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Autore: Luana89    08/06/2017    2 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT VI

 
 
Mosca, 1996
 
«Ciao!»
 
«…»
 
«Ho detto: Ciao!»
 
«…»
 
«Quando la principessa di casa ti parla, tu devi rispondere ..lo capisci?»
 
«Sparisci.»
 
«… Mi hai appena detto di sparire? Sono Sophia, la principessa di casa. Sei pure un nano da giardino, lo dirò a papà e ti farò cacciare.»

 
Incontrai Sophia nel periodo in cui tutte le certezze della mia vita andavano lentamente sgretolandosi, tutte le figure alle quali ero solito aggrapparmi erano andate via via sparendo senza lasciar traccia. In un mondo che stava lentamente cambiando, nel cuore di un bambino che si inaridiva sempre più, un sentimento caldo e familiare piantò le sue piccole radici lasciando una parte di umanità in quel me stesso ragazzino che presto o tardi si sarebbe trasformato in un mostro. 
Gli anni passarono, le vite cambiarono, divenni più alto di Sonech’ka, e Sonech’ka divenne sempre più ignara di ciò che succedeva intorno a lei. 
Solo una cosa restava immutata, almeno per il momento: l'affetto, come una sorta di tepore, di ciò che consideri ''famiglia''.
 
I don’t think of you as a monster. So don’t think of yourself that way. If you do, you are wrong.
 
 
***
 
 
«Misha sei in grado di mangiare il gelato con la bocca, anziché col naso?»
 
«Perché?»
 
«Perché fai schifo.»
 
«Perché?»
 
«Mangia e zitto.»
 
«Perché?»

«.... Vuoi che ti faccia contare gli scalini col culo?»
 
«Shùra, se ti dico un mio segreto mi dici tu il tuo?»
 
«Solo se ne vale la pena.»
 
«Ho una sorella, si chiama Irina .. mio padre mi ha venduto a Sergej, ma quando sarò abbastanza alto io la cercherò e vivrò con lei.»
 
«Se lo sapesse Sonech'ka non avresti pace.»
 
«NON DIRLO A NESSUNO. Adesso tocca a te..»
 
«Sono Alekdsandr Petrov.»
 
Aleksandr e Mikhail, Shùra e Misha, un rapporto che trascendeva la semplice amicizia, che superava la normale fratellanza, carne e sangue uniti insieme. 
‶La famiglia è sangue, e il sangue non si ingoia. Si mastica.‶ Così diceva Sergej durante i nostri colloqui, così plasmò le nostre giovani anime. 
Imparai a sparare, e a mia volta lo insegnai a Misha. Uniti indissolubilmente, mentre i tumulti di quel tempo cambiavano la nostra vita, due bambini intrecciavano i loro destini. Cresciuti nell'ala ovest del palazzo, imparammo ad essere l'uno la famiglia dell'altro, imparammo a bastarci.
Sempre in lotta tra di noi, uniti nella stessa identica battaglia, senza un perché e con l'unica certezza d'aver iniziato insieme e di dover finire allo stesso modo.
 
L’anima trema nell'enigma eterno; fratello, soffro la tua stessa pena: attendo un’Alba e non so dirti quale.
 

*** 
 
Siberia, 2003
 
Il duemilatre era appena arrivato, quell’anno portò con se due cose fondamentali che coincisero con la chiusura definitiva di quel ragazzino chiamato: Aleksandr Petrov.
Quell’anno uccisi per la prima volta un uomo, gli tolsi la vita ed ebbi il mio battesimo del fuoco, e sempre in quell’anno rividi per l’ultima volta mio padre.
Tramite vie traverse avevamo scoperto si trovasse in Siberia, un luogo dimenticato da Dio nella quale sarebbe stato giustiziato in pochi giorni. Ricordo il suo viso smunto ed emaciato, i lividi sbiaditi, ormai invecchiato. Solo il pallido riflesso dell’uomo che era stato, quello scintillio negli occhi così simili ai miei, mi convinsero di essere faccia a faccia con colui che mi aveva messo al mondo.
Mi diedero cinque minuti, cinque fottutissimi minuti per dire ancora una volta addio a mio padre. I suoi occhi vacui e spenti si posarono su di me, non sembrò riconoscermi mentre con mano tremante stringeva un libro dalla copertina consunta. Ripensai alla collezione di poesie datemi da mia madre che ancora tenevo nascosta nella famosa ala ovest a Mosca. Non dissi nulla, né lo fece lui che si limitava a fissarmi sospettoso, ormai convinto che tutti gli fossero nemici; non piansi. Non mi concedetti quel lusso mentre mi presentavo come Aleksandr Belov, figlio di un tipo che non esisteva neppure. Quando voltai le spalle pronto ad andar via la sua voce interruppe il silenzio: «Non temere i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco, diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire ..figlio mio.»
Non piansi, non dissi nulla, marcii solo un po’ dentro di me. Non ebbi più sue notizie, probabilmente raggiunse mia madre e da lassù piangono insieme il figlio divenuto un miserabile.
 
 
***
 
 

San Francisco, Élite

 
Irina apparve coi suoi occhi glaciali ed un modo di fare timido e dismesso che sembrava solo apparenza. Si sedette sul divanetto e io presi posto sulla poltrona accanto a lei mentre non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Sui documenti che ero riuscito a prendere tra le mani vi era un resoconto breve dei suoi anni lontano dal fratello, venne venduta all’età di sette anni circa tre anni dopo la venuta di Misha in casa di Sergej; apparentemente non sembrava ricordare nulla, ma io sapevo che un legame fraterno non poteva scindersi solo con tempo e dolore.
«Vuoi qualcosa da bere?». La mia voce suonava come una dolce nenia, mentre scrutavo a fondo in quelle pozze fin troppo simili. Era come parlare alla versione femminile di colui che per anni era stato mio fratello. La vidi annuire e acconsentire. Dieci minuti dopo sorseggiava il suo caffè fissandomi.
«Ho fatto alcuni scatti di poca importanza in questi anni, è più un hobby che un vero e proprio lavoro .. non mi aspettavo una chiamata simile, da un’agenzia simile soprattutto». Mi sorrise fiduciosa, e per una volta non mi sentii in colpa.
«A quanto pare questi scatti sono arrivati a chi di dovere, e sei piaciuta parecchio. Sei perfetta per una campagna che inizieremo a breve .. solo che non sarai la sola a lavorarvi». Le sorrisi e vidi la gabbia aprirsi, lei la fissava senza vederla sul serio.
«Intende dire che dovrò lavorare con un partner?». Mi fissò incuriosita mentre annuivo con espressione neutra, la migliore che riuscii a tirar fuori per l’occasione.
«Si, Mikhail Volkov – restai in silenzio osservandola assimilare quel nome, ma neppure un guizzo di sentimento passò sul viso che sembrava di porcellana – E’ il nostro modello di punta, se firmerai il contratto lo conoscerai». Annuì e sembrò entusiasta della cosa. Probabilmente si chiedeva quale santo ringraziare per una fortuna simile. Io la fissavo e provavo tristezza. Misha aveva passato gli ultimi vent’anni intrappolato nel suo ricordo, e lei non ricordava neppure il nome del fratello?
«Lo farò, ovvio che lo farò!». Poggiò la tazzina che tintinnò contro il piattino giungendo le mani con un sorriso felice, le venni dietro alzandomi poi da lì per farle strada fuori l’ufficio. Anastasia si alzò velocemente fissandomi con sospetto, scossi il capo silenziosamente per poi poggiarmi alla scrivania.
«La signorina Jensen inizierà a lavorare ufficialmente per noi dalla prossima settimana, mandale via mail tutti i fogli da compilare e firmare, la porto a conoscere Misha». Anastasia aggrottò la fronte ma restò stoicamente professionale limitandosi a raddrizzare gli occhiali da vista e distogliere totalmente l’attenzione da noi. Feci strada ad Irina, cercando di memorizzare il nome falso che il patrigno le aveva affibbiato.  
Sotto regnava il caos, le truccatrici volavano da una parte e l’altra in pieno fermento e seppi con certezza che Misha si era appena presentato. In notevole ritardo, come sempre. Evitai di urtarmi indicandolo con un cenno del dito alla ragazza, ancora una volta la guardai e ancora una volta restai deluso dalla sua espressione. Sembrava forzatamente composta, o magari era una mia stupida impressione, a furia di vivere col sospetto impari a non fidarti di nessuno.

 
Gli occhi di Misha si poggiarono su di lei e seppi con certezza di aver finalmente fatto qualcosa di buono per lui.
 
 

Mikhail POV

 
Quella mattina non volevo presentarmi a lavoro, di recente non mi andava di fare un cazzo di niente era come se fossi bloccato nel corpo di un morto. Sentivo di non stare andando da nessuna parte, quella fottuta città stava portando solo problemi. I rapporti si ingarbugliavano, le parole non riuscivano a trovare sbocchi, e le mie certezze – le poche che avevo – naufragavano senza aver neppure la decenza di avvisarmi.
Eppure ci sono scelte che compi senza un reale perché, cose minime che recepisci solo col senno di poi, i classici bivi che prendi ma non sai ancora dove ti porteranno. Una cena fuori o un film a casa, una serata in discoteca o una al parco, una corsa mattutina o restare a poltrire nel tuo letto fino allo sfinimento. Andare a lavoro o rintanarti in un bordello. La mia scelta fu andare a lavoro, una scelta che non avrei mai rimpianto.
Vidi Aleksandr, comparve dal nulla di fronte la porta, era con qualcuno ma non riuscivo a capire chi fosse perché altre persone oscuravano la sua presenza. Era strano vedere lì il presidente, inoltre il servizio che mi accingevo a fare non era neanche tra i più pagati o importanti, eppure lui era lì. Ero talmente concentrato nell’osservarlo da rendermi conto solo qualche istante più tardi della donna che lenta avanzava verso di me.
Il mio mondo tremò. Il tempo si fermò e i miei occhi così simili ai suoi sembrarono cristallizzarsi dentro le palpebre e rischiare di fuoriuscire e schizzar sangue e lacrime. Irina. Non era più una bambina con le trecce, era una donna di ventiquattro anni dai capelli neri come la pece e la pelle diafana come la luna alta nel cielo. Respirare divenne difficoltoso, persino ascoltare ciò che diceva era impossibile con le mie orecchie tappate da dolore e gioia. Ricordo di averle allungato la mano, di aver stretto la sua, di aver balbettato qualcosa mentre tornavo a guardare Shùra e la sua promessa mantenuta. Miliardi di parole passarono tra noi, miliardi di scuse, miliardi di ‘’grazie’’.
Irina non sembrava riconoscermi, nonostante i nostri occhi fossero talmente simili, persino la forma degli zigomi o delle labbra aveva un’aria familiare, appresi si chiamava ‘’Astrid’’ non sapevo ancora i retroscena della cosa, ma confidavo in Aleksandr.
Le chiesi il numero, la invitai ad uscire con me, non c’era malizia nel mio tono né nel suo mentre mi fissava sorridendo accettando di buon grado quel nuovo ‘’amico’’ che sembrava essersi fatta nel giro di poche ore. La mia bambina, la principessa che avevo protetto come possibile nell’inettitudine dei miei quattro anni, come avrei dovuto dirle chi ero? Spiegarle il perché di tutto questo? Più ci provavo e più le parole non uscivano mentre la fissavo bere un frappé a mio parere disgustoso. Seppi che aveva mollato l’università, quando le chiesi il perché glissò abilmente e io capii che qualcosa non andava. Avevo mille domande e per ironia non avevo ancora risposto a quelle poche certe che conoscevo. Le promisi ci saremmo visti il giorno dopo, ma quel giorno non arrivò.
Non me ne pentii comunque, presi la scelta giusta quella mattina.
 
***
 
«Misha». La voce di Boris mi arrivò alle spalle, fastidiosa come sempre. Con lui i rapporti non erano dei migliori, anche se pensandoci attentamente ..con chi ho rapporti decenti a parte Shùra? Mi voltai con le chiavi di casa ancora in mano.
«Ti serve qualcosa?». Vidi altri due ragazzi affiancarsi a lui, assottigliai lo sguardo decidendo se fosse il caso di estrarre o meno la pistola, ma il suo sorrisino me lo impedì.
«Abbiamo un messaggio da parte del Vor, vieni con noi dai». Una pacca sulla spalla fu tutto ciò che ricevetti prima di entrare dentro la berlina. Non so dire perché non collegai quella visita a Toshio Ozaki, forse Irina occupava il mio intero cervello e i pochi neuroni funzionanti, o semplicemente era così che doveva andare, perché quella notte mi portò dritto a metà del mio destino.
Il vicolo lercio e maleodorante mi accolse mezzora dopo, li sentivo alle mie spalle mentre con le mani in tasca scrutavo nel buio di fronte a me cercando di capire cosa diamine avesse in serbo per me Sergej.
«Allora, cosa diavolo volete.. » non riuscii a finire la frase, il primo colpo di spranga mirò alle ginocchia, le sentii piegarsi e caddi al suolo. Il secondo colpì l’addome facendomi sputare saliva, e gli altri ..non lo so, il dolore arrivava ad ondate e non mi dava neppure l’agio di assimilarne la provenienza.
«Questo è un messaggio da parte di Sergej, così magari la prossima volta ci pensi due volte prima di mandare a monte i lavori, coglione di merda. Sei un rifiuto della società e ti permetti anche di prendere decisioni simili?». Ancora un calcio ed un lamento, finalmente ci arrivai. Era la punizione per Toshio Ozaki, mi venne in mente Shùra due sere prima, nonostante non ci parlassimo era entrato in camera mia dicendomi ‘’Non farti vedere troppo in questi giorni’’, lui sapeva e aveva voluto avvisarmi. Come sempre non lo avevo ascoltato.
«Se può consolarti Shùra si è rifiutato di partecipare, magari lui avrebbe potuto inculcarti un po’ di giudizio». Sputai sangue misto a risate mentre sentivo i polmoni esplodere nel mio petto. Sollevai appena il viso fissando Boris, ero sicuro ci fosse andato così pesante perché mi odiava.
«E’ un fortuna lui ..non ci sia allora .. voi froci non siete bravi a menar le mani». Risi come un pazzo, o almeno ci provai. Vidi solo la punta della scarpa arrivare prima che colpisse con ferocia il mio occhio lasciandomi a terra agonizzante di dolore. Non vidi più nulla, né sentii altro, la testa era come esplosa lasciando il posto all’incoscienza.
 

 

Aleksandr POV

 
Un’altra notte da passare coi miei tormenti, chiuso in camera lontano da Sophia che recentemente era divenuta ingestibile per me. Il nostro rapporto sembrava aver oltrepassato la linea di confine che mi ero prefisso quando la pubertà mi aveva dato l’agio di comprendere quanti pensieri errati potessi fare su colei che definivo ‘’sorella’’.
Misha non era tornato come sempre, pensavo fosse con Irina in fondo era giusto così. Un sordo rumore interruppe le mie elucubrazioni mentali, altrimenti dette ‘’pippe’’, e la porta chiusa si aprì lasciandomi vedere il viso della donna per cui ormai nutrivo una malsana ossessione. Definirlo amore mi spaventava perché ero convinto che da quello non ne potessi uscire più.
«Dovremmo parlare, per quanto mi sforzi sento che non è più lo stesso ..». La voce le uscì a fatica, quasi come se stesse cercando di contenersi senza troppi risultati. Mi alzai dal letto e la superai diretto in cucina, sentii i suoi passi silenziosi venirmi dietro.
«Non c’è nulla di cui parlare, non potresti semplicemente ..dimenticare?». Dimenticare e lasciare a me il peso di tutto. In modo tale da potermi dare mentalmente del coglione e poi farmi i complimenti pensando ‘’ehy ti sei comunque fermato in tempo’’.
«Vuoi che dimentichi?». No non lo volevo, me ne resi conto mentre la fissavo, ritta nel suo metro e sessantacinque a piedi scalzi e occhi bassi. Io non volevo che dimenticasse, io volevo entrarle dentro, respirarle addosso. Non riuscii a rispondere, non so neppure per quanto stetti immobile a fissarla nella penombra della cucina scavandomi una fossa larga e profonda nella quale mi gettai consapevolmente. Sophia era la mia condanna, lo sapevo eppure non feci nulla per evitarlo, o meglio ciò che avevo fatto in quegli anni sembrò dissolversi come neve al sole mentre mi avventavo su quelle labbra che erano ormai divenute indispensabili come l’atto di respirare. Le nostre lingue si cercarono, si trovarono e si unirono. Ansanti e prostrati da tutte le parole non dette, mentre le mie mani vagavano sul suo corpo la issavano senza sforzo sopra il tavolo della cucina iniziando a toccarla nell’unico modo in cui un uomo poteva toccare la donna che desiderava.
La sentii ansimare mentre le mie labbra scendevano sul suo collo, le tolsi la maglia – la mia maglia che chissà quando aveva rubato – coperta adesso solo da slip e pelle nuda. La saliva sembrò prosciugarsi dentro la bocca mentre con la lingua disegnavo figure astratte, passando dalle clavicole e più giù fino al seno alto e perfetto, e sui capezzoli turgidi.
Le sue dita tra i miei capelli sembravano incitarmi a continuare, ancora inesperte ma ugualmente vogliose di qualcosa che probabilmente neppure lei sapeva. E io gliel’avrei dato. Perché non potevo negarmi, e non potevo negarla a me stesso, era qualcosa fuori dal mio controllo.
«Shùra..». Il mio nome, la sua voce, un colpo di frusta contro la mia schiena mentre le mie dita lasciavano la loro impronta sulle cosce seriche e nude. Non so cosa mi fermò in quel preciso istante, mi scostai e tutto il mio mondo perse senso. La fissai ansante, gli occhi lucidi e carichi di desiderio. Non dissi nulla, me ne andai lasciandola lì, chiudendomi la porta alle spalle. Provando a chiudere anche lei, consapevole di non esserci riuscito. Non ci sarei riuscito mai.
 
Mi rendo sempre più conto di una cosa, il ‘momento sbagliato’ non esiste. E con esso nemmeno il sentirsi sbagliati, o magari giusti in chissà quale galassia o vita.
Se una cosa non va è perché non deve andare.
Un po’ come quando senti la voce del treno che chiama la tua fermata, due prima del capolinea, e vorresti tanto arrivare fino in fondo ma non puoi fare altro che scendere.
Sul biglietto c'è scritto: questo è il tuo arrivo.
E’ il biglietto della tua vita, solo quando sei arrivato a destinazione ti rendi conto che non sempre è la stessa di chi ti sta vicino.
Alcuni si sono fermati addirittura prima, altri non sono neanche partiti. Poi ci sono quelli seduti in cabina con te. Li inizi a conoscere, ti appassioni alle loro storie; alle volte, capita di ascoltarne una davvero interessante.
Quei racconti sono pericolosi, c'è il rischio di innamorarsi delle parole, soprattutto quando si viaggia, soprattutto in treno.
Come quando da bambino ti leggevano le favole, sei lì ad ascoltare e viaggiare lungo i binari della vita. Incurante del fatto che ci saranno sempre e comunque una fermata ed un capolinea.
Uno, due, tre, lentamente la cabina si svuota.
Ma lei è ancora lì.
E anche solo l'idea di avere la stessa destinazione t'intriga.
Corrono i chilometri, le parole, gli alberi e le stagioni.
Le foglie, fuori, diventano spighe.
I prati, dapprima verdi, strabbondano di margherite.
Quando arriverà la sua fermata?
Eppure, se sono qui e se tu sei lì, un motivo ci deve pur essere. Nulla accade per caso, il principio di attrazione esiste. Dimmi la verità, tu stavi cercando qualcosa? Oppure, come me, vagavi in questa valle senza meta e senza una mappa del tesoro?
Io non stavo cercando nulla. Il mio biglietto mi ha portato qui, di fronte a te. E le albe, insieme ai tramonti, si alternano su questo vetro appannato. Sfumature di forse.
E’ bello sentirsi liberi di scegliere, anche se effettivamente saremo sempre influenzati da questi posti già assegnati.
 
 
***
 
Il telefono squillò, lo sentii diverso era un presagio funesto forse complice i tuoni che sentivo in lontananza.
 
– Pronto?
– Sono Boris.
– …
–Misha è qui, non sta molto bene se capisci ciò che voglio dire.
– Dove sei.
– Lo stiamo portando nella  clinica di Anthony, fatti trovare lì.

 
Neppure a distanza di anni avrei saputo descrivere il sentimento con la quale indossai i logori pantaloni di una tuta e un maglione nero come la mia mente in quel momento. Uscii come un ladro dalla mia stessa casa, non fissai il tavolo adesso vuoto per non sentirmi ancora più in colpa di quanto già non fossi. La fune oscillò pericolosamente e stavolta rischiai di cadere nel vuoto, ma sapevo. Io sapevo che quello non era ancora il momento di schiantarsi. Perché per quanto invocassi Dio, sapevo che per quelli come me non vi era fede né perdono. Ognuno traccia il proprio destino, il mio ero rosso cremisi.
 
Riverso sulla barella in un corridoio vuoto e spoglio, quella clinica ospitava solo casi simili e nessuno sarebbe venuto lì cercando spiegazioni, mi avvicinai a lui cercando di trovare in quei lineamenti tumefatti e stravolti una traccia del mio Misha. Serrai i denti con forza e la sagoma del medico mi apparve davanti. Lo afferrai per il collo sbattendolo contro il muro, lo vidi boccheggiare e strinsi ancora di più.
«Da quanto è qui abbandonato come un animale? Dammi un motivo per non ammazzarti, uno solo». Sibilai quelle parole mentre i miei occhi si tingevano di rosso. Solo il pensiero che quel verme era l’unico a potermi aiutare mi dissuase dall’idea di massacrarlo e sfogare la mia rabbia cieca.
«Devi aspettare qui fuori, quando lo avrò visitato ti farò sapere. E vedi di calmarti, cazzo». Mi sedetti su quella fredda sedia, le mani giunte e il capo chino, mentre il tempo scorreva sulla mia pelle simile all’acido, corrodendola pezzo dopo pezzo.
Lo vidi uscire solo mezzora dopo, mi alzai di scatto andandogli incontro.
«Costole fratturate, ecchimosi, fortunatamente nessuna emorragia interna in corso tranne.. – Lo vidi tentennare e mi congelai letteralmente sul posto, lo scrollai con mal grazia, volevo continuasse a parlare e alla fine lo fece – Aleksandr il problema è l’occhio, ha un grumo di sangue e io non riuscirò ad operarlo, non è il mio campo. Rischia di perderlo.»
Non ricordo il tipo di sentimenti che mi investirono in quel momento, ma ricordo la dolorosa intensità con cui lo fecero. Il telefono squillò, lessi il nome e un moto di rabbia per la prima volta offuscò il mio giudizio.
 
– Era necessario? Era necessario ridurlo così?
– Ti avevo detto di prendere in mano la situazione. Boris c’è andato giù pesante me ne rendo conto.
– Te ne rendi conto? Ti rendi anche conto che sta per perdere l’occhio?
– Mantieni la calma, Shùra. Arriverà una persona domani, lei si occuperà del nostro bambino capriccioso.
– Chi.
– Nadja. Nadja Morozova.
 
Nadja Morozova, il medico personale di Sergej che fortunatamente non avevo mai avuto il ‘’piacere’’ di conoscere. L’avevo incrociata a qualche festa, alcuni vociferavano fosse la nuova amante del Vor ma quando la venuta di Dasha – la sua nuova puttana – aveva smontato la tesi si era ripiegato sul semplice affetto. La sua famiglia lavorava per la bratva da generazioni, personalmente non avevo mai nutrito curiosità su di lei, la vedevo come una lecchina pronta a tutto per il favore del Vor, il che sotto un certo punto di vista faceva ridere: non eravamo forse tutti così? In lei però c’era qualcosa di diverso, persino il modo in cui guardava Sophia faceva rabbrividire, alle volte pensavo avesse voluto prendere il suo posto nel cuore di Sergej.
Eppure mi ritrovai ad attendere la sua venuta, seduto su una sedia scomoda accanto al letto di Misha, mi ritrovai a sperare .. anzi no a pregare di vederla apparire il prima possibile.
Relegai Sophia in un angolo del mio cuore, una bellissima immagine del suo viso muto e sorridente. La relegai lì giurando di non tornarvi ancora, sapendo di mentire in quel preciso istante. L’uomo è una creatura complicata, si lascia trasportare dalle emozioni del momento, e mentre fissavo Misha dormiente rivedevo la pelle nuda di Sophia. Avevano iniziato a picchiarlo mentre io tentavo di far l’amore con la donna della quale sapevo fosse innamorato, come me, da anni? Caddi e non mi rialzai.
 
 
Il momento giusto non esiste, come non è possibile dire se in quel momento eravamo sbagliati nel posto giusto.
Ma quello era un posto, e non ci sono finito per caso.
E il mio biglietto, che mi aveva portato lì, ora mi stava dicendo di andare via.
Come fai a convincerti a lasciare andare via un qualcosa che ti aveva fatto sentire in quel modo? Non giusto, ma vivo da sembrare giusto nel posto giusto al di là del tempo.
Nessuno può rispondere alle mie domande, come nessuno può dirmi se Lei, quando arriverà la sua fermata, sceglierà di continuare il viaggio con te.
E’ la vita.
  
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