Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: xX__Eli_Sev__Xx    07/06/2017    2 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Amore
 

Capitolo III
Sospetto

 
 
 Il grande e potente Mycroft Holmes nelle mie mani.
 Se suo fratello potesse vederla adesso…
 Chissà se la guarderebbe ancora con gli stessi occhi.
 Sherlock prova una profonda stima nei suoi confronti.
 Tiene davvero molto a lei.
 Ma dopo questo…
 
 «Signor Holmes?»
 La voce calma e pacata di Anthea lo riportò alla realtà.
 Mycroft sollevò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia, il respiro accelerato, il cuore che batteva a mille.
 Capì immediatamente di trovarsi nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania, ma…
 Come ci era arrivato? E perché era lì?
 Abbassò lo sguardo, poggiando la schiena alla sedia, tentando di riordinare le idee.
 Lavoro, si disse immediatamente.
 Doveva lavorare. E lavorare era l’unico modo per non pensare a ciò che era successo.
 Sentiva la testa dolere per le troppe lacrime che aveva versato la notte precedente e sentiva dolore ovunque. Alle braccia, al petto, alle gambe, alla testa… ovunque. Ma poco importava. Non poteva lasciar trapelare nulla.
 Perciò inspirò profondamente, poi riportò lo sguardo su Anthea, ancora in piedi di fronte alla scrivania.
 «Sì?» chiese, incrociando il suo sguardo.
 La donna gli porse un plico di cartelline gialle. «Sono arrivate questa mattina.» spiegò. «L’MI6 ha pensato che potessero interessarle. Gli ultimi casi che sono stati posti alla loro attenzione.»
 Mycroft annuì e le prese, poggiandole di fronte a sé. «Grazie.» mormorò, abbassando nuovamente lo sguardo, riordinando distrattamente dei fogli poggiati di fronte a sé e infilandoli in una cartellina verde, che poi ripose in un cassetto alla sua destra.
 «Va tutto bene, capo?» domandò la donna.
 Il politico annuì, senza incontrare il suo sguardo.
 «Com’è andato l’incontro con Magnussen?»
 Nel momento stesso in cui Anthea pronunciò il suo nome, Mycroft provò una stretta al cuore e percepì lo stomaco contorcersi dentro di lui. Un brivido serpeggiò lungo la sua spina dorsale al pensiero di ciò che aveva dovuto subire soltanto la notte precedente, il ricordo ancora vivido nella sua mente.
 «Bene.» rispose sbrigativo, tentando di nascondere il tremore nella voce e allontanando quelle immagini dai suoi pensieri.
 Anthea annuì. «Ha bisogno di qualcosa?»
 «No.» rispose lui, aprendo uno dei fascicoli, per non dover incrociare il suo sguardo. Poi, con un gesto della mano, la congedò. «Puoi andare.»
 Lei annuì e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
 Non appena rimase solo, Mycroft si prese il viso fra le mani e chiuse gli occhi. Un ansito lasciò le sue labbra e il suo corpo venne scosso da un brivido; una fitta di dolore gli attraversò le braccia e il petto, espandendosi lungo tutto il suo corpo.
 Quella notte non era riuscito a chiudere occhio. Era rimasto chiuso nella sua stanza, rannicchiato sul materasso in preda al dolore e alle lacrime, tormentato dalle immagini, ormai impresse a fuoco nella sua mente, di ciò che Magnussen gli aveva fatto.
 Perché non riusciva a distaccarsi dal dolore?
 Perché non riusciva più a controllare le sue emozioni?
 Non poteva permettersi di crollare.
 Non doveva crollare.
 E per farlo doveva allontanare quei pensieri dalla sua mente.
 Doveva rimanere distaccato dai sentimenti e da tutto ciò che lo circondava.
 Doveva tornare ad essere l’Uomo di Ghiaccio. 
 
 L’SMS di Magnussen arrivò qualche ora dopo, proprio mentre Mycroft stava uscendo dal lavoro, diretto verso casa dopo una lunga e infruttuosa giornata di lavoro.
 Non appena vide comparire il numero sullo schermo, un moto di nausea lo invase. Il messaggio recitava due semplici parole.
 
 La aspetto.
 
 Due semplici parole che gli fecero rivoltare lo stomaco, mandando in black-out totale la sua mente.
 Come aveva potuto credere che una volta sarebbe bastata?
 Come aveva potuto credere che Magnussen avrebbe lasciato in pace lui e Sherlock?
 Lui non si sarebbe accontentato di così poco.
 No… Magnussen avrebbe giocato con lui fino a distruggerlo, per poi aggiungerlo alla fila dei suoi trofei e gettarlo via come un giocattolo rotto.
 Ma almeno non avrebbe toccato Sherlock, si disse, tentando di convincersi che quella, in fondo, sarebbe stata la scelta migliore per proteggere suo fratello.
 Per Sherlock.
 Mycroft sospirò e ripose il cellulare in tasca, poi salì sulla sua auto.
 «La porto a casa, signore?» chiese l’autista, cercando il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
 «No.» replicò Mycroft, affondando la schiena nel sedile. «Appledore.»
 
 Dopo quella notte, Magnussen costrinse Mycroft ad andare da lui molto più spesso.
 Lo chiamava al lavoro e ad ogni ora del giorno e della notte, insistendo fino a che il politico non lo raggiungeva ad Appledore.
 E ogni volta, il gioco di faceva più violento.
 Oltre alle violenze fisiche e psicologiche, si erano aggiunte anche le torture vere e proprie. Magnussen utilizzava coltelli e sigarette, manette e altri attrezzi per poter procurare più dolore possibile a Mycroft, che doveva sottoporsi a quei giochi senza lamentarsi, sapendo che se l’avesse fatto, a pagarne le conseguenze sarebbe stato Sherlock.
 
 Dopo due mesi di soprusi ininterrotti, Mycroft riusciva a malapena a reggersi in piedi.
 Gli incubi lo tormentavano ogni notte impedendogli di chiudere occhio per riposare, alternandosi ad allucinazione uditive e visive di ogni genere, e a saltuari attacchi di panico.
 Il suo corpo era così provato da tutto ciò che aveva dovuto subire, che Mycroft provava dolore ad ogni movimento. Anche i movimenti più semplici come parlare o respirare erano diventati complicati. Inoltre rimanere accanto alle altre persone era diventato sempre più difficile, tanto che un qualsiasi contatto, anche il più semplice, scatenava in lui reazioni sempre peggiori. Dagli attacchi di panico alle crisi di pianto, da malori a svenimenti…
 Ciò che quell’uomo gli stava facendo, aveva sortito l’effetto desiderato: farlo crollare e sottometterlo completamente a lui, in modo che non si ribellasse e desistesse da ogni tentativo di fermarlo.
 E lui, stupidamente, aveva creduto di poter resistere. Di essere più forte dalla violenza e della pressione psicologica, di poter controllare il dolore e la paura, distaccandosi da esse, continuando pacificamente con la sua esistenza… Ma così non era stato. E Mycroft sarebbe crollato pezzo per pezzo, fino a che di lui non fosse rimasto più niente. 
 
 Quella notte Magnussen aveva esagerato.
 Era stato più violento e spietato delle altre volte. Aveva voluto fargli ancora più male, umiliandolo e togliendogli quel briciolo di dignità e forza che gli erano rimaste, e aveva voluto assicurarsi che ne portasse i segni.
 Ma Mycroft non poteva permettersi di portarsi addosso le prove di ciò aveva subito. Di ciò che aveva permesso a Magnussen di fare. Anche se sapeva che sarebbe stato quasi impossibile nasconderli.
 Quando salì in macchina, quella notte, ad attenderlo aveva trovato Anthea, che lo stava aspettando seduta sul sedile del passeggero.
 Mycroft tentò di non dare a vedere quanto dolore stesse provando, sperando che l’oscurità nascondesse lividi e ferite, e prese posto accanto a lei, rimanendo nel più completo silenzio, voltandosi per osservare il paesaggio fuori dal finestrino.
 Come ogni notte, il suo autista partì senza fare domande, diretto verso casa.
 «Ha bisogno di un medico.» affermò Anthea, in tono piatto e distaccato.
 Era un’affermazione, non una domanda, segno che anche lei aveva notato il suo strano comportamento nell’ultimo periodo e che probabilmente – dopo aver saputo dall’autista che Mycroft si receva ad Appledore quasi tutte le notti – sapeva cosa stava succedendo.
 Mycroft chiuse gli occhi e strinse i pugni. «No.» replicò con voce straordinariamente ferma, nonostante le lacrime che stavano minacciando di rigargli le guance.
 Ma perché non riusciva più a controllarsi?
 «Potrebbe denunciarlo, se solo volesse.» aggiunse la donna.
 «Ma non voglio.» disse il politico, senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
 Anthea rimase in silenzio per qualche secondo. Poi sospirò. «Perché lo sta facendo?»
 «Perché non ho altra scelta.»
 «Se ne parlasse con suo fratello, forse potreste-»
 Mycroft la interruppe. «Ti stai prendendo troppe libertà.»
 «Sto svolgendo il mio lavoro.»
 «Non sei pagata per farmi da balia, ma per farmi da segretaria.» le ricordò Mycroft, voltandosi verso di lei, infischiandosene del fatto che avrebbe notato le ferite sul suo volto, che nemmeno lo strato di barba rossiccia riusciva più a nascondere. «Quindi vedi di stare al tuo posto.» l’auto si fermò e Mycroft aprì la portiera, pronto a scendere. Si voltò «E sappi che se dovessi scoprire che qualcuno è venuto a sapere qualcosa riguardo questa storia, ti ritroveresti senza lavoro.» e detto questo, scese dalla macchina.
 
 Il giorno dopo, nel pomeriggio, Mycroft raggiunse Baker Street per parlare con suo fratello riguardo Magnussen e costringerlo una volta per tutte a stargli lontano, considerato che dopo la sparatoria di due mesi prima nel suo ufficio, Sherlock aveva continuato ad indagare su di lui.
 E ovviamente questo a Magnussen non era sfuggito, tanto che i loro incontri si erano fatti sempre più violenti e difficili da sopportare per lui. Perciò era arrivato il momento di mettere un freno alle indagini di Sherlock, che non avrebbero fatto altro che peggiorare ancora di più la situazione.
 Sherlock era in salotto e stava componendo, in piedi di fronte alla finestra, e non appena Mycroft ebbe varcato la soglia, si bloccò, smettendo di suonare improvvisamente.
 «John?» chiese.
 Ed ecco il primo passo falso.
 A dimostrazione del fatto che i segni che Magnussen aveva lasciato sul suo corpo fossero sempre più visibili, c’era il fatto che Sherlock avesse scambiato il suo passo trascinato e leggermente zoppicante per quello di John, cosa mai accaduta prima di allora.
 Mycroft si impose di mantenere la calma.
 Non doveva far trapelare nulla. Non doveva dare l’impressione che qualcosa non andasse, altrimenti suo fratello avrebbe immediatamente capito di cosa si trattasse.
 Doveva rimanere calmo. I segni su braccia, gambe e petto erano nascosti dagli abiti e quelli suo volto parzialmente nascosti dalla barba. Perciò se avesse prestato attenzione, suo fratello non si sarebbe reso conto di nulla. 
 «No, sono io.» disse con voce calma e pacata.
 Sherlock si voltò e incrociò il suo sguardo. Aggrottò le sopracciglia, stupito di vederlo lì e ancora di più di essersi sbagliato.
 «Stai zoppicando.» affermò, deducendolo con poche occhiate.
 Il politico rimase impassibile, sapendo che suo fratello avrebbe dedotto anche la più piccola espressione facciale o movimento sospetto.
 «Le tue abilità deduttive mi affascinano, fratellino.» lo stuzzicò infine, sperando di nascondere la sua stanchezza e il dolore che stava provando, dietro quelle parole apparentemente disinteressate. «Migliori ogni giorno.»
 «Perché zoppichi?» chiese Sherlock, ignorando la sua affermazione.
 Mycroft si prese qualche secondo per elaborare una scusa quantomeno plausibile. «Mi fanno male le gambe.» disse infine, pentendosi immediatamente per la stupidità di quell’affermazione.
 Sherlock sollevò le sopracciglia. «Ti fanno male le gambe.» ripeté, scettico. «A te, che non muovi un passo se non per andare dalla scrivania alla poltrona.»
 «È forse vietato essere stanchi?» chiese il maggiore, fingendosi spazientito.
 «Tu non sei mai stanco.» chiese Sherlock, con sospetto. Poi assottigliò lo sguardo. «Da quanto non dormi?»
 Sherlock aveva notato le occhiaie. Mycroft represse un brivido, imponendosi di rimanere impassibile. «Da quando ti importa?» lo sfidò, pregando di essere convincete.
 Il consulente investigativo assottigliò lo sguardo, inclinando il capo. «Quello è un livido?» domandò ancore, indicando il suo volto, pallido e segnato dalla stanchezza.
 Mycroft rabbrividì. Aveva tentato di nasconderli e ripulirli in modo che non fossero visibili, e ci era riuscito con il taglio sul labbro e con il livido sulla fronte, ma ovviamente, con quello sullo zigomo era stato più complicato e nonostante la barba, Sherlock lo aveva notato immediatamente.
 Il maggiore sbuffò. «Questa conversazione è priva di qualsiasi senso logico.» disse, alzando gli occhi al cielo. «Ti prego, finiamola qui prima che mi venga mal di testa.»
 Sherlock fece spallucce e annuì. «Desumo che ci sia un motivo per cui sei venuto qui.» affermò, tornando a scrivere qualche nota sul suo spartito, dando le spalle al fratello. «E credo che la ragione sia, come da due mesi a questa parte, Magnussen.»
 «Esattamente.» confermò il politico.
 «Ebbene?» domandò il consulente investigativo, tornando a voltarsi verso di lui e sollevando le sopracciglia, in attesa che il maggiore si spiegasse.
 I loro sguardi si agganciarono.
 «Stai lontano da lui, Sherlock. Non lo ripeterò ancora.» disse Mycroft, parlando duramente e con voce ferma, senza giri di parole. «Magnussen è un uomo pericoloso. Stai giocando con il fuoco e ben presto potresti bruciarti.»
 «Mi piace giocare.» disse Sherlock con un sorriso malizioso a inclinargli l’angolo delle labbra. «E Magnussen non è diverso da tanti altri casi che ho affrontato. Non è poi così diverso da Moriarty. E se ben ricordi, con Jim è finita piuttosto bene.» fece spallucce. «Se non consideriamo i due anni in cui ho dovuto fingere la mia morte.»
 Mycroft avanzò. «Tu non hai idea della persona contro cui ti stai mettendo. Magnussen è l’uomo più potente del Regno Unito e tu stai commettendo l’errore di sottovalutarlo.» sibilò. «Lui ti porterà via ogni cosa prima che tu possa accorgertene. Renderà la tua vita un inferno e non potrai fare nulla per impedirlo o per opporti.» disse, tutto d’un fiato, rendendosi conto troppo tardi di essersi lasciato trasportare dai sentimenti che stava provando in quel momento. «E quando te ne accorgerai sarà già troppo tardi.»
 «Qualcuno deve fermarlo.» affermò il consulente investigativo.
 Mycroft sospirò. «Sì, ma quella persona non devi essere tu.» replicò. Poi scosse il capo. «Ti sto implorando, fratellino. Sta’ lontano da lui. Lo sto dicendo per il tuo bene.»
 Il minore, a quelle parole, inclinò il capo per studiare suo fratello. Aggrottò le sopracciglia e assottigliò lo sguardo. «Cosa mi stai nascondendo?» domandò in un sussurro, bloccandosi con violino e archetto fra le mani.
 Mycroft si rese conto di aver commesso l’ennesimo errore.
 Era stato troppo esplicito. Troppo insistente. E adesso Sherlock avrebbe capito. L’avrebbe torchiato fino a che non l’avesse fatto confessare e tutto sarebbe venuto a galla.
 «Cosa dovrei nasconderti?» domandò, quindi, tentando di sembrare distaccato come sempre, e riparare al danno che aveva fatto.
 Sherlock puntò i suoi occhi in quelli del fratello e per un momento a Mycroft sembrò che potessero scrutare nella sua anima, fino nel suo angolo più recondito e nascosto.
 «Perché la questione di Magnussen ti turba così tanto?» chiese il minore. «Perché ti spaventa così tanto che io possa affrontarlo?»
 «Perché non hai idea del pericolo che stai correndo.» replicò il politico. «Perderai, Sherlock. Perderai, e una volta che quell’uomo ti avrà in pugno, non potrai più tornare indietro.»
 «Lo batterò.»
 «No, invece.»
 «Perché no?»
 «Perché lui…» Mycroft esitò.
 Cosa avrebbe potuto dirgli?
 Che l’aveva già sconfitto senza che nemmeno se ne fosse accorto?
 Che se non fosse stato per lui, Magnussen l’avrebbe già distrutto?
 Sospirò. «Lui ha già vinto.» disse infine, non riuscendo a trattenersi.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Cosa significa?»
 «Nulla.» rispose il politico, voltandosi e stringendosi nelle spalle al pensiero di ciò che aveva dovuto subire a causa di Magnussen, nell’ultimo periodo. «Non significa nulla.» si schiarì la voce. «Voglio solo che tu gli stia lontano. Promettimi che non ti avvicinerai più a lui e che smetterai di indagare sul tuo conto.»
 «Perché?»
 «Per l’amor del cielo!» esplose Mycroft, voltandosi nuovamente verso suo fratello, lo sguardo carico di rabbia ed esasperazione. «Perché per una maledetta volta non puoi fare quello che ti dico? Perché non puoi mai darmi ascolto?»
 «Perché voglio una spiegazione.» rispose Sherlock. «Voglio che mi spieghi perché diavolo ti stai comportando così.»
 «Così come, Sherlock?» ringhiò il maggiore. «Vuoi che ti spieghi perché mi sto preoccupando per te?»
 «No di certo.» dichiarò il minore. «Voglio capire perché lo stai facendo in questo modo. In maniera così esplicita e insolita. Qualcosa è cambiato, Mycroft, non negarlo. E voglio che mi spieghi il perché.»
 Mycroft abbassò lo sguardo. Era stato un folle a credere che Sherlock non se ne sarebbe accorto. «Non essere ridicolo. Non è cambiato nulla.»
 «Balle.»
 «Ora basta, Sherlock.» sibilò il maggiore. «Basta.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sopracciglia. «Basta? Di fare cosa?»
 «Smettila di insistere.» affermò, stringendo i pugni e chiudendo gli occhi, imponendosi di non cedere.
 «Non sto insistendo.»
 «Sì, invece, e voglio che la smetti.» ansimò Mycroft, scuotendo il capo e portandosi una mano al viso per massaggiarsi gli occhi. «Smettila di comportarti così e comincia a usare la testa.»
 Sherlock lo osservò per qualche secondo, poi poggiò violino e archetto sul tavolo e si avvicinò.
 Mycroft, captando il suo movimento, d’istinto, indietreggiò, il cuore che batteva a mille, il respiro accelerato a causa di quella vicinanza improvvisa e inaspettata.
 Il minore se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. «Cosa succede?»
 I loro sguardi si incontrarono.
 «Cosa dovrebbe succedere?» domandò il politico, con voce tremante e incerta.
 Il minore si mosse ancora e l’altro indietreggiò nuovamente, non potendo farne a meno. Era più forte di lui. Non riusciva a sopportare quella vicinanza, nonostante fosse consapevole che Sherlock non gli avrebbe mai fatto del male.
 «Dio, Mycroft, cosa ti prende?» quasi ringhiò Sherlock. «Non tolleri più la mia presenza?»
 «Non dire sciocchezze.»
 «Ti prego.» disse Sherlock, con sarcasmo. «Chi vuoi prendere in giro?»
 Mycroft sbuffò.
 Doveva andarsene di lì.
 Doveva andare via prima che quella conversazione prendesse pieghe poco piacevoli.
 «Pensa a quello che ti ho detto.» concluse, sbrigativo. «Adesso devo tornare al lavoro.» concluse e si voltò per uscire.
 Tuttavia, prima che potesse andarsene, Sherlock lo raggiunse e chiuse la porta con una spinta. «Tu non vai da nessuna parte se prima non mi dai una spiegazione.» disse, tenendo una mano poggiata sulla porta e il braccio disteso a bloccare il passaggio al maggiore.
 «Lasciami uscire, Sherlock.» ordinò Mycroft, senza incrociare il suo sguardo.
 «No.» ringhiò il minore. «Prima spiegami.»
 «Ora basta.» ringhiò il politico, in risposta. «Stai davvero cominciando a stancarmi, Sherlock. La mia pazienza ha un limite e lo stai decisamente superando.» concluse e poggiò una mano sulla maniglia per aprire la porta.
 Prima che potesse farlo, Sherlock lo prese per i lembi della giacca e lo spinse contro la parete, bloccandolo in modo che non potesse muoversi.
 «Non ti lascerò uscire fino a che non mi avrei spiegato cosa diavolo ti prede.» ringhiò, poggiando una mano sul suo petto per tenerlo fermo. «Perciò vedi di sbrigarti, prima che perda le staffe.»
 Mycroft, non appena sentì le mani di suo fratello entrare in contatto con il suo petto, rabbrividì. Ansimò e tentò di liberarsi dalla sua presa. «Lasciami…» disse con voce tremante, senza fiato, tentando di allontanarsi.
 «Non finché non mi avrei spiegato cosa ti sta succedendo.»
 «Smettila, Sherlock.» replicò lui. «E lasciami andare.»
 «Allora spiegami.»
 Mycroft ansimò e scosse il capo, sollevando le braccia per spingere Sherlock lontano da lui. «Sherlock, per favore.» ansimò. Tentò di allontanarsi, ma le mani di suo fratello si chiusero intorno ai suoi polsi. Un gemito lasciò le sue labbra prima che riuscisse a fermarlo. «Ti prego… ti prego, lasciami…»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia, sentendo il corpo di Mycroft tremare violentemente. «Mycroft, cosa ti prede?» chiese, scuotendo il capo.
 Mycroft ansimò, sentendo le lacrime pronte a rigargli le guance. «Io… lasciami andare…» lo implorò. «Per favore… Ti prego, lasciami andare. Non… non toccarmi…»
 E poi le gambe non lo ressero più.
 Mycroft scivolò a terra e le ginocchia cozzarono contro il legno del pavimento con un rumore secco che rimbombò per tutta la stanza. Un fitta potente gli attraversò le gambe, risalendo dalle cosce fino al petto, amplificando il dolore che stava provando ormai da settimane.
 Perché era andato lì? In fondo sapeva come sarebbe finita… perché aveva comunque voluto andare da Sherlock? Sarebbe dovuto rimanergli il più lontano possibile e invece aveva deciso di rovinare tutto. E adesso suo fratello avrebbe capito. Avrebbe visto. E lo avrebbe odiato.
 «Mycroft» lo chiamò suo fratello, inginocchiatosi al suo fianco. «Mycroft, guardami.»
 Il maggiore scosse il capo, tenendo lo sguardo basso per nascondere le lacrime.
 Non voleva che suo fratello lo vedesse così. Non voleva che capisse, perché avrebbe fatto ancora più male. Non avrebbe sopportato di essere giudicato da Sherlock per le sue azioni.
 Era già abbastanza difficile guardarsi ogni giorno allo specchio. 
 «Sì. Guardami.» insistette Sherlock e gli sollevò il viso con una mano. «Dimmi cosa sta succedendo.»
 Mycroft scosse il capo, rabbrividendo sotto il tocco del fratello. Si scostò.
 «Cos’è quello?» sbottò ad un tratto il minore, sfiorandogli la base del collo con le dita.
 Il cuore di Mycroft si fermò. Era sicuro che la camicia sarebbe riuscito a coprire tutti i lividi, nascondendoli alla vista quanto bastava perché nessuno lo notasse… ma ovviamente non aveva fatto i conti con suo fratello.
 «Oh, Dio…» sfuggì a Sherlock. Poi tentò di slacciargli la cravatta.
 Mycroft ansimò, e per un momento gli sembrò di vedere il volto di Magnussen a pochi centimetri dal suo. «No…» singhiozzò, tentando di ribellarsi e respirando affannosamente. «No, non farlo…» pianse e il suo corpo riprese a tremare violentemente sotto il tocco del fratello. «Ti prego, no…» abbassò lo sguardo, chinando il capo.
 Non è Magnussen.
 Non è Magnussen.
 Non è Magnussen, continuò a ripetersi.
 Ma il solo fatto che suo fratello fosse così vicino, riusciva a togliergli il fiato. La paura lo aveva immobilizzato, impedendogli di pensare con lucidità o di fare qualcosa per fermare Sherlock.
 «Non voglio farti del male, Mycroft.» assicurò Sherlock. «Voglio solo…» si bloccò. Sospirò. «Voglio capire come te lo sei fatto.» disse cautamente.
 Mycroft non rispose.
 Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto ammettere che era stato Magnussen a fargli del male e avrebbe, di conseguenza, dovuto spiegare a Sherlock ciò che stava succedendo.
 E non poteva permetterselo.
 Non se voleva tenerlo al sicuro da quell’uomo.
 «Mycroft, rispondi alla mia domanda.» disse il minore, in tono fermo e perentorio. «Come te lo sei fatto?» sillabò.
 Mycroft tremò, sentendo quanto duro fosse il tono di suo fratello. Lo stesso tono che aveva utilizzato Magnussen tante volte, durante le notti passate alla sua mercé.
 «Sono caduto.» rispose, con voce rotta.
 «Ti prego, non insultare la mia intelligenza. Questi non sono lividi da caduta.» affermò Sherlock. Poi, improvvisamente, il suo tono si addolcì. «Dimmi chi è stato.»
 Il maggiore scosse il capo e si portò le mani al viso, premendole sulle orecchie. «Basta…» singhiozzò. «Smettila… ti prego… non posso…»
 «Perché non puoi?» chiese il consulente investigativo, circondandogli i polsi con le dita e allontanando le mani dal suo volto con delicatezza. «Ti hanno minacciato?»
 «Ti prego… non… non posso…» ansimò, tentando di liberarsi dalla sua presa e allontanarsi. «Se parlerò verrà a cercare te… ti farà del male… non posso…»
 «Non devi preoccuparti per me.» replicò il minore. «Dimmi chi è stato.»
 Mycroft scosse il capo. «No…»
 Sherlock sospirò. «Posso proteggerti, Mycroft.» affermò. «Non gli permetterei mai di farti del male. Dimmi la verità.»
 «No.» insistette Mycroft. «Non posso. Non chiedermelo.»
 Il minore scosse il capo. «Puoi almeno dirmi quanto si è spinto oltre?»
 Per un momento non accadde nulla, poi le lacrime ripresero a rigare le guance di Mycroft, che scosse il capo e gemette, tentando di liberarsi dalla presa del fratello, che aveva ancora le dita chiuse intorno ai suoi polsi. 
 «Mycroft, voglio aiutarti, ma tu devi permettermelo.» disse il minore, aumentando la presa intorno alle braccia del politico e cercando il suo sguardo. «Dimmelo.»
 Il maggiore continuò a scuotere il capo, il dolore che aumentava ad ogni secondo che passava. «Ti prego, Sherlock…» lo implorò, le lacrime che gli rigavano le guance, il volto sempre più pallido. «Mi fai male… ti prego, smettila…»
 Sherlock abbassò lo sguardo sui polsi del fratello, dove le sue mani si erano chiuse per impedirgli di coprirsi il volto. Aggrottò le sopracciglia, poi, prima che il maggiore potesse ribellarsi, scostò uno dei polsini della camicia, scoprendo la pelle del suo braccio.
 I suoi occhi si spalancarono.
 Mycroft lo captò. Con uno strattone si liberò e coprì le ferite con le maniche della giacca. I segni che le manette avevano lasciato sui suoi polsi erano gli unici a non essersi ancora rimarginati; la sua pelle pallida e nivea era segnata da profonde cicatrici color cremisi, circondate da altri lividi e dalle bruciature provocate delle sigarette fumate da Magnussen e utilizzate come strumenti di tortura. Ovviamente, essendo ancora in via di guarigione, Mycroft non aveva potuto nasconderle coprendole con cerotti o garze, quindi era impossibile che Sherlock non le notasse.
 Mycroft chiuse gli occhi.
 Le immagini della notte precedente emersero nella sua mente.
 Il coltello.
 Le sigarette.
 Le manette.
 La lotta per liberarsi.
 Le ferite.
 La violenza.
 La paura.
 Il dolore.
 «Questi sono segni di manette.» disse Sherlock, riportandolo alla realtà. «Mycroft, cosa diavolo sta succedendo?»
 «Niente.» rispose il politico.
 «Niente?» chiese Sherlock, aggrottando le sopracciglia. «Sei coperto di lividi e ferite di ogni genere, ti hanno ammanettato fino a lacerarti i polsi e hanno usato delle sigarette per marchiarti…» affermò. «Questo secondo te è niente?»
 Mycroft asciugò le lacrime che gli avevano rigato le guance con un rapido gesto della mano, poi abbassò lo sguardo e scosse il capo.
 Sherlock sospirò e gli poggiò una mano sulla spalla. «Adesso ascoltami, Mycroft.» esordì, chinando il capo per cercare lo sguardo di suo fratello. «Qualsiasi cosa stia accadendo non è colpa tua. Ti stanno facendo del male e il responsabile non sei tu.» fece una pausa, poi poggiò una mano sul viso di Mycroft, sollevandolo e accarezzandogli una guancia. Un gesto carico di dolcezza e comprensione. «Non ti giudicherò, né me la prenderò con te. Ma devi dirmi cosa sta succedendo, in modo che io possa aiutarti.»
 Il politico scosse il capo.
 «Perché?»
 «Non voglio parlarne.»
 «Ma dovrai farlo.» replicò Sherlock. «Questa è aggressione. Devi denunciare i responsabili alla polizia.»
 Mycroft scosse il capo e, a fatica, si mise in piedi. «Non denuncerò nessuno.»
 «Cosa?» esclamò Sherlock, alzandosi a sua volta. «Non vorrai permettere che tutto questo continui? Non puoi lasciare che continuino a farti del male.»
 «Non sono affari tuoi.» sentenziò Mycroft. «Adesso spostati e lasciami uscire.» sibilò, avendo ritrovato la fermezza nella voce.
 Il minore lo osservò per qualche istante, poi sospirò e, lentamente, si scostò.
 Il politico si mosse e aprì la porta. Poco prima che potesse uscire, però, la voce di suo fratello lo bloccò.
 «Io sono qui.» disse Sherlock, con dolcezza. «Sono qui, esattamente come tu ci sei stato per me in tutti questi anni.» affermò. «Per qualsiasi cosa… ti prego, vieni da me.»
 Mycroft rimase immobile per qualche secondo, poi, stringendo i pungi, uscì, lasciandosi Baker Street e suo fratello alle spalle.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Rieccomi qui, come promesso, con il terzo capitolo della mia storia :)
Prima di proseguire e di dimenticarmi, devo precisare una cosa che non ho detto all’inizio: in questa storia, come avrete capito, ci troviamo a metà di His Last Vow, poco dopo il momento in cui Mary ha sparato a Sherlock. Il nostro consulente investigativo l’ha già smascherata, quindi in questa ff John è già tornato a vivere a Baker Street con lui per una pausa di riflessione, com’era accaduto nella serie. ;) Quindi, in conclusione, a parte il ricatto di Magnussen, tutto è rimasto esattamente uguale. Ci tenevo a precisarlo prima di proseguire, a scanso di equivoci e incomprensioni :)
A parte questa luuuunga digressione, pubblicherò il prossimo capitolo venerdì.
Spero che questo terzo capitolo vi sia piaciuto. ;D
A presto, Eli♥
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: xX__Eli_Sev__Xx