose e trattenendo il fiato per non inalare i gas sprigionati dagli scoppi. Raggiunse il piccolo muretto di sacchi che gli arrivava alla spalla, e si sfilò il fucile dal fianco, rimanendo schiacciato dal peso dello zaino. Posizionò la volata del fucile, mise il calcio sopra la spalla, infilò l’indice nel grilletto, e abbassò la fronte.

Qua non si tratta di lui, ma di me. Con Grecia ora sarà facile, ma non posso permettermi di restare in queste condizioni quando affronteremo Russia. Devo cercare di rifarmi almeno un po’.

Inquadrò il mirino, lo abbassò lentamente, e la parete del forte riempì l’ovale diviso dalle due linee perpendicolari.

Un colpo.

Inspirò dal naso, espirò dalla bocca.

Sollevò e riappoggiò l’indice sul mirino, si concentrò sulla pressione del dito lungo l’arco, trattenne il fiato fino a che non udì il battito del suo cuore rallentare e farsi più regolare, e di nuovo inspirò ed espirò. Tirò l’otturatore – crack! –, mise il colpo in canna.

Mi basterebbe prendere un colpo, ma quello giusto, e allora potrò dire anch’io di aver meritato qualcosa da questa vittoria.

Spostò la mira verso sinistra. La finestrella di una delle camere del forte comparve nel suo campo visivo.

 

.

 

Grecia inclinò la mitragliatrice davanti alla finestrella della camera adibita allo sparo, e il tripode che ne reggeva la volata emise un piccolo singhiozzo metallico. Inclinò le spalle in avanti, salì sulle punte dei piedi, assottigliò le palpebre, e il suo sguardo scavò all’interno dei gas che erano soffiati dai fori calibrati. Scrutò il campo di battaglia attorno al forte da dietro il profilo dell’arma. Pennacchi di fumo nero si elevavano verso il cielo plumbeo e gonfio come un panno da strizzare, lampi rossi e bianchi esplosero brillando all’interno della nebbia gassosa che aveva avvolto la pianura, cigolii e clangori metallici accompagnavano i rombi dei Panzer in lontananza. Le corse dei soldati, simili a rulli di tamburo, avanzavano in mezzo agli spari e agli scoppi delle artiglierie.

Un’esplosione fece vibrare le pareti di cemento, polvere di pietra si sbriciolò dal soffitto e nevicò nella camera della mitragliatrice che si stava riempiendo di un’aria fitta e calda che odorava di zolfo. 

L’armiere accanto a Grecia abbassò il binocolo dalla fronte, contrasse un’espressione ansiosa, e i suoi occhi gonfi di stanchezza e neri di paura ruotarono verso l’alto. “Signore, temo che il Battaglione Settanta e Ottantuno stiano cedendo. E anche il Novantuno comincia a dare segni di debolezza.” Lasciò penzolare il binocolo dal collo, si accovacciò accanto alle casse di munizioni già scoperchiate, e tuffò le mani all’interno di quella più vicina per raccogliere un nastro di caricamento rigido. “La difesa non reggerà a lungo, e dobbiamo correre ai ripari, o il forte cadrà in meno di ventiquattrore.” Rauchi affanni gli chiazzarono le guance di rosso, rivoletti di sudore gocciolarono dai capelli e dal mento, gli bagnarono il bavero della giacca.

Grecia scese dalle punte dei piedi e distolse lo sguardo dalla finestrella. Sospirò. “Che gran seccatura.” Sganciò il serbatoio della mitragliatrice, estrasse lo scheletro del nastro vuoto, e lo porse all’armiere ancora accovacciato accanto a lui. “Correte a ordinare che incrementino la difesa attorno al forte, e dite alla fanteria di ripiegare per proteggere le artiglierie antiaeree e anticarro.” Tornò a poggiare le mani sull’impugnatura dell’arma, senza ricaricarla, e si rimise sulle punte dei piedi. Un’esplosione gli fece brillare il viso di bianco, altri grani di pietra nevicarono fra i suoi capelli. “Qua ci penso io.”

L’armiere si affrettò a tirarsi in piedi e batté un rapido attenti. “Sissignore.” Scattò via, imboccò il corridoio, e incrociò una seconda figura che stava correndo in direzione opposta, senza riconoscerla.

Inghilterra rallentò la sua corsa, si appese con una mano alla parete, chinò le spalle per riprendere fiato e finì schiacciato dal peso del fucile. Si spinse il braccio contro il ventre dolorante, boccheggiò respiri rauchi come se avesse inalato fumo, e si tolse i capelli dalla fronte. Il suo sguardo arrossato volò su Grecia. “Come sta andando qui?” Altri affanni gli fecero tremare la schiena.

Grecia si girò verso di lui, sollevò un sopracciglio senza cambiare espressione. “Male.” Tornò a guardare fuori, si portò una mano davanti alla fronte. Gli occhi distesi e sereni. “I tedeschi stanno continuando a bombardare le retrovie, i depositi, le baracche e gli impianti ferroviari. Fra un po’ sfonderanno, non c’è modo di impedirlo.” Si strinse nelle spalle e si posò due dita sul labbro inferiore, volse gli occhi al soffitto di cemento e tamburellò i polpastrelli. “Credo che Germania potrebbe uccidermi, di questo passo.”

Inghilterra scosse il capo. “No, non lo farebbe di certo.” Si avvicinò anche lui alla postazione della mitragliatrice.

“E perché no?”

Inghilterra fece un piccolo sbuffo. “Se tu schiattassi,” volse un palmo al soffitto, “chi è che firmerebbe l’armistizio, poi?”

Grecia aprì la bocca per rispondergli, e una raffica di spari si schiantò addosso alla parete esterna del forte. Schizzi bianchi e rossi scintillarono riflettendosi sulla superficie lucida della mitragliatrice, sciamarono all’interno della finestrella assieme alle scaglie di cemento scalfite via dal muro, e annaffiarono Grecia e Inghilterra in un bagno di luce e calore. Inghilterra si aggrappò alla manica di Grecia e lo fece gettare a terra assieme a lui, si riparò la testa tenendo le palpebre strizzate, e attese che la raffica finisse di abbattersi sul forte.

Grecia si sfilò per primo la mano dai capelli, alzò lo sguardo e aggrottò la punta di un sopracciglio. “Hai qualcos’altro di incoraggiante da dirmi?”

Inghilterra si sfregò la nuca e guardò in alto. “Sì.” Mirò l’indice contro Grecia, i suoi occhi finirono immersi in un’ombra che li rese bui e freddi. “Una delle direttrici tedesche ha appena conquistato Skoplje, e punta Monastir, come avevamo previsto. Un’altra di loro sta passando proprio qua sopra, hanno lasciato Strumica e ora sono sul Lago Dorjan. A est, il Trentesimo Corpo d’Armata è già entrato nella Pianura di Komotimi, e ha già assalito i forti di Nymféa e di Eschinos. Circondata la Metaxas, Germania arriverà a Salonicco in un battito di ciglia.”

Grecia flesse il capo di lato con un movimento pigro, i capelli sudati gli scivolarono sulla punta del naso. “Cosa proponi?” Posò una mano alla parete, e di nuovo il forte tremò sotto l’eco di una cannonata. “Io non posso muovermi di qui.”

“Ascolta.” Inghilterra aprì una mano sul muro per tenersi in equilibrio e si avvicinò a Grecia di un passetto stando sulle punte dei piedi. “Dobbiamo per forza creare una seconda linea difensiva, una di riserva, usando tutte le tue unità che si sono ritirate dall’Albania e spostarle più a sud, sull’Aliacmo. Altrimenti non ce la faremo mai a proteggere Atene per il tempo necessario di far evacuare le truppe su Creta.”

Lo sguardo di Grecia si fece assorto, gli occhi pensosi si persero, distaccandosi dalle esplosioni che facevano tremare il pavimento sotto i piedi e dalle scintille degli spari che continuavano a schiantarsi addosso al forte. L’azione maggiore dei tedeschi si è concentrata qui, ragionò, eppure Germania è già stato in grado di circondare la Linea Metaxas sia a ovest che a est, e in più c’è anche la direttrice in Dalmazia che sta proseguendo senza difficoltà. Guardò in alto, si passò una mano fra i capelli e le dita scesero a massaggiare il collo. Arricciò un angolo della bocca in un’espressione confusa. Ma come può essere così facile per loro, se... “Non capisco.”

Inghilterra si strofinò via i rivoletti di sudore dalle guance e dalla fronte lasciando la pelle sbavata di lubrificante per armi. Gli rivolse la stessa espressione. “Non capisci cosa?”

Gli spari sputati dalle mitragliatrici addosso al forte si acquietarono, si spensero per lasciar posto a quelli più gravi e ruggenti dei cannoni e degli obici da montagna che tuonavano sulla piana e che facevano saltare la terra.

Grecia si alzò in piedi, scivolò di un passetto indietro per uscire dalla traiettoria del fascio di luce entrato dalla finestrella, e guardò fuori. “I tedeschi stanno andando fin troppo bene in tutti i settori, ma Germania e Prussia sono entrambi qui, secondo i nostri calcoli, no?” Tornò a grattarsi la nuca. La calma del suo viso si crepò in una ruga di confusione. “Come fa allora il resto delle truppe a procedere così bene anche da solo?”

Inghilterra allargò le palpebre, e un barlume di panico gli accese gli occhi. “Stai dicendo...” Scattò in piedi anche lui, posò una mano sulla mitragliatrice per inclinarla e riuscire a sbirciare fuori. “Che Germania potrebbe non essere qui?”

Grecia fece spallucce. “Oppure che abbia portato anche qualcuno che noi non ci aspettiamo.”

Inghilterra arretrò di un passo facendo scivolare la mano dall’arma, scosse il capo, si strofinò la testa come per scaldare il cervello. “Ma no, impossibile, non può esserci anche qualcun altro, oltre a lui e Prussia. Ci sono stati dei movimenti delle armate ungheresi e austriache, certo, ma sicuramente Austria e Ungheria sono rimasti a casa per coordinare l’entrata delle truppe in Jugoslavia.”

Sul viso di Grecia rimase quello sguardo indeciso che gli fece aggottare un sopracciglio. “Non ne sono più così convinto.” Fece un passo avanti, sollevò le spalle, e la luce grigia impregnata dallo sciame di polvere di cemento e zolfo gli soffiò sul viso, costringendolo a socchiudere le palpebre. “Dobbiamo avvisare tutti di –” Lo sparo esplose, vomitò una freccia di luce che entrò dalla finestra e gli trapassò la spalla.

Il contraccolpo sbalzò Grecia all’indietro, l’ombra dei capelli finiti sul viso gli nascose l’espressione di sorpresa sbavata da una smorfia di dolore, gemme di sangue schizzarono dalla ferita e volarono davanti allo sguardo attonito di Inghilterra. Perle rosse e lucide come bacche mature si riflessero nei suoi occhi sbarrati.

   
 
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